Il presidente statunitense Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che consente al Dipartimento di Giustizia di reintrodurre la pena di morte a Washington D.C., abolita dal Congresso locale nel 1981. “Se uccidi qualcuno, o se uccidi un agente di polizia, c’è la pena di morte”, ha dichiarato nello Studio Ovale. Trump ha definito la misura “una pena capitale per la capitale” e “un deterrente molto potente”. La procuratrice generale Pam Bondi ha precisato che l’amministrazione punta a estendere la misura a livello nazionale. Negli Stati Uniti la pena di morte resta in vigore in 27 dei 50 Stati.
Taranto: le proteste impediscono lo sbarco a una petroliera diretta in Israele
«La nave Seasalvia, diretta a Taranto per rifornirsi di 30mila tonnellate di greggio destinato all’aviazione militare israeliana, non entrerà in porto». È questo, comunica l’Unione Sindacale di Base, il risultato del presidio organizzato mercoledì 24 settembre 2025 da USB e Cobas davanti al porto mercantile di Taranto. Un centinaio di manifestanti, ai quali si sono unite diverse realtà sociali autoconvocate, sono scesi in piazza per «fermare la nave e, con essa, la logistica di guerra che alimenta il massacro del popolo palestinese». La protesta, culminata con un corteo verso la Capitaneria di porto, ha ottenuto l’annullamento delle operazioni di carico, impedendo, almeno temporaneamente, una fornitura di carburante sospettata di essere ad uso bellico.
«È stato il comandante della Capitaneria di porto di Taranto – ha comunicato USB in una nota – a riferire ai manifestanti l’annullamento delle autorizzazioni per l’attracco della nave comunicato dall’Eni, responsabile dell’area di ormeggio e delle operazioni di carico del greggio». La Capitaneria ha confermato che Ashkelon «è il porto dove doveva andare, ma la nave non entra più a Taranto». La Seasalvia, di proprietà della compagnia greca Thenamaris e presa a nolo dalla Shell, stazionava in serata nel golfo di Taranto, ma le operazioni sono state bloccate. Tuttavia, «resta ancora incerta la nuova destinazione della nave e il rischio che possa portare a termine altrove la propria missione». Le motivazioni della protesta sono state ribadite in una lettera inviata dalle due organizzazioni sindacali alle istituzioni locali. In essa si sostiene che «si tratta, con ogni evidenza, di una fornitura ad uso bellico in favore di uno Stato coinvolto in operazioni di guerra e responsabile di gravi violazioni dei diritti umani che va impedita per ragioni umanitarie, di legittimità costituzionale e per concretizzare l’interruzione di ogni rapporto con lo Stato di Israele».
L’azione di Taranto si inserisce in un movimento più ampio. «È quanto avviene già da tempo sotto l’esempio dei portuali di Genova, Livorno, Ravenna – prosegue il sindacato – che hanno indicato la strada per bloccare gli ingranaggi della complicità». Proprio da quelle esperienze è partito il segnale per lo sciopero generale del 22 settembre scorso, nella cui cornice centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici hanno incrociato le braccia e manifestato in solidarietà con la Palestina, contro la mattanza in atto a Gaza, al fine di difendere la missione di umanità della Global Sumud Flotilla e denunciare un sistema economico e politico che, affermano senza remore i sindacati, «alimenta l’orrore». Per questo, conclude, «sarà fondamentale tenere alta l’attenzione a Taranto come in tutti gli altri porti e, in generale, negli snodi logistici del Paese». L’impegno è di proseguire la mobilitazione, come dimostra un’altra protesta pro Palestina programmata per sabato con un corteo da Grottaglie verso lo stabilimento di Leonardo.
