venerdì 17 Ottobre 2025
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Il mare metafora infinita

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Davanti al mare le nostre identità si sospendono, proviamo la sensazione di trovarci in una condizione assoluta, dove conferma e stupore si fondono. È inevitabile fissare l’orizzonte laggiù, verso le ultime acque, ma in questo modo avviene quasi che lo spazio, il contenitore del tempo, come lo chiamava Platone, si allarghi e perda i suoi confini. La percezione contraddittoria e congiunta di un tutto concluso e di un oltre ignoto genera sensazioni di infinito, un infinito tuttavia che appare parzialmente percorribile, che fa nascere ipotesi da verificare, terre remote da immaginare, isole come oasi di una ipotetica traversata. Il mare, come dato naturale, si estenua allora, diventa rarefatto, trasforma la sua materia in colore, scivola nella metafora, si fa disponibile a contenere pensieri e a distenderli senza alcun ordine in nuovi quadri mentali. 

Il mare d’estate ci regala questo, l’utopia di una realtà senza tempo. Dove “senza tempo” significa che le condizioni determinanti la vita ordinaria non agiscono e che reale e possibile escono da ogni logica probabilistica. Un’altra condizione metaforica del mare è quella del percorso, del contenitore di varie rotte e destini. 

La navigatio vitæ del mondo antico, la vita stessa nel suo complesso si raffigura come solco marino orientato dalle stelle e dal cielo, con le sue gioie e le sue disavventure, che caratterizzano tutto ciò che è umano e dipende da una tecnica. Ognuno salpa e prende il largo sulle onde di vari itinerari possibili, mettendo in gioco il senso dell’avventura. Da Omero a sant’Agostino la nave esprime la comunanza dei destini umani, il bisogno di una meta condivisa, la rappresentazione anche di un pilota che guida e che si può alternare con altri che lo sappiano fare. Sulla nave le mansioni vengono applicate nello sforzo comune di andare avanti, di non perdere la rotta, di affrontare le burrasche, di gestire tempi ed eventi a seconda di come si presentano le necessità. La nave, il mare richiedono competenze ma anche coraggio, costanza e creatività, un’idea di sicurezza da garantire a tutti perché il domani è comune. 

L’Ulisse di Omero nulla avrebbe raggiunto e superato senza l’aiuto divino, perché il suo mito aveva bisogno di un logos, di una ragione e insieme di una sfida, quella sfida tutta umana che avrebbe poi condannato l’Ulisse dantesco a causa di un eccesso di volontà di conoscenza. 

Il mare, però, esprime non soltanto il bisogno di oltre, di ignoto ma anche la difficile sopravvivenza, l’ottenimento di risorse. 

La pesca e il pescatore aprono un nuovo fronte metaforico a questo proposito, un fronte oggettuale dove il pesce trasfigura in destino attraverso la fatica e i rischi di quel lavoro.

Hemingway: «Vorrei poter dar da mangiare al pesce, pensò. È mio fratello. Ma devo ucciderlo e mantenermi forte per farlo» (Il vecchio e il mare). Per chi ha anche scritto Addio alle armi e Verdi colline d’Africa, la morte provocata è un tema immenso, la morte che viene dal mare poi parla di una perdita, parla di naufragi e di prede sfuggite. 

Seferis: «Dormo, ma il cuore veglia: /guarda in cielo le stelle, e la barra, / l’infiorata dell’acqua al timone». 

Nel sogno non ci sono volti. Per Seferis, la poesia è il “giornale di bordo” dell’immaginario. Anche la poesia, infatti, è una pesca, di parole e di prede simboliche, ancorate insieme all’essere e al divenire, al permanere e al trasformarsi. Come nel ritmo parallelo, incessante delle onde, ognuna per definizione diversa dall’altra. 

A Skagen, estremo nord dello Jutland, Danimarca, il mare del Nord e il Baltico sono divisi da una striscia di terra, una specie di Scilla e Cariddi nordica. La gente, in pellegrinaggio, raggiunge sulla lunga spiaggia quell’estremo quasi puntiforme e si bagna i piedi. Arrivare lì è una esperienza densa di gioia, religiosa e festosa. Lì si vedono le onde trasversali, frutto dello scontro dei due mari. E ti chiedi perché c’è qualche governante che pensa alla guerra, qui dove l’assoluto della natura canta la sua gloria e donne, uomini, bambini, cani, gabbiani, corvi e foche si abbracciano quasi senza dirsi una parola.  

