Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) ha annunciato lo scioglimento e la fine della lotta armata. La notizia arriva a seguito della dichiarazione finale del 12° congresso del partito, convocato dallo storico leader Abdullah Öcalan con una lettera dal carcere. La soluzione raggiunta dal partito ricalca quanto richiesto dallo stesso Öcalan: superare la retorica «ultranazionalista» di costituire uno Stato curdo in favore di una riorganizzazione «democratica» in cui curdi e turchi possano vivere sotto la stessa bandiera. Con la dichiarazione giunge così a compimento il più grande tentativo di riconciliazione mai avviato tra Turchia e PKK, in quella che è una delle più longeve lotte per la liberazione degli ultimi decenni.
Il Congresso del PKK si è tenuto dal 5 al 7 maggio, in due diverse sedi. Agli incontri hanno partecipato 232 delegati, che hanno discusso temi quali «la leadership, i martiri, i veterani, l’esistenza organizzativa del PKK e il metodo per porre fine alla lotta armata e costruire una società democratica». Alla chiusura del congresso, sono stati preannunciati lo scioglimento e l’abbandono delle armi da parte del PKK, confermati oggi, lunedì 12 maggio, con la pubblicazione della dichiarazione ufficiale. Con essa, il partito ripercorre la propria storia di lotta sin dalle origini, spiegando come, a partire dalla nuova apertura dei dialoghi, sia emersa l’esigenza di superare la prospettiva tradizionale del nazionalismo curdo, puntando piuttosto a realizzarne i principi all’interno della stessa Turchia. «Il PKK ha rotto la politica di negazione e anti-demolizione, ha portato il problema curdo verso una soluzione e ha completato la sua missione storica», si legge nella dichiarazione.
Con lo scioglimento del partito, il popolo curdo «costruirà la propria organizzazione in tutti i campi sotto la guida delle donne e dei giovani, si organizzerà con le proprie lingue, le proprie identità e le proprie culture su basi sufficienti, potrà difendersi dagli attacchi e costruire una vita democratica e comunitaria con lo spirito di mobilitazione», prosegue la dichiarazione. Non sono ancora chiare le modalità con cui verranno portati avanti questi obiettivi, ma perché ciò avvenga occorre che «il leader Apo [ndr. nome con cui viene chiamato Öcalan] gestisca e diriga il processo» e che vengano assicurati «il riconoscimento dei diritti della politica democratica e una sana garanzia legale» al popolo curdo. Per tale motivo, l’Assemblea Nazionale della Turchia ricopre un ruolo cruciale di «responsabilità storica», e con essa tutte le istituzioni civili, politiche e religiose, verso cui il PKK ha lanciato un appello. Su questa stessa base, il PKK ha esteso l’appello anche ai movimenti internazionali.
L’annuncio del PKK arriva al termine di un processo di riapertura dei dialoghi iniziato nella fine del 2024. Tutto è partito con un’apertura da parte di Devlet Bahçeli, leader del Partito del Movimento Nazionalista, il più grande alleato esterno del presidente turco. Bahçeli ha chiesto a Erdoğan di aprire un colloquio con Öcalan per porre fine al conflitto, che durava da oltre trent’anni, suggerendo la possibilità di liberare il fondatore del PKK in cambio di un suo eventuale ordine di deporre le armi. A dicembre, è stato ufficialmente rotto l’isolamento del leader del PKK, che ha ricevuto una visita di due deputati di DEM, il principale partito curdo del Paese. I colloqui si sono così fatti sempre più serrati, fino a quanto il 27 febbraio, dal carcere, Öcalan ha lanciato uno storico annuncio in cui ha chiesto a tutte le firme curde di abbandonare le armi e indire un congresso per deliberare uno scioglimento. Poco dopo, il PKK ha annunciato un cessate il fuoco temporaneo e organizzato il congresso richiesto da Öcalan.