Aerei russi nei cieli internazionali: la NATO alza la tensione con Mosca
Nuovi episodi di tensione tra NATO e Russia hanno monopolizzato le prime pagine dei giornali, con toni allarmistici che parlano di “incursioni” e “provocazioni” russe. Secondo quanto riferito dall’Alleanza Atlantica, alcuni caccia di Mosca sono stati intercettati nei cieli internazionali, prima in prossimità della Lettonia e poi tra l’Alaska e le isole Aleutine. Nel Baltico, due caccia Gripen ungheresi della Nato Baltic Air Policing sono decollati dalla base di Siauliai in Lituania in risposta a un Su-30, un Su-35 e tre MiG-31 russi che volavano in prossimità dello spazio aereo lettone, senza mai oltrepassarne i confini. Analogo copione in Nord America: caccia F-22 e F-16 statunitensi, supportati da aerei radar AWACS, hanno intercettato jet russi che si muovevano nello spazio aereo internazionale, senza che vi fosse alcuna violazione territoriale. Episodi che appartengono alla normale prassi di pattugliamento reciproco, ma che vengono sistematicamente descritti come segnali di un’aggressività crescente da parte di Mosca, mentre si tace sul fatto che la NATO compia regolarmente missioni analoghe ai margini dello spazio aereo russo. In parallelo, la stampa europea ha rilanciato la notizia della presenza di droni “non identificati” nei cieli danesi e norvegesi. In Danimarca, lo scalo di Aalborg, che è anche base aerea militare, è stato chiuso per diverse ore nella serata del 24 settembre. Il governo di Copenaghen ha dichiarato di aver avviato un’indagine, senza specificare quanti droni siano stati avvistati, né tantomeno le caratteristiche o il modello. Jesper Bojgaard Madsen, ispettore capo della polizia dello Jutland settentrionale, ha precisato che «Finora non abbiamo nulla da dire su chi li manovrasse».
In assenza di dettagli e di prove concrete che possano ricondurre l’avvistamento dei droni a un Paese ostile, alcuni media e fonti militari hanno sfruttato il pretesto per alimentare il clima di sospetto nei confronti del Cremlino, lasciando intendere che i mezzi fossero russi. È significativo che tali annunci vengano diffusi proprio mentre si intensificano le esercitazioni militari occidentali lungo i confini russi, nel Baltico e nell’Artico, a conferma di una strategia che mira a mantenere alta la tensione. A rendere più teso il contesto ci hanno pensato le discussioni interne all’Alleanza sulle regole di ingaggio: diversi quotidiani occidentali hanno riportato che, in caso di sconfinamento, i piloti NATO avrebbero la facoltà non solo di scortare, ma persino di colpire gli aerei russi. Intanto, sebbene non sia di sua competenza, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in un’intervista alla CNN, ha dichiarato che l’opzione di abbattere un caccia che si intromette nello spazio aereo della NATO è «sul tavolo». «La mia opinione – ha spiegato von der Leyen – è che dobbiamo difendere ogni centimetro del territorio». Un linguaggio che testimonia l’innalzamento della soglia dello scontro e che appare come un monito politico più che come una reale necessità operativa, volto a convincere l’opinione pubblica di essere sempre più vicini alla guerra. Di fronte a questa nuova ondata di accuse, il Cremlino ha prontamente smentito qualsiasi violazione dello spazio aereo NATO o statunitense. Il portavoce Dmitrij Peskov ha liquidato le notizie diffuse dall’Alleanza come “isteria” e “provocazioni mediatiche”, sottolineando come i voli dei velivoli russi si siano svolti esclusivamente in aree internazionali, nel pieno rispetto del diritto internazionale. Mosca ribadisce che le proprie attività rientrano in routine consolidate e accusa l’Occidente di strumentalizzare ogni episodio per consolidare l’immagine della Russia come minaccia costante. La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, in un’intervista alla Tass, ha precisato: «Il presunto avvertimento dell’Europa a Mosca circa la sua disponibilità ad abbattere aerei militari russi è una fantasia alimentata dalla russofobia». L’ambasciatore russo in Francia, Alexey Meshkov, ha avvertito che se la NATO dovesse abbattere aerei russi che presumibilmente violano lo spazio aereo di Paesi membri dell’alleanza, «Ci sarebbe la guerra» e ha aggiunto che «Un bel po’ di aerei violano il nostro spazio aereo, accidentalmente e non accidentalmente. Nessuno li abbatte». Meshkov ha anche affermato che l’Europa non ha fornito «alcuna prova materiale» che dimostri il coinvolgimento della Russia negli incidenti con i droni segnalati in Europa.