Israele all’assalto di Gaza City: UE muta, Trump sanziona l’Autorità Palestinese

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L’esercito israeliano ha annunciato ufficialmente l’inizio delle operazioni militari a Gaza City: da ieri, venerdì 29 agosto, forti esplosioni si registrano all’interno della città, dichiarata ora «zona di combattimento». L’obiettivo dell’esercito israeliano è sfollare circa un milione di palestinesi e spingerli verso il sud della Striscia. Questa mattina, esplosioni sono state registrate nel quartiere meridionale di Sabra, oltre che nell’area di Abu Iskandar. Nel frattempo, mentre gli USA negano a membri dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e dell’Autorità Palestinese (AP) il permesso per viaggiare a New York per poter presenziare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel corso della quale diversi Stati dovrebbero annunciare il riconoscimento dello Stato di Palestina, qualcosa nel mondo si muove: ieri, la Turchia ha infatti annunciato di aver tagliato i rapporti economici e commerciali con Israele, oltre che aver chiuso a Tel Aviv il suo spazio aereo. Questa domenica, inoltre, si accinge a partire dal porto di Genova la Global Sumud Flotilla, l’iniziativa della società civile che intende rompere l’assedio di Gaza con decine di navi cariche di aiuti umanitari. Intanto, le morti nella Striscia hanno superato le 63 mila, con decine di persone – soprattutto bambini – uccisi dalla carestia dilagante provocata da Israele.

Ad annunciare l’inizio ufficiale delle operazioni a Gaza City è il portavoce dell’esercito israeliano (IDF) per i media arabi, Avichay Adraee: «Abbiamo avviato le operazioni preliminari e le fasi iniziali dell’attacco a Gaza City e attualmente stiamo operando con grande intensità alla periferia della città. Intensificheremo i nostri attacchi e non esiteremo finché non avremo restituito tutti i soldati rapiti e Hamas non sarà smantellata militarmente e governativamente», ha dichiarato. Il piano, annunciato dal ministro della Difesa israeliano Israel Katz, prevede, nelle parole dello stesso ministro, di «aprire le porte dell’inferno» sui palestinesi, fino a che non «accetteranno le condizioni poste da Israele per porre fine alla guerra», inclusa la liberazione di tutti gli ostaggi e il disarmo. Tuttavia, secondo quando dichiarato dal portavoce del ministero degli Esteri del Qatar, Stato mediatore nei colloqui di pace tra le parti, Hamas ha accettato la scorsa settimana una proposta di cessate il fuoco le cui condizioni sono pressochè identiche a quelle già accettate da Israele nei mesi precedenti. Da Tel Aviv, tuttavia, non è ancora arrivata alcuna risposta in merito.

Nel frattempo, il segretario di Stato USA Marco Rubio ha disposto la revoca dei visti per membri dell’OLP e dell’AP (incluso il presidente, Mahmoud Abbas) al fine esplicito di impedirne la partecipazione alla prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite. «È nell’interesse della nostra sicurezza nazionale ritenere l’OLP e l’AP responsabili del mancato rispetto dei loro impegni e di aver compromesso le prospettive di pace», riporta il Dipartimento di Stato americano. In particolare, l’amministrazione ha chiesto che i due gruppi condannino il terrorismo e l’attacco del 7 ottobre. L’AP deve inoltre «porre fine ai suoi tentativi di aggirare i negoziati attraverso campagne di guerra legale internazionale, compresi i ricorsi alla Corte Penale Internazionale e alla Corte Internazionale di Giustizia, e gli sforzi per ottenere il riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese ipotetico». Pur non essendo membri e non riconoscendone l’autorità (salvo applaudirne l’operato in alcune occasioni, quali l’emissione del mandato di arresto internazionale contro il presidente russo Putin), gli Stati Uniti stanno infatti conducendo una feroce campagna contro i giudici della Corte Penale Internazionale (CPI), sanzionandoli per via delle azioni legali intraprese contro membri del governo israeliano.

