Oggi pomeriggio è scoppiato un vasto incendio a Su Trambuccone, località situata vicino alla strada statale che collega Sassari e Olbia. Le cause dell’incendio non sono ancora chiare, ma sembra che non recherà danni alle abitazioni. Alcuni voli in arrivo all’aeroporto Costa Smeralda di Olbia sono stati dirottati verso Cagliari, Alghero e Roma, mentre quelli in partenza non hanno subito disagi. Bruciati circa quattro ettari di pascolo. Sul posto sono arrivati due elicotteri, i vigili del fuoco, membri del gruppo di analisi e uso del fuoco, e una pattuglia del Corpo forestale di Olbia.
Sanchez prova a riemergere dalla crisi di governo con 15 misure anticorruzione
BARCELLONA – Ancora una volta Pedro Sánchez sembra essere riuscito ad uscire indenne dal pantano che in questi mesi ha coinvolto il Partido Socialista Obrero Español (PSOE). Durante la seduta del Consiglio dei ministri che si è celebrata ieri, 9 luglio, il presidente del governo si è pronunciato sui casi di corruzione nei quali sono risultati invischiati José Luis Ábalos e Santos Cerdán, le due pedine essenziali del partito e che per un momento hanno fatto tremare il futuro prossimo della legislatura.
Davanti ai gruppi parlamentari radunati tra gli scranni del Congresso, Sánchez ha nuovamente chiesto «perdono» per la leggerezza con la quale ha scelto persone apparentemente di fiducia, per ricoprire la carica di segretario d’organizzazione del partito socialista.
«Mi chiedono dimissioni e nuove elezioni. Ho considerato queste opzioni e mi è sembrata la soluzione più semplice per me e per la mia famiglia. Ma dopo aver ascoltato molte persone ho capito che gettare la spugna non è un’opzione. Continuerò perché sono un politico pulito che non conosceva questi casi di corruzione». Con queste parole Sánchez ha smentito ogni tipo di ipotesi riguardante la possibilità di celebrare nuove elezioni e ha rilanciato invece il suo impegno varando quindici misure anticorruzione, per le quali però non sono ancora chiari i rispettivi iter legislativi e le concrete applicazioni.
In un primo blocco finalizzato alla prevenzione e al controllo sulla corruzione, Sánchez ha annunciato la creazione di una «Agenzia d’integrità pubblica indipendente» indirizzata alla supervisione e alla persecuzione di pratiche corrotte. Ha inoltre esteso la metodologia per l’aggiudicazione dei fondi Next Generation su tutta l’amministrazione pubblica, oltre all’uso dell’Intelligenza Artificiale nella Piattaforma di contrattazione del Settore pubblico. Attraverso la Ley de Adminstración Abierta, il governo rafforza l’obbligo sulla trasparenza attiva e stabilisce controlli a campione sui patrimoni delle alte cariche dello stato. In questo contesto Sánchez ha annunciato l’imposizione di controlli esterni sui partiti e le fondazioni che ricevono finanziamenti per più di 50.000 euro e ha proposto un disegno legge che protegga coloro che sporgono denuncia di pratiche corrotte alle forze dell’ordine. Tra le altre cose il presidente ha promosso normative per perseguire «non solo i corrotti, ma anche i corruttori», facendo riferimento a nuovi controlli, multe e liste nere contro quelle aziende già incriminate. Infine, sono state annunciate misure atte alla riscossione e il recupero dei beni «rubati mediante corruzione».
