Sono almeno 18 le persone uccise dall’alba negli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza. 13 palestinesi erano in fila per gli aiuti, quando l’IDF ha aperto il fuoco sulla folla, come riportato da Al Jazeera. A causa dei blocchi israeliani all’ingresso degli aiuti umanitari, nella Striscia si continua a morire di fame: 7 vittime soltanto nelle ultime 24 ore. Il bilancio totale di decessi correlati alla malnutrizione arriva a 339, tra cui 124 bambini. Nel frattempo si intensifica l’assedio alla periferia di Gaza City, dove vivono oltre un milione di palestinesi.
Cina, al via vertice su cooperazione in Asia: attesi Modi e Putin
Al via oggi a Tianjin, in Cina, il 25esimo vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), nata nel 2001 con l’obiettivo di promuovere sicurezza e cooperazione nella regione eurasiatica. Parteciperanno, tra gli altri, il presidente cinese Xi Jinping, il presidente russo Putin e il premier indiano Narendra Modi, che sarà in Cina 7 anni dopo l’ultima volta. I due Paesi «sono partner di cooperazione, non rivali, e rappresentano reciprocamente opportunità di sviluppo, piuttosto che minacce», ha detto Xi Jinping. Il tentativo di rilancio delle relazioni diplomatiche avviene in un contesto di crescenti tensioni globali e rapporti tesi con gli Stati Uniti.
Gli USA schierano navi da guerra ed esercito al largo del Venezuela
Negli ultimi giorni, le acque caraibiche sono diventate teatro di una nuova prova di forza tra Stati Uniti e Venezuela che richiama dinamiche da guerra fredda e strategie di pressione che sembravano appartenere al passato. Washington ha schierato un imponente dispositivo militare composto da cacciatorpediniere, navi anfibie, due sottomarini nucleari, elicotteri, aerei da ricognizione e oltre ottomila uomini. L’operazione è stata presentata come parte della lotta al narcotraffico, con l’obiettivo di bloccare le rotte della cocaina e del fentanyl verso il Nordamerica. Resta da capire se la manovra americana sia solo un atto dimostrativo o il preludio a una nuova e più ampia escalation contro il Paese. Questa scelta ha alimentato il timore di un nuovo possibile golpe (dopo il tentativo fallito nel 2020, appoggiato dalla prima amministrazione Trump). Così, Caracas ha risposto convocando un vertice straordinario dell’ALBA, l’alleanza regionale di sinistra, con i leader di Paesi come Cuba, Nicaragua e Bolivia, e schierando esercitazioni militari spettacolari, con la mobilitazione di migliaia di uomini.
Un’esibizione di forza orchestrata dal presidente Nicolás Maduro, assistita con entusiasmo da alti vertici militari e politici, in risposta a quella che è stata definita una «aggressione imperialista». «Se un giorno toccheranno il Venezuela, tutta l’America si solleverà per noi, per il popolo di Bolívar», ha dichiarato Maduro. Le immagini trasmesse dalla televisione di Stato mostrano parate, esplosioni simulate e droni in volo. È uno spettacolo coreografico che ha soprattutto una funzione psicologica: cementare l’idea di un Paese assediato ma compatto e trasformare l’aggressione esterna in collante nazionale. In realtà, il numero di miliziani dichiarato appare improbabile in un Paese svuotato da anni di emigrazione e segnato da una profonda crisi demografica ed economica. Il Venezuela non dispone della forza militare per un vero confronto con Washington. La mossa di Maduro sembrerebbe dunque soprattutto simbolica: la costruzione di un immaginario eroico di resistenza antimperialista per mostrarsi forte davanti al popolo e a rispondere con la retorica patriottica a un nemico che gode di una schiacciante superiorità militare.