Dal canto suo, l’Unione Europea ha preferito non esporsi troppo in merito alla nuova fase dell’offensiva israeliana. Oggi, i ministri degli Esteri dell’Unione si incontreranno in Danimarca per discutere una prima, timida iniziativa contro il genocidio commesso da Israele, ovvero la sospensione dei finanziamenti alle startup israeliane – proposta già avanzata da alcune settimane, ma sulla quale non è stata ancora raggiunta la maggioranza di voti necessaria a renderla effettiva. L’Alta rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE, Kaja Kallas, si è detta scettica in merito al raggiungimento di un accordo oggi.

Tuttavia, mentre a due anni dall’inizio del genocidio gli Stati europei ancora non riescono a prendere una posizione netta se non a parole, qualcosa nel mondo si muove. Ieri, il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha annunciato la cessione, da parte della Turchia, di tutti i rapporti commerciali con Israele, oltre che la chiusura dei porti e la restrizione dello spazio aereo ai mezzi che provengono da Tel Aviv. E domenica 31 agosto, da Genova, la Global Sumud Flotilla salperà alla volta di Gaza: a bordo di decine di mezzi carichi di aiuti umanitari, la popolazione civile proverà a rompere l’assedio per dimostrare, ancora una volta, che la cecità dei governi non la riguarda.

Dazi, per Corte Appello USA sono illegali

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Una Corte d’Appello degli Stati Uniti ha dichiarato che i dazi imposti dall’amministrazione Trump a una serie di Paesi sono illegali. Secondo la Corte, infatti, non rientra tra i poteri del presidente disporre tali misure economiche. Per poterli applicare, Tump si era appellato a una legge del 1977 (International Emergency Economic Power Act), la quale, in caso di emergenze nazionali “non usuali”, permette di applicare misure straordinarie. Per poter permettere all’amministrazione del presidente di presentare ricorso alla Corte Suprema, la Corte ha concesso che questi rimangano in vigore fino al 14 ottobre.

L’Indonesia sprofonda nel caos: decine di migliaia in piazza contro il governo

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L’Indonesia sta sprofondando nel caos. Dopo mesi di contestazioni, i sollevamenti popolari inaugurati all’inizio del 2025 sono culminati in una ondata di proteste violente che ha colpito la maggior parte dei centri dell’isola di Giava, prima fra tutti Giacarta. Oggi, venerdì 29 agosto, decine di migliaia di manifestanti hanno invaso le strade delle città, incendiando auto, assediando negozi, e scontrandosi frontalmente con le forze dell’ordine, lanciandovi contro bombe molotov e pietre. A fare scattare la miccia è stata l’uccisione di un conducente di taxi su motociclo, investito da una camionetta della polizia durante le proteste dei giorni scorsi. I manifestanti accusano il governo di essere corrotto, e denunciano le politiche economiche dell’esecutivo e i privilegi riservati ai membri del parlamento.

L’ultima ondata di proteste in Indonesia è esplosa all’inizio di questa settimana, lunedì 25 agosto. I manifestanti, guidati inizialmente dalle associazioni studentesche contestano l’aumento del prezzo del paniere, le politiche militariste, gli alti stipendi dei parlamentari, e criticano i sussidi destinati ai politici. Ad alimentare il fuoco è stata la recente approvazione di una legge che fornisce ai parlamentari un bonus per le spese sugli alloggi, in un contesto di crescente instabilità dei prezzi degli affitti. I dimostranti chiedono inoltre la ratifica di una legge sulla riservatezza dei beni e, i più radicali, lo scioglimento del parlamento, perché considerano i politici corrotti. Nei giorni, i sollevamenti hanno raggiunto anche i trasportatori e si sono ampliate a fasce ampie e generalizzate della popolazione indonesiana.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso e innescato i moti di violenza è stata l’uccisione di un conducente di taxi su motociclo da parte della polizia. Da quel momento, tutti i maggiori centri dell’isola di Giava si sono sollevati contro le forze dell’ordine e hanno provato ad assaltare le sedi del potere amministrativo. Il nuovo presidente Prabowo Subianto Djojohadikoesoemo, insediatosi ad ottobre, ha aperto una inchiesta sull’accaduto, provando a predicare calma. Nonostante ciò, la rabbia dei cittadini ha prevalso. Le informazioni su quanto accade scarseggiano e i principali quotidiani nazionali del Paese si limitano a fornire aggiornamenti sulla morte del tassista o, nel migliore dei casi, a fare un limitato racconto sul campo in non più di un articolo di cronaca. La maggior parte degli eventi sta venendo narrata sui canali di privati cittadini e da fonti indipendenti. Questi ultimi riportano che i principali giornali del Paese sarebbero stati silenziati e che sarebbe stato loro imposto dall’alto di non parlare delle proteste.

