Due persone sono morte e oltre 160 sono rimaste ferite in una calca scoppiata ieri, venerdì 17 ottobre, durante il funerale di stato dell’oppositore keniota Raila Odinga allo stadio Nyayo di Nairobi, ha riferito Medici Senza Frontiere. La folla si è stretta per vedere la salma, schiacciando molti presenti; la Croce Rossa ha inviato squadre per soccorrere ed evacuare i feriti. Il bilancio segue scontri del giorno prima, quando le forze di sicurezza spararono alla veglia allo stadio Kasarani di Nairobi. Odinga, ex prigioniero politico e leader carismatico, è morto a 80 anni in India; migliaia hanno partecipato al funerale, con il presidente Ruto presente.
Ucraina: dopo la telefonata con Putin, Trump frena sul sostegno militare a Kiev
Nel corso dell’incontro bilaterale svoltosi venerdì 17 ottobre alla Casa Bianca con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il presidente statunitense Donald Trump ha fatto un ulteriore passo indietro rispetto alla possibilità di inviare a Kiev i missili a lungo raggio Tomahawk, al centro delle trattative delle ultime settimane. Sulla posizione di Trump potrebbe aver influito l’inaspettata telefonata che ha avuto luogo lo scorso giovedì con il presidente russo Putin, nel corso della quale i due leader hanno parlato di un possibile incontro bilaterale che potrebbe aver luogo a Budapest nelle prossime due settimane. «I Tomahawk sono armi molto pericolose, molto potenti. Potrebbero implicare una escalation. I Tomahawk sono una questione importante, non vogliamo dare via cose di cui abbiamo bisogno per proteggere il nostro Paese», ha dichiarato Trump.
«Abbiamo bisogno dei Tomahawk e abbiamo bisogno di molte delle altre cose che negli ultimi quattro anni abbiamo mandato in Ucraina» ha detto il presidente statunitense, nel corso dell’incontro con i giornalisti a margine del vertice con Zelensky. «Ora abbiamo una situazione diversa, li mandiamo all’Unione Europea e loro pagano (loro hanno un sacco di soldi), ma noi abbiamo bisogno dei Tomahawk e delle altre armi che stiamo mandando in Ucraina. Questa è esattamente un’altra delle ragioni per le quali vogliamo finire questa guerra, parliamo di un gran numero di armi molto potenti» ha sottolineato, augurandosi che la guerra possa finire «senza che abbiamo bisogno di pensare ai Tomahawk».
Rispondendo alle domande dei giornalisti, il presidente Zelensky ha suggerito un possibile scambio tra i droni militari prodotti in Ucraina, che Kiev produce in gran quantità, e i missili a lungo raggio, ma questo non sembra aver smosso le posizioni di Trump, nonostante abbia ammesso che gli USA «ne comprino molti dall’estero». L’incontro, definito dal presidente statunitense «interessante» e «cordiale», non ha quindi raggiunto la conclusione sperata per Zelensky. In un post pubblicato successivamente sul proprio social Truth, Trump ha scritto che «è il momento di fermare le uccisioni e trovare un ACCORDO!», sottolineando come sia stato versato «abbastanza sangue» e come i confini delle due parti siano stati definiti «con guerre e viscere». «Dovrebbero fermarsi dove sono ora» ha detto Trump, «lasciare che entrambe dichiarino vittoria, che la Storia decida! Basta sparatorie, basta morti, basta con le immense e insostenibili somme di denaro spese. Questa è una guerra che non sarebbe mai cominciata se io fossi stato presidente. Migliaia di persone massacrate ogni settimana – BASTA, ANDATE A CASA IN PACE DALLE VOSTRE FAMIGLIE!» [maiuscole originali, ndr]. Nel corso del vertice, Trump ha inoltre riferito che l’incontro con Putin non prevedrà la presenza di Zelensky, perchè tra i due leader «non corre buon sangue». «Questi due leader non si piacciono e vogliamo rendere le cose più confortevoli per tutti».
Nelle scorse settimane, Trump aveva riferito di aver «più o meno» preso una decisione in merito all’invio dei missili a lunga gittata (sulla quale Kiev sta manifestando forte insistenza), ma di voler prima capire come sarebbero stati usati. A tal proposito, Mosca sottolinea che, se l’Europa continuerà a fornire sistemi missilistici, intelligence e assistenza militare all’Ucraina, finirà per essere considerata parte del conflitto stesso – una linea che richiama discorsi già emersi nei mesi precedenti.