L’amministrazione Trump (che solamente poche settimane fa ha aumentato la taglia sulla testa di Maduro a 50 milioni di dollari) ha ordinato il dispiegamento di otto navi da guerra nelle acque caraibiche e del Pacifico, supportate da sottomarini d’attacco nucleari e aerei Poseidon per la sorveglianza. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha dato il via all’operazione inviando il Gruppo Anfibio di Dispiegamento Immediato Iwo Jima (Iwo Jima Amphibious Ready Group) della Marina statunitense, composto dalla nave d’assalto anfibio USS Iwo Jima, dalla nave da trasporto anfibio USS San Antonio e dalla nave da sbarco USS Fort Lauderdale. A bordo dei cacciatorpediniere, dotati di missili Tomahawk e sistemi di combattimento Aegis, si trovano anche reparti della Guardia Costiera incaricati di arresti legati al traffico di droga. L’entità di questa mobilitazione è anomala. Per contrastare il narcotraffico, in passato Washington ha utilizzato pattugliamenti della Guardia Costiera o missioni mirate. Oggi, invece, mette in campo risorse paragonabili a quelle di una campagna militare. È evidente che la finalità non si esaurisce nella lotta al crimine organizzato: la pressione è diretta contro Maduro e il suo governo, accusati di essere alla guida del cosiddetto Cártel de los Soles e di utilizzare il Paese come hub per i traffici illeciti. La domanda cruciale è se l’attuale mobilitazione preluda a un intervento militare o se si tratti solo di una dimostrazione di forza. La storia americana conosce precedenti di invasioni “mirate”, come quella di Panama del 1989, condotte con la giustificazione della lotta al narcotraffico e culminate in un cambio di regime.
Entrambe le parti hanno interessi politici interni. Trump utilizza la crisi venezuelana per rafforzare la propria immagine di leader deciso e intransigente, capace di difendere i confini americani dal traffico di droga e di riaffermare la supremazia militare statunitense. Maduro, dal canto suo, sfrutta la minaccia esterna per consolidare il proprio potere, delegittimato da accuse di brogli elettorali e indebolito dal collasso economico. La posta in gioco è duplice: da un lato la stabilità del regime chavista, dall’altro la capacità degli Stati Uniti di riaffermarsi come potenza egemone nel proprio emisfero. Tuttavia, oggi il contesto internazionale è più complesso. Il Venezuela non è isolato: mantiene rapporti con Russia, Cina e Iran, potenze pronte a sostenere Caracas almeno a livello diplomatico. Un’eventuale invasione potrebbe aprire scenari imprevisti e destabilizzare l’intera regione. D’altra parte, gli Stati Uniti devono misurarsi con priorità strategiche globali, dall’Indo-Pacifico al Medio Oriente, che rendono rischioso aprire un nuovo fronte. L’attuale dispiegamento potrebbe, quindi, rivelarsi una manovra intimidatoria, destinata a mettere Maduro sotto pressione senza arrivare a un vero conflitto. Nel mezzo, il popolo venezuelano continua a vivere una crisi economica e sociale senza precedenti, mentre l’intera regione rischia di essere travolta da una nuova escalation. Ciò che appare evidente è che, ancora una volta, l’America Latina diventa il palcoscenico di un conflitto che non è solo locale, ma globale: una nuova “diplomazia delle cannoniere” che segna il ritorno della forza militare come linguaggio privilegiato nelle relazioni internazionali.
Caro affitti, CNA: “Assorbono il 44% del salario degli operai”
In Italia il peso dell’affitto sul reddito degli operai continua a farsi sentire: assorbe in media il 43,7% della retribuzione netta, ma a Milano sfiora il 65% e in città come Firenze, Roma e Bologna supera il 50%. È quanto emerge da un’analisi dell’Area studi e ricerche di Cna (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa) su dati dell’Agenzia delle Entrate, che indica come solo a Torino (37,8%) e Napoli (34,4%) l’incidenza sia inferiore alla media nazionale. Si tratta di una situazione che inciderebbe anche sulle assunzioni: a Bolzano i lavoratori occupabili sono appena il 7,4% delle richieste e in un terzo delle province il mercato del lavoro appare saturo.