Il fulcro delle manifestazioni si sta concentrando a Giacarta, principale città dell’isola. Qui, circolano immagini che ritraggono decine di migliaia di cittadini intenti a bruciare autovetture, saccheggiare negozi di privati, e colpire la polizia con molotov e pietre; per sedare le rivolte, è stato schierato l’esercito, che tuttavia non sembra ancora essere intervenuto direttamente. I cittadini di Giacarta stanno provando a entrare nell’edificio del parlamento, sfondando i cancelli dell’edificio, e hanno appiccato un incendio davanti a una stazione di polizia. Analoghe proteste sono scoppiate a Yogyakarta, dove è stata incendiata un’auto subito sotto un edificio della polizia; qui, le forze dell’ordine hanno risposto agli attacchi dei manifestanti lanciando gas lacrimogeni, e secondo alcuni media indipendenti avrebbero ordinato l’evacuazione di alcune aree. Sempre a Yogyakarta, gli ospedali sarebbero sovraffollati e le ambulanze starebbero facendo fatica a raggiungere le aree degli scontri; anche qui è stato schierato l’esercito.

Le contestazioni sono arrivate anche a Surakarta, dove i manifestanti si sono scontrati con la polizia davanti alla sede dell’unità antiterrorismo; anche qui sono stati impiegati lacrimogeni, e pare che un civile sia stato colpito da un proiettile. A Bandung, la polizia ha diramato un ordine per aumentare i controlli nelle aree a rischio e i dimostranti hanno messo a fuoco alcune auto; pare sia stato appiccato un incendio anche di fronte alla casa di un funzionario del governo. I manifestanti hanno appiccato un incendio anche fuori dalla stazione di Tegal, e colonne di fumo si sono alzate anche dalle strade di Surabaya. Le proteste hanno raggiunto anche l’isola di Sulawesi, dove, nella città di Makassar, è stato incendiato un ufficio parlamentare. In totale, i media indipendenti parlano di nove morti, di cui cinque poliziotti e quattro manifestanti, almeno 3 feriti gravi e 600 arresti; non è possibile verificare tali informazioni.

Le proteste di questa settimana fanno eco a quelle scoppiate lo scorso febbraio, protrattesi a singhiozzi lungo tutto il corso dell’anno. Le richieste dei manifestanti sono le stesse da inizio 2025; a esse, tuttavia, si aggiunge anche la crescente preoccupazione sullo stato di diritto del Paese: l’aumento della spesa militare e il passato del nuovo presidente, vecchio generale dell’esercito, hanno alimentato i timori di una possibile piega repressiva. In generale, i manifestanti parlano di «tentativi autoritari di silenziare le critiche e diminuire gli spazi democratici». In tal senso, un caso curioso è costituito dal tentativo da parte del governo di contrastare l’uso di alcuni simboli adottati nel corso delle manifestazioni: nelle ultime settimane si è diffusa la tendenza a sventolare la bandiera deipirati di Cappello di Paglia” proveniente dal noto fumetto giapponese One Piece (la medesima bandiera era stata issata sull’ultima Freedom Flotilla). Nel corso del fumetto, la ciurma protagonista combatte contro il potere costituito per affermare i propri ideali di pace e libertà; in Indonesia, l’esposizione del jolly roger si è affermato come sinonimo di lotta contro l’oppressione, e il governo ha provato a dissuaderne l’utilizzo.

