mercoledì 2 Luglio 2025
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“Di qua passa il Giro d’Italia”: la polizia fa rimuovere la bandiera palestinese

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Poco prima del passaggio del Giro d’Italia a Putignano, piccolo comune in provincia di Bari, una famiglia ha ricevuto la visita di un poliziotto in borghese, che ha chiesto loro di rimuovere la bandiera palestinese appesa al proprio balcone. La ragione sarebbe stata proprio il passaggio della competizione ciclistica: l’agente, infatti, avrebbe riferito alla famiglia che la richiesta dipendeva da una «questione di ordine pubblico». La conferma di quanto avvenuto è giunta dalla stessa Questura di Bari, che ha dichiarato come la decisione dell’agente avrebbe fatto seguito al «fermento» di alcuni cittadini alla vista della bandiera.

Secondo quanto raccontato dalla proprietaria dell’appartamento a L’Indipendente, l’agente in borghese avrebbe citofonato chiedendo di poter salire fino all’ultimo piano, dove si trovava il balcone con esposta la bandiera della Palestina. Qui, il poliziotto ha riferito ai proprietari di casa che sarebbe stato «opportuno» rimuoverla. «Abbiamo chiesto il motivo e ci è stato ripetuto che sarebbe stato “opportuno”». Secondo quanto dichiarato dalla famiglia, l’agente avrebbe citato il passaggio della competizione ciclistica del Giro d’Italia come ragione per rimuovere la bandiera, lasciando intendere che «sarebbe stata inquadrata dalle telecamere nazionali». «Ho fatto notare che mi trovavo in casa mia, che quella bandiera era sempre stata lì e che ci troviamo in uno stato di diritto, ma l’agente ha ripetuto che sarebbe stato opportuno toglierla, in quanto vi era di mezzo una  questione di ordine pubblico. A quel punto, presi alla sprovvista e immaginandoci lì per lì chissà quale emergenza, l’abbiamo tolta». L’indomani, riferisce la famiglia, un funzionario della Questura di Bari si sarebbe scusato con gli inquilini, parlando di un probabile «eccesso di zelo» da parte dell’agente in servizio.

«Dagli accertamenti esperiti è emerso che effettivamente, poco prima del passaggio dei ciclisti, personale impiegato nei servizi, avendo ricevuto segnalazione di un certo fermento da parte di alcuni cittadini per l’esposizione di una bandiera palestinese, sul balcone del sesto piano di una palazzina, ha interloquito con il proprietario dell’appartamento, invitandolo a valutare l’opportunità di rimuovere il vessillo» riporta una nota inviata dalla Digos di Bari a L’Indipendente, nella quale si specifica che non vi è stato alcun «ordine formale» nei confronti dei proprietari dell’appartamento, che non sono stati identificati. Nel comunicato viene specificato anche che «nel corso della medesima giornata, in occasione della partenza del giro da Alberobello un gruppo di appartenenti a movimenti pacifisti ha liberamente esposto striscioni contro il genocidio a Gaza e bandiere della Pace e Palestinesi nel pieno rispetto della libertà di manifestazione del pensiero, coniugata con la sicurezza dell’evento».

Superate le perplessità e la confusione iniziali, la famiglia ha presto rimesso la bandiera al proprio posto, appesa al balcone dove si trova «sin dall’inizio del genocidio». Tuttavia, non sarebbe la prima volta in cui le proteste per la Palestina vengono silenziate nel nome di non meglio specificate “esigenze di ordine pubblico”. Nel frattempo, la notizia è giunta fino in Parlamento, dove deputati di AVS e M5S hanno annunciato l’intenzione di presentare interrogazioni parlamentari a riguardo.

Gaza, ondata di attacchi israeliani: almeno 82 morti

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Almeno 82 palestinesi, in gran parte donne e bambini, sono stati uccisi in una nuova ondata di attacchi israeliani nella Striscia di Gaza, secondo quanto riportato da Al Jazeera. Solo nella notte, 57 persone hanno perso la vita a Khan Younis, nel sud del territorio. Tra le vittime anche il giornalista palestinese Hassan Samour e alcuni familiari, colpiti nella loro casa. L’Ospedale Europeo di Gaza è stato dichiarato fuori uso dopo un raid che ha causato 16 morti. Le Forze israeliane hanno affermato di mirare al leader di Hamas, Mohammed Sinwar.