Due specie, un solo luogo: le tracce fossili della convivenza inattesa tra due nostri antenati
Nella regione di Afar, in Etiopia, alcuni denti antichi fossilizzati scoperti raccontano una storia sorprendente: circa 2,6-2,8 milioni di anni fa, Australopithecus e i primi esemplari del genere Homo avrebbero condiviso lo stesso ambiente. Lo rivela un nuovo studio condotto da un team internazionale, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Nature. Utilizzando metodi di datazione geologica avanzati, gli autori hanno confermato la convivenza e hanno inoltre scoperto che alcuni denti presentano caratteristiche mai viste prima, il che farebbe pensare ad una nuova specie finora conosciuta. «Qui abbiamo due specie di ominini che vivono insieme. L’evoluzione umana non è lineare: è un albero cespuglioso», ha spiegato la paleoecologa e coautrice Kaye Reed, aggiungendo che la convivenza tra due generi così vicini ma distinti mette in discussione l’idea tradizionale di un percorso evolutivo diretto e progressivo verso l’uomo moderno.

Tra 3 e 2 milioni di anni fa, spiegano gli esperti, Australopithecus afarensis – la specie della nota Lucy, scoperta nel 1974 – scompare dalla documentazione fossile e compaiono Homo e Paranthropus. Per lungo tempo, quindi, si è pensato che la transizione fosse lineare: un’unica popolazione che evolveva in forme sempre più “avanzate”. In realtà, invece, i nuovi ritrovamenti mostrerebbero una realtà più complessa, fatta di coesistenza e diversità. I ricercatori hanno ricostruito lo scenario grazie ad un metodo di datazione geologica molto preciso, basato sul fatto che la regione di Afar è parte di un sistema di rift ancora attivo – cioè una zona della crosta terrestre che si sta aprendo per effetto dei movimenti tettonici – ed è segnata da eruzioni vulcaniche che hanno depositato strati di cenere ricchi di cristalli di feldspato. Analizzando questi minerali con la tecnica dell’argon-argon – una tecnica che misura gli isotopi radioattivi dell’argon presenti nei cristalli per stabilire con accuratezza l’età delle rocce – i ricercatori hanno potuto stabilire l’età dei sedimenti e quindi dei fossili. Questo approccio non solo ha permesso di collocare i denti tra 2,6 e 2,8 milioni di anni fa, ma anche di ricostruire l’ambiente in cui vissero i nostri antenati: un paesaggio di fiumi stagionali, laghi poco profondi e praterie, molto diverso dal paesaggio semi-desertico di oggi.

In particolare, lo studio ha individuato tredici denti in totale: dieci attribuiti ad Australopithecus e tre a Homo. I denti di Australopithecus, pur ricordando per dimensioni alcuni già noti, presentano cuspidi – le punte della superficie masticatoria – e canini con caratteristiche mai osservate prima, che li distinguono sia da Lucy sia che da altri esemplari. Per questo motivo, quindi, gli autori ritengono che appartengano a una nuova specie, mai descritta prima. «Una volta trovato l’Homo pensavo che fosse tutto quello che avremmo trovato, e poi abbiamo scoperto i denti di Australopithecus», ha commentato Reed, aggiungendo che i denti di Homo, invece, confermano la presenza della nostra stirpe già a 2,78 milioni di anni fa. «Sappiamo che aspetto avevano i denti e la mandibola del primo Homo, ma questo è tutto. Servono altri fossili per capire le differenze con Australopithecus e come abbiano potuto sovrapporsi nello stesso luogo», ha sottolineato il coautore Brian Villmoare. Per ora, concludono gli esperti, resta impossibile dire come queste due specie abbiano convissuto, se condividessero le stesse fonti di cibo, se competessero per le risorse o se interagissero quotidianamente: «Ogni volta che troviamo un nuovo tassello del puzzle, è fondamentale», ha aggiunto Reed, concludendo che «più fossili ci aiuteranno a raccontare la storia di ciò che accadde ai nostri antenati tanto tempo fa».
Un altro studio recente, poi, suggerisce che alcuni esemplari Homo avrebbero convissuto anche con altri Neanderthal, il tutto in un periodo che anticiperebbe di quasi 100.000 anni le stime genetiche precedenti: nello sperone roccioso del Monte Carmelo (Israele), sono stati trovati i resti di una dozzina di individui caratterizzati da un’anatomia che mescolava tratti di Homo sapiens e Neanderthal. Il primo scheletro rinvenuto è stato quello di una bambina di 3-5 anni e, grazie a scansioni ad alta risoluzione del cranio e della mandibola, è stata mostrata una combinazione di caratteristiche delle due specie. Secondo gli esperti, si tratterebbe della più antica prova di incrocio tra Neanderthal e sapiens finora.
