giovedì 3 Luglio 2025
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Kenya, sospeso il maxi progetto di crediti di carbonio: minaccerebbe i pastori indigeni

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Verra, l’organismo leader nella certificazione dei crediti di carbonio a livello globale, ha sospeso per la seconda volta il Northern Kenya Rangeland Carbon Project, un'iniziativa avviata nel 2013 che mira a generare crediti attraverso il pascolo pianificato e il conseguente stoccaggio di carbonio nei suoli. Il progetto, considerato il più esteso al mondo nel suo genere, è da anni al centro di critiche per il suo potenziale impatto sui pastori indigeni. La sospensione è arrivata dopo che, nel gennaio 2025, l’Alta Corte del Kenya ha dichiarato incostituzionali due delle principali aree di conse...

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Libia, Tripoli annuncia il cessate il fuoco

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Il governo centrale della Libia ha annunciato un cessate il fuoco per frenare gli scontri che da due giorni stanno interessando la capitale Tripoli. Gli scontri sono iniziati dopo l’uccisione di Abdel Ghani Al Kikli, capo dello Stability Support Apparatus, un’importante milizia armata del Paese affiliata al governo. Dopo un primo momento di calma registratosi martedì mattina, i combattimenti sono ripresi nella notte tra ieri e oggi con ampi scontri che hanno interessato tutti i quartieri della città. Gli scontri più duri si sono verificati tra la Brigata 444, allineata al premier Dbeibah, e la Forza di Deterrenza Speciale, la maggiore fazione armata di Tripoli schierata contro il governo centrale.

Trump ha annunciato la sospensione di tutte le sanzioni USA contro la Siria

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È iniziato ieri il viaggio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel Golfo Persico con un annuncio a sorpresa: il capo della Casa Bianca ha reso noto che saranno revocate tutte le sanzioni USA di lunga data alla Siria, intervenendo a un forum sugli investimenti a Riad, in Arabia Saudita, dove si è svolta la prima tappa del tour in Medio Oriente del tycoon. Si tratta di un cambiamento importante nella politica estera di Washington che ha dichiarato la Siria uno Stato sponsor del terrorismo nel 1979, introducendo sanzioni nei suoi confronti fin dal 2004 e inasprendole successivamente con lo scoppio della guerra per procura nel 2011. Parallelamente a questo importante annuncio, gli Stati Uniti hanno accettato di vendere all’Arabia Saudita un pacchetto di armi del valore di quasi 142 miliardi di dollari, mentre Riad si è impegnata a investire 600 miliardi negli Stati Uniti. La Casa Bianca ha definito l’accordo sulla vendita di armi il più grande “accordo di cooperazione in materia di difesa” mai stipulato da Washington. Allo stesso tempo, Trump non ha programmato una visita in Israele, scavalcando Tel Aviv nel suo viaggio in Medio Oriente: «Il messaggio alla regione è stato chiaro: Israele non è più una priorità assoluta per gli Stati Uniti”, ha scritto Itamar Eichner, corrispondente diplomatico dell’agenzia di stampa israeliana ynet».

Per quanto riguarda la sospensione delle sanzioni alla Siria, il Ministro degli Esteri siriano Asaad al-Shibani ha dichiarato su X che l’iniziativa segna un «nuovo inizio» nel percorso di ricostruzione della Siria, mentre oggi Trump ha incontrato il presidente siriano  Ahmed al-Sharaa  in Arabia Saudita, alla presenza del principe ereditario Mohammed bin Salman. Trump ha invitato Sharaa a normalizzare i rapporti con Israele, unendosi così agli Emirati Arabi Uniti, al Bahrein e al Marocco che hanno avviato relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico nel 2020 sulla base degli Accordi di Abramo mediati dagli Stati Uniti. Sebbene la potenza a stelle e strisce speri che anche Riad normalizzi i suoi rapporti con Israele, Trump ha affermato ieri che questo accadrà a suo tempo, in base alle tempistiche stabilite da Riad. Gli accordi stipulati con il principe ereditario saudita, dunque, non sono subordinati al ripristino delle relazioni diplomatiche con Tel Aviv (come aveva cercato di fare l’ex presidente Joe Biden) e il Regno saudita insiste sul fatto che non può esserci normalizzazione senza il riconoscimento di uno Stato palestinese. Similmente, secondo un rapporto dell’agenzia di stampa Reuters, gli Stati Uniti non subordineranno più il loro consenso al programma nucleare saudita alla normalizzazione delle relazioni tra Riad e Tel Aviv. Ciò significa che Israele è stato di fatto estromesso dalla politica intrapresa da Trump in Medio Oriente. Come riporta un’analisi di Haaretz, infatti, “L’accordo con gli Houthi, l’avvicinamento al regime siriano e il rafforzamento dei legami con la Turchia sono tutti elementi che delineano una nuova mappa geopolitica che Trump sta cercando di tracciare, in cui Israele è sempre più solo uno spettatore. […] Questa mappa non riserva un ruolo di primo piano a Israele, e Trump ha anche segnalato che Israele potrebbe essere escluso del tutto se interferisse con i suoi piani”.