Cuba: presunte antenne installate dalla Cina sull’isola mettono in allarme gli Stati Uniti

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Gli Stati Uniti sono preoccupati per la presenza cinese a Cuba – in particolare, delle operazioni di sorveglianza segrete che potrebbero essere messe in atto nei loro confronti. A rivelarlo è un recente rapporto del Centro per gli Studi Strategici e Internazionali (CSIS), che rivela la presenza di un presunto vettore di antenne a disposizione circolare (CDAA) presso il sito cubano di intelligence di Bejucal, a pochi passi da L’Avana. Le antenne potrebbero individuare segnali radio provenienti da una distanza compresa tra le 3 mila e le 8 mila miglia di distanza, includendo quindi nel proprio raggio d’azione le basi militari statunitensi e persino la capitale, Washington. I risultati del rapporto hanno suscitato una preoccupazione tale che i repubblicani hanno chiesto un briefing al Segretario alla Sicurezza Interna.

L’allarme è scattato dopo l’esame delle immagini satellitari commerciali, che mostrano nuove costruzioni in corso nel noto sito di intelligence dei segnali cubani (SIGINT) di Bejucal, vicino a L’Avana, il più grande di Cuba. Queste, risalenti al 16 aprile 2025, mostrano i principali sviluppi avvenuti nel sito. Sul lato settentrionale del complesso sono state rimosse sei antenne e al loro posto sono in corso i lavori per costruire un grande CDAA, dalla classica forma circolare, che comprende 19 antenne disposte in un cerchio di circa 175 metri. I CDAA sono utilizzati principalmente per la ricerca e l’individuazione dell’origine di segnali radio da una distanza compresa tra 3.000 e 8.000 miglia. Un nuovo CDAA a Bejucal potrebbe offrire una capacità significativamente migliorata per monitorare l’attività aerea e marittima negli Stati Uniti e dintorni.

Sebbene non vi siano prove concrete che questa struttura, così come altre sull’isola, sia collegabile direttamente alla Cina (la quale già lo scorso anno aveva negato simili accuse), i funzionari statunitensi hanno ripetutamente segnalato che Pechino avrebbe accesso alle strutture di spionaggio cubane. Un gruppo di leader repubblicani della Camera ha richiesto una riunione urgente al Segretario alla Sicurezza Interna, Kristi Noem, scrivendole una lettera. «La RPC si sta posizionando per erodere sistematicamente i vantaggi strategici degli Stati Uniti senza mai sparare un colpo. La vicinanza geografica di sospette strutture collegate alla RPC a Cuba a strutture statunitensi sensibili, tra cui la stazione navale di Guantánamo Bay, il Kennedy Space Center, la base sottomarina navale di Kings Bay e la stazione spaziale di Cape Canaveral, può consentire alla RPC di monitorare le capacità di rilevamento e risposta americane, mappare i profili elettronici delle risorse statunitensi e preparare l’ambiente elettromagnetico per un potenziale sfruttamento futuro», hanno scritto i legislatori nella lettera pubblicata da Fox News.

Durante i dibattiti delle primarie presidenziali statunitensi del 2016, l’allora senatore Marco Rubio, attuale Segretario di Stato dell’amministrazione Trump, aveva accusato Cuba di collaborare con la Cina per azioni di spionaggio nei confronti degli Stati Uniti. Nel 2023, il Wall Street Journal aveva riferito che Cuba e Cina avevano siglato un accordo in base al quale Pechino avrebbe stabilito una struttura di sorveglianza sul territorio cubano in cambio di una ingente somma di denaro. La Cina è accusata di aver costruito simili strutture nel Mar Cinese Meridionale, più precisamente su Mischief Reef Subi Reef, come suggerirebbero le immagini satellitari pubblicate da Asia Maritime Transparency Initiative.

