Nella giornata di ieri, il ministro dei Trasporti e leader leghista Matteo Salvini ha presentato davanti al Consiglio dei Ministri il disegno di legge Infrastrutture, che prevede, tra le altre cose, un aumento delle retribuzioni per le aziende che operano nella costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. La norma, nello specifico, fornisce alla società Stretto di Messina la possibilità di aggiornare i vecchi contratti con le aziende del consorzio Eurolink, che aveva vinto l’appalto nel 2010, tenendo tuttavia fissa la soglia di spesa totale a 13,5 miliardi. Gli aumenti previsti potrebbero arrivare fino al 50% in più degli stipendi.
L’obiettivo dichiarato è quello di garantire adeguate condizioni economiche alle imprese coinvolte, favorendo l’attrazione di partner internazionali e riducendo i rischi di blocchi nei cantieri per difficoltà finanziarie. Ciò che appare chiaro è però che il meccanismo di adeguamento dei contratti previsto nel decreto omnibus, pur entro il tetto complessivo di 13,5 miliardi di euro, rischia di trasformarsi in un importante regalo alle grandi imprese edili. La bozza del decreto, composta da 16 articoli, è attualmente in fase di revisione presso la Ragioneria generale dello Stato e dovrà ricevere il via libera definitivo prima di tornare in Consiglio dei Ministri per l’approvazione formale. Proprio ieri, tuttavia, il vertice di governo è stato rinviato, anche a causa dei dubbi sollevati dal Quirinale su alcuni passaggi del decreto, con particolare riguardo a quelli relative al Ponte sullo Stretto. Inoltre, il provvedimento contiene oltre duecento nuove previsioni di legge, e le ragioni di necessità e urgenza – requisito base per entrare in un decreto – non sembrano valere per tutte. Il percorso legislativo prevede ora il passaggio al vaglio del Parlamento e del Senato, con possibili modifiche della commissione Bilancio e Lavori Pubblici. Restano in sospeso i rilievi del Quirinale e la quantificazione definitiva delle coperture finanziarie, ma il governo punta a chiudere l’iter entro la prossima estate, per dare il via ai primi cantieri già entro il 2025.
Solo poche settimane fa, il governo italiano ha inviato un dossier alla Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen in cui il Ponte sullo Stretto viene inquadrato addirittura come una questione di sicurezza continentale. La realizzazione dell’opera è stata infatti definita dall’esecutivo «imperativa e prevalente per l’interesse pubblico» non soltanto per ragioni economiche o di protezione civile, ma anche e soprattutto per motivazioni geopolitiche e militari, fondamentali in caso di scenari di guerra per «il passaggio di truppe e mezzi della NATO». La strategia è infatti quella di inserire il ponte nel Military Mobility Action Plan dell’UE, il piano continentale per facilitare il movimento rapido delle forze armate, contando così sull’etichetta di “opera strategica militare” al fine di ottenere le indispensabili deroghe ambientali. Se la Commissione europea darà l’ok, il Ponte sullo Stretto potrebbe perfino rientrare nel novero delle spese militari utili a far crescere il rapporto spesa-difesa/Pil, come auspicato dall’Alleanza Atlantica. Nella relazione allegata alla richiesta, l’esecutivo ha enucleato le ragioni della scelta: «L’aumentata connettività della Sicilia rispetto al resto del Paese e dell’Europa ha delle chiare implicazioni geopolitiche e, quindi, per la difesa del territorio». Il documento del governo cita anche i recenti scenari internazionali di instabilità, dai Balcani al Medio Oriente, come fattori che rendono ancora più urgente e necessaria la costruzione dell’opera.
Se dovessimo coniare una parola per descrivere la continua rielaborazione degli stessi fatti storici riguardanti conflitti internazionali a fini propagandistici, questa potrebbe avere il nome di “afghanizzazione mediatica”. Quello dell’Afghanistan non è certo l’unico caso di territorio dove si sono combattute guerre spinte da narrative costruite ad arte e supportate da sentimenti popolari appositamente promossi da governi invasori.
Di tutti i luoghi in cui questo fenomeno è avvenuto nella storia contemporanea, però, l’Afghanistan è certamente uno di quelli in cui si è ripetuto con più frequenza. Qui, inoltre, vi è stato il minor interesse nel riprendere in mano gli eventi con maggiore lucidità per riscrivere la storia senza dover seguire la narrazione bellica e pre-bellica dei fatti prodotta dalle potenze che hanno compiuto la guerra in oggetto.