Il conflitto tra Turchia e popolo curdo va avanti da 40 anni e ha causato circa 55.000 morti. Esso ha ampie ripercussioni sull’intera regione mediorientale, e in particolare sulla Siria, dove dodici anni fa è iniziata la rivoluzione del Rojava con la rivolta della città di Kobane. Il Kurdistan è infatti una regione montuosa compresa tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. I curdi costituiscono il più vasto popolo senza nazione al mondo (sono circa 30 milioni) e non sono riconosciuti dalla Turchia, che fino agli anni ’90 li chiamava “turchi di montagna”.
Nelle ultime 24 ore, sono almeno 29 i palestinesi rimasti uccisi negli attacchi israeliani effettuati a Gaza, mentre altri 94 sono rimasti feriti. Lo ha attestato il Ministero della Salute dell’enclave, che ha aggiunto che nei giorni scorsi sono stati recuperati anche quattro corpi di persone uccise in precedenti raid. Secondo quanto affermato dal ministero in una dichiarazione su Telegram, i massacri israeliani nella Striscia hanno causato la morte di 52.862 persone e il ferimento di altre 119.648 dal 7 ottobre 2023. Da quando Israele ha violato il cessate il fuoco il 18 marzo di quest’anno, almeno 2.749 palestinesi sono stati uccisi e altri 7.607 sono rimasti feriti..
Brusca accelerata diplomatica nel percorso per cercare di porre fine alla guerra in Ucraina. Sabato, il presidente ucraino Zelensky aveva proposto a Putin un cessate il fuoco senza condizioni della durata di 30 giorni a partire da oggi, lunedì 12 maggio. Putin ha risposto ieri con una controproposta: un incontro diretto da tenersi giovedì prossimo a Istanbul. Kiev ha reiterato la propria richiesta di iniziare la tregua oggi, ma, dopo le esortazioni di Trump, ha accettato: «Sarò in Turchia questo giovedì 15 maggio e mi aspetto che anche Putin venga in Turchia. Personalmente», ha scritto Zelensky in un post su X. Malgrado le tensioni inziali, insomma, il colloquio a Istanbul dovrebbe tenersi, anche se ancora si attendono le risposte di Trump e Putin.
La proposta di tregua di Zelensky è arrivata sabato 10 maggio dopo un incontro tenutosi a Kiev tra il presidente ucraino e i leader di Francia, Germania, Polonia e Regno Unito. In seguito al vertice, i rappresentanti dei vari Stati hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui annunciano la loro proposta per un cessate il fuoco «pieno e incondizionato a partire da oggi». Nella dichiarazione, i leader suggeriscono che «qualora la Russia rifiutasse un cessate il fuoco completo e incondizionato, dovrebbero essere applicate sanzioni più severe ai suoi settori bancario ed energetico, con particolare attenzione ai combustibili fossili, al petrolio e alla flotta ombra», e annunciano di avere già concordato il 17° pacchetto di sanzioni dell’UE contro la Russia, da coordinare con le sanzioni imposte dal Regno Unito e dalla Norvegia, nonché dagli «Stati Uniti». Alla prima proposta di Kiev, è seguita quella di Putin, che ha avanzato l’ipotesi di riesumare i colloqui diretti a Istanbul «senza alcuna precondizione». «La Russia è pronta a condurre negoziati seri con l’Ucraina: l’obiettivo è eliminare le cause profonde del conflitto», si legge in un comunicato riportato dall’agenzia di stampa statale russa TASS. «Putin non ha escluso l’ipotesi di un accordo di cessate il fuoco durante i negoziati con Kiev».