Al momento, tuttavia, l’unica presenza cinese certa a Cuba rimane quella legata allo sviluppo economico ed energetico, che comprende progetti di implementazione di produzione di energia rinnovabile proveniente dal sole, per aiutare la popolazione cubana a superare la crisi energetica e l’embargo statunitense.

Catania, sfruttati per 1,6 euro l’ora: arresti per caporalato

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Trentasette lavoratori di un supermercato di Biancavilla, nel Catanese, sarebbero stati sfruttati con turni di oltre 60 ore settimanali e retribuzioni anche di soli 1,6 euro l’ora. Le indagini della Guardia di Finanza hanno portato agli arresti domiciliari il rappresentante legale e il direttore commerciale della società per caporalato e autoriciclaggio, con un sequestro preventivo da 3 milioni di euro. I dipendenti, in stato di bisogno, accettavano condizioni di lavoro durissime, senza ferie né riposi adeguati. Contestate anche violazioni su orari, sicurezza e mancati versamenti per stipendi e contributi previdenziali.

Ponte sullo Stretto: via libera agli aumenti delle retribuzioni per le aziende

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Nella giornata di ieri, il ministro dei Trasporti e leader leghista Matteo Salvini ha presentato davanti al Consiglio dei Ministri il disegno di legge Infrastrutture, che prevede, tra le altre cose, un aumento delle retribuzioni per le aziende che operano nella costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. La norma, nello specifico, fornisce alla società Stretto di Messina la possibilità di aggiornare i vecchi contratti con le aziende del consorzio Eurolink, che aveva vinto l’appalto nel 2010, tenendo tuttavia fissa la soglia di spesa totale a 13,5 miliardi. Gli aumenti previsti potrebbero arrivare fino al 50% in più degli stipendi.

L’obiettivo dichiarato è quello di garantire adeguate condizioni economiche alle imprese coinvolte, favorendo l’attrazione di partner internazionali e riducendo i rischi di blocchi nei cantieri per difficoltà finanziarie. Ciò che appare chiaro è però che il meccanismo di adeguamento dei contratti previsto nel decreto omnibus, pur entro il tetto complessivo di 13,5 miliardi di euro, rischia di trasformarsi in un importante regalo alle grandi imprese edili. La bozza del decreto, composta da 16 articoli, è attualmente in fase di revisione presso la Ragioneria generale dello Stato e dovrà ricevere il via libera definitivo prima di tornare in Consiglio dei Ministri per l’approvazione formale. Proprio ieri, tuttavia, il vertice di governo è stato rinviato, anche a causa dei dubbi sollevati dal Quirinale su alcuni passaggi del decreto, con particolare riguardo a quelli relative al Ponte sullo Stretto. Inoltre, il provvedimento contiene oltre duecento nuove previsioni di legge, e le ragioni di necessità e urgenza – requisito base per entrare in un decreto – non sembrano valere per tutte. Il percorso legislativo prevede ora il passaggio al vaglio del Parlamento e del Senato, con possibili modifiche della commissione Bilancio e Lavori Pubblici. Restano in sospeso i rilievi del Quirinale e la quantificazione definitiva delle coperture finanziarie, ma il governo punta a chiudere l’iter entro la prossima estate, per dare il via ai primi cantieri già entro il 2025.

Solo poche settimane fa, il governo italiano ha inviato un dossier alla Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen in cui il Ponte sullo Stretto viene inquadrato addirittura come una questione di sicurezza continentale. La realizzazione dell’opera è stata infatti definita dall’esecutivo «imperativa e prevalente per l’interesse pubblico» non soltanto per ragioni economiche o di protezione civile, ma anche e soprattutto per motivazioni geopolitiche e militari, fondamentali in caso di scenari di guerra per «il passaggio di truppe e mezzi della NATO». La strategia è infatti quella di inserire il ponte nel Military Mobility Action Plan dell’UE, il piano continentale per facilitare il movimento rapido delle forze armate, contando così sull’etichetta di “opera strategica militare” al fine di ottenere le indispensabili deroghe ambientali. Se la Commissione europea darà l’ok, il Ponte sullo Stretto potrebbe perfino rientrare nel novero delle spese militari utili a far crescere il rapporto spesa-difesa/Pil, come auspicato dall’Alleanza Atlantica. Nella relazione allegata alla richiesta, l’esecutivo ha enucleato le ragioni della scelta: «L’aumentata connettività della Sicilia rispetto al resto del Paese e dell’Europa ha delle chiare implicazioni geopolitiche e, quindi, per la difesa del territorio». Il documento del governo cita anche i recenti scenari internazionali di instabilità, dai Balcani al Medio Oriente, come fattori che rendono ancora più urgente e necessaria la costruzione dell’opera.