Nello specifico, gli accordi con il regno dei Saud, che secondo la Casa Bianca rappresentano “una nuova era d’oro per la partnership tra Stati Uniti e Arabia Saudita”, comprendono svariati settori, tra cui energia, difesa, infrastrutture, sanità, tecnologia e risorse minerarie. Il partenariato tra i due Paesi include una dozzina di aziende di difesa statunitensi in settori quali la difesa aerea e missilistica, l’aeronautica e lo spazio, la sicurezza marittima e le comunicazioni. Sul piano della difesa, il pacchetto che Washington fornirà a Riad “comprende anche un’ampia formazione e supporto per rafforzare la capacità delle forze armate saudite, tra cui il potenziamento delle accademie militari e dei servizi medici militari”. Secondo la Casa Bianca, gli accordi “rafforzano la nostra sicurezza energetica, l’industria della difesa, la leadership tecnologica e l’accesso alle infrastrutture globali e ai minerali essenziali”.

Anche l’incontro con il capo siriano Sharaa è avvenuto senza l’“approvazione di Israele”: come riferisce la Reuters, Israele si è opposto alla sospensione delle sanzioni e negli ultimi mesi ha intensificato gli attacchi in territorio siriano affermando di non tollerare una presenza islamista nella Siria meridionale. L’Arabia Saudita, invece, ha dichiarato di sostenere la ripresa economica di Damasco e l’allentamento delle sanzioni, che creeranno le condizioni per investire nel Paese.

Dopo aver rovesciato il regime di Assad, Sharaa, per anni capo dell’ala ufficiale di al-Qaeda nel conflitto siriano, si è allineato alle direttive economiche occidentali, sostenendo un grande piano di privatizzazioni in Siria. Del resto, dopo aver condannato per anni il jihadismo e avere inserito i suoi leader nella lista del terrorismo – compreso lo stesso Sharaa – gli USA e i Paesi europei hanno salutato il nuovo governo siriano come “governo di liberazione”, revocando alcune prime sanzioni che da decenni affliggevano il martoriato Stato mediorientale. La rimozione totale delle sanzioni ora dovrebbe incoraggiare un maggiore impegno da parte delle organizzazioni umanitarie e facilitare gli investimenti e il commercio estero, reintegrando allo stesso tempo una Siria più confacente agli interessi occidentali nel contesto diplomatico-politico internazionale.

 

Eurovision e la funzione del boicottaggio culturale contro il genocidio

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La campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale (Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel, PACBI) ha preso vita nel 2004 come uno dei primi passi per la creazione del movimento internazionale a guida palestinese per Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni a Israele (BDS). Da allora il movimento esercita una pressione costante per contrastare le gravi violazioni dei diritti umani commesse da Israele nei territori palestinesi occupati, a Gaza e altrove. A questo scopo il boicottaggio culturale e accademico si è rilevato e continua a essere uno strumento efficace di lotta non violenta. Il boicottaggio culturale e accademico non colpisce singoli individui ma quegli eventi che ricevono finanziamenti o sponsorizzazioni dalle istituzioni governative israeliane. Per questa ragione, il Movimento BDS respinge le accuse di censura e ha invece come obiettivo il contrasto alle strategie di “normalizzazione” di Israele volte a migliorare la propria immagine internazionale e a presentarla come normale e accettabile. 