USA: divieto di ingresso membri dell’Autorità Nazionale Palestinese

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Il Dipartimento di Stato degli USA ha annunciato di avere revocato i visti per entrare nel Paese ai membri dell’Autorità Nazionale Palestinese e dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. «È nel nostro interesse per la sicurezza nazionale ritenere l’OLP e l’ANP responsabili del mancato rispetto dei loro impegni e del minare le prospettive di pace», si legge in una nota governativa. La mossa arriva in vista dell’apertura del prossimo ciclo dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si terrà a settembre a New York, e intende impedire agli ufficiali palestinesi di entrare su suolo statunitense. Diversi Paesi hanno annunciato che avrebbero riconosciuto lo Stato di Palestina in occasione della prima riunione.

Oltre il caso Leoncavallo: il crimine è occupare o una città senza spazi sociali?

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occupazione

Nella storia dello sgombero del Leoncavallo, c’è chi vede solo un’irregolarità urbanistica, riducendo tutto a una questione di legalità. Ma le occupazioni - dal Leoncavallo agli spazi sociali di mezza Europa - non sono mai state soltanto muri sottratti al mercato: sono state, e sono, laboratori politici, culturali e sociali. Se guardiamo soltanto al codice civile perdiamo di vista ciò che è accaduto dentro quelle mura: generazioni che hanno lottato per un’altra città, un’altra società, un altro modo di stare insieme. Ogni stagione ha avuto i suoi spazi "liberati": fabbriche dismesse, caserme a...

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Il caso Mia Moglie e la verità scomoda sulla censura dei social

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In questi giorni si sta molto discutendo della diffusione online non consensuale di nudi trafugati e dell’istigazione allo stupro di soggetti pubblici e privati. In entrambi i casi, le vittime sono quasi sempre donne. Questa rinnovata attenzione nasce dagli scandali legati al gruppo Facebook “Mia moglie” e all’esistenza del forum Phica: spazi digitali in cui si sono consumati abusi, ma che sono riusciti per anni a sfuggire al controllo di sistemi di moderazione che, su altre tematiche, sanno dimostrarsi inflessibili ed efficienti. Da qui il dubbio: perché realtà di questo tipo prosperano sottotraccia, mentre contenuti che analizzano quanto accade in Palestina o che parlano di suicidio vengono rimossi con tempestività?

Per affrontare la questione è innanzitutto necessario riconoscere che in ambo i casi citati, le aziende direttamente coinvolte hanno preso le distanze dal fenomeno. “Non consentiamo contenuti che minacciano o promuovono violenza sessuale, abusi sessuali o sfruttamento sessuale sulle nostre piattaforme” ha dichiarato un portavoce di Meta, azienda proprietaria di Facebook. “Se veniamo a conoscenza di contenuti che incitano o sostengono lo stupro, possiamo disabilitare i gruppi e gli account che li pubblicano e condividere queste informazioni con le forze dell’ordine”. Nel suo messaggio di addio, Phica si descrive invece come “uno spazio dedicato a chi desiderava certificarsi e condividere i propri contenuti in un ambiente sicuro”, evidenziando che quanto è accaduto sia da considerarsi un’aberrazione. “Nonostante gli sforzi, non siamo riusciti a bloccare in tempo tutti quei comportamenti tossici che hanno spinto Phica a diventare, agli occhi di molti, un posto dal quale distanziarsi piuttosto che sentirsi orgogliosi di far parte”.

Va però chiarito: se la condivisione consensuale di immagini intime non configura necessariamente un illecito, la diffusione non consensuale di nudi altrui – nota come Image-Based Sexual Abuse (IBSA) – è un crimine che alimenta la cultura dello stupro. Eppure, nonostante la gravità del fenomeno, le posizioni ufficiali di queste aziende tradiscono un’ignoranza sistematica che può derivare solamente da due fattori: incompetenza cronica o ipocrisia consapevole. Colossi come Facebook e YouTube hanno dimostrato di possedere strumenti molto sofisticati, specializzati nell’intercettare un determinato tipo di contenuti: difficile quindi attribuire la responsabilità a mere carenze tecniche.