Dentro il “nuovo” Afghanistan: il regime talebano visto da dentro

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Se dovessimo coniare una parola per descrivere la continua rielaborazione degli stessi fatti storici riguardanti conflitti internazionali a fini propagandistici, questa potrebbe avere il nome di “afghanizzazione mediatica”. Quello dell’Afghanistan non è certo l’unico caso di territorio dove si sono combattute guerre spinte da narrative costruite ad arte e supportate da sentimenti popolari appositamente promossi da governi invasori. 

Di tutti i luoghi in cui questo fenomeno è avvenuto nella storia contemporanea, però, l’Afghanistan è certamente uno di quelli in cui si è ripetuto con più frequenza. Qui, inoltre, vi è stato il minor interesse nel riprendere in mano gli eventi con maggiore lucidità per riscrivere la storia senza dover seguire la narrazione bellica e pre-bellica dei fatti prodotta dalle potenze che hanno compiuto la guerra in oggetto.

Dentro il regime, ma con i social media

Dopo essere stato in Afghanistan a novembre 2024, questo fenomeno mi è apparso molto chiaramente davanti. L’Afghanistan dei talebani vive, dopo il reinsediamento del movimento di matrice religiosa islamica sunnita al governo de facto del Paese, nel 2021, un tentativo di apertura verso l’esterno. Questa sta tuttavia passando quasi inosservata sui media tradizionali, nonostante sui social media siano sempre più numerosi contenuti che suggeriscono di viaggiare nel Paese, mostrandone le bellezze archeologiche, paesaggistiche e culturali. 

Questi video spesso promuovono, direttamente o indirettamente, il turismo in Afghanistan e mostrano come le condizioni di sicurezza siano molto migliorate rispetto agli ultimi vent’anni. Ancor più importante però, mostrano i talebani come un gruppo sì simile a come li si conosce, ma tutto sommato accogliente e innocuo verso gli stranieri. Per capire l’emersione di questo nuovo fenomeno mediatico, molto più in mano alla popolazione comune piuttosto che ai media tradizionali, bisogna capire come si è arrivati fino a questo punto storico e “come sta”, ora, l’Afghanistan.

Da “Freedom fighters” a “pericolo globale”

Un gruppo di combattenti pashtun durante la seconda guerra angloafghana del 1878-1880. I pashtun sono l’etnia alla quale la stragrande maggioranza dei talebani appartiene

L’imprevedibilità della situazione interna dell’Afghanistan è sempre stata una costante nella storia del Paese sin dal periodo delle guerre contro i britannici, iniziato con una storica disfatta di questi ultimi nel 1842 e conclusosi nel 1919 con la firma degli accordi che avrebbero portato alla definizione dell’attuale confine tra Afghanistan e Pakistan. 

Da quel quarantennio di giochi tra potenze, principalmente Regno Unito e Impero russo, il Paese ha visto diversi cambi di regime, periodi di stabilità interrotti da colpi di Stato e, più recentemente, una guerra civile caratterizzata da un’anomia politica che ha permesso l’emersione di gruppi come quello talebano. 

Fino agli anni ’90, cioè fino a quando l’URSS non si era ancora ritirata dall’Afghanistan e i mujaheddin (da una cui costola nacquero proprio i talebani) erano finanziati in chiave anti-sovietica da USA, Arabia Saudita e Cina, gli uomini barbuti che venivano dalle montagne erano una risorsa. Come diceva l’ex presidente degli Stati Uniti d’America Jimmy Carter in un suo famoso discorso alla nazione trasmesso sulle TV statunitensi, l’invasione sovietica dell’Afghanistan era «un intenzionale sforzo di un potente governo ateo di soggiogare un popolo musulmano indipendente». 