In seguito al discorso del presidente, i vari portavoce dei partiti alleati e d’opposizione si sono alternati pronunciandosi sulla questione. I due rappresentanti della destra e dell’estrema destra spagnola, Alberto Núñez Feijóo del Partido Popular e Santiago Abascal di VOX, hanno duramente attaccato Sánchez e hanno chiesto elezioni. D’altra parte, i partiti alleati hanno teso la mano al presidente del Governo, scagliandosi principalmente contro la destra. Yolanda Díaz, ministra del Lavoro, vicepresidente e portavoce di Sumar, ha espresso la sua fiducia sul Governo e rivendicato l’autorialità di dieci delle quindici misure anticorruzione. In un discorso emozionato, nel quale ha fatto menzione al padre, noto sindacalista e antifranchista galiziano deceduto solo il giorno precedente, Díaz ha sottolineato la necessità di proseguire con la legislatura e mettere un freno alle destre. Anche il portavoce di Esquerra Republicana de Catalunya Gabriel Rufián si è scagliato contro la destra, per poi avvertire il Partito Socialista, senza grande incisività, di dover prendere misure in caso di ulteriori scandali mentre non si sono discostati particolarmente i partiti indipendentisti baschi e galiziani Euskal Herria Bildu e BNG.
Particolarmente critici invece sono stati i partiti indipendentisti conservatori catalani e baschi Junts e PNV: la portavoce catalana Míriam Nogueras ha minacciato Sánchez di essere in uno stato di proroga che non può durare l’intera legislatura; mentre la nuova portavoce del PNV Maribel Vaquero ha messo il presidente davanti alla necessità di una mozione di fiducia, proposta seguita anche da Cristina Valido, portavoce del partito canario Coalición Canaria. Dura è stata anche la portavoce di Podemos Ione Belarra, che ha definito le misure proposte da Sánchez come «cosmetiche» e ha messo il fuoco sul machismo venuto fuori dalle intercettazioni e sulla corruzione del bipartitismo spagnolo.
Nonostante Pedro Sánchez abbia provato a mettere in ordine e a prendersi le responsabilità della questione, lo spettacolo messo in scena ieri si è rivelato grottesco, ai limiti dell’imbarazzo. Fatta eccezione per la presentazione delle misure, per le quali al momento non è chiaro come e quando possano essere applicate e soprattutto quanto dovranno essere rimaneggiate per poter essere presentate al voto della Camera, Sánchez non ha dimostrato concretamente l’intenzione di voltare pagina. Difatti, durante il suo turno di risposta il presidente del governo ha dato vita ad un siparietto nel quale ha accusato i popolari di essere il partito con il maggior numero di scandali nella storia spagnola, mettendo a paragone i “soli” 5 milioni presuntamente rubati mediante la corruzione di Santos Cerdán, contro i 123 milioni sottratti dal caso “Gurthel” esploso durante gli anni del governo di Mariano Rajoy, oltre che le decine di scandali avvenuti durante il governo di José Maria Aznar.
Per il momento la legislatura è salva. Poco prima della pausa estiva Pedro Sánchez è riuscito a sopravvivere assicurandosi la fiducia degli alleati. Nonostante la seduta di ieri non prevedesse votazione, la destra spagnola ha avuto la conferma che una mozione di sfiducia sarebbe ancora prematura, ma non impossibile. Davanti ai giochi della politica, però, la cittadinanza è stata costretta ancora una volta a veder vincere il «male minore» del bipartitismo, ma i frutti di questa strategia probabilmente non si riveleranno favorevoli a Pedro Sánchez. La politica spagnola va in vacanza, al ritorno ci si aspetta un autunno caldissimo.
Gaza: Israele uccide 82 persone
Israele ha intensificato gli attacchi aerei e terrestri in tutta la Striscia, uccidendo almeno 82 persone nelle ultime 24 ore. Nove di queste erano persone in fila per gli aiuti. Nel frattempo, le brigate di Al Qassam (che fanno capo ad Hamas) e quelle di Al Quds (Jihad Islamico Palestinese) continuano le operazioni contro l’esercito israeliano; le brigate di Al Quds hanno attaccato con dei razzi un nuovo avamposto dell’esercito israeliano a nord di Khan Younis. Continuano anche le operazioni di Ansar Allah, il movimento yemenita meglio noto col nome di Houthi, che ieri ha abbattuto una nave greca battente bandiera liberiana.