Gaza, continuano i raid: “Almeno 44 uccisi dall’alba”
Già dalle prime ore di oggi, sabato 30 agosto, sono stati segnalati pesanti bombardamenti nella città di Gaza, i quali avrebbero già provocato almeno 44 decessi, di cui otto riguardanti palestinesi richiedenti aiuti. Lo riportano le agenzie di stampa locali e i reporter di Al Jazeera, citando la Protezione civile e aggiungendo che alcuni attacchi aerei hanno colpito un panificio e un gruppo di civili, tra cui bambini. Intanto, al Lido di Venezia migliaia di persone si preparano a partecipare al corteo a sostegno della Palestina previsto per le 17:00 con partenza dal Gran Viale. Le autorità prevedono un affluenza di circa tremila partecipanti.
Jeff Bezos e Bill Gates si prendono il litio del Congo devastato dalla guerra
La Repubblica Democratica del Congo (RDC), da tempo al centro della contesa globale per le materie prime strategiche, ha concesso sette nuovi permessi di esplorazione a KoBold Metals, la compagnia statunitense sostenuta dai giganti della tecnologia e della finanza come Jeff Bezos e Bill Gates e che vanta anche il sostegno di fondi del calibro di Andreessen Horowitz e colossi minerari come BHP Group ed Equinor. Dopo anni di predominio cinese, il governo di Kinshasa apre così le porte alla società statunitense che promette di rivoluzionare la ricerca mineraria con l’intelligenza artificiale.
Le nuove licenze riguardano vaste aree tra Manono (Tanganyika) e Malemba Nkulu (Haut-Lomami), comprendendo anche il maxi-giacimento di Manono, uno dei più grandi al mondo per litio. L’accordo quadro prevede l’esplorazione su oltre 1.600 km², con la prospettiva di trasformare la regione nel cuore della corsa al “nuovo petrolio” del XXI secolo: il litio, elemento imprescindibile per le batterie dei veicoli elettrici ma anche per pc, smartphone e altri dispositivi elettronici.
I sette permessi concessi a KoBold Metals sono la cartina al tornasole di una partita più grande: la transizione energetica globale non è solo questione di tecnologia verde, ma il nuovo volto di una guerra economica che ridefinisce rapporti di potere e sfere d’influenza. La missione di KoBold è chiara: individuare depositi di litio, cobalto, nichel e rame – i mattoni fondamentali della green economy – combinando tecnologie avanzate di mappatura e modelli di analisi dei dati. In questo contesto, Bezos e Gates non sono semplici investitori: rappresentano la volontà di un’élite tecnologica americana di entrare nel cuore della catena del valore delle materie prime, assicurandosi margini di controllo anche sull’approvvigionamento. L’azienda ha già notificato alle autorità congolesi la volontà di risolvere la disputa legale che oppone Kinshasa all’australiana AVZ Minerals, estromessa dal progetto Manono e ora in arbitrato internazionale. KoBold promette, inoltre, assunzioni e investimenti infrastrutturali, ma la domanda di fondo resta: Kinshasa saprà trasformare la ricchezza mineraria in infrastrutture, sanità, istruzione, sviluppo per la sua gente, o si limiterà a cambiare padrone, passando dalla dipendenza cinese a quella americana?
Negli ultimi vent’anni, infatti, la Cina ha investito miliardi nelle miniere congolesi, assicurandosi il controllo del cobalto e del rame – essenziali per le sue filiere tecnologiche. Nel 2008 venne siglato il cosiddetto «accordo del secolo»: una concessione di 25 anni estesa dal Paese al consorzio cinese Sicomines per l’estrazione di 10 milioni di tonnellate di rame e 600 mila tonnellate di cobalto.