Il movimento raggiunse il suo apice dapprima nel 1996, prendendo controllo di gran parte del Paese presto sbaragliato dall’invasione statunitense del 2001. A partire dagli anni immediatamente precedenti l’invasione, i talebani vennero dipinti nei media nostrani (e di tutto l’Occidente) come un movimento altamente ostile e pericoloso per l’intera umanità. Dai divieti per le donne alla conversione dei cinema in moschee, i talebani, amici di al-Qaeda, erano uno dei nuovi mali assoluti sul piano internazionale. 

Nel 2020 le carte in tavola cambiano ancora. Dopo gli accordi di Doha, firmati tra Stati Uniti e governo talebano (riconosciuto de facto da numerosi Paesi nel mondo, ma non ufficialmente a livello internazionale), l’immagine e l’atteggiamento dei talebani sono iniziate a cambiare lentamente.

Il “Nuovo” Emirato Islamico, amici (e nemici) come prima

Firma degli accordi a Doha da parte del rappresentante degli Stati Uniti d’America, Zalmay Khalilzad, e Abdul Ghani Baradar, vice primo ministro dell’Emirato Islamico di Afghanistan dal 2021 (Foto del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America)

Non è da poco il fatto che gli Stati Uniti abbiano siglato degli accordi con il governo talebano nel 2020, dotandolo di fatto di un’implicita autorità sul territorio afghano. E non è da poco neanche che degli accordi di Doha sia stata pubblicata solo una parte, mantenendone secretata un’altra – la cui esistenza è tuttavia stata annunciata sin da subito. Una mossa che potrebbe servire in futuro, in particolare agli Stati Uniti, per ricorrere al ricatto in caso le promesse dei talebani esplicitate nella parte segreta non venissero mantenute, oppure per legittimare un’azione strategica che, in un determinato momento storico, sarebbe invece inaccettabile per l’opinione pubblica sulla base della sola parte pubblica degli accordi. 

Mentre i rapporti con Washington e l’Occidente rimangono ufficialmente freddi, la Turchia finanzia la costruzione di moschee nel Paese, come suo solito nella sua area di interesse strategico, usando l’Islam come legame culturale e identitario per esercitare il proprio soft power, laddove la carta dell’etnicità turca non sia utilizzabile. Gli Emirati Arabi Uniti intrattengono rapporti formali con i talebani, ospitando un loro ufficio consolare a Dubai che, curiosamente, espone ancora la bandiera della ormai decaduta Repubblica Islamica. Proprio a Dubai ha poi sede la Alokozay, azienda produttrice di tè, acqua in bottiglia e altri prodotti alimentari molto conosciuta in Asia occidentale. 

Fondata da un imprenditore afghano, questa prende il nome di una tribù pashtun, la quale mantiene presumibilmente ancora contatti con il governo talebano, essendo di gran lunga il principale fornitore di acqua in bottiglia del Paese. 

I rapporti con altri Paesi a maggioranza musulmana sono sempre più sviluppati: per questo, in Afghanistan, i musulmani sono i benvenuti ovunque, potendo contare anche su ingressi gratis nelle moschee e in alcuni luoghi turistici. I non musulmani, in quanto turisti, sono comunque trattati mediamente con accoglienza, data comunque la risorsa economica e di soft power sottesa al turismo internazionale. 

I turisti devono tuttavia sottostare a regole precise, anche se queste vengono sempre meno applicate. Tra le più importanti, vi è il divieto assoluto di fotografare e riprendere donne, dovuto a una volontà di preservarne (dal punto di vista talebano) la dignità. La decisione si muove soprattutto verso una progressiva totale proibizione della diffusione di immagini di volti di esseri viventi, in accordo con la loro interpretazione dell’Islam sull’idolatria. I volti umani, e anche quelli animali, sono stati per questo censurati su molti cartelloni pubblicitari e vetrine delle città. 