Russia, condannati per terrorismo 15 soldati ucraini del gruppo Aidar
Il tribunale militare russo di Rostov sul Don ha condannato ieri 15 soldati ucraini del battaglione Aidar a pene comprese tra 15 e 21 anni con l’accusa di terrorismo. Si tratta del secondo processo di massa contro prigionieri di guerra ucraini dopo quello di marzo contro 23 membri del battaglione Azov. La Russia ha etichettato sia i gruppi Azov che Aidar come organizzazioni terroristiche e accusato i loro membri di crimini di guerra. Kiev ha definito il processo una «farsa» e una violazione del diritto internazionale, accusando Mosca di criminalizzare chi ha difeso la propria patria. Il portavoce di Aidar, Ivan Zadontsev, ha denunciato il procedimento come politico.
Trump ha autorizzato la CIA a effettuare operazioni segrete in Venezuela
Dopo gli attacchi nel mare dei Caraibi delle ultime settimane, che hanno ucciso 27 persone, gli USA puntano a un’escalation militare improntata alla destabilizzazione del governo di Caracas. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha confermato mercoledì ai giornalisti di aver autorizzato la CIA a condurre operazioni segrete in Venezuela, inclusa la possibilità di azioni “letali”, per fare pressione sul governo di Caracas e destituire il presidente Nicolás Maduro. «Controlliamo il mare, ora guardiamo a terra» ha dichiarato Trump, aprendo alla possibilità di attacchi terrestri nel Paese sudamericano. Il tycoon ha giustificato l’autorizzazione all’agenzia di intelligence statunitense con due motivazioni principali: la migrazione di venezuelani negli Stati Uniti e il traffico di droga. L’annuncio di Trump ha portato non solo alle proteste di Caracas, ma anche alle dimissioni dell’ammiraglio Alvin Holsey, capo del Southern Command USA, che supervisiona le azioni militari in America Centrale e Meridionale.
La notizia era stata anticipata dal New York Times, citando funzionari statunitensi a conoscenza dei fatti. La decisione risalirebbe ai primi mesi del secondo mandato Trump e farebbe parte di una strategia volta a rovesciare il governo Maduro, considerato da Washington un “regime narco-terrorista”. La Casa Bianca aveva anche offerto, nel 2020, 50 milioni di dollari per informazioni che portassero all’arresto e alla condanna del presidente venezuelano, sulla base delle accuse di narcotraffico. Sullo sfondo, un’offerta di transizione politica presentata da funzionari venezuelani ma respinta, però, dagli Stati Uniti. Secondo quanto rivelato da un ex funzionario dell’amministrazione Trump, un gruppo di alti dirigenti venezuelani avrebbe proposto un piano per favorire una “uscita ordinata” del presidente Maduro. Il progetto prevedeva che il leader bolivariano si dimettesse entro tre anni, lasciando la presidenza alla sua vice Delcy Rodríguez, incaricata di portare a termine il mandato fino al gennaio 2031. Rodríguez non si sarebbe candidata alla rielezione, aprendo così la strada a un nuovo assetto istituzionale “post-Maduro”. La Casa Bianca ha tuttavia respinto l’offerta, giudicandola una mossa di facciata e ribadendo di non riconoscere la legittimità del governo venezuelano. A Washington, il piano è stato interpretato come un segnale di debolezza interna, un tentativo disperato di Caracas di alleggerire la pressione economica e diplomatica, inasprita dopo il riavvio delle sanzioni energetiche. La tempistica delle rivelazioni non è casuale. Il New York Times aveva già pubblicato il 10 ottobre un presunto scoop, secondo cui Maduro avrebbe offerto concessioni economiche agli Stati Uniti, inclusi privilegi sull’accesso al petrolio e alle miniere, in cambio di un alleggerimento delle sanzioni. Pochi giorni dopo, lo stesso quotidiano ha diffuso la notizia dell’autorizzazione concessa da Trump alla CIA per condurre operazioni segrete in territorio venezuelano. Due mosse coordinate che, più che informare, costruiscono una narrazione: quella di un governo ormai isolato e pronto a cedere il potere. L’Associated Press, seguendo lo schema ormai classico delle “fonti anonime vicine al dossier”, ha poi rilanciato la storia di un piano interno per la successione di Maduro. Il risultato è una sequenza di messaggi calibrati per minare la percezione di stabilità del governo venezuelano, generare sfiducia tra i suoi sostenitori e legittimare eventuali azioni più aggressive da parte di Washington.