Come previsto, la mozione di sfiducia contro la von der Leyen non è passata
Con 360 no, 175 sì e 18 astenuti, la mozione di sfiducia contro Ursula von der Leyen è stata respinta. Al voto hanno partecipato 553 eurodeputati su 720 membri. La presidente della Commissione esce indenne dall’ennesimo voto-farsa del Parlamento europeo, non perché sia stata assolta, ma perché nessuno ha davvero voluto processarla. La mozione di censura sullo scandalo Pfizer si è trasformata in un’enorme resa dei conti tra i banchi dell’Eurocamera, ma di fatto è servita solo a misurare il grado di anestesia democratica che affligge l’UE. Von der Leyen sopravvive a Strasburgo grazie al cinismo dei gruppi parlamentari europei che – al di là delle fratture evidenti – si stringono in difesa della presidente della Commissione.
Era dal 2014 che non veniva votata una mozione di sfiducia contro la Commissione europea. Avanzata da 79 eurodeputati – per lo più della destra sovranista – l’iniziativa è stata promossa dall’eurodeputato rumeno Gheorghe Piperea, del partito AUR e membro del gruppo Conservatori e Riformisti Europei. A salvare oggi von der Leyen non è stato il sostegno al suo operato, ma l’omertà dei partiti di sistema che, pur di non votare una proposta della destra sovranista, hanno preferito salvare la politica tedesca. L’iniziativa è stata sostenuta da 175 parlamentari, principalmente dei gruppi dei Patrioti, dei Sovranisti e da alcune delegazioni dei Conservatori. Qualche voto è arrivato anche dalla Sinistra e dalla delegazione del Movimento 5 Stelle. Hanno invece votato no 360 eurodeputati: quelli del PPE, dei Socialisti e Democratici, dei Liberali, ma anche i Verdi, che già avevano sostenuto la fiducia a von der Leyen in occasione del suo insediamento. L’Eurocamera, ancora una volta, recita la parte del simulacro democratico: si fa il teatrino della mozione, ma nessuno vuole davvero affondare la lama. Neanche chi, come i Socialisti, pochi giorni fa minacciava vendetta per il “tradimento climatico” della presidente. Alla prova dei fatti, preferiscono attaccare la destra anziché i reali centri di potere: «Noi, come sapete bene, non votiamo mai con l’estrema destra. Magari dovreste fare la stessa domanda ai Popolari che spesso lo fanno», ha detto la presidente del gruppo Socialisti e Democratici al Parlamento europeo, Iratxe Garcia Perez.
Fratelli d’Italia, nonostante gli annunci dei giorni scorsi (a parlare era stato Nicola Procaccini, l’eurodeputato italiano che è anche co-presidente del gruppo), non ha partecipato al voto. «Il voto odierno non è la nostra battaglia e le nostre delegazioni non hanno partecipato alla votazione», recita un comunicato sottoscritto dal capo delegazione di FdI al Parlamento europeo, Carlo Fidanza, e dai capi delegazione della maggioranza del gruppo ECR.
Lunedì scorso, la presidente della Commissione europea aveva respinto la mozione di sfiducia nei suoi confronti, bollandola come una caccia alle streghe intentata dai “no-vax” e dai «movimenti alimentati da cospirazioni e complottismi, che fanno apologia di Putin», con l’intento di minare l’unità europea e «polarizzare le nostre società con la disinformazione». E riguardo alle trattative sui vaccini con il CEO di Pfizer, Albert Bourla, aveva derubricato le accuse a complottismo, spiegando che «non ci sono stati segreti, clausole nascoste, né obblighi di acquisto per gli Stati membri».