Alcune di queste misure seguirebbero, secondo alcuni osservatori esterni, la corrente di pensiero di stampo wahhabita propria del pensiero politico arabo-saudita. Pure i sauditi, seppur in maniera forse più coerente dei talebani, avrebbero infatti realizzato una delle più grandi campagne di “marketing strategico” sul piano internazionale degli ultimi decenni, producendo risultati formidabili nella loro legittimazione (o quantomeno tolleranza) da parte di popolazioni come quella occidentale. I talebani, incentivando l’ingresso di visitatori e capitali nel Paese, potrebbero star tentando la stessa strada, partendo tuttavia da una posizione molto più svantaggiata in termini di risorse, capacità e, soprattutto, di reputazione internazionale (tra le peggiori al mondo).

L’immagine dei talebani sembra essere il più grande nodo della questione, difficile da sciogliere per la stessa élite talebana, la quale in parte ancora spinge per il mantenimento del vestiario militare e degli AK-47 sempre a tracolla, simbolo dell’onore e della valorosità del combattente tipico della cultura pashtun. Dal modo in cui i talebani si sono presentati a Doha nel 2020 e in vari recenti incontri internazionali (come ad esempio all’ultima COP), sembra tuttavia che stiano cercando di adottare una corrente più “formale” e “diplomatica” anche sul piano estetico, neutralizzando gli elementi fisici che rendono i talebani tanto riconoscibili, ma anche ostili, all’occhio di un osservatore esterno – in particolare occidentale.

Non tutti sono “così talebani” 

Il volto di un bambino cancellato da un cartellone pubblicitario in uno dei quartieri più ricchi di Kabul (Foto di Giacomo Casandrini)

L’opinione interna afghana, intanto, prende delle pieghe interessanti. Se nei primissimi tempi del nuovo governo i talebani erano visti da moltissimi afghani con assoluto terrore, a causa anche della violenza e della disorganizzazione con cui presero il potere ad agosto 2021, oggi la popolazione comincia a rendersi conto che il Paese potrebbe, dopo quasi 50 anni di squilibri, tendere verso la stabilità. L’accettazione dei talebani da parte del popolo non avviene però senza compromessi: oggi, quella in atto è più che altro una sopportazione da parte delle minoranze non pashtun e non direttamente connesse alla struttura del potere pashtun. La diffidenza tra queste e governo rimane alta, ma se la situazione si mantenesse pacifica e le restrizioni venissero sempre più ridotte, anche per molti afghani rimasti nel Paese i talebani potrebbero un giorno diventare un governo legittimo e autorevole. In merito a tematiche quali l’educazione delle donne, tuttavia, non sembrano esserci miglioramenti in vista. E non ve ne saranno almeno fino a quando tali cambiamenti non diverranno convenienti sul piano strategico.

L’Afghanistan è ancora in guerra?

Il Band-e Amir canyon, una delle aree naturali più suggestive del Paese (Foto di Giacomo Casandrini)

Nel frattempo, l’Occidente rimane ancora largamente fisso sulle immagini del passato. Non tanto da un punto di vista morale e culturale, quanto da quello degli sviluppi economici e geopolitici in atto nella regione. I talebani continuano a usufruire degli aeroporti delle principali città del Paese, costruiti inizialmente a scopi militari con il finanziamento anche di alcuni Stati europei (tra cui l’Italia, con un prestito di 137 milioni di euro dai termini mai chiariti) e oggi usati per voli commerciali interni e verso l’estero. Molti verso Dubai, ma anche verso Paesi che intrattengono rapporti con l’Emirato, come Pakistan e Turchia. 

In questo quadro di drammatica obsolescenza della nostra informazione, trovano spazio video di creatori di contenuti che mostrano immagini di un Afghanistan “come non te lo aspettavi”, ricco di tradizioni e bellezze. In questo contesto, i talebani sono rappresentati tanto “umani come noi” quanto nella forma di goffi sempliciotti che, armati di AK-47, danno vita a situazioni tragicomiche degne di diventare virali sui social. 

Di fronte a questo grottesco scenario mediatico, bisogna tornare urgentemente a reinterpretare e conoscere l’Afghanistan e la sua storia, avendo quindi a che fare anche con coloro che, piaccia o meno, lo stanno governando in maniera incontrastata da alcuni anni a questa parte. 