Premesso che la censura non è quasi mai la soluzione più efficace, resta il fatto che i social applicano regole con due pesi e due misure. Google, ad esempio, ospita inserzioni di propaganda israeliana nonostante queste violino formalmente le policy interne; Elon Musk, dal canto suo, continua a trovare nuovi modi per infrangere le linee guida della sua stessa piattaforma, X, consapevole che nessuno potrà intervenire contro di lui. Il punto è semplice: le policy aziendali non sono legge e le piattaforme, non essendo veri spazi pubblici, operano secondo i propri interessi finché non entrano in conflitto con la normativa vigente.

Fornire una maggiore attenzione censoria al contrasto delle denunce palestinesi o ai discorsi di scandalo sulle sparatorie statunitensi è una scelta che, ancor prima di essere politica, è commerciale. I moti di protesta e sensibilizzazione vogliono essere esplicitamente visibili, adottano una prospettiva divulgativa e intercettano facilmente lo sguardo di inserzionisti e politici, capaci di esercitare pressioni economiche o legislative sulle Big Tech. Diverso è il caso di realtà come quella di “Mia Moglie”. Queste sono autentiche “camere d’eco” che generano traffico consistente, ma che restano perlopiù circoscritte e nascoste, dunque meno esposte al controllo esterno. Tale discrezione le rende paradossalmente più “tollerabili” agli occhi delle piattaforme, che dal traffico traggono profitto grazie a inserzionisti e data broker.

Che gli interessi economici prevalgano lo dimostra la fine di GARM, un’organizzazione no-profit che segnalava ai grandi marchi quando le loro pubblicità venivano associate a contesti tossici o illegali. L’iniziativa ha chiuso nel 2024 dopo che Musk l’ha trascinata in tribunale, accusandola di aver cospirato per boicottare X.

No, la Cassazione non ha deciso che chi rifiuta i tamponi è responsabile di epidemia colposa

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Negli ultimi giorni sono circolati sui social commenti allarmistici secondo cui la Cassazione avrebbe «riscritto il reato di epidemia», introducendo automaticamente la punibilità di chi viola la quarantena o non fa un tampone. In particolare, si paventa il timore che «la condotta dissenziente di un cittadino che violi il lockdown o la quarantena imposti dal legislatore, che rifiuti di indossare la mascherina o che rifiuti di ottemperare a una qualsiasi imposizione sanitaria, potrà essere qualificata come reato, sulla base di una indimostrabile o quanto meno incerta diffusione di un contagio astrattamente in grado di causare una presunta epidemia». Si tratta di una ricostruzione allarmistica e fuorviante che rimane nel campo dell’interpretazione. La sentenza non introduce nuovi obblighi sanitari per i cittadini, ma si limita a chiarire che chi ha precise responsabilità giuridiche (come nel caso di ospedali, strutture sanitarie, ecc.) può rispondere anche per omissione.

Ciò non toglie che, come emerge dall’ambigua astrattezza del punto 10, non sia da escludere che la sentenza possa lasciare margini alle fonti del diritto su cosa possa integrare o no una fattispecie omissiva («[…] sarà necessaria la valutazione, da compiere in presenza di una legge scientifica di copertura e secondo i princìpi della causalità generale, circa l’omesso impedimento della diffusione del germe a determinare o a concorrere nella determinazione del fenomeno rapido, massivo ed incontrollabile, lesivo del bene collettivo della salute e incontestabilmente proprio del reato in esame»).

Analizziamo i punti chiave della sentenza delle Sezioni Unite penali (Cass. 28 luglio 2025, n. 27515) per chiarire cosa è stato realmente deciso. Il nodo affrontato dalle Sezioni Unite era se il reato di epidemia colposa (artt. 438 e 452 c.p.) possa essere commesso anche con una condotta omissiva, cioè per mancato impedimento dell’evento da parte di chi aveva un obbligo giuridico di intervenire.