Ora, Washington tenta di colmare il divario, mobilitando il settore privato con il sostegno politico della Casa Bianca e promuovendo corridoi logistici alternativi, come quello di Lobito, sostenuto da USA e UE, per creare una rotta alternativa di export dai bacini minerari dell’Africa australe e ridurre la dipendenza dalle infrastrutture controllate da Pechino. Il governo congolese cerca di sfruttare questa competizione a proprio vantaggio ed è consapevole che la sua ricchezza mineraria lo pone in una posizione di forza, tuttavia, la fragilità delle istituzioni, la corruzione endemica e le tensioni interne rischiano di vanificare i vantaggi. L’est della RDC è, infatti, ancora devastato da conflitti armati. A Doha è stata firmata di recente una Dichiarazione di princìpi tra il governo congolese e la milizia M23, che da mesi controlla città chiave come Goma e Bukavu. L’accordo, salutato come «storico» da ONU e Unione Africana, prevede la fine degli attacchi e il ripristino dell’autorità statale, eppure, la tregua appare fragile. Troppi precedenti di accordi falliti, troppe fazioni armate, troppi interessi legati al controllo delle miniere.
La ricchezza mineraria, più che generare sviluppo, ha storicamente alimentato guerre, disuguaglianze e saccheggio. La Repubblica Democratica del Congo è un esempio di come la ricchezza mineraria del suolo africano sia oggetto di interessi geopolitici e della pratica di land-grabbing, «l’accaparramento di terre». Dietro la narrazione dell’innovazione e della transizione ecologica si ripropone uno schema antico: capitale occidentale, risorse africane, comunità locali marginalizzate e sfruttamento del lavoro minorile. Il Paese produce oltre il 70% del cobalto mondiale e gran parte dell’estrazione artigianale avviene in condizioni disumane. Come ha rivelato il Washington Post nel 2016, i decessi sono frequenti, insieme alla mole di lavoratori sottopagati e minorenni sfruttati nelle miniere alla stregua degli schiavi: parliamo di bambini tra i 6 e gli 8 anni, sottoposti a condizioni estreme, con paghe infime e grossi rischi per la salute. Un recente caso giudiziario negli Stati Uniti ha mostrato la difficoltà di chiamare alle proprie responsabilità i giganti tecnologici. Nel processo Doe v. Apple Inc. (2024), un gruppo di ex minori feriti nelle miniere congolesi ha accusato aziende come Google, Apple, Microsoft, Dell e Tesla di trarre profitto dal cobalto estratto con lavoro forzato. La Corte d’Appello di Washington ha, però, assolto le multinazionali, sostenendo che il semplice acquisto di minerale attraverso catene globali di fornitura non basti a dimostrare la «partecipazione a un’impresa» con chi sfrutta il lavoro minorile.
Un verdetto che, al di là del piano legale, mostra con feroce disincanto la realtà: l’Occidente proclama tolleranza zero verso lo sfruttamento, ma continua ad alimentare catene di approvvigionamento sporche, approfittando dei bassi costi e chiudendo un occhio di fronte alla violazione dei diritti umani e delle devastazioni ambientali. Finché il litio e il cobalto congolesi saranno contesi da élite globali e multinazionali, e i bambini continueranno a scavare nelle miniere per pochi dollari al giorno, la transizione verde avrà il colore del sangue e della miseria.
Media ucraini: ex presidente parlamento ucciso a Lviv
Secondo quanto riportato dai media locali, l’ex presidente del parlamento dell’Ucraina Andrii Parubii sarebbe stato ucciso a colpi di pistola in strada nella città di Lviv. La sua identità sarebbe stata confermata al Kyiv Independent dalla deputata del partito Solidarietà Europea, Iryna Herashchenko. L’autore del gesto sarebbe stato vestito da fattorino e scappato subito dopo in sella a una bici elettrica: la sua identità sarebbe al momento sconosciuta. Parubii ha ricoperto un ruolo centrale nelle rivolte di EuroMaidan del 2013-14 e ha successivamente ricoperto gli incarichi di segretario del Consiglio di Sicurezza nazionale e di presidente del parlamento.