Il presidente turco Erdogan ha accettato di buon grado la proposta di Putin, e ha invitato le parti a riprendere i colloqui «da dove si erano interrotti» nel 2022. In un primo momento, dopo la controproposta russa, l’Ucraina sembrava volere accettare la ripresa dei colloqui solo a condizione che prima venisse implementato il cessate il fuoco di 30 giorni. Questa richiesta era inizialmente sostenuta dall’inviato speciale degli USA per la questione Ucraina, Keith Kellogg, ma dopo una dichiarazione di Trump sembrano essere cambiate le cose: «L’Ucraina dovrebbe accettare immediatamente. Almeno saranno in grado di determinare se un accordo è possibile o meno, e se non lo è, i leader europei e gli Stati Uniti sapranno a che punto è la situazione e potranno procedere di conseguenza», si legge nel post di Trump. Qualche ora dopo, è arrivata la risposta affermativa di Zelensky a Putin. La Russia non si è ancora espressa sulla possibilità di istituire un cessate il fuoco temporaneo a partire da oggi, ma per come stanno le cose ora sembra che i colloqui si dovrebbero svolgere a prescindere dall’entrata in vigore della tregua. Resta ignoto anche chi prenderà parte ai colloqui.
Il governo ad interim del Bangladesh ha vietato tutte le attività della Lega Awami, il partito politico di Sheikh Hasina, l’ex premier deposta l’anno scorso in seguito alle proteste studentesche. La decisione del governo arriva dopo un moto di protesta guidato dal National Citizen Party, partito studentesco nato dalla rivolta dello scorso anno. Il partito di Hasina è stato messo fuori legge sulla base delle leggi antiterrorismo del Paese, per questioni di sicurezza nazionale.
È stata creata una versione sintetica e ridotta di una proteina, la cosiddetta “tau”, coinvolta in numerose malattie degenerative, che potrebbe potenzialmente aprire la strada a nuove cure a riguardo: è quanto descritto dal lavoro di scienziati della Northwestern University e dell’Università della California, Santa Barbara, i quali hanno dettagliato i loro risultati all’interno di un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS). Utilizzando particolari tecniche avanzate, gli autori hanno costruito una proteina s...
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C'è una buona notizia che arriva dai litorali europei: tra il 2015 e il 2021 la quantità di macrorifiuti marini, oggetti cioè superiori a 2,5 cm, rilevati lungo le coste dell’Unione Europea è calata del 29%. A certificarlo è l’Agenzia europea dell’ambiente, che ha analizzato l’andamento dei rifiuti marini su scala continentale, confrontando il periodo 2015-2016 con il biennio 2020-2021.
La riduzione più marcata si è registrata nel Mar Baltico, dove la presenza di rifiuti sulle coste è scesa del 45%. Anche il Mar Mediterraneo e il Mar Nero mostrano risultati incoraggianti, grazie a politiche pi...
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Si è concluso il quarto round dei colloqui tra Iran e Stati Uniti sullo sviluppo nucleare di Teheran. «Colloqui difficili ma utili per capire meglio le rispettive posizioni e per trovare ragionevoli e realistici modi per affrontare le differenze», ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri, Email Baghaei. Sul tavolo c’è la fine delle sanzioni americane, da subordinare a un contenimento del programma nucleare iraniano. I colloqui proseguiranno, fanno sapere fonti vicine a entrambe le delegazioni.
Centomila fedeli riuniti a Piazza San Pietro per il primo Regina Coeli di Papa Leone XIV. «Nell’odierno scenario drammatico di una terza guerra mondiale a pezzi, come più volte detto da Papa Francesco, mi rivolgo anche io ai grandi del mondo, ripetendo un appello sempre attuale: mai più la guerra», ha detto il nuovo Pontefice. Invocato il cessate il fuoco a Gaza, il soccorso umanitario alla stremata popolazione civile e la liberazione di tutti gli ostaggi. Appello per «una pace autentica, giusta e duratura in Ucraina» e per il raggiungimento di un accordo durevole tra India e Pakistan.