Con il voto di oggi, Ursula von der Leyen resta saldamente incollata al Berlaymont, nonostante una sentenza della Corte di Giustizia UE che ne certifica la gestione opaca del più colossale affare vaccinale della storia europea: l’accordo da 35 miliardi di euro con Pfizer. Una condanna non solo giuridica, ma anche politica, che mina alla base la credibilità di Ursula von der Leyen, il cui modus operandi, all’insegna dell’opacità e della centralizzazione del potere, è ormai noto e sta emergendo anche negli ultimi mesi, in una fase politica delicata per i Paesi dell’Eurozona, in cui von der Leyen si sta muovendo con crescente autonomia e arrogante disinvoltura su dossier strategici che vanno dalla politica industriale fino alla difesa. La Corte UE ha stabilito che la Commissione ha violato i princìpi di trasparenza nel rifiutare la pubblicazione degli SMS tra von der Leyen e Albert Bourla, CEO di Pfizer, messaggi che – secondo la stampa internazionale – contenevano il cuore pulsante delle trattative per la maxi-fornitura di 1,8 miliardi di dosi di vaccino anti-Covid. Messaggi scomparsi nel nulla. Non archiviati, non consegnati, nemmeno cercati: una gestione da manuale dell’occultamento istituzionale. Una sentenza che non riguarda solo la violazione del diritto d’accesso agli atti, ma l’architrave stessa della legittimità democratica dell’UE.
Eppure, la mozione di sfiducia è stata trattata come un capriccio ideologico della destra sovranista, teleguidata dai fantomatici “burattinai russi”. Il Parlamento ha preferito proteggere il proprio status quo anziché inchiodare una presidente il cui operato è sempre più assimilabile a quello di un plenipotenziario. Lungi dal fare chiarezza, le istituzioni hanno alzato un muro di gomma, confermando che il vero scandalo non è più Pfizergate, ma la totale deresponsabilizzazione politica. Quella che doveva essere una sfiducia politica è diventata un salvacondotto istituzionale.
Armenia: sette politici di opposizione arrestati per terrorismo
La polizia armena ha arrestato sette persone associate a un partito di opposizione considerato filo-russo, accusandole di terrorismo. Le persone arrestate sono affiliate alla Federazione Rivoluzionaria Armena, partito attivo anche in Liberia che fa parte della coalizione Alleanza Armena, guidata dall’ex presidente armeno Robert Kocharyan. Il Comitato Investigativo armeno ha dichiarato che la polizia ha arrestato sette persone, accusandone una di aver preparato un attentato terroristico. Gli arresti di oggi, seguono l’incriminazione di tre politici di Alleanza Armena. I rappresentanti del partito hanno affermato che gli arresti sarebbero «motivati politicamente».
Il leader curdo Ocalan ha annunciato la fine della lotta armata del PKK
Abdullah Öcalan, storico leader incarcerato del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), ha proclamato ufficialmente la fine della lotta armata del gruppo contro lo Stato turco, aprendo la strada a una «nuova fase» basata sulla politica e sul diritto democratico: «La fase della lotta armata è finita. Questa non è una sconfitta, ma un guadagno storico», ha dichiarato Öcalan, esortando il parlamento turco a istituire una commissione speciale che possa gestire il processo di disarmo e facilitare un dialogo politico inclusivo. Il disarmo comincerà con un primo gruppo di militanti che deporrà le armi nella città di Suleymaniyah, nel nord dell’Iraq. Il PKK, nato alla fine degli anni Settanta e considerato un’organizzazione terroristica da Turchia, Stati Uniti e Unione Europea, aveva già annunciato a maggio la decisione di sciogliersi, in risposta a un primo appello scritto di Öcalan risalente a febbraio.
L’annuncio di Öcalan è stato rilasciato ieri, mercoledì 9 luglio, con un video diffuso dall’agenzia di stampa Firat, vicina al PKK. Il processo di deposizione delle armi inizierà domani, e andrà avanti per giorni. Per portarlo avanti, ha detto Öcalan, verrà istituito un meccanismo che assicuri l’integrazione dei curdi nell’Assemblea nazionale turca, che coinvolgerà in maniera diretta il partito filo-curdo DEM, la terza forza del Paese. Una portavoce del partito, Aysegul Dogan, ha dichiarato che il processo di disarmo del PKK deve essere reso permanente attraverso una serie di garanzie legali e la creazione di meccanismi che garantiscano una transizione verso una politica democratica. Dogan ha aggiunto che i membri di DEM avrebbero partecipato alla cerimonia di disarmo a Sulaymaniyah insieme a un gruppo di combattenti del PKK. Al termine della fase di disarmo, Öcalan ha annunciato che pubblicherà il “Manifesto per una Società Democratica” che sostituirà il precedente manifesto “Strada per la Rivoluzione del Kurdistan”.