Nonostante la smentita ufficiale del Cremlino, le cancellerie occidentali continuano a diffondere la narrazione dell’“aggressione russa”, trasformando normali operazioni di pattugliamento in pretesti per giustificare nuove spese militari e rafforzare il controllo politico sull’opinione pubblica, in un momento di graduale disimpegno USA nei confronti del conflitto russo-ucraino. In questo scenario, secondo alcune indiscrezioni, la Polonia starebbe pianificando di abbattere i droni russi in Ucraina senza il permesso della NATO o dell’UE: Varsavia starebbe discutendo emendamenti legislativi che consentirebbero all’esercito polacco di abbattere i droni russi in Ucraina senza la previa approvazione della NATO o dell’UE. Il disegno di legge dovrebbe essere esaminato con urgenza. È il segnale di un’Europa che, invece di cercare spiragli di dialogo, sembra preferire l’escalation, trascinando il continente in un clima di tensione permanente. L’allarme costante, funzionale a cementare la coesione interna dell’Alleanza, produce però un rischio concreto: più le regole di ingaggio vengono irrigidite e più la diplomazia viene sostituita dalla propaganda, maggiore diventa la possibilità che un errore di calcolo o una reazione sproporzionata trasformino un episodio marginale in la scintilla di un conflitto incontrollabile.
USA, ex capo FBI incriminato per falsa testimonianza su Russia e Trump
Un tribunale federale della Virginia ha incriminato l’ex direttore dell’FBI James Comey per falsa testimonianza e intralcio ai lavori del Congresso. Se riconosciuto colpevole, rischia fino a cinque anni di carcere. L’accusa riguarda una deposizione resa nel 2020 alla commissione Giustizia del Senato, in cui negò di aver autorizzato la diffusione di informazioni segrete sui presunti tentativi della Russia di influenzare le elezioni presidenziali del 2016 a favore di Trump. Il suo ex vice, Andrew McCabe, ha invece affermato il contrario. L’incriminazione è stata presentata mentre la Casa Bianca ha preso provvedimenti per esercitare un’influenza senza precedenti sulle azioni del Dipartimento di Giustizia.
Amazon pagherà 2,5 miliardi di euro per la controversia su Prime
Amazon ha raggiunto un accordo con la Federal Trade Commission (FTC) statunitense, accettando di pagare 2,5 miliardi di euro per chiudere una causa legata all’iscrizione a Prime. La somma include 1 miliardo di multa e 1,5 miliardi di risarcimento ai consumatori. L’accusa della FTC sosteneva che Amazon avesse progettato il suo sito con un design «manipolatore». Un pulsante prominente iscriveva facilmente gli utenti a Prime senza chiarire i costi, mentre l’opzione per rifiutare era poco visibile. Inoltre, il processo per disdire l’abbonamento era volutamente complesso, richiedendo numerosi passaggi per dissuadere gli utenti. L’agenzia ha definito queste pratiche ingannevoli per decine di milioni di clienti.
‘Ndrangheta e massoneria: l’ex senatore di Forza Italia Pittelli condannato per concorso esterno
È arrivata l’ennesima batosta giudiziaria per Giancarlo Pittelli, ex numero uno di Forza Italia in Calabria. L’avvocato, già parlamentare della Repubblica e membro della massoneria, ha infatti subìto una condanna in primo grado dai giudici del Tribunale di Palmi a 14 anni di carcere per concorso esterno con la ‘Ndrangheta nel processo denominato “Mala Pigna”: secondo l’accusa, avrebbe agito da intermediario tra gli ‘ndranghetisti e gli organi della pubblica amministrazione, anche arrivando a veicolare informazioni pervenutegli dai capi della cosca Piromalli al 41-bis sia all’interno che all’esterno delle mura carcerarie. Pittelli era già stato condannato in primo grado a 11 anni in un altro importante processo, “Rinascita Scott”, dove è stato considerato il perno tra ‘Ndrangheta, ambienti della massoneria e imprenditoria collusa.