Le istituzioni culturali israeliane, comprese le compagnie teatrali, i progetti di sviluppo cinematografico e televisivo, i gruppi musicali e i festival, appoggiano infatti in larga misura l’operato delle forze armate e dei governi israeliani (non solo quello attuale). Nonostante gli sforzi di una manciata di artisti, scrittori e registi che si oppongono, tali istituzioni sono spesso direttamente implicate con l’operato dei governi israeliani che occupano illegalmente i territori palestinesi, segregando la popolazione e relegandola in una condizione di apartheid e di incertezza dal punto di vista della sicurezza, della prosperità e del diritto all’autodeterminazione. L’appello al boicottaggio culturale, come risposta al fallimento di decenni di negoziati e interventi diplomatici, afferma la necessità di una strategia di resistenza concreta. Esso si basa sul quadro di riferimento sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite, che promuove i diritti inalienabili dei palestinesi, inclusi il riconoscimento della loro libertà e il diritto al ritorno. 

Il boicottaggio, come strumento legale e politico, si ispira a precedenti storici di resistenza globale, come quello contro l’apartheid in Sudafrica. Allora, il boicottaggio culturale e accademico contribuì a isolare il regime razzista sudafricano e a portare l’attenzione internazionale sulle sue ingiustizie, costringendo i politici a fare pressioni per un cambiamento radicale del regime. In effetti, l’arte e la cultura non possono essere disgiunte dalla politica, soprattutto quando vengono utilizzate per normalizzare e rendere più accettabile l’agire di regimi occupanti, oppressivi e colpevoli di gravi crimini di guerra e contro l’umanità. Se, in passato, alcuni hanno messo in dubbio l’efficacia del boicottaggio culturale sostenendo che «l’arte non è politica», la realtà degli eventi recenti sta dimostrando il contrario. Il massacro in corso e la situazione a Gaza (che la Corte Internazionale di Giustizia ha definito come “plausibile genocidio”) hanno cambiato il panorama internazionale, con un crescente numero di artisti e intellettuali che usano la loro visibilità per denunciare le atrocità israeliane. La violenza di Israele, che ha causato oltre 50.000 morti (almeno il triplo secondo il giornale medico The Lancet) tra i palestinesi, è ora riconosciuta dalla Corte Penale Internazionale, che ha emesso un mandato di arresto contro il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, per crimini di guerra. 

L’atteggiamento di condanna che ha colpito la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, mirando a isolarla a livello culturale e sportivo oltreché politico, non è stato applicato nei confronti di Israele. Questo doppio standard evidenzia la complicità silenziosa di molti Stati occidentali con l’occupazione israeliana. In risposta, centinaia di artisti, anche in Italia, hanno aderito alla piattaforma “Artist for Palestine” lanciata dal movimento BDS il 3 aprile 2024, impegnandosi a non partecipare a eventi in Israele, a non accettare finanziamenti da istituzioni legate al governo israeliano e a non ospitare o promuovere chi lo fa. Inoltre, la Biennale di Venezia ha visto un forte movimento di boicottaggio, con oltre 8000 professionisti dell’arte che hanno chiesto e ottenuto il ritiro del padiglione israeliano dall’edizione del 2024. Questa iniziativa si ispira all’esclusione del Sudafrica dalla Biennale durante l’apartheid, a testimonianza del potere del boicottaggio culturale nel costringere la comunità internazionale ad affrontare la responsabilità di Israele nelle violazioni dei diritti umani.

Boicottare l’Eurovision 

Proteste a Malmö, Svezia, durante l’ultimo Eurovision del 2024

Dal 13 al 17 maggio a Basilea si svolgerà la 69° edizione dell’Eurovision Song Contest, concorso musicale internazionale che si svolge ogni anno e mette in competizione i migliori cantanti europei, per il quale si sono già mosse azioni di pressione per escludere Israele dalla competizione. In Finlandia, oltre 10.000 persone hanno chiesto al canale Yle di esercitare pressione sull’organizzatore dell’evento, la European Broadcasting Union (EBU), per rimuovere Israele dalla gara. Come in Finlandia, Islanda, e in tanti altri Paesi in tutta Europa, fan, musicisti e anche ex partecipanti di Eurovision si organizzano per lanciare petizioni e firmare appelli che escludano Israele dal Song Contest, in coerenza con le linee guida stabilite dalla stessa EBU. 