Dopo la pubblicazione del video di Öcalan, l’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK), organizzazione politica che tiene insieme il PKK, il Partito dell’Unione Democratica (PYD, siriano), il Partito per la Vita Libera in Kurdistan (PJAK, iraniano) e il Partito della Soluzione Democratica del Kurdistan (PÇDK, iracheno), ha rilasciato una dichiarazione in cui accoglie le richieste del leader curdo. Il KCK ha affermato di essere «determinato» a realizzare la “Società per la Pace e la Democrazia” di cui parla Öcalan, sottolineando che la chiamata «non riguarda solo noi, ma anche lo Stato, il Parlamento e tutti gli attori politici con una responsabilità», chiedendo dunque alla Turchia di andare incontro alle esigenze del popolo curdo. Il KCK ha anche ribadito la sua posizione per cui il processo di pacificazione debba passare dalla liberazione di Öcalan. Anche il presidente turco Erdoğan sembra avere accolto favorevolmente le parole di Öcalan, augurandosi che il processo di integrazione curda e smilitarizzazione del PKK proceda senza intoppi.
L’annuncio di Öcalan arriva al termine di un processo di riapertura dei dialoghi iniziato nella fine del 2024. Tutto è partito con un’apertura da parte di Devlet Bahçeli, leader del Partito del Movimento Nazionalista, il più grande alleato esterno del presidente turco. Bahçeli ha chiesto a Erdoğan di aprire un colloquio con Öcalan per porre fine al conflitto, che durava da oltre trent’anni, suggerendo la possibilità di liberare il fondatore del PKK in cambio di un suo eventuale ordine di deporre le armi. A dicembre, è stato ufficialmente rotto l’isolamento del leader del PKK, che ha ricevuto una visita di due deputati di DEM, il principale partito curdo del Paese. I colloqui si sono così fatti sempre più serrati, fino a quanto il 27 febbraio, dal carcere, Öcalan ha lanciato uno storico annuncio in cui ha chiesto a tutte le firme curde di abbandonare le armi e indire un congresso per deliberare uno scioglimento. Poco dopo, il PKK ha annunciato un cessate il fuoco temporaneo e organizzato il congresso richiesto da Öcalan. A maggio, il congresso si è riunito e ha approvato lo scioglimento del partito e la deposizione delle armi.
Corea del Sud: arrestato l’ex presidente Yoon
L’ex presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol è stato arrestato. L’arresto è stato effettuato per decisione del Tribunale distrettuale centrale di Seoul, che ha così accolto il mandato emanato dai procuratori speciali per il caso Yoon, che hanno accusato l’ex presidente di avere bloccato tentativi di arresto lo scorso gennaio. Il tribunale ha dichiarato che Yoon è stato arrestato a causa della possibilità che distruggesse le prove. Yoon è tornato nel Centro di Detenzione di Seul, dove aveva trascorso 52 giorni all’inizio dell’anno per poi essere rilasciato a marzo per motivi tecnici. Yoon è sotto indagine per avere provato a instaurare la legge marziale nel Paese lo scorso dicembre.