Secondo la Procura, come si legge nel capo di imputazione, Giancarlo Pittelli avrebbe garantito «la sua generale disponibilità nei confronti del sodalizio a risolvere i più svariati problemi degli associati, sfruttando le enormi potenzialità derivanti dai rapporti del medesimo con importanti esponenti delle istituzioni e della pubblica amministrazione». L’ex parlamentare e coordinatore di Forza Italia in Calabria, infatti, poteva contare su «illimitate possibilità di accesso a notizie riservate e a trattamenti di favore», riuscendo dunque a fungere «da postino per conto dei capi della cosca Piromalli», per i quali «veicolava informazioni all’interno e all’esterno del carcere tra i capi della cosca detenuti in regime di 41 bis». A subire una pesante condanna nell’ambito del medesimo processo – 22 anni di galera per associazione mafiosa – è stato anche l’imprenditore Rocco Delfino, inserito organicamente nel clan Piromalli, che per la cosca avrebbe gestito un grosso traffico di rifiuti. Per gli investigatori, l’imprenditore sarebbe divenuto nel tempo «capo ed organizzatore della cosca con compiti di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni delittuose da compiere e degli obiettivi da perseguire», intrattenendo «legami con ambienti della massoneria» e con «esponenti infedeli delle forze di polizia e dei servizi segreti», ai quali avrebbe fornito negli anni informazioni, «ottenendone in cambio favori personali ed economici».
Sia Pittelli che Delfino sono già stati condannati in primo grado allo storico Maxiprocesso “Rinascita Scott”, rispettivamente a 11 e 5 anni di carcere. In tutto, il Tribunale di Vibo Valentia ha comminato oltre 200 condanne agli imputati, per un totale di 2.200 anni di carcere, e circa 100 assoluzioni. Secondo la ricostruzione dei pm Pittelli, membro della massoneria, avrebbe infatti favorito il clan dei Mancuso e Rocco Delfino, costituendo «la cerniera tra i due mondi» in una «sorta di circolare rapporto ‘a tre’ tra il politico, il professionista e il faccendiere». I boss calabresi, infatti, lo avrebbero nominato loro avvocato «in quanto capace di mettere mano ai processi con le sue ambigue conoscenze e rapporti di ‘amicizia’ con magistrati». Egli avrebbe lavorato come «affarista massone» degli ‘ndranghetisti, con cui si interfacciava tramite «circuiti bancari», «società straniere», «università» e «le istituzioni tutte». Nelle motivazioni, i giudici hanno scritto che in sede dibattimentale «è emersa un’assoluta e sistematica messa a disposizione del Pittelli nei confronti dei membri del sodalizio criminale, soprattutto quando la richiesta di favori proveniva dal capo Luigi Mancuso». Quest’ultimo, dice il Tribunale, si rivolgeva a Pittelli – con cui intratteneva un rapporto «di natura sinallagmatica» – sapendo di poter contare «sulla fitta rete di relazioni del difensore, politico navigato, onde consolidare il radicamento e la forte penetrazione della ’ndrangheta in ogni settore della società civile».
Pittelli non è certo il primo storico esponente di Forza Italia a subire condanne – nel suo caso ancora non definitive – per i legami con le consorterie mafiose del territorio. Celebri i casi che negli ultimi anni hanno visto alla sbarra e poi condannati in via definitiva altri personaggi storici del partito berlusconiano, come Marcello Dell’Utri (7 anni), Nicola Cosentino (10 anni) e Antonino D’Alì (6 anni). Proprio Silvio Berlusconi, mai condannato per mafia, era stato inquadrato nella sentenza Dell’Utri come contraente di un “patto di protezione” con Cosa Nostra, cui versò ingenti somme di denaro dal 1974 almeno fino al 1992. Al momento della sua morte, avvenuta il 12 giugno 2023, Berlusconi risultava indagato insieme a Marcello Dell’Utri nell’inchiesta della Procura di Firenze sui mandanti occulti delle stragi del 1993.
La Slovenia ha dichiarato Netanyahu persona non gradita
Il governo sloveno di Robert Golob ha approvato una risoluzione per dichiarare il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu «persona non gradita». Con tale misura, Netanyahu non potrà viaggiare nel Paese. La Slovenia «si aspetta il rispetto costante delle decisioni delle corti internazionali e del diritto internazionale umanitario, ha dichiarato il governo». La mossa della Slovenia segue una analoga misura presa contro i ministri estremisti Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, anch’essi dichiarti personae non gratae. In generale, Lubiana è uno dei Paesi che europei che più si sono mossi per denunciare il genocidio in corso a Gaza e sanzionare lo Stato di Israele.