Dentro il regime, ma con i social media
Dopo essere stato in Afghanistan a novembre 2024, questo fenomeno mi è apparso molto chiaramente davanti. L’Afghanistan dei talebani vive, dopo il reinsediamento del movimento di matrice religiosa islamica sunnita al governo de facto del Paese, nel 2021, un tentativo di apertura verso l’esterno. Questa sta tuttavia passando quasi inosservata sui media tradizionali, nonostante sui social media siano sempre più numerosi contenuti che suggeriscono di viaggiare nel Paese, mostrandone le bellezze archeologiche, paesaggistiche e culturali.
Questi video spesso promuovono, direttamente o indirettamente, il turismo in Afghanistan e mostrano come le condizioni di sicurezza siano molto migliorate rispetto agli ultimi vent’anni. Ancor più importante però, mostrano i talebani come un gruppo sì simile a come li si conosce, ma tutto sommato accogliente e innocuo verso gli stranieri. Per capire l’emersione di questo nuovo fenomeno mediatico, molto più in mano alla popolazione comune piuttosto che ai media tradizionali, bisogna capire come si è arrivati fino a questo punto storico e “come sta”, ora, l’Afghanistan.
Da “Freedom fighters” a “pericolo globale”
Un gruppo di combattenti pashtun durante la seconda guerra angloafghana del 1878-1880. I pashtun sono l’etnia alla quale la stragrande maggioranza dei talebani appartiene
L’imprevedibilità della situazione interna dell’Afghanistan è sempre stata una costante nella storia del Paese sin dal periodo delle guerre contro i britannici, iniziato con una storica disfatta di questi ultimi nel 1842 e conclusosi nel 1919 con la firma degli accordi che avrebbero portato alla definizione dell’attuale confine tra Afghanistan e Pakistan.
Da quel quarantennio di giochi tra potenze, principalmente Regno Unito e Impero russo, il Paese ha visto diversi cambi di regime, periodi di stabilità interrotti da colpi di Stato e, più recentemente, una guerra civile caratterizzata da un’anomia politica che ha permesso l’emersione di gruppi come quello talebano.
Fino agli anni ’90, cioè fino a quando l’URSS non si era ancora ritirata dall’Afghanistan e i mujaheddin (da una cui costola nacquero proprio i talebani) erano finanziati in chiave anti-sovietica da USA, Arabia Saudita e Cina, gli uomini barbuti che venivano dalle montagne erano una risorsa. Come diceva l’ex presidente degli Stati Uniti d’America Jimmy Carter in un suo famoso discorso alla nazione trasmesso sulle TV statunitensi, l’invasione sovietica dell’Afghanistan era «un intenzionale sforzo di un potente governo ateo di soggiogare un popolo musulmano indipendente».
Il movimento raggiunse il suo apice dapprima nel 1996, prendendo controllo di gran parte del Paese presto sbaragliato dall’invasione statunitense del 2001. A partire dagli anni immediatamente precedenti l’invasione, i talebani vennero dipinti nei media nostrani (e di tutto l’Occidente) come un movimento altamente ostile e pericoloso per l’intera umanità. Dai divieti per le donne alla conversione dei cinema in moschee, i talebani, amici di al-Qaeda, erano uno dei nuovi mali assoluti sul piano internazionale.
Nel 2020 le carte in tavola cambiano ancora. Dopo gli accordi di Doha, firmati tra Stati Uniti e governo talebano (riconosciuto de facto da numerosi Paesi nel mondo, ma non ufficialmente a livello internazionale), l’immagine e l’atteggiamento dei talebani sono iniziate a cambiare lentamente.
Il “Nuovo” Emirato Islamico, amici (e nemici) come prima
Firma degli accordi a Doha da parte del rappresentante degli Stati Uniti d’America, Zalmay Khalilzad, e Abdul Ghani Baradar, vice primo ministro dell’Emirato Islamico di Afghanistan dal 2021 (Foto del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America)
Non è da poco il fatto che gli Stati Uniti abbiano siglato degli accordi con il governo talebano nel 2020, dotandolo di fatto di un’implicita autorità sul territorio afghano. E non è da poco neanche che degli accordi di Doha sia stata pubblicata solo una parte, mantenendone secretata un’altra – la cui esistenza è tuttavia stata annunciata sin da subito. Una mossa che potrebbe servire in futuro, in particolare agli Stati Uniti, per ricorrere al ricatto in caso le promesse dei talebani esplicitate nella parte segreta non venissero mantenute, oppure per legittimare un’azione strategica che, in un determinato momento storico, sarebbe invece inaccettabile per l’opinione pubblica sulla base della sola parte pubblica degli accordi.