A questo fine l’anno scorso un folto gruppo di membri del Parlamento Europeo, di provenienza geografica e politica diversa, ha elaborato un documento di vibrante protesta che richiede a EBU l’esclusione di Kan, emittente israeliana partner di Eurovision. Quest’anno lo stesso documento sarà rielaborato e rinnovato, e vedrà aggiungersi la firma di tanti altri membri del Parlamento Europeo. Tutti questi sforzi costituiscono un altro esempio di come il boicottaggio culturale possa avere un impatto diretto sulle pratiche e le politiche internazionali. 

Contrariamente a quanto sostenuto da chi ne denigra l’efficacia, il boicottaggio culturale si è dimostrato uno strumento fondamentale per fermare la normalizzazione dei crimini di Israele contro il popolo palestinese. È un mezzo di pressione che può costringere Israele a rispondere alle richieste della comunità internazionale e a rispettare i diritti inalienabili dei palestinesi. L’efficacia di questo boicottaggio, alimentato dalla crescente solidarietà globale, si sta dimostrando sempre più potente nel cambiare le dinamiche internazionali e nel contrastare la manipolazione mediatica che giustifica l’oppressione israeliana contro il popolo palestinese.

India, bloccati account X di agenzie di stampa cinese e turca

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L’India ha bloccato gli account di due agenzia di stampa cinesi e di un’emittente turca sul social network X (ex Twitter). Di preciso, i canali bloccati sono quelli dell’agenzia di stampa statale cinese Xinhua, del giornale in lingua inglese del Partito Comunista Cinese Global Times e dell’emittente pubblica turca TRT World. L’India accusa i canali di informazione di avere diffuso notizie false nella copertura degli scontri con il Pakistan e di essersi schierati dalla parte del Pakistan.

La Corte di Giustizia europea ha condannato gli sms segreti tra von der Leyen e Pfizer

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La Commissione europea ha sbagliato a rifiutare la pubblicazione dei messaggi di testo tra Ursula von der Leyen e il CEO di Pfizer, Albert Bourla, nel pieno della pandemia di Covid-19. È quanto ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, accogliendo il ricorso della giornalista del New York Times, Matina Stevis-Gridneff, che chiedeva accesso agli SMS scambiati tra von der Leyen e Bourla tra il 1° gennaio 2021 e l’11 maggio 2022. La Corte UE ha così annullato la decisione della Commissione di negare l’accesso ai messaggi di testo. L’istituzione aveva respinto la richiesta affermando di non essere in possesso dei documenti richiesti. L’intento della giornalista del New York Times era quello di indagare sulle accuse di scarsa trasparenza nelle trattative per l’accordo multimiliardario sui vaccini stipulato tra Pfizer e l’UE.

Bruxelles dovrà ora chiarire perché quei messaggi non siano stati conservati, dove siano finiti e se effettivamente non contengano informazioni rilevanti per l’interesse pubblico. Il contenuto di tali scambi non è mai stato reso pubblico, ma è stato descritto come il “cuore pulsante” delle trattative che portarono alla firma dell’accordo per la fornitura di 1,8 miliardi di dosi di vaccino fino al 2023, per un valore totale di 35 miliardi di euro.

L’indagine era stata inizialmente avviata dalla magistratura belga all’inizio del 2023, a seguito di una denuncia presentata dal lobbista locale Frédéric Baldan, alla quale si erano successivamente uniti i governi ungherese e polacco. Parallelamente, anche il New York Times ha intrapreso un’azione legale contro la Commissione, dopo che questa si era rifiutata di rivelare il contenuto degli SMS, sostenendo di non averne conservato traccia e, addirittura, di non poterne confermare l’esistenza.