L’economia dell’IA, per adesso, è molto diversa da come viene solitamente raccontata
L’intelligenza artificiale è ormai una tecnologia d’uso comune, volenti o nolenti tutti finiscono con il percepire i risultati del suo avvento. Eppure, nonostante la sua capillare diffusione, le aziende faticano ancora oggi a trovare degli usi applicativi capaci di garantire quel genere di stravolgimento commerciale che avrebbe dovuto stravolgere l’intero mondo imprenditoriale. Una posizione che complica non poco la possibilità di monetizzare l’IA e che rende più fragile l’intero ecosistema finanziario.
Sin dall’avvento dei primi modelli GPT, le aziende tecnologiche hanno promesso una portentosa rivoluzione industriale e scientifica. I modelli di linguaggio di grandi dimensioni e la semplificazione delle interazioni uomo-macchina avrebbero dovuto curare malattie, salvare il mondo dal surriscaldamento globale e, soprattutto, offrire nuovi mezzi su cui costruire una rinnovata crescita economica, se non addirittura un sistema di reddito universale di base. Un insieme di obiettivi ambiziosi che, però, viene solitamente presentato con estrema vaghezza.
Il Financial Times è voluto andare oltre alla dimensione aneddotica, verificando le trascrizioni dei risultati economici e i documenti depositati dalle realtà elencate nell’indice azionario S&P 500 alla Commissione per i Titoli e gli Scambi (SEC). A differenza dei comunicati aziendali e alle conferenze sugli utili, questi carteggi sono obbligati a elencare una serie di rischi percepiti che raramente finiscono all’orecchio del pubblico. Dati alla mano, la testata ha riscontrato che, nonostante la crescente diffusione di questi strumenti e i toni generalmente entusiastici, i lati positivi menzionati tendano a essere indefiniti, mentre le criticità assumono una dimensione concreta, soprattutto sul frangente della cybersicurezza. In generale, il numero delle aziende che esprime un’opinione positiva nei confronti di queste tecnologie è calato rispetto a quanto registrato nel 2022.
L’ipotesi avanzata è che, ora come ora, gli investimenti nell’IA siano più che altro dettati dalla FOMO, ovvero dalla paura di essere soppiantati da un concorrente che usa strumenti di IA. Una vera e propria “corsa alle armi” che, come le vere escalation belliche, finisce con l’autoalimentarsi. Una tendenza che viene prevedibilmente fomentata dai produttori degli strumenti: Sam Altman, CEO di OpenAI, ha scritto recentemente sul suo blog che “l’accesso all’IA diventerà un motore fondamentale dell’economia”. Nel frattempo, il report The GenAI Divide: State of AI in Business 2025, pubblicato lo scorso agosto dai ricercatori del MIT, stima che il 95% dei progetti pilota aziendali basati sull’intelligenza artificiale generativa non hanno soddisfatto le aspettative.
Sul fronte dei consumatori, uno dei più grandi ostacoli della corrente tecnologia è rappresentato dalle cosiddette “allucinazioni”, errori sistemici che fanno sì che le IA adoperate a fini generali tendano a produrre risultati inconsistenti e inaffidabili, che devono essere verificati e supervisionati da personale umano. Un processo che rischia di portare via più tempo di quanto non ne faccia guadagnare. Dal lato delle Big Tech, si aggiunge la criticità finanziaria: i prodotti commercializzati non sono attualmente sostenibili a livello economico e rappresentano anzi un costante salasso di risorse.
Con simili premesse, inizia a risultare difficile convincere gli investitori che sia il caso di continuare a scommettere cifre sempre più grandi nell’IA, tuttavia le “Magnifiche Sette” – Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet (Google), Meta, Nvidia e Tesla – rappresentano buona parte della crescita dell’S&P 500 e un loro eventuale crollo porterebbe conseguenze che riverberebbero sull’intera Wall Street.