Tulkarem, Cisgiordania occupata. Siamo davanti alla sede della Croce Rossa, dove ogni settimana si radunano famigliari dei detenuti palestinesi e solidali che gridano per la liberazione dei propri cari, mostrandone le gigantografie stampate su cartelli che tengono in mano. Sorrido a una donna che ho già visto alle scorse proteste, velo nero, abito tutto nero, sembra vestita a lutto. Anche lei mi riconosce. Espressione triste sul viso, tiene in mano le immagini di un ragazzo giovane, quattro fotografie unite che raffigurano momenti di vita: appoggiato alla portiera della macchina, vestito a festa, con maglietta e cappellino in una giornata normale. Terminata la protesta, la donna, con il marito al suo fianco, si avvicina e ci invita a prendere un caffè a casa sua. L’uomo parla un po’ di inglese, lei no. Lui si chiama Ahmad, alla protesta reggeva una foto dello stesso ragazzo, ma in posa diversa. Amni, la donna, ci apre la porta di casa. Ci togliamo le scarpe ed entriamo.
Tutto il muro del piccolo salotto che ci accoglie è ricoperto di foto di ragazzi, molti con le armi al fianco o in pugno. È impressionante. Sono quasi tutti morti, scoprirò poco dopo. Torna Ahmad, chiudiamo la porta. Solo allora mi accorgo di una gigantografia verticale che mostra un giovane sorridente in maglietta a maniche corte, una mano in tasca e l’altra che stringe un fucile M-16. Ibrahim, il loro figlio, è ovunque nella stanza.
Ci sediamo, Amni rimette la foto che aveva alla protesta nel solo buco vuoto rimasto nel muro colmo di immagini. Si siede con noi, dopo averci offerto i succhi appena comprati, barrette di cioccolato e wafer.
Ibrahim è in carcere da quasi due anni. Non hanno sue notizie, non sanno niente. È condannato a 15 anni di prigione. Aveva 20 anni quando l’hanno arrestato.
Gli israeliani avrebbero provato a ucciderlo. «In realtà lo volevano morto», assicurano. È tutto vero, c’è il video. I militari israeliani si filmano spesso mentre compiono le operazioni, per poi pubblicare i video su Facebook. Ce lo fanno vedere. Il raid è di giorno, forse all’alba. Ma c’è luce. «Ecco è qui», indica Ahmad. Intanto ci spiega, nel video non si vede tutto. La porta l’hanno fatta esplodere, poi sono entrati in casa e hanno aperto il fuoco. Volevano uccidere tutti. Ibrahim è saltato dalla finestra del salotto. Gli altri sono morti. Samir e Hamza erano due dei migliori amici di suo figlio. Ci mostra una foto appesa al muro. Quattro ragazzi ridono abbracciati, nemmeno un pelo di barba sul mento. Sono ragazzini. «Loro due sono stati uccisi quel giorno. Lui» indica un terzo «è diventato martire circa un mese dopo». Ibrahim, è stato fortunato. Il video continua. Si vede un ragazzo, faccia al muro, le mani dietro la testa in segno di resa, maglietta bianca pulita e pantaloni neri. È circondato da militari. La telecamera inquadra altrove, si sentono degli spari, qualcuno grida di dolore. «È lui. Gli hanno sparato alla schiena, alle gambe. Volevano ucciderlo ma non è morto».
Amni davanti al muro dei martiri (foto di Moira Amargi)
Cinque proiettili. Poi si vede un ragazzo portato via in barella, sporco di sangue e conciato male. Subito dopo, ci mostra un’immagine di lui all’ospedale.
La madre sparisce un attimo e torna con dei vestiti tra le mani: una maglietta bianca sporca di sangue e dei pantaloni completamente stracciati. Ci fa vedere i buchi dei proiettili nei pantaloni, il sangue sulla maglietta che nel video era chiaramente bianca, la mezza impronta di una scarpa. «L’hanno anche calpestato dopo» dice.