Mentre i rapporti con Washington e l’Occidente rimangono ufficialmente freddi, la Turchia finanzia la costruzione di moschee nel Paese, come suo solito nella sua area di interesse strategico, usando l’Islam come legame culturale e identitario per esercitare il proprio soft power, laddove la carta dell’etnicità turca non sia utilizzabile. Gli Emirati Arabi Uniti intrattengono rapporti formali con i talebani, ospitando un loro ufficio consolare a Dubai che, curiosamente, espone ancora la bandiera della ormai decaduta Repubblica Islamica. Proprio a Dubai ha poi sede la Alokozay, azienda produttrice di tè, acqua in bottiglia e altri prodotti alimentari molto conosciuta in Asia occidentale.
Fondata da un imprenditore afghano, questa prende il nome di una tribù pashtun, la quale mantiene presumibilmente ancora contatti con il governo talebano, essendo di gran lunga il principale fornitore di acqua in bottiglia del Paese.
I rapporti con altri Paesi a maggioranza musulmana sono sempre più sviluppati: per questo, in Afghanistan, i musulmani sono i benvenuti ovunque, potendo contare anche su ingressi gratis nelle moschee e in alcuni luoghi turistici. I non musulmani, in quanto turisti, sono comunque trattati mediamente con accoglienza, data comunque la risorsa economica e di soft power sottesa al turismo internazionale.
I turisti devono tuttavia sottostare a regole precise, anche se queste vengono sempre meno applicate. Tra le più importanti, vi è il divieto assoluto di fotografare e riprendere donne, dovuto a una volontà di preservarne (dal punto di vista talebano) la dignità. La decisione si muove soprattutto verso una progressiva totale proibizione della diffusione di immagini di volti di esseri viventi, in accordo con la loro interpretazione dell’Islam sull’idolatria. I volti umani, e anche quelli animali, sono stati per questo censurati su molti cartelloni pubblicitari e vetrine delle città.
Alcune di queste misure seguirebbero, secondo alcuni osservatori esterni, la corrente di pensiero di stampo wahhabita propria del pensiero politico arabo-saudita. Pure i sauditi, seppur in maniera forse più coerente dei talebani, avrebbero infatti realizzato una delle più grandi campagne di “marketing strategico” sul piano internazionale degli ultimi decenni, producendo risultati formidabili nella loro legittimazione (o quantomeno tolleranza) da parte di popolazioni come quella occidentale. I talebani, incentivando l’ingresso di visitatori e capitali nel Paese, potrebbero star tentando la stessa strada, partendo tuttavia da una posizione molto più svantaggiata in termini di risorse, capacità e, soprattutto, di reputazione internazionale (tra le peggiori al mondo).
L’immagine dei talebani sembra essere il più grande nodo della questione, difficile da sciogliere per la stessa élite talebana, la quale in parte ancora spinge per il mantenimento del vestiario militare e degli AK-47 sempre a tracolla, simbolo dell’onore e della valorosità del combattente tipico della cultura pashtun. Dal modo in cui i talebani si sono presentati a Doha nel 2020 e in vari recenti incontri internazionali (come ad esempio all’ultima COP), sembra tuttavia che stiano cercando di adottare una corrente più “formale” e “diplomatica” anche sul piano estetico, neutralizzando gli elementi fisici che rendono i talebani tanto riconoscibili, ma anche ostili, all’occhio di un osservatore esterno – in particolare occidentale.
Non tutti sono “così talebani”
Il volto di un bambino cancellato da un cartellone pubblicitario in uno dei quartieri più ricchi di Kabul (Foto di Giacomo Casandrini)
L’opinione interna afghana, intanto, prende delle pieghe interessanti. Se nei primissimi tempi del nuovo governo i talebani erano visti da moltissimi afghani con assoluto terrore, a causa anche della violenza e della disorganizzazione con cui presero il potere ad agosto 2021, oggi la popolazione comincia a rendersi conto che il Paese potrebbe, dopo quasi 50 anni di squilibri, tendere verso la stabilità. L’accettazione dei talebani da parte del popolo non avviene però senza compromessi: oggi, quella in atto è più che altro una sopportazione da parte delle minoranze non pashtun e non direttamente connesse alla struttura del potere pashtun. La diffidenza tra queste e governo rimane alta, ma se la situazione si mantenesse pacifica e le restrizioni venissero sempre più ridotte, anche per molti afghani rimasti nel Paese i talebani potrebbero un giorno diventare un governo legittimo e autorevole. In merito a tematiche quali l’educazione delle donne, tuttavia, non sembrano esserci miglioramenti in vista. E non ve ne saranno almeno fino a quando tali cambiamenti non diverranno convenienti sul piano strategico.