La frustrazione per gli attacchi è cresciuta a Capitol Hill ed è culminata nelle dimissioni di Holsey. Alcuni repubblicani hanno chiesto alla Casa Bianca maggiori informazioni sulla giustificazione legale e sui dettagli delle operazioni, mentre i democratici sostengono che gli attacchi violano il diritto statunitense e internazionale. Da Caracas, Maduro ha condannato duramente la notizia delle operazioni della CIA in Venezuela, accusando gli Stati Uniti di usare il narcotraffico come pretesto per giustificare un “cambio di regime” e appropriarsi delle risorse petrolifere del Paese. In risposta al dispiegamento militare statunitense, Caracas ha avviato esercitazioni al confine con la Colombia e mobilitato riservisti e forze dell’ODDI (Organo di Direzione per la Difesa Integrale) e delle ZODI (Zona Operativa per la Difesa Integrale) nei principali quartieri popolari. Il ministro degli Esteri Yván Gil ha annunciato un ricorso alle Nazioni Unite, mentre il Parlamento intende avviare procedimenti legali contro Washington per “minacce e aggressioni”. Anche la Colombia, per voce del presidente Gustavo Petro, ha denunciato il rischio di escalation e ricordato le vittime degli attacchi USA in acque internazionali. Washington mal sopporta un regime che si definisce socialista nel suo “cortile di casa” e le tensioni rientrano in un conflitto di lunga data: nel 2019 l’amministrazione Trump riconobbe Juan Guaidó come presidente ad interim del Venezuela, sostenendo un governo ombra per tentare di rovesciare il governo di Caracas.
Al di là delle narrazioni di facciata, ciò che emerge è, infatti, la continuità della politica estera statunitense: una dinamica che ripercorre vecchi schemi dello scorso secolo all’insegna del “regime change“, che gli USA hanno imposto in America centrale (Cuba, Nicaragua, Guatemala) e in America del Sud (su tutti in Cile e per ultimo il fallito colpo di Stato contro Chavez nei primi anni 2000). Cambiano le amministrazioni, ma non la strategia di fondo: l’obiettivo resta il controllo geopolitico delle risorse e la neutralizzazione dei governi non allineati. Le operazioni “coperte” della CIA in America Latina non sono un’anomalia, ma un modus operandi che si è raffinato ed evoluto su scala globale, fino alle “rivoluzioni colorate” del XXI secolo. Il Venezuela, con le sue immense riserve di petrolio e la sua posizione strategica, rappresenta un nodo cruciale di questa rete. Sul piano simbolico, il Nobel per la Pace 2025 alla leader dell’opposizione María Corina Machado ha rafforzato la pressione internazionale su Caracas, fornendo un ulteriore tassello nella costruzione del consenso internazionale attorno a un cambio di regime “umanitario”. Machado ha, infatti, espresso apertamente il suo sostegno all’aumento della presenza militare USA nei Caraibi voluta da Trump e ha dedicato a quest’ultimo il Nobel. In questo scenario, l’informazione gioca un ruolo chiave: travestita da giornalismo, diventa veicolo di un soft power che prepara il terreno all’intervento. La guerra non si combatte più solo con le armi, ma con le narrazioni. E in Venezuela, la battaglia per la percezione è già iniziata.
Giornalisti restituiscono badge al Pentagono in segno di protesta
Decine di giornalisti statunitensi di vari importanti media statunitensi, tra cui il New York Times, il Wall Street Journal e CNN, hanno consegnato i loro badge d’accesso al Pentagono, rifiutando di accettare le nuove restrizioni imposte dal Dipartimento della Guerra. Le nuove regole richiedono un’approvazione preventiva di alcune informazioni da pubblicare e limitano l’accesso a zone dell’edificio. Il segretario alla Guerra, Pete Hegseth, ha definito le misure “di buon senso”, ma nessun media, salvo il network conservatore One America News (OAN), ha accettato di firmare la direttiva, che viene ritenuta una limitazione alla libertà di stampa. I reporter affermano che continueranno a lavorare anche senza accesso diretto al complesso.