Non si sa se può camminare, Ibrahim. La mamma l’aveva visto a un’udienza qualche giorno dopo l’arresto e perdeva ancora sangue. Non camminava, lo trascinavano a forza. «Non l’hanno curato. L’hanno mandato in prigione pochi giorni dopo, non l’hanno fatto stare in ospedale. Ora da quello che sappiamo qualche passo lo fa, ma non sappiamo se abbia ripreso davvero a camminare», dice Amni, tradotta da Ahmad. La preoccupazione per le condizioni del figlio è palpabile: le galere israeliane, soprattutto dal 7 di ottobre in poi, sono diventate uno strumento scientifico di tortura per le migliaia di persone detenute. Lo ha dettagliato ampiamente, in un rapporto pubblicato ad agosto 2024, l’organizzazione umanitaria israeliana B’Tselem, parlando di forme istituzionalizzate di abusi, torture, gravissimi atti di violenza arbitraria e aggressioni sessuali per umiliare i detenuti palestinesi. Tutti i detenuti politici palestinesi liberati in questi mesi in occasione degli scambi di ostaggi con Hamas sono arrivati in condizioni di salute deplorevoli, magrissimi, spesso non in grado di camminare, con cicatrici e segni di violenze sul corpo. Chiunque esca di prigione ha perso decine di chili a causa dell’assenza di cibo e delle malattie lasciate volontariamente diffondere tra le celle sovraffollate. Per ora sono 63 i palestinesi morti – solo quelli dichiarati – nelle prigioni d’Israele dal 7 di ottobre a oggi. Uccisi dalle torture o dall’assenza di cure.
Ahmad con il ritratto del figlio Jihad, ucciso in un’imboscata (foto di Moira Amargi)
Nella stanza c’è un’altra presenza importante, di cui ci iniziano a parlare. Ahmad porta un quadro dipinto a mano e lo appoggia alla poltrona. «Questo è Jihad, era come se fosse nostro figlio». Il quadro l’ha dipinto lui. Ahmad è un pittore eccezionale. Lavorava dipingendo pareti «nel 48». Quarantotto è un numero che si impara presto a collocare geograficamente nei territori occupati: è il modo in cui spesso i palestinesi chiamano quello che nel resto del mondo chiamiamo Stato di Israele. Lo identificano con l’anno del secolo scorso in cui i coloni ebrei proclamarono la nascita dello Stato e cacciarono centinaia di migliaia di arabi, in quella operazione di pulizia etnica che i palestinesi chiamano «Nakba»: catastrofe.
Da un anno e nove mesi, Ahmad non guadagna un centesimo: nei territori occupati quasi nessuno ha i soldi per comprare i suoi lavori, e «nel 48» non ci può più andare, Israele non gli ha più concesso il permesso d’ingresso. Padre di un combattente arrestato e zio di un martire membro delle Brigate di Tulkarem, probabilmente il permesso di lavoro non lo vedrà mai più. Una delle varie forme di vendetta di Tel Aviv verso le famiglie dei membri della resistenza: togliere – oltre a figli e nipoti – anche le possibilità di sostentamento economico.
La faccia di quel ragazzo, capelli rasati, fascia bianca sulla fronte, mi pare familiare. In effetti, per le strade di Tulkarem l’ho già vista, diverse volte. «Jihad Shehadeh è cresciuto qui. Per vari anni è stato con noi. Suo padre è stato in carcere per 15 anni». Ci mostrano le foto di due bambini che ridono a crepapelle. Jihad e Ibrahim erano come fratelli. Poi le foto di Jihad con Amni, poi Jihad con tutta la famiglia. Il legame tra loro era fortissimo, lo scoprirò meglio la sera, quando tra narghilè, tè e caffè le sorelle di Ibrahim e un altro cugino di Jihad mi faranno vedere video su video e mi racconteranno di quel ragazzo morto ammazzato da Israele nel novembre scorso.