Siviglia, incendio in magazzino chimico: in 80mila chiusi in casa

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Un grave incendio in un magazzino chimico nella zona industriale “La Red”, vicino a Siviglia, ha costretto circa 80mila abitanti di Alcalá de Guadaíra a restare in casa con porte e finestre chiuse per precauzione. L’allarme è scattato dopo che una nube nera si è sollevata dallo stabilimento. Secondo le prime indagini, il rogo è stato innescato da una scintilla in un serbatoio contenente una sostanza pericolosa. Le autorità hanno contenuto le fiamme, ma il rischio sanitario ha reso necessaria un’immediata risposta d’emergenza. Due persone sono rimaste leggermente ferite: un operaio con ustioni e un altro individuo per inalazione di fumo.

Kenya, sospeso il maxi progetto di crediti di carbonio: minaccerebbe i pastori indigeni

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Verra, l’organismo leader nella certificazione dei crediti di carbonio a livello globale, ha sospeso per la seconda volta il Northern Kenya Rangeland Carbon Project, un'iniziativa avviata nel 2013 che mira a generare crediti attraverso il pascolo pianificato e il conseguente stoccaggio di carbonio nei suoli. Il progetto, considerato il più esteso al mondo nel suo genere, è da anni al centro di critiche per il suo potenziale impatto sui pastori indigeni. La sospensione è arrivata dopo che, nel gennaio 2025, l’Alta Corte del Kenya ha dichiarato incostituzionali due delle principali aree di conse...

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Libia, Tripoli annuncia il cessate il fuoco

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Il governo centrale della Libia ha annunciato un cessate il fuoco per frenare gli scontri che da due giorni stanno interessando la capitale Tripoli. Gli scontri sono iniziati dopo l’uccisione di Abdel Ghani Al Kikli, capo dello Stability Support Apparatus, un’importante milizia armata del Paese affiliata al governo. Dopo un primo momento di calma registratosi martedì mattina, i combattimenti sono ripresi nella notte tra ieri e oggi con ampi scontri che hanno interessato tutti i quartieri della città. Gli scontri più duri si sono verificati tra la Brigata 444, allineata al premier Dbeibah, e la Forza di Deterrenza Speciale, la maggiore fazione armata di Tripoli schierata contro il governo centrale.

Trump ha annunciato la sospensione di tutte le sanzioni USA contro la Siria

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È iniziato ieri il viaggio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel Golfo Persico con un annuncio a sorpresa: il capo della Casa Bianca ha reso noto che saranno revocate tutte le sanzioni USA di lunga data alla Siria, intervenendo a un forum sugli investimenti a Riad, in Arabia Saudita, dove si è svolta la prima tappa del tour in Medio Oriente del tycoon. Si tratta di un cambiamento importante nella politica estera di Washington che ha dichiarato la Siria uno Stato sponsor del terrorismo nel 1979, introducendo sanzioni nei suoi confronti fin dal 2004 e inasprendole successivamente con lo scoppio della guerra per procura nel 2011. Parallelamente a questo importante annuncio, gli Stati Uniti hanno accettato di vendere all’Arabia Saudita un pacchetto di armi del valore di quasi 142 miliardi di dollari, mentre Riad si è impegnata a investire 600 miliardi negli Stati Uniti. La Casa Bianca ha definito l’accordo sulla vendita di armi il più grande “accordo di cooperazione in materia di difesa” mai stipulato da Washington. Allo stesso tempo, Trump non ha programmato una visita in Israele, scavalcando Tel Aviv nel suo viaggio in Medio Oriente: «Il messaggio alla regione è stato chiaro: Israele non è più una priorità assoluta per gli Stati Uniti”, ha scritto Itamar Eichner, corrispondente diplomatico dell’agenzia di stampa israeliana ynet».