Il colonnello Randrianirina è il nuovo presidente del Madagascar
Dopo il golpe militare che ha rovesciato Andry Rajoelina, il colonnello Michael Randrianirina ha prestato giuramento come nuovo presidente. Randrianirina, 51 anni, ha già ricoperto incarichi politici: dal 2016 al 2018 era stato governatore della regione di Androy, nel sud del Madagascar. Fino a questo momento era noto soprattutto per essere il comandante di un’unità di élite molto importante, CAPSAT, che sabato 11 ottobre si è schierata con i manifestanti. Il passaggio di potere, avvenuto con il sostegno dell’alta corte costituzionale, è stato accompagnato da condanne internazionali e promesse di una transizione verso elezioni entro due anni.
Genova dedica una via alle “Vittime della Palestina”
Il Municipio Bassa Val Bisagno di Genova ha approvato una mozione per intitolare una via della zona di San Fruttuoso alle “Vittime della Palestina”. L’iniziativa, promossa da gruppi di centrosinistra e movimenti civici, è stata descritta dai suoi sostenitori come un atto di memoria e umanità verso i civili innocenti morti nel conflitto in Medio Oriente. La delibera ha suscitato un ampio dibattito con alcuni esponenti del centrodestra, che hanno definito la scelta “ambigua” e potenzialmente divisiva. Ora dovrà essere individuata la strada precisa dove apporre la targa commemorativa.
La cannabis light non è illegale: i tribunali smontano il decreto sicurezza
Enrico stava montando il capannone per la festa del suo 35esimo compleanno in provincia di Belluno, e come regalo si è visto arrivare 12 agenti della polizia antidroga che l’hanno arrestato, trattandolo come un narcotrafficante. L’accusa? Quella di detenzione con fini di spaccio di stupefacenti, ma la realtà è ben diversa. Con la sua azienda, La Mota, da 8 anni Enrico coltiva canapa industriale con THC sotto i limiti di legge, italiani ed europei, con un’azienda registrata, pagando tasse e facendo fatture quando vende la propria merce. Gli agenti non hanno voluto nemmeno effettuare il campionamento per verificare tramite analisi scientifiche i livelli di THC delle piante, hanno sequestrato il campo e volevano procedere con l’incenerimento. Il tutto è stato bloccato dal tempestivo intervento del suo avvocato, Lorenzo Simonetti, di Tutela Legale stupefacenti, che ha portato la procura a scarceralo immediatamente, scrivendo nero su bianco che: «Trattandosi esclusivamente di infiorescenze di cannabis, fino a quando non saranno disponibili le analisi di laboratorio sulle sostanze sottoposte a sequestro, non è possibile neanche stabilire la gravità in concreto della condotta, non potendosi considerare determinante il mero dato ponderale».
Da agricoltori a criminali
Lo stesso giorno, il 10 ottobre, questa volta a Palermo, un altro agricoltore, che coltiva canapa industriale dal 2019, è stato arrestato ed è rimasto in carcere per due giorni. Qui il giudice ha convalidato l’arresto, ma non ha accolto la richiesta di misure cautelari come carcere o domiciliari. Nell’ordinanza di scarcerazione si può leggere che: «Allo stato, unitamente alla circostanza che non basta che si tratti di cannabis (più tecnicamente, non è sufficiente la conformità del prodotto al tipo botanico vietato dal T.U. Stupefacenti), bensì occorre sempre valutare l’effettiva capacità drogante del prodotto ceduto o detenuto (cfr. Cass. Pen., SSUU 12348/2019), impedisce di configurare, i gravi indizi del reato contestato».
Pochi giorni prima era toccato a un altro imprenditore agricolo, questa volta in Puglia. Dopo 3 giorni di carcere il Gip, giudice per le indagini preliminari, ha rigettato la richiesta di custodia cautelare in carcere del PM, ordinando invece l’immediata scarcerazione, senza nessuna misura cautelare. Nelle motivazioni, il giudice sottolinea che: «Allo stato non è affatto scontato che il materiale abbia efficacia drogante o psicotropa» e che, senza analisi scientifiche valide e tracciate, non sussistono gravi indizi di colpevolezza.