Jihad l’hanno ucciso in un’imboscata in pieno giorno, nel campo profughi di Tulkarem. Mi fanno vedere il video di quando è stato ammazzato. Mi pare incredibile che ci siano video di ogni momento, anche dell’ultimo istante, dove la vita fugge via. Il filmato deve averlo fatto qualcuno che stava alla finestra lì sopra: si vede un furgone, targa palestinese, parcheggiato male di lato sulla strada. Dietro, nascosti, sei militari israeliani, i fucili puntati verso la strada. Una macchina bianca si avvicina da lontano. I militari iniziano a sparare. La macchina che viene ripetutamente colpita e sbanda. Un ragazzino lì sulla strada per terra che non si alza. Sarà uno dei feriti, un bambino di 14 anni che camminava verso casa. I quattro giovani uomini in macchina, invece, sono tutti morti.
Amni accanto al poster che ritrae Jihad armato, simbolo della resistenza di Tulkarem (foto di Moira Amargi)
Secondo i giornali, Jihad Maharaj Shehadeh era al comando dei gruppi di risposta rapida delle brigate di Al-Aqsa, uno dei gruppi della resistenza armata palestinese, nelle Brigate di Tulkarem. Un’altra delle persone uccise era anch’essa parte delle Brigate della città, mentre le altre due vittime non erano identificate nella resistenza. Per Israele, e per il mondo occidentale, sono nient’altro che quattro terroristi uccisi in un’operazione militare. Per la gente palestinese sono martiri, figli del popolo che hanno rinunciato alla propria vita in nome della lotta per l’indipendenza della Palestina.
Era il 6 novembre 2023. Il padre, Mehraj Shehadeh, in un’intervista ad Al Jazeera racconta una vera e propria esecuzione. Al figlio hanno sparato 68 colpi. «La sua testa era vuota. Io e il dottore l’abbiamo dovuta riempire per poterlo riconoscere. Non c’erano nemmeno gli occhi». Aggiunge Shehadeh: «Quando queste nuove generazioni cresceranno vedendo la violenza dell’occupazione – le bombe, le demolizioni, i genocidi, la morte dei loro parenti – sceglieranno a loro volta di resistere».
Non si annienta la resistenza con la violenza e con la repressione, almeno, non in Palestina. È del tutto evidente, parlando con loro. L’idea che la volontà di combattere l’occupazione israeliana con le armi sia prerogativa di gruppi terroristici è una menzogna che ci raccontiamo in Occidente, dove i palestinesi vengono divisi in due categorie: i buoni, che sono solo vittime, e i cattivi, che sono terroristi. La realtà è che la rabbia, il sentimento di rivolta e la voglia di lottare per la liberazione non fanno che crescere.
È quello che è successo anche a Ibrahim e Jihad. Bambini cresciuti respirando l’oppressione e la violenza dell’occupazione, che da giovani hanno scelto di non accettarla e di combatterla. Anche con le armi, opponendosi con la violenza dell’oppresso a quella dell’oppressore.
«Il padre di Jihad, Mehraj Shehadeh, è stato arrestato quando Jihad aveva due anni», mi racconta Nura, la cugina. «È stato condannato a 15 anni di carcere per il suo impegno nelle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa durante la seconda Intifada». La storia della sua famiglia la narrano gli occhi orgogliosi della madre di Jihad. L’ho incontrata qualche volta, con due bimbi piccoli al seguito. Una volta proprio a casa di Ahmad e Amni. Al campo profughi di Tulkarem era in corso un raid, una delle tante incursioni con cui l’esercito israeliano sta cercando di rendere invivibili i campi profughi del nord della Cisgiordania, distruggendo le infrastrutture per forzare la gente ad andarsene. La famiglia era rimasta bloccata fuori. Si sono rifugiati a casa della sorella di Mehraj, Amni.
Jihad era il primo figlio, i fratellini piccoli avranno sei o sette anni. 18 anni di distanza tra Jihad e il secondo fratellino: poco più degli anni in cui il padre è stato rinchiuso in galera.