Il verdetto della Corte è ora chiaro: la Commissione ha fallito nel tentativo di giustificare la mancata conservazione e divulgazione di documenti fondamentali per comprendere come sia stato negoziato il più colossale accordo vaccinale nella storia europea. La Commissione si è fin da subito rifiutata di rendere pubblici questi messaggi, sostenendo che non costituissero documenti ufficiali e che, pertanto, non rientrassero negli obblighi di pubblicazione previsti dalle norme europee sulla trasparenza. Una tesi respinta con fermezza dalla Corte: se un messaggio di testo contiene informazioni rilevanti per un processo decisionale pubblico, allora è un documento, indipendentemente dal mezzo con cui è trasmesso.

La sentenza specifica che «la Commissione non ha neppure spiegato in modo plausibile perché ha ritenuto che i messaggi di testo scambiati nell’ambito dell’acquisto di vaccini contro il Covid-19 non contenessero informazioni sostanziali o che richiedessero un monitoraggio tale da rendere necessaria la loro conservazione».

Nel suo dispositivo, il Tribunale ha sottolineato come la Commissione non abbia fornito spiegazioni “plausibili” per giustificare l’assenza di tali documenti nei propri archivi. Anzi, la Corte ha rimproverato l’istituzione per non aver nemmeno cercato seriamente i messaggi, limitandosi ad affermare di non possederli. Una difesa ritenuta non credibile né sufficiente, persino “contraddittoria”: «La Commissione non può semplicemente affermare di non possedere i documenti richiesti, ma deve fornire spiegazioni credibili che consentano al pubblico e al Tribunale di comprendere perché tali documenti non possano essere trovati», si legge nella sentenza. E anche qualora il loro reperimento fosse stato effettivamente impossibile, «la Commissione non ha sufficientemente chiarito se i messaggi di testo richiesti fossero stati eliminati e, in tal caso, se l’eliminazione fosse stata effettuata volontariamente o automaticamente, o se il telefono cellulare della presidente fosse nel frattempo stato sostituito».

Immediata la risposta della Commissione, che in una nota ha assicurato che «esaminerà attentamente la decisione del Tribunale e deciderà i passi successivi. A tal fine, adotterà una nuova decisione» con «una spiegazione più dettagliata».

Una condanna non solo giuridica, ma anche politica, che mina la credibilità di Ursula von der Leyen, il cui modus operandi, improntato all’opacità, è ormai noto. Durante il suo mandato come ministra della Difesa in Germania, fu coinvolta in uno scandalo legato all’assegnazione sospetta di consulenze milionarie, senza adeguate gare pubbliche, e ora tale stile sta emergendo anche negli ultimi mesi in una fase politica delicata per l’Eurozona. Von der Leyen si muove con crescente autonomia e disinvoltura su dossier strategici che spaziano dalla politica industriale alla difesa.

L’immagine che emerge è quella di una leader che agisce dietro le quinte, bypassando i canali istituzionali per rafforzare il proprio potere decisionale. Tuttavia, nel caso “Pfizergate”, la posta in gioco è molto più alta: si tratta di miliardi di euro di denaro pubblico, della salute di centinaia di milioni di cittadini e, soprattutto, della fiducia nei meccanismi democratici europei. Una sentenza che, in ogni caso, rimarrà senza conseguenze concrete: i messaggi tra la leader della Commissione UE e l’amministratore delegato della multinazionale farmaceutica verosimilmente non verranno mai recuperati e quindi i cittadini europei non ne conosceranno mai il contenuto, mentre von der Leyen, nel frattempo rieletta a capo della Commissione, rimarrà al suo posto. 

In ogni caso, dal punto di vista politico e generale, la sentenza rimette al centro il nodo irrisolto del rapporto tra discrezionalità politica e trasparenza democratica. Questa sentenza rappresenta un monito per tutte le istituzioni europee e apre un dibattito cruciale sul loro ruolo, sulla loro trasparenza e sul diritto dei cittadini a conoscere i processi decisionali: se i decisori politici trattano in segreto questioni di interesse pubblico, chi li controllerà?