Un cortocircuito legislativo e giudiziario
Cosa sta accadendo? Dopo il decreto sicurezza, che vorrebbe considerare il fiore di canapa come uno stupefacente indipendentemente dai livelli di THC – un’impostazione cha fa a pugni con la scienza, con decine e decine di sentenze, e con lo stato di diritto, come è stato sottolineato da una relazione della Corte di Cassazione a inizio anno – procure un po’ troppo zelanti hanno fatto il passo che nessuno si aspettava: non più sequestri e processi, gli agricoltori di canapa vanno direttamente in carcere, senza nemmeno effettuare le analisi. Un’aberrazione del diritto, che porta in galera lavoratori onesti poi dipinti dalla stampa locale come dei novelli Pablo Escobar. Che però vengono puntualmente rimessi in libertà avvalorando il principio che le associazioni di settore portano avanti da anni: se non c’è efficacia drogante e per la prassi giurisprudenziale italiana deve essere sopra lo 0,5% di THC, non c’è reato.
Ecco perché gli avvocati insistono su un punto: prima di incidere sulla libertà personale o sull’operatività delle imprese, occorrono campionamenti in contraddittorio, catena di custodia, laboratori accreditati e misure conformi ai protocolli europei (campionamento rappresentativo, doppio campione per controanalisi, essiccazione entro 48 ore, determinazione cromatografica su campione a peso costante). E i giudici stanno dando ragione a loro, non al governo che ha voluto questa legge.
Torino, sequestro archiviato: “il fatto non sussiste”
Il problema è che, nonostante le continue e nette vittorie giudiziarie, le procure non si fermano. L’ultimo sequestro è avvenuto nei giorni scorsi a Forlì, dove sono stati confiscati oltre 250 chili di infiorescenze di cannabis light, per un valore commerciale di circa due milioni di euro.
Nei giorni precedenti la vittima designata era stata la città di Torino, dove però è già arrivata la prima archiviazione, in un processo iniziato a settembre. Il gip ha accolto la richiesta della procura perché “il fatto non sussiste”. E nello spiegare le motivazioni scrive: «Ciò che è emerso è la presenza di THC ma senza indicare una percentuale, per cui, essendo lecita la vendita di cannabis sativa purché con un contenuto di THC inferiore allo 0.6 %, potrebbe operare una causa di esclusione dell’antigiuridicità». Tradotto: la cannabis light, come sostengono associazioni, imprenditori, commercianti, e anche giudici, è legale se il THC è sotto i limiti di legge; è chiaro e logico per tutti, meno che per chi ci governa.
Europa e Italia
Intanto, in Europa, il Parlamento europeo ha approvato l’emendamento proposto dall’eurodeputata Cristina Guarda di AVS che considera la canapa come un prodotto agricolo, legale in ogni sua parte, fiore compreso, con THC fino allo 0,5%. Il prossimo passo sarà la discussione al Consiglio europeo con i vari Stati membri. «L’Europa manda un segnale chiaro: la canapa non è un tabù, ma una risorsa strategica per la transizione ecologica e per la competitività delle nostre campagne», ha sottolineato, chiedendo al governo di «abbandonare l’oscurantismo del decreto sicurezza e riconoscere finalmente dignità e prospettive a un settore che chiede solo regole certe per crescere». Da noi, invece, è arrivato l’ennesimo appello di Confagricoltura che, come le altri grandi associazioni agricole, in questa battaglia si è da subito schierata in favore della pianta a sette punte. L’associazione chiede al ministero dell’Interno «l’adozione urgente di un Atto di Interpretazione Autentica, che confermi in modo inequivocabile la piena liceità delle attività legate alla canapa industriale». Lo scopo? «Garantire agli operatori del settore la sicurezza giuridica necessaria per continuare a lavorare, evitando blocchi produttivi o sanzioni ingiustificate».
Esplosione a Bucarest: almeno tre morti e 13 feriti in un condominio
Una forte esplosione ha squarciato due piani (quinto e sesto) di un condominio di otto piani nel settore 5 di Bucarest, provocando almeno tre morti e 13 feriti, secondo l’Ispettorato per le situazioni di emergenza della capitale rumena. Le autorità hanno evacuato l’edificio e dichiarato che almeno 500 persone non potranno fare rientro nelle loro case. La causa dell’esplosione non è stata chiarita, ma le autorità hanno dichiarato che la fornitura di gas è stata interrotta nella zona come precauzione di sicurezza. Il sindaco ad interim Stelian Bujduveanu ha assicurato che municipio e prefettura stanno coordinando un “piano solido” di assistenza e sicurezza.