L’Afghanistan è ancora in guerra?
Il Band-e Amir canyon, una delle aree naturali più suggestive del Paese (Foto di Giacomo Casandrini)
Nel frattempo, l’Occidente rimane ancora largamente fisso sulle immagini del passato. Non tanto da un punto di vista morale e culturale, quanto da quello degli sviluppi economici e geopolitici in atto nella regione. I talebani continuano a usufruire degli aeroporti delle principali città del Paese, costruiti inizialmente a scopi militari con il finanziamento anche di alcuni Stati europei (tra cui l’Italia, con un prestito di 137 milioni di euro dai termini mai chiariti) e oggi usati per voli commerciali interni e verso l’estero. Molti verso Dubai, ma anche verso Paesi che intrattengono rapporti con l’Emirato, come Pakistan e Turchia.
In questo quadro di drammatica obsolescenza della nostra informazione, trovano spazio video di creatori di contenuti che mostrano immagini di un Afghanistan “come non te lo aspettavi”, ricco di tradizioni e bellezze. In questo contesto, i talebani sono rappresentati tanto “umani come noi” quanto nella forma di goffi sempliciotti che, armati di AK-47, danno vita a situazioni tragicomiche degne di diventare virali sui social.
Di fronte a questo grottesco scenario mediatico, bisogna tornare urgentemente a reinterpretare e conoscere l’Afghanistan e la sua storia, avendo quindi a che fare anche con coloro che, piaccia o meno, lo stanno governando in maniera incontrastata da alcuni anni a questa parte.
Un grave incendio in un magazzino chimico nella zona industriale “La Red”, vicino a Siviglia, ha costretto circa 80mila abitanti di Alcalá de Guadaíra a restare in casa con porte e finestre chiuse per precauzione. L’allarme è scattato dopo che una nube nera si è sollevata dallo stabilimento. Secondo le prime indagini, il rogo è stato innescato da una scintilla in un serbatoio contenente una sostanza pericolosa. Le autorità hanno contenuto le fiamme, ma il rischio sanitario ha reso necessaria un’immediata risposta d’emergenza. Due persone sono rimaste leggermente ferite: un operaio con ustioni e un altro individuo per inalazione di fumo.
Verra, l’organismo leader nella certificazione dei crediti di carbonio a livello globale, ha sospeso per la seconda volta il Northern Kenya Rangeland Carbon Project, un'iniziativa avviata nel 2013 che mira a generare crediti attraverso il pascolo pianificato e il conseguente stoccaggio di carbonio nei suoli. Il progetto, considerato il più esteso al mondo nel suo genere, è da anni al centro di critiche per il suo potenziale impatto sui pastori indigeni. La sospensione è arrivata dopo che, nel gennaio 2025, l’Alta Corte del Kenya ha dichiarato incostituzionali due delle principali aree di conse...
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Il governo centrale della Libia ha annunciato un cessate il fuoco per frenare gli scontri che da due giorni stanno interessando la capitale Tripoli. Gli scontri sono iniziati dopo l’uccisione di Abdel Ghani Al Kikli, capo dello Stability Support Apparatus, un’importante milizia armata del Paese affiliata al governo. Dopo un primo momento di calma registratosi martedì mattina, i combattimenti sono ripresi nella notte tra ieri e oggi con ampi scontri che hanno interessato tutti i quartieri della città. Gli scontri più duri si sono verificati tra la Brigata 444, allineata al premier Dbeibah, e la Forza di Deterrenza Speciale, la maggiore fazione armata di Tripoli schierata contro il governo centrale.
È iniziato ieri il viaggio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel Golfo Persico con un annuncio a sorpresa: il capo della Casa Bianca ha reso noto che saranno revocate tutte le sanzioni USA di lunga data alla Siria, intervenendo a un forum sugli investimenti a Riad, in Arabia Saudita, dove si è svolta la prima tappa del tour in Medio Oriente del tycoon. Si tratta di un cambiamento importante nella politica estera di Washington che ha dichiarato la Siria uno Stato sponsor del terrorismo nel 1979, introducendo sanzioni nei suoi confronti fin dal 2004 e inasprendole successivamente con lo scoppio della guerra per procura nel 2011. Parallelamente a questo importante annuncio, gli Stati Uniti hanno accettato di vendere all’Arabia Saudita un pacchetto di armi del valore di quasi 142 miliardi di dollari, mentre Riad si è impegnata a investire 600 miliardi negli Stati Uniti. La Casa Bianca ha definito l’accordo sulla vendita di armi il più grande “accordo di cooperazione in materia di difesa” mai stipulato da Washington. Allo stesso tempo, Trump non ha programmato una visita in Israele, scavalcando Tel Aviv nel suo viaggio in Medio Oriente: «Il messaggio alla regione è stato chiaro: Israele non è più una priorità assoluta per gli Stati Uniti”, ha scritto Itamar Eichner, corrispondente diplomatico dell’agenzia di stampa israeliana ynet».