In passato, alcuni orientamenti negavano questa possibilità, perché l’epidemia veniva letta come reato «a forma vincolata», ossia configurabile solo tramite un’azione attiva di diffusione di germi patogeni. Le Sezioni Unite hanno invece chiarito che l’art. 40, comma 2, c.p. («non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo») si applica anche al reato di epidemia, purché ricorrano i requisiti, ovvero:

  • posizione di garanzia dell’agente (obbligo giuridico di impedire l’evento);
  • nesso causale tra omissione e l’evento epidemico.

Il caso riguardava un dirigente sanitario (Ospedale di Alghero, marzo-aprile 2020) accusato di non aver fornito dispositivi di protezione e formazione al personale, favorendo la diffusione del contagio in un ospedale, non un privato cittadino che non fa un tampone o esce di casa senza autorizzazione. Il dirigente sanitario fu assolto dal Tribunale di Sassari perché non aveva fornito dispositivi di protezione individuale né formazione adeguata, contribuendo così a un focolaio da SARS-CoV-2. La Corte ha, invece, sostenuto che una inattività (omissione) in presenza di obblighi di garanzia può integrare il reato di epidemia colposa, ribaltando l’assoluzione in primo grado.

Contrariamente, però, a quanto diffuso da alcuni commenti che sono circolati sui social, la sentenza non menziona né la «quarantena» né i «tamponi» come possibili condotte tipiche del reato. L’unico richiamo al periodo Covid-19 riguarda, in via interpretativa, la clausola di riserva dell’art. 2, comma 3, d.l. 33/2020, che rinviava al Codice penale per ipotesi di violazioni gravi delle misure emergenziali. Si tratta di un riferimento a fini sistematici, non di una «estensione automatica» del reato. La Cassazione non ha creato pertanto un «reato da disobbedienza sanitaria».

Perché si configuri l’epidemia colposa omissiva devono concorrere condizioni molto stringenti:

  1. Una posizione di garanzia (es. dirigente sanitario, responsabile di un ospedale, datore di lavoro in ambito specifico) e non un cittadino qualunque;
  2. Un nesso causale provato tra l’omissione e l’evento epidemico;
  3. Un’epidemia effettiva, cioè una diffusione incontrollata di un agente patogeno con caratteristiche epidemiologiche rilevanti.

Un singolo cittadino che violi la quarantena non rientra automaticamente in questo schema: può commettere altri reati (es. art. 260 TULS, violazione di ordini dell’autorità), ma non il delitto di epidemia colposa se manca la posizione di garanzia e il nesso causale.

Le paure di un uso autoritario della norma avanzate sono comprensibili alla luce del passato, ma sono prettamente speculative, in quanto l’estensione omissiva del reato non attribuisce automaticamente al legislatore un «potere illimitato di punire»; i princìpi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale restano pienamente in vigore. L’ergastolo previsto dall’art. 438 c.p. rimane una cornice edittale, ma la sua applicazione presuppone eventi di gravità eccezionale e accertati oltre ogni ragionevole dubbio. 

La configurabilità di tali omissioni come reato dipende dall’interpretazione delle fonti inferiori, che possono estendere il principio enunciato dalla Cassazione a casi concreti. 

La portata innovativa sta nel chiarire che anche l’inazione colpevole di chi è titolare di precisi obblighi giuridici può integrare il reato di epidemia. Si tratta di un’evoluzione coerente con la logica dell’art. 40, comma 2, c.p., già applicata in altri reati di evento (es. omicidio colposo omissivo in ambito medico o lavorativo). La sentenza n. 27515/2025 delle Sezioni Unite non ha “riscritto” il reato di epidemia né trasformato in criminali i cittadini che non fanno un tampone o violano una quarantena, ma ha semplicemente ribadito che, in presenza di una posizione di garanzia e di un nesso causale provato, l’omissione può rilevare penalmente anche per il reato di epidemia colposa.

Colombia: liberati 33 soldati rapiti

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Trentatré soldati rapiti da una milizia armata ribelle, sono stati rilasciati. I soldati sono stati rapiti lo scorso 25 agosto, dopo una serie di scontri nella zona rurale del comune di El Retorno che hanno portato alla morte di 11 miliziani appartenenti a una fazione dissidente delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia, ex milizia armata ribelle. I soldati sarebbero stati rapiti poco prima dell’evacuazione della zona. La regione in cui sono stati rapiti è una roccaforte di una delle fazioni dissidenti delle FARC che ha respinto l’accordo di pace siglato con il governo nel 2016; è considerata un corridoio per il narcotraffico.