Bolivia, il presidente Arce ritira la candidatura alle presidenziali

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Il presidente della Bolivia Luis Arce ha ritirato la propria candidatura per le elezioni presidenziali previste per il prossimo 17 agosto, chiedendo al rivale Evo Morales di fare lo stesso. Nel suo appello, Arce sostiene che la sinistra del Paese deve fare fronte comune e superare le divisioni per contrastare l’ascesa della destra: «Il nemico principale è l’imperialismo, è la destra fascista che applaude la nostra divisione». Da ormai oltre un anno, è in corso un duro confronto tra Arce e l’ex presidente Morales, che ha portato anche a scontri tra i sostenitori dei due candidati.

La maggioranza Meloni approva l’acquisto di nuove tecnologie militari da Israele

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Nel silenzio generale, l’Italia continua attivamente a finanziare l’industria bellica israeliana. La maggioranza di governo ha infatti approvato, in Commissione Bilancio della Camera, lo schema di un decreto ministeriale (Smd 19/2024) dal valore di oltre 1,6 miliardi di euro, che prevede la «progressiva implementazione di suite operative “Multi-Missione MultiSensore” (MMMS) su piattaforma condivisa Gulfstream G550 “Green” base JAMMS». Lo schema rientra in un ampio progetto a più fasi che intende dotare l’Italia di una piattaforma aerea di ultima generazione per condurre attività di diversa natura, in primo luogo di spionaggio. Gli aerei coinvolti, i Gulfstream G-550, sono jet civili da convertire in aerei spia, dotandoli proprio di tecnologia israeliana. Lo schema prevede infatti «l’implementazione delle modifiche operative richieste» per convertire gli aerei in quella che viene definita «versione completa», per cui sono necessarie le tecnologie dell’azienda israeliana Elta Systems Ltd.

L’approvazione dello schema di decreto ministeriale da parte della Commissione Bilancio è avvenuta martedì 6 maggio. L’allarme sul contenuto del programma è stato lanciato da Peacelink, che ha notato come la discussione sull’approvazione dello schema si sia svolta in soli cinque minuti, senza menzionare una sola volta Israele. Per comprendere cosa c’entri lo Stato ebraico, si deve perciò procedere per gradi.

Nella documentazione per l’esame dell’atto di governo approvata il 6 maggio, si legge che lo schema riguarda la «prosecuzione dei già avviati ed approvati programmi di A/R n. SMD 03/2020 e SMD 37/2021». Il primo dei programmi citati, risalente al 2020, illustra il piano pluriennale, che dovrebbe terminare nel 2056, e lancia la prima fase del progetto – diviso in più «tranche» con scadenza 2032. Con la prima tranche del programma, tra le altre cose, vengono acquisiti 8 aerei, di cui 2 già in assetto completo e 6 nella cosiddetta versione green (cioè in assetto civile, da convertire in assetto militare). Gli aerei, precisa il documento, sono velivoli «Jet executive sviluppati dall’azienda aeronautica statunitense Gulfstream Aerospace», che verranno dotati di tecnologia CAEW (Conformal Airborne Early Warning) «modificata in parte dalla stessa Gulfstream ed in parte dalla israeliana Elta Systems Ltd (filiale della Israel Aerospace Industries)»: la tecnologia, insomma, è israeliana. L’onere finanziario di questo primo schema è pari a 1,223 miliardi di euro, già stanziati.

Il secondo schema è stato approvato e finanziato nel 2021 e punta a implementare gli aerei acquisiti nella prima tranche per raggiungere quella che viene definita Full Mission Capability (FMC), ossia la conversione in versione militare. Il documento precisa che il raggiungimento della FMC si ottiene attraverso la «integrazione del sistema di missione CAEW su velivoli G-550 versione green», confermando, di nuovo, l’impiego di tecnologia israeliana. Questa tranche «è rivolta alla trasformazione operativa di n. 4 dei 6 velivoli G-550 di cui alla 1° tranche», e vale 925 milioni di euro. Le tecnologie necessarie alla conversione degli aerei sono state «acquisite direttamente attraverso procedure con Paesi alleati e/o di interesse strategico». Di preciso, l’Italia ha stipulato un accordo bilaterale con Israele e promosso la firma di un memorandum d’intesa tra l’italiana Leonardo e l’israeliana Elta System Ltd.