Per quanto riguarda la sospensione delle sanzioni alla Siria, il Ministro degli Esteri siriano Asaad al-Shibani ha dichiarato su X che l’iniziativa segna un «nuovo inizio» nel percorso di ricostruzione della Siria, mentre oggi Trump ha incontrato il presidente siriano Ahmed al-Sharaa in Arabia Saudita, alla presenza del principe ereditario Mohammed bin Salman. Trump ha invitato Sharaa a normalizzare i rapporti con Israele, unendosi così agli Emirati Arabi Uniti, al Bahrein e al Marocco che hanno avviato relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico nel 2020 sulla base degli Accordi di Abramo mediati dagli Stati Uniti. Sebbene la potenza a stelle e strisce speri che anche Riad normalizzi i suoi rapporti con Israele, Trump ha affermato ieri che questo accadrà a suo tempo, in base alle tempistiche stabilite da Riad. Gli accordi stipulati con il principe ereditario saudita, dunque, non sono subordinati al ripristino delle relazioni diplomatiche con Tel Aviv (come aveva cercato di fare l’ex presidente Joe Biden) e il Regno saudita insiste sul fatto che non può esserci normalizzazione senza il riconoscimento di uno Stato palestinese. Similmente, secondo un rapporto dell’agenzia di stampa Reuters, gli Stati Uniti non subordineranno più il loro consenso al programma nucleare saudita alla normalizzazione delle relazioni tra Riad e Tel Aviv. Ciò significa che Israele è stato di fatto estromesso dalla politica intrapresa da Trump in Medio Oriente. Come riporta un’analisi di Haaretz, infatti, “L’accordo con gli Houthi, l’avvicinamento al regime siriano e il rafforzamento dei legami con la Turchia sono tutti elementi che delineano una nuova mappa geopolitica che Trump sta cercando di tracciare, in cui Israele è sempre più solo uno spettatore. […] Questa mappa non riserva un ruolo di primo piano a Israele, e Trump ha anche segnalato che Israele potrebbe essere escluso del tutto se interferisse con i suoi piani”.
Nello specifico, gli accordi con il regno dei Saud, che secondo la Casa Bianca rappresentano “una nuova era d’oro per la partnership tra Stati Uniti e Arabia Saudita”, comprendono svariati settori, tra cui energia, difesa, infrastrutture, sanità, tecnologia e risorse minerarie. Il partenariato tra i due Paesi include una dozzina di aziende di difesa statunitensi in settori quali la difesa aerea e missilistica, l’aeronautica e lo spazio, la sicurezza marittima e le comunicazioni. Sul piano della difesa, il pacchetto che Washington fornirà a Riad “comprende anche un’ampia formazione e supporto per rafforzare la capacità delle forze armate saudite, tra cui il potenziamento delle accademie militari e dei servizi medici militari”. Secondo la Casa Bianca, gli accordi “rafforzano la nostra sicurezza energetica, l’industria della difesa, la leadership tecnologica e l’accesso alle infrastrutture globali e ai minerali essenziali”.
Anche l’incontro con il capo siriano Sharaa è avvenuto senza l’“approvazione di Israele”: come riferisce la Reuters, Israele si è opposto alla sospensione delle sanzioni e negli ultimi mesi ha intensificato gli attacchi in territorio siriano affermando di non tollerare una presenza islamista nella Siria meridionale. L’Arabia Saudita, invece, ha dichiarato di sostenere la ripresa economica di Damasco e l’allentamento delle sanzioni, che creeranno le condizioni per investire nel Paese.
Dopo aver rovesciato il regime di Assad, Sharaa, per anni capo dell’ala ufficiale di al-Qaeda nel conflitto siriano, si è allineato alle direttive economiche occidentali, sostenendo un grande piano di privatizzazioni in Siria. Del resto, dopo aver condannato per anni il jihadismo e avere inserito i suoi leader nella lista del terrorismo – compreso lo stesso Sharaa – gli USA e i Paesi europei hanno salutato il nuovo governo siriano come “governo di liberazione”, revocando alcune prime sanzioni che da decenni affliggevano il martoriato Stato mediorientale. La rimozione totale delle sanzioni ora dovrebbe incoraggiare un maggiore impegno da parte delle organizzazioni umanitarie e facilitare gli investimenti e il commercio estero, reintegrando allo stesso tempo una Siria più confacente agli interessi occidentali nel contesto diplomatico-politico internazionale.
La campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale (Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel, PACBI) ha preso vita nel 2004 come uno dei primi passi per la creazione del movimento internazionale a guida palestinese per Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni a Israele (BDS). Da allora il movimento esercita una pressione costante per contrastare le gravi violazioni dei diritti umani commesse da Israele nei territori palestinesi occupati, a Gaza e altrove. A questo scopo il boicottaggio culturale e accademico si è rilevato e continua a essere uno strumento efficace di lotta non violenta. Il boicottaggio culturale e accademico non colpisce singoli individui ma quegli eventi che ricevono finanziamenti o sponsorizzazioni dalle istituzioni governative israeliane. Per questa ragione, il Movimento BDS respinge le accuse di censura e ha invece come obiettivo il contrasto alle strategie di “normalizzazione” di Israele volte a migliorare la propria immagine internazionale e a presentarla come normale e accettabile.
Le istituzioni culturali israeliane, comprese le compagnie teatrali, i progetti di sviluppo cinematografico e televisivo, i gruppi musicali e i festival, appoggiano infatti in larga misura l’operato delle forze armate e dei governi israeliani (non solo quello attuale). Nonostante gli sforzi di una manciata di artisti, scrittori e registi che si oppongono, tali istituzioni sono spesso direttamente implicate con l’operato dei governi israeliani che occupano illegalmente i territori palestinesi, segregando la popolazione e relegandola in una condizione di apartheid e di incertezza dal punto di vista della sicurezza, della prosperità e del diritto all’autodeterminazione. L’appello al boicottaggio culturale, come risposta al fallimento di decenni di negoziati e interventi diplomatici, afferma la necessità di una strategia di resistenza concreta. Esso si basa sul quadro di riferimento sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite, che promuove i diritti inalienabili dei palestinesi, inclusi il riconoscimento della loro libertà e il diritto al ritorno.
Il boicottaggio, come strumento legale e politico, si ispira a precedenti storici di resistenza globale, come quello contro l’apartheid in Sudafrica. Allora, il boicottaggio culturale e accademico contribuì a isolare il regime razzista sudafricano e a portare l’attenzione internazionale sulle sue ingiustizie, costringendo i politici a fare pressioni per un cambiamento radicale del regime. In effetti, l’arte e la cultura non possono essere disgiunte dalla politica, soprattutto quando vengono utilizzate per normalizzare e rendere più accettabile l’agire di regimi occupanti, oppressivi e colpevoli di gravi crimini di guerra e contro l’umanità. Se, in passato, alcuni hanno messo in dubbio l’efficacia del boicottaggio culturale sostenendo che «l’arte non è politica», la realtà degli eventi recenti sta dimostrando il contrario. Il massacro in corso e la situazione a Gaza (che la Corte Internazionale di Giustizia ha definito come “plausibile genocidio”) hanno cambiato il panorama internazionale, con un crescente numero di artisti e intellettuali che usano la loro visibilità per denunciare le atrocità israeliane. La violenza di Israele, che ha causato oltre 50.000 morti (almeno il triplo secondo il giornale medico The Lancet) tra i palestinesi, è ora riconosciuta dalla Corte Penale Internazionale, che ha emesso un mandato di arresto contro il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, per crimini di guerra.
L’atteggiamento di condanna che ha colpito la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, mirando a isolarla a livello culturale e sportivo oltreché politico, non è stato applicato nei confronti di Israele. Questo doppio standard evidenzia la complicità silenziosa di molti Stati occidentali con l’occupazione israeliana. In risposta, centinaia di artisti, anche in Italia, hanno aderito alla piattaforma “Artist for Palestine” lanciata dal movimento BDS il 3 aprile 2024, impegnandosi a non partecipare a eventi in Israele, a non accettare finanziamenti da istituzioni legate al governo israeliano e a non ospitare o promuovere chi lo fa. Inoltre, la Biennale di Venezia ha visto un forte movimento di boicottaggio, con oltre 8000 professionisti dell’arte che hanno chiesto e ottenuto il ritiro del padiglione israeliano dall’edizione del 2024. Questa iniziativa si ispira all’esclusione del Sudafrica dalla Biennale durante l’apartheid, a testimonianza del potere del boicottaggio culturale nel costringere la comunità internazionale ad affrontare la responsabilità di Israele nelle violazioni dei diritti umani.