Gli Stati Uniti hanno annunciato sanzioni contro Francesca Albanese
Dopo mesi di tentativi di affossamento, gli Stati Uniti hanno deciso di muoversi in prima persona e sanzionare la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese. L’ordine è stato firmato dal segretario di Stato Marco Rubio e si basa sullo stesso decreto con cui Trump aveva aperto la strada alle sanzioni contro membri della Corte Penale Internazionale, abbattendo la scure delle limitazioni sul procuratore della Corte Karim Khan, reo di aver formulato accuse contro Netanyahu. Albanese, insomma, è stata accusata di avere contribuito direttamente ai tentativi della CPI di indagare, arrestare o perseguire cittadini israeliani e statunitensi; precisamente, lo avrebbe fatto con il suo ultimo rapporto, “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”, in cui smaschera le aziende che fiancheggiano Israele nel suo progetto genocidario traendone profitto. Il rapporto evidentemente non è andato giù all’amministrazione statunitense: Albanese, ora, sarà soggetta a limitazioni come il divieto di entrare negli USA, e le associazioni statunitensi non potranno sostenerla nel suo lavoro.
L’ordine di Rubio è stato firmato ieri, mercoledì 9 luglio. Il segretario di Stato sostiene che nel corso del suo ufficio Albanese abbia «vomitato» supporto al terrorismo, contrastato apertamente gli interessi di USA, Israele e Occidente, e mostrato «sfacciato antisemitismo». Senza dilungarsi troppo nelle formalità, Rubio passa subito a elencare i motivi per cui Albanese andrebbe sanzionata: le sue accuse «estreme e infondate» contro aziende statunitensi della finanza, della tecnologia, della difesa, dell’energia e dell’ospitalità, e la sua richiesta di provvedimenti. Tradotto: il suo ultimo rapporto, in cui Albanese esplora «i meccanismi aziendali che sostengono il progetto coloniale israeliano». Le sanzioni degli Stati Uniti si basano sul medesimo atto con cui Trump aveva in precedenza aperto la strada al contrasto alla CPI e a coloro che la sostengono. Questo prevede sanzioni di svariato genere: ad Albanese e ai suoi parenti, compreso il marito e i figli, è impedito l’ingresso negli Stati Uniti; i beni – e gli eventuali interessi che essi generano – della Relatrice che si trovano negli USA sono congelati; le aziende statunitensi non possono fare affari o elargire donazioni ad Albanese né sostenerla nella sua attività. L’ordine vieta dunque anche l’eventuale supporto finanziario volto a rimborsare le spese per le sue attività – che Albanese svolge pro bono per le Nazioni Unite – o donazioni che rientrano sotto la sezione 203(b)(2) dell’International Emergency Economic Powers Act, ossia vestiti, medicine o generi alimentari.
Non è la prima volta che gli Stati Uniti provano a colpire Albanese, ma mai prima d’ora si erano mossi per sanzionarla in maniera così diretta. Poco prima del rinnovo automatico del suo mandato, gli USA avevano inviato all’ONU una lettera per contestare la sua attività e chiedere che la sua rielezione venisse messa in discussione; le richieste degli Stati Uniti, tuttavia, non riuscirono a fare breccia nel Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, che confermò come l’attività della giurista fosse stata in linea con il codice di condotta presente nel suo mandato. In generale, Albanese è oggetto di una vera e propria campagna volta ad affossarla: a oggi, se una persona che non ha interagito spesso con contenuti che la riguardano cerca il suo nome sul motore di ricerca di Google, il primo risultato che si ottiene è una pagina sponsorizzata dal nome “Francesca Albanese controversy” (controversie su Francesca Albanese), che riporta a un documento per screditarla redatto dallo stesso governo israeliano. A proposito di Google, il Washington Post ha recentemente rivelato che il co-fondatore della piattaforma, Sergey Brin, avrebbe definito le Nazioni Unite «apertamente antisemite», in risposta allo stesso rapporto di Albanese, che fa riferimento ad Alphabet (la holding a cui fa capo Google). Albanese è una giurista italiana che ricopre un incarico internazionale. Di fronte alle accuse nei suoi confronti, alle campagne diffamatorie e alle sanzioni statunitensi, tuttavia, non ha mai trovato né trova oggi supporto dalle autorità del Paese.