Spese militari: per la prima volta tutti i Paesi NATO raggiungono il 2% del PIL

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Nel 2025, per la prima volta, tutti gli alleati europei della Nato e il Canada raggiungeranno l’obiettivo di destinare almeno il 2% del PIL alla difesa, fissato nel 2014 e mai pienamente rispettato finora. Secondo i dati diffusi dall’Alleanza, anche Paesi come Italia, Belgio e Spagna supereranno la soglia, mentre l’Islanda resta esclusa perché priva di forze armate. Nel complesso, la spesa dei membri europei e canadesi salirà al 2,27% del PIL, contro l’1,40% del 2014. Con gli Stati Uniti, il dato raggiunge il 2,76%. La Polonia guida con il 4,48%, davanti ai Baltici, mentre Washington, pur con il bilancio più elevato al mondo, si colloca al 3,22%. L’Italia arriva al 2,01%. Secondo gli accordi, tutti i Paesi NATO dovranno arrivare a investire il 5% del PIL in armi e difesa entro i prossimi dieci anni.

Nello specifico, le tabelle – che presentano statistiche basate sui dati standardizzati comunicati dai dipartimenti di Difesa nazionali – dimostrano che gli Stati Uniti si sono ampiamente confermati al vertice della classifica per spesa militare, avendo messo sul piatto circa 980 miliardi di dollari (attorno ai 900 miliardi di euro). Con ampio distacco, al secondo posto per spesa in termini assoluti c’è il Regno Unito, con oltre 70 miliardi di sterline (circa 90,5 miliardi di euro) pari al 2,40% del PIL. Mentre per la Germania non sono ancora disponibili i dati riferiti al 2025, la Francia raggiunge il 2,05% del PIL, spendendo 66,5 miliardi di euro nel settore della difesa. Cresce – e di molto – la spesa militare in Italia, che nel 2025 supera i 45 miliardi di euro (nel 2014, ammontava a “soli” 18 miliardi) e si attesta al 2,01%. La Spagna, con poco più di 33 miliardi di spesa, tocca il 2%. Nel 2025 i Paesi Bassi hanno destinato 26,1 miliardi di euro alla difesa (2,49% del PIL), mentre la Polonia ha speso 44,3 miliardi di euro, pari al 4,48% del PIL, risultando tra i Paesi con il maggior impegno relativo. In coda alla classifica per valori assoluti si trovano la Grecia con 7,1 miliardi (2,85% del PIL), la Norvegia con 16,5 miliardi (3,35%) e la Danimarca con 14,3 miliardi (3,22%).

Nel frattempo, però, lo scorso giugno i ministri della Difesa dei 32 Paesi membri della NATO si sono accordati sui nuovi obiettivi per le spese militari. In particolare, si è arrivati a un’intesa di compromesso tra i vari attori incentrata sull’aumento delle capacità nazionali della Difesa al 3,5% del PIL, aggiungendo un ulteriore e più discrezionale 1,5% in investimenti correlati, tra cui le infrastrutture e la cybersicurezza. Per raggiungere appieno gli obiettivi richiesti dalla NATO, l’Italia dovrebbe investire circa 66 miliardi di euro in più all’anno nella Difesa. Che, a meno di miracoli economici, si tradurranno fisiologicamente in tagli alla spesa sociale, indebitamenti e privatizzazioni. Per far quadrare i conti, l’Italia ha già chiesto all’UE di poter inserire nel bilancio per la Difesa opere strategiche quali il Ponte sullo Stretto di Messina, secondo il governo un’infrastruttura «imperativa e prevalente per l’interesse pubblico» in quanto potrebbe dover essere necessaria per «il passaggio di truppe e mezzi della NATO». Come evidenziato dall’Osservatorio Milex, infatti, per raggiungere gli obiettivi di spesa richiesti l’Italia è costretta a inserire nel bilancio altre voci fino ad ora non considerate.