Boicottare l’Eurovision
Proteste a Malmö, Svezia, durante l’ultimo Eurovision del 2024
Dal 13 al 17 maggio a Basilea si svolgerà la 69° edizione dell’Eurovision Song Contest, concorso musicale internazionale che si svolge ogni anno e mette in competizione i migliori cantanti europei, per il quale si sono già mosse azioni di pressione per escludere Israele dalla competizione. In Finlandia, oltre 10.000 persone hanno chiesto al canale Yle di esercitare pressione sull’organizzatore dell’evento, la European Broadcasting Union (EBU), per rimuovere Israele dalla gara. Come in Finlandia, Islanda, e in tanti altri Paesi in tutta Europa, fan, musicisti e anche ex partecipanti di Eurovision si organizzano per lanciare petizioni e firmare appelli che escludano Israele dal Song Contest, in coerenza con le linee guida stabilite dalla stessa EBU.
A questo fine l’anno scorso un folto gruppo di membri del Parlamento Europeo, di provenienza geografica e politica diversa, ha elaborato un documento di vibrante protesta che richiede a EBU l’esclusione di Kan, emittente israeliana partner di Eurovision. Quest’anno lo stesso documento sarà rielaborato e rinnovato, e vedrà aggiungersi la firma di tanti altri membri del Parlamento Europeo. Tutti questi sforzi costituiscono un altro esempio di come il boicottaggio culturale possa avere un impatto diretto sulle pratiche e le politiche internazionali.
Contrariamente a quanto sostenuto da chi ne denigra l’efficacia, il boicottaggio culturale si è dimostrato uno strumento fondamentale per fermare la normalizzazione dei crimini di Israele contro il popolo palestinese. È un mezzo di pressione che può costringere Israele a rispondere alle richieste della comunità internazionale e a rispettare i diritti inalienabili dei palestinesi. L’efficacia di questo boicottaggio, alimentato dalla crescente solidarietà globale, si sta dimostrando sempre più potente nel cambiare le dinamiche internazionali e nel contrastare la manipolazione mediatica che giustifica l’oppressione israeliana contro il popolo palestinese.
L’India ha bloccato gli account di due agenzia di stampa cinesi e di un’emittente turca sul social network X (ex Twitter). Di preciso, i canali bloccati sono quelli dell’agenzia di stampa statale cinese Xinhua, del giornale in lingua inglese del Partito Comunista Cinese Global Times e dell’emittente pubblica turca TRT World. L’India accusa i canali di informazione di avere diffuso notizie false nella copertura degli scontri con il Pakistan e di essersi schierati dalla parte del Pakistan.
La Commissione europea ha sbagliato a rifiutare la pubblicazione dei messaggi di testo tra Ursula von der Leyen e il CEO di Pfizer, Albert Bourla, nel pieno della pandemia di Covid-19. È quanto ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, accogliendo il ricorso della giornalista del New York Times, Matina Stevis-Gridneff, che chiedeva accesso agli SMS scambiati tra von der Leyen e Bourla tra il 1° gennaio 2021 e l’11 maggio 2022. La Corte UE ha così annullato la decisione della Commissione di negare l’accesso ai messaggi di testo. L’istituzione aveva respinto la richiesta affermando di non essere in possesso dei documenti richiesti. L’intento della giornalista del New York Timesera quello di indagare sulle accuse di scarsa trasparenza nelle trattative per l’accordo multimiliardario sui vaccini stipulato tra Pfizer e l’UE.
Bruxelles dovrà ora chiarire perché quei messaggi non siano stati conservati, dove siano finiti e se effettivamente non contengano informazioni rilevanti per l’interesse pubblico. Il contenuto di tali scambi non è mai stato reso pubblico, ma è stato descritto come il “cuore pulsante” delle trattative che portarono alla firma dell’accordo per la fornitura di 1,8 miliardi di dosi di vaccino fino al 2023, per un valore totale di 35 miliardi di euro.
L’indagine era stata inizialmente avviata dalla magistratura belga all’inizio del 2023, a seguito di una denuncia presentata dal lobbista locale Frédéric Baldan, alla quale si erano successivamente uniti i governi ungherese e polacco. Parallelamente, anche il New York Times ha intrapreso un’azione legale contro la Commissione, dopo che questa si era rifiutata di rivelare il contenuto degli SMS, sostenendo di non averne conservato traccia e, addirittura, di non poterne confermare l’esistenza.