«Jihad provava sempre a visitare il padre in prigione. Prima con la madre, poi quando gli israeliani – ulteriore tortura per suo padre – hanno impedito alla madre le visite, con mia madre, sua zia Amni» continua Nura. «Gli israeliani cercavano sempre di fargli problemi, di disturbarlo, anche se era solo un bambino. Tornava sempre nervoso dalle visite in carcere». Quando il padre è stato rilasciato aveva 17 anni. «Ha lasciato gli studi, anche se era bravo a scuola. Ha iniziato a fare molti lavori. Era una persona tranquilla, preferiva ascoltare che parlare, entrava nel 48 illegalmente per lavorare e portare soldi a casa».
«Tra i 20 e i 24 anni è stato arrestato tre volte per vari mesi. E a 24 anni è diventato martire. Quando Amir Abu Khadiji, quello che considerano uno dei capi ideologici della lotta armata a Tulkarem, un suo amico e amico di Ibrahim, è stato ucciso, Jihad ha scelto di seguire le sue orme nella Brigata di Tulkarem. Amir l’hanno ucciso subito, per uccidere l’idea della resistenza. Jihad e altri hanno continuato la formazione del gruppo. Un’idea non si può uccidere».
Poco dopo Ibrahim è stato arrestato, e i suoi amici uccisi. Indica alcuni ragazzi che sorridono dalle foto alla parete. Ci elenca i nomi, le storie: «lui l’hanno ammazzato con un drone, a questi invece hanno sparato i soldati». Tra quegli amici uccisi c’era anche Samir, il promesso sposo di una delle sorelle di Ibrahim. Che non ha nemmeno vent’anni, ma ha già perso il compagno con cui avrebbe voluto sposarsi, il cugino, e ha il fratello in carcere. «Noi non sapevamo che Ibrahim fosse parte della resistenza. L’abbiamo scoperto quando l’hanno arrestato», continua Nura. Dopo quell’attacco Jihad ha scelto di non nascondere più la sua identità. Poi è stato arrestato dalla dall’’Autorità Palestinese per tre mesi. Quando è uscito, si è impegnato ancora di più nella costruzione della resistenza a Tulkarem.
Dopo il 7 ottobre, per quello che stava succedendo a Gaza, per gli attacchi ai campi profughi della Cisgiordania, per delle azioni repressive in particolare verso delle donne ad Al-Aqsa Mosque a Gerusalemme, il gruppo è diventato più effettivo. Ha iniziato a fare operazioni, a fare azioni armate contro le colonie israeliane, ai posti di blocco militari, a rispondere al fuoco durante gli assedi israeliani al campo rifugiati.
(Foto di Moira Amargi)
«Jihad dormiva per strada nell’ultimo periodo», continua Nura. «Aveva paura che i militari avrebbero potuto uccidere anche i suoi familiari in caso di una irruzione per eliminarlo in casa». Mi fa vedere delle foto. Jihad che dorme con una coperta per strada, o in macchina. «A volte, prima, dormiva a casa mia. Poi ha deciso di non farlo più. Aveva paura per me e per le mie bambine». Era un obiettivo. Lo sapeva. Nonostante tutto non è riuscito a evitare che nella sua esecuzione ammazzassero altre persone. «Era una brava persona, un giusto», dice con orgoglio. «I bambini lo amavano, lo seguivano sempre. Mi aiutava anche a mantenere mia figlia, dopo che mio marito se ne era andato».
Ci salutiamo, e le sue ultime parole, sull’uscio, sono una preghiera a raccontare questa storia in Italia: «Era un eroe, Jihad. È diventato martire per liberare la sua terra, la Palestina. Non dimenticarti di lui. Racconta la sua storia. È la storia di un partigiano».
Ieri pomeriggio India e Pakistan hanno raggiunto un accordo di cessate il fuoco su mediazione degli Stati Uniti. L’aria di festa è durata poco. Tra i primi a lanciare l’allarme è stato il primo ministro del Kashmir indiano, Omar Abdullah, postando sui social il video di luci che sfrecciano sopra i tetti di Srinagar. Scene simili si sono registrate in altre località lungo il confine, accompagnate da esplosioni. India e Pakistan si sono scambiate accuse reciproche. Le prossime ore saranno cruciali per capire la tenuta della tregua.
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