Il mare metafora infinita
Davanti al mare le nostre identità si sospendono, proviamo la sensazione di trovarci in una condizione assoluta, dove conferma e stupore si fondono. È inevitabile fissare l’orizzonte laggiù, verso le ultime acque, ma in questo modo avviene quasi che lo spazio, il contenitore del tempo, come lo chiamava Platone, si allarghi e perda i suoi confini. La percezione contraddittoria e congiunta di un tutto concluso e di un oltre ignoto genera sensazioni di infinito, un infinito tuttavia che appare parzialmente percorribile, che fa nascere ipotesi da verificare, terre remote da immaginare, isole come oasi di una ipotetica traversata. Il mare, come dato naturale, si estenua allora, diventa rarefatto, trasforma la sua materia in colore, scivola nella metafora, si fa disponibile a contenere pensieri e a distenderli senza alcun ordine in nuovi quadri mentali.
Il mare d’estate ci regala questo, l’utopia di una realtà senza tempo. Dove “senza tempo” significa che le condizioni determinanti la vita ordinaria non agiscono e che reale e possibile escono da ogni logica probabilistica. Un’altra condizione metaforica del mare è quella del percorso, del contenitore di varie rotte e destini.
La navigatio vitæ del mondo antico, la vita stessa nel suo complesso si raffigura come solco marino orientato dalle stelle e dal cielo, con le sue gioie e le sue disavventure, che caratterizzano tutto ciò che è umano e dipende da una tecnica. Ognuno salpa e prende il largo sulle onde di vari itinerari possibili, mettendo in gioco il senso dell’avventura. Da Omero a sant’Agostino la nave esprime la comunanza dei destini umani, il bisogno di una meta condivisa, la rappresentazione anche di un pilota che guida e che si può alternare con altri che lo sappiano fare. Sulla nave le mansioni vengono applicate nello sforzo comune di andare avanti, di non perdere la rotta, di affrontare le burrasche, di gestire tempi ed eventi a seconda di come si presentano le necessità. La nave, il mare richiedono competenze ma anche coraggio, costanza e creatività, un’idea di sicurezza da garantire a tutti perché il domani è comune.
L’Ulisse di Omero nulla avrebbe raggiunto e superato senza l’aiuto divino, perché il suo mito aveva bisogno di un logos, di una ragione e insieme di una sfida, quella sfida tutta umana che avrebbe poi condannato l’Ulisse dantesco a causa di un eccesso di volontà di conoscenza.
Il mare, però, esprime non soltanto il bisogno di oltre, di ignoto ma anche la difficile sopravvivenza, l’ottenimento di risorse.
La pesca e il pescatore aprono un nuovo fronte metaforico a questo proposito, un fronte oggettuale dove il pesce trasfigura in destino attraverso la fatica e i rischi di quel lavoro.
Hemingway: «Vorrei poter dar da mangiare al pesce, pensò. È mio fratello. Ma devo ucciderlo e mantenermi forte per farlo» (Il vecchio e il mare). Per chi ha anche scritto Addio alle armi e Verdi colline d’Africa, la morte provocata è un tema immenso, la morte che viene dal mare poi parla di una perdita, parla di naufragi e di prede sfuggite.
Seferis: «Dormo, ma il cuore veglia: /guarda in cielo le stelle, e la barra, / l’infiorata dell’acqua al timone».
Nel sogno non ci sono volti. Per Seferis, la poesia è il “giornale di bordo” dell’immaginario. Anche la poesia, infatti, è una pesca, di parole e di prede simboliche, ancorate insieme all’essere e al divenire, al permanere e al trasformarsi. Come nel ritmo parallelo, incessante delle onde, ognuna per definizione diversa dall’altra.
A Skagen, estremo nord dello Jutland, Danimarca, il mare del Nord e il Baltico sono divisi da una striscia di terra, una specie di Scilla e Cariddi nordica. La gente, in pellegrinaggio, raggiunge sulla lunga spiaggia quell’estremo quasi puntiforme e si bagna i piedi. Arrivare lì è una esperienza densa di gioia, religiosa e festosa. Lì si vedono le onde trasversali, frutto dello scontro dei due mari. E ti chiedi perché c’è qualche governante che pensa alla guerra, qui dove l’assoluto della natura canta la sua gloria e donne, uomini, bambini, cani, gabbiani, corvi e foche si abbracciano quasi senza dirsi una parola.