Il terzo schema approvato il 6 maggio si colloca sulla scia della prima fase del programma pluriennale e prevede un onere totale di oltre 1,632 miliardi di euro, 700 in più rispetto a quanto stimato nella seconda tranche. Di questi, oltre 600 milioni, già stanziati, sono indirizzati al completamento delle conversioni degli aerei previste nella seconda tranche del progetto, mentre oltre 900 milioni per altre attività e acquisizioni. Di questi ultimi, parte verranno utilizzati per finanziare «le modifiche alla configurazione FMC dei rimanenti velivoli “Green Base JAMMS”», che a questo punto dovrebbero essere 2. Se la conversione, come confermato da entrambi i precedenti schemi, dall’accordo intergovernativo, e dal memorandum tra aziende italiane e israeliane, richiede tecnologia israeliana, questo significa che l’Italia dovrà acquistarla direttamente da Elta System Ltd. Oltre a ciò, lo schema prevede l’acquisizione di un simulatore e l’acquisto di un ulteriore velivolo destinato alla ricerca.

Con l’approvazione da parte della Commissione Bilancio, la palla è passata alla Commissione Difesa, che dovrà esprimersi entro il 26 maggio. Peacelink ha così lanciato un appello per fermare l’approvazione del documento, a cui per ora hanno risposto parlamentari di M5S e AVS: «Mancano ancora pochi giorni prima che il Parlamento approvi», Alessandro Marescotti, attivista e fondatore di Peacelink. «Scriviamo tutti ai membri delle Commissioni Difesa di Camera e Senato per chiedere di fermare quest’acquisto, come primo passo concreto per rompere la complicità con l’occupazione e sostenere davvero i diritti del popolo palestinese».

Gli USA stanno concedendo lo status di rifugiati agli eredi dei coloni in Sudafrica

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Un aereo con 59 persone di carnagione bianca provenienti dal Sudafrica è atterrato negli Stati Uniti, affinchè i suoi passeggeri possano chiedere lo status di rifugiati. L’amministrazione Trump, che nel gennaio di quest’anno ha sospeso tutti gli accessi nel Paese per coloro che richiedono protezione internazionale, ha infatti deciso di concedere lo status giuridico di rifugiati agli afrikaners, ovvero i discendenti dei coloni olandesi, che hanno dominato brutalmente il Paese fino al 1994. Secondo Trump, infatti, in Sudafrica sarebbe in atto una politica di apartheid e di genocidio nei confronti della popolazione bianca – la quale, in realtà, vive in una condizione privilegiata rispetto alla stragrande maggioranza dei cittadini del Paese. La Chiesa episcopale, a cui era stato chiesto di reinsediare gli afrikaners, ha deciso di porre fine alla sua collaborazione con il governo federale per la gestione dei rifugiati come gesto di disaccordo morale per la decisione di Trump.

«Siete davvero i benvenuti qui e rispettiamo ciò che avete dovuto affrontare in questi ultimi anni», ha detto Christopher Landau, vice Segretario di Stato, al gruppo di afrikaners atterrati lunedì 12 maggio negli Stati Uniti. Stephen Miller, vice capo di stato maggiore della Casa Bianca, ha detto alla stampa che questo volo dal Sudafrica fa parte di uno «sforzo di trasferimento su larga scala» e che ciò che gli afrikaners affrontano in Sudafrica «si adatta alla definizione da manuale del motivo per cui è stato creato il programma per i rifugiati». Una definzione che, secondo l’amministrazione Trump, escluderebbe quanto sta accadendo invece a migranti afghani e iracheni, tanto per citare due esempi.

Nessuna delle più importanti organizzazioni umanitarie esistenti al mondo ha mai pubblicato un report in cui viene denunciato l’apartheid (o addirittura il genocidio) dei bianchi sudafricani. I problemi in Sudafrica sono infatti altri e riguardano, ad esempio, l’estrema povertà delle centinaia di migliaia di persone costrette a vivere nelle baraccopoli. La mossa dell’amministrazione statunitense pone così fine a un rapporto di quasi quattro decenni tra il governo federale e la Chiesa episcopale. Il reverendo Sean W. Rowe ha infatti annunciato che porrà fine alla partnership con il governo per reinsediare i rifugiati, proprio per sottolineare la propria opposizione morale alla designazione degli afrikaner come rifugiati.