Il verdetto della Corte è ora chiaro: la Commissione ha fallito nel tentativo di giustificare la mancata conservazione e divulgazione di documenti fondamentali per comprendere come sia stato negoziato il più colossale accordo vaccinale nella storia europea. La Commissione si è fin da subito rifiutata di rendere pubblici questi messaggi, sostenendo che non costituissero documenti ufficiali e che, pertanto, non rientrassero negli obblighi di pubblicazione previsti dalle norme europee sulla trasparenza. Una tesi respinta con fermezza dalla Corte: se un messaggio di testo contiene informazioni rilevanti per un processo decisionale pubblico, allora è un documento, indipendentemente dal mezzo con cui è trasmesso.
La sentenza specifica che «la Commissione non ha neppure spiegato in modo plausibile perché ha ritenuto che i messaggi di testo scambiati nell’ambito dell’acquisto di vaccini contro il Covid-19 non contenessero informazioni sostanziali o che richiedessero un monitoraggio tale da rendere necessaria la loro conservazione».
Nel suo dispositivo, il Tribunale ha sottolineato come la Commissione non abbia fornito spiegazioni “plausibili” per giustificare l’assenza di tali documenti nei propri archivi. Anzi, la Corte ha rimproverato l’istituzione per non aver nemmeno cercato seriamente i messaggi, limitandosi ad affermare di non possederli. Una difesa ritenuta non credibile né sufficiente, persino “contraddittoria”: «La Commissione non può semplicemente affermare di non possedere i documenti richiesti, ma deve fornire spiegazioni credibili che consentano al pubblico e al Tribunale di comprendere perché tali documenti non possano essere trovati», si legge nella sentenza. E anche qualora il loro reperimento fosse stato effettivamente impossibile, «la Commissione non ha sufficientemente chiarito se i messaggi di testo richiesti fossero stati eliminati e, in tal caso, se l’eliminazione fosse stata effettuata volontariamente o automaticamente, o se il telefono cellulare della presidente fosse nel frattempo stato sostituito».
Immediata la risposta della Commissione, che in una nota ha assicurato che «esaminerà attentamente la decisione del Tribunale e deciderà i passi successivi. A tal fine, adotterà una nuova decisione» con «una spiegazione più dettagliata».
Una condanna non solo giuridica, ma anche politica, che mina la credibilità di Ursula von der Leyen, il cui modus operandi, improntato all’opacità, è ormai noto. Durante il suo mandato come ministra della Difesa in Germania, fu coinvolta in uno scandalo legato all’assegnazione sospetta di consulenze milionarie, senza adeguate gare pubbliche, e ora tale stile sta emergendo anche negli ultimi mesi in una fase politica delicata per l’Eurozona. Von der Leyen si muove con crescente autonomia e disinvoltura su dossier strategici che spaziano dalla politica industriale alla difesa.
L’immagine che emerge è quella di una leader che agisce dietro le quinte, bypassando i canali istituzionali per rafforzare il proprio potere decisionale. Tuttavia, nel caso “Pfizergate”, la posta in gioco è molto più alta: si tratta di miliardi di euro di denaro pubblico, della salute di centinaia di milioni di cittadini e, soprattutto, della fiducia nei meccanismi democratici europei. Una sentenza che, in ogni caso, rimarrà senza conseguenze concrete: i messaggi tra la leader della Commissione UE e l’amministratore delegato della multinazionale farmaceutica verosimilmente non verranno mai recuperati e quindi i cittadini europei non ne conosceranno mai il contenuto, mentre von der Leyen, nel frattempo rieletta a capo della Commissione, rimarrà al suo posto.
In ogni caso, dal punto di vista politico e generale, la sentenza rimette al centro il nodo irrisolto del rapporto tra discrezionalità politica e trasparenza democratica. Questa sentenza rappresenta un monito per tutte le istituzioni europee e apre un dibattito cruciale sul loro ruolo, sulla loro trasparenza e sul diritto dei cittadini a conoscere i processi decisionali: se i decisori politici trattano in segreto questioni di interesse pubblico, chi li controllerà?
Il presidente della Bolivia Luis Arce ha ritirato la propria candidatura per le elezioni presidenziali previste per il prossimo 17 agosto, chiedendo al rivale Evo Morales di fare lo stesso. Nel suo appello, Arce sostiene che la sinistra del Paese deve fare fronte comune e superare le divisioni per contrastare l’ascesa della destra: «Il nemico principale è l’imperialismo, è la destra fascista che applaude la nostra divisione». Da ormai oltre un anno, è in corso un duro confronto tra Arce e l’ex presidente Morales, che ha portato anche a scontri tra i sostenitori dei due candidati.
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