Per quanto riguarda la sospensione delle sanzioni alla Siria, il Ministro degli Esteri siriano Asaad al-Shibani ha dichiarato su X che l’iniziativa segna un «nuovo inizio» nel percorso di ricostruzione della Siria, mentre oggi Trump ha incontrato il presidente siriano  Ahmed al-Sharaa  in Arabia Saudita, alla presenza del principe ereditario Mohammed bin Salman. Trump ha invitato Sharaa a normalizzare i rapporti con Israele, unendosi così agli Emirati Arabi Uniti, al Bahrein e al Marocco che hanno avviato relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico nel 2020 sulla base degli Accordi di Abramo mediati dagli Stati Uniti. Sebbene la potenza a stelle e strisce speri che anche Riad normalizzi i suoi rapporti con Israele, Trump ha affermato ieri che questo accadrà a suo tempo, in base alle tempistiche stabilite da Riad. Gli accordi stipulati con il principe ereditario saudita, dunque, non sono subordinati al ripristino delle relazioni diplomatiche con Tel Aviv (come aveva cercato di fare l’ex presidente Joe Biden) e il Regno saudita insiste sul fatto che non può esserci normalizzazione senza il riconoscimento di uno Stato palestinese. Similmente, secondo un rapporto dell’agenzia di stampa Reuters, gli Stati Uniti non subordineranno più il loro consenso al programma nucleare saudita alla normalizzazione delle relazioni tra Riad e Tel Aviv. Ciò significa che Israele è stato di fatto estromesso dalla politica intrapresa da Trump in Medio Oriente. Come riporta un’analisi di Haaretz, infatti, “L’accordo con gli Houthi, l’avvicinamento al regime siriano e il rafforzamento dei legami con la Turchia sono tutti elementi che delineano una nuova mappa geopolitica che Trump sta cercando di tracciare, in cui Israele è sempre più solo uno spettatore. […] Questa mappa non riserva un ruolo di primo piano a Israele, e Trump ha anche segnalato che Israele potrebbe essere escluso del tutto se interferisse con i suoi piani”.

Nello specifico, gli accordi con il regno dei Saud, che secondo la Casa Bianca rappresentano “una nuova era d’oro per la partnership tra Stati Uniti e Arabia Saudita”, comprendono svariati settori, tra cui energia, difesa, infrastrutture, sanità, tecnologia e risorse minerarie. Il partenariato tra i due Paesi include una dozzina di aziende di difesa statunitensi in settori quali la difesa aerea e missilistica, l’aeronautica e lo spazio, la sicurezza marittima e le comunicazioni. Sul piano della difesa, il pacchetto che Washington fornirà a Riad “comprende anche un’ampia formazione e supporto per rafforzare la capacità delle forze armate saudite, tra cui il potenziamento delle accademie militari e dei servizi medici militari”. Secondo la Casa Bianca, gli accordi “rafforzano la nostra sicurezza energetica, l’industria della difesa, la leadership tecnologica e l’accesso alle infrastrutture globali e ai minerali essenziali”.

Anche l’incontro con il capo siriano Sharaa è avvenuto senza l’“approvazione di Israele”: come riferisce la Reuters, Israele si è opposto alla sospensione delle sanzioni e negli ultimi mesi ha intensificato gli attacchi in territorio siriano affermando di non tollerare una presenza islamista nella Siria meridionale. L’Arabia Saudita, invece, ha dichiarato di sostenere la ripresa economica di Damasco e l’allentamento delle sanzioni, che creeranno le condizioni per investire nel Paese.

Dopo aver rovesciato il regime di Assad, Sharaa, per anni capo dell’ala ufficiale di al-Qaeda nel conflitto siriano, si è allineato alle direttive economiche occidentali, sostenendo un grande piano di privatizzazioni in Siria. Del resto, dopo aver condannato per anni il jihadismo e avere inserito i suoi leader nella lista del terrorismo – compreso lo stesso Sharaa – gli USA e i Paesi europei hanno salutato il nuovo governo siriano come “governo di liberazione”, revocando alcune prime sanzioni che da decenni affliggevano il martoriato Stato mediorientale. La rimozione totale delle sanzioni ora dovrebbe incoraggiare un maggiore impegno da parte delle organizzazioni umanitarie e facilitare gli investimenti e il commercio estero, reintegrando allo stesso tempo una Siria più confacente agli interessi occidentali nel contesto diplomatico-politico internazionale.