Nel marzo scorso, l’ambasciatore sudafricano, Ebrahim Rasool, è stato addirittura espulso dal Paese in seguito alle sue dichiarazioni che smentivano le accuse di Trump. L’arrivo negli Stati Uniti del primo gruppo di sudafricani bianchi è conseguenza dell’adozione dell’Ordine Esecutivo 14204, con cui, nel marzo scorso, il presidente statunitense ha annunciato il blocco degli aiuti economici al Sudafrica, invitando i cittadini bianchi del Paese a lasciare la nazione e trasferirsi negli Stati Uniti. La decisione di Trump sarebbe arrivata in seguito alla promulgazione di una legge del governo sudafricano che prevede l’esproprio della terra a danno degli agricoltori bianchi. Eppure, come spiegato nell’ordine esecutivo, tra le motivazioni della posizione contraria al Sudafrica c’è anche la sua azione nei confronti di Israeleil Paese ha infatti avviato contro Tel Aviv il processo in seno alla Corte Internazionale di Giustizia per il genocidio perpetrato contro la popolazione palestinese. Invece gli USA, nel caso di Israele, evidentemente, non ravvedono nessun regime di apartheid.

I funzionari sudafricani insistono nel negare le accuse di Trump: «Le statistiche dei servizi di polizia del Sudafrica sui crimini legati all’agricoltura non supportano le accuse di crimini violenti rivolti agli agricoltori in generale o a qualsiasi razza in particolare», ha detto il ministero delle Relazioni Internazionali e della Cooperazione del Sudafrica in una recente dichiarazione. Il presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, nel febbraio scorso, ha detto che la legislazione avrebbe «garantito l’accesso pubblico alla terra in modo equo e giusto». La legge, in discussione da anni, ha lo scopo di porre fine ad uno dei retaggi dell’epoca della apartheid. Infatti, sebbene la popolazione bianca rappresenti il 9% della popolazione totale, si stima che abbia la proprietà privata di circa il 75% dei terreni agricoli del Sudafrica.

Gli afrikaners sono una minoranza bianca discendente principalmente da coloni olandesi che arrivarono per la prima volta al Capo di Buona Speranza nel 1652 e che fino al 1994 hanno dominato la politica del Sudafrica e il settore agricolo commerciale del Paese. I discendenti dei coloni hanno poi creato e guidato il brutale regime di apartheid in Sudafrica, dal 1948 al 1994, un sistema di segregazione razziale in cui la popolazione bianca deteneva il potere politico ed economico, escludendo la maggioranza nera dalla partecipazione politica e dalla piena cittadinanza. Questo sistema si basava sulla separazione razziale, con leggi che limitavano la libertà di movimento, l’accesso all’istruzione e al lavoro e in generale la vita sociale e politica per la popolazione nera. Questo regime fu poi spezzato con l’arrivo al potere, nel 1994, di Nelson Mandela, primo presidente nero del Paese, attivista per i diritti civili e avvocato che aveva scontato 27 anni di carcere per la sua lotta al segregazionismo razziale, insignito nel 1993 con il Premio Nobel per la Pace.

Turchia, arrestati 97 studenti per una protesta contro un predicatore

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La polizia turca ha arrestato 97 studenti all’Università Boğazıci di Istanbul per avere indetto una protesta contro la presenza di un predicatore islamico nel campus. Di preciso, gli studenti protestavano contro una conferenza di Nureddin Yıldız, contestato per passate dichiarazioni sui matrimoni in età infantile: «Una ragazza può sposarsi a sei anni», una delle frasi contestate. Da quanto dichiara il governatore della città, Davut Gul, gli studenti sarebbero stati arrestati mentre cercavano di rompere una barricata della polizia. In seguito all’azione si sarebbero verificati degli scontri con le forze dell’ordine e 13 agenti sarebbero rimasti feriti.