giovedì 28 Agosto 2025
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Rapporto UE: in Italia pochi progressi su lobbismo, limiti alla stampa e tutela dei diritti

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Rispetto ai problemi rilevati l’anno passato, l’Italia ha fatto passi «limitati, ridotti o nulli» in materia di diritto. A dirlo è il sesto rapporto sullo stato di diritto della Commissione UE, che sottolinea come, nonostante le raccomandazioni rilasciate nel 2024, l’Italia continui ad avere problemi con le norme relative alle attività di lobbying e al conflitto di interessi. Procede male anche la tutela dei giornalisti, su cui, secondo la Commissione, il governo ha posto limiti eccessivi nell’ambito del «progetto di riforma in materia di diffamazione e tutela del segreto professionale». Con l’approvazione del decreto Sicurezza, inoltre, tanto la società civile quanto organismi europei e l’ONU stessa hanno espresso preoccupazioni in merito al rischio di lesione dei diritti fondamentali, ma il governo ha fatto cadere ogni critica nel vuoto.

Nel rapporto si indica come, a fronte di «alcuni progressi» compiuti nell’ambito legislativo in materia di conflitti di interessi, quelli sull’adozione di «norme complessive sul lobbying per l’istituzione di un registro operativo delle attività dei rappresentanti di interessi» sono stati limitati. Nonostante le audizioni sui disegni di legge esistenti, avvenute nel 2024, l’iter legislativo non risulta ad oggi avanzato, mentre sono state «sollevate preoccupazioni circa le misure in materia di lobbying applicabili ai funzionari di alto livello». Al contempo, non è stato compiuto alcun progresso in materia di finanziamento dei partiti politici e campagne elettorali attraverso associazioni e fondazioni politiche («ostacolo per la responsabilità pubblica», oltre che a rischio di «comportare l’esercizio di un’influenza sproporzionata sul programma politico da parte dei donatori privati»), in quanto i disegni di leggi sono ancora fermi in Parlamento e non sono ancora stati discussi.

Nonostante, secondo la Commissione, «alcuni progressi» siano stati compiuti in materia di adeguato finanziamento dei media del servizio pubblico, al fine di «garantirne l’indipendenza», l’Italia non ha fatto passi avanti nell’ambito delle riforme volte a proteggere i giornalisti e il libero esercizio della professione, in particolare per quanto riguarda «il progetto di riforma sulla diffamazione e sulla protezione del segreto professionale e delle fonti giornalistiche». Nel mirino del rapporto vi sono due provvedimenti in particolare, «l’emendamento Costa» (che vieta ai giornalisti di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare fino al termine dell’udienza preliminare) e la cosiddetta «riforma Nordio» (che limita di molto la pubblicazione delle intercettazioni). In aggiunta, la Commissione segnala come, a seguito della «riforma Cartabia» (che autorizzava solamente le Procure a fornire alla stampa informazioni sui procedimenti penali), in alcuni casi le Procure non abbiano avvisato gli organi di stampa di fatti «di potenziale interesse pubblico». Nonostante, inoltre, esistano norme volte a tutelare i giornalisti, il rapporto segnala come i casi di minacce e intimidazione continuino comunque a destare preoccupazione tra chi esercita il mestiere – anche alla luce di quanto accaduto recentemente nell’ambito del caso Paragon.

La Commissione segnala anche come l’Italia non abbia fatto alcun progresso nell’istituzione di un organo di controllo del rispetto dei diritti umani, secondo quanto previsto dalle Nazioni Unite. I progetti di legge esistenti in merito (ben cinque) sono fermi in Parlamento. Anche il decreto Sicurezza attira l’attenzione dell’UE, in quanto più fonti hanno segnalato come questo potrebbe avere ripercussioni «sullo spazio civico e sull’esercizio delle libertà fondamentali». Il rapporto sottolinea come a esprimere preoccupazioni siano stati anche il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa e sei relatori ONU, oltre a innumerevoli organizzazioni e associazioni della società civile. Il governo, sottolinea la Commissione, non sembra tuttavia intenzionato ad ascoltare alcuna critica in merito.

“Stop Killing Games”: la battaglia per il diritto alla proprietà digitale

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Con la diffusione del digitale, il concetto di possesso del software è diventato sempre più sfumato. Senza grandi fanfare, si è passati dal comprare un prodotto all’acquistare una semplice licenza d’uso, la quale consente spesso al distributore di ritirare il servizio a propria discrezione. Anche il settore videoludico è ovviamente soggetto a questa dinamica, una prospettiva che ha scontentato molti giocatori, spingendoli a lanciare la petizione Stop Killing Games, “smettetela di uccidere i videogiochi”. La raccolta firme ha superato la soglia minima per essere riconosciuta come Iniziativa dei Cittadini Europei (ECI), obbligando di fatto l’Unione Europea a prendere in considerazione l’adozione di leggi a tutela degli acquisti digitali dei propri cittadini.

La petizione è stata lanciata dal creatore di contenuti Ross Scott in risposta al fatto che sempre più videogiochi richiedono una connessione online anche quando non strettamente necessario, con la certezza che, prima o poi, i server che li supportano verranno spenti, rendendo inaccessibili e inutilizzabili i titoli originali. Nonostante questi giochi vengano venduti a prezzo pieno, le aziende che li distribuiscono non hanno alcun obbligo di mantenerne l’operatività. Neppure quando i giochi vengono distribuiti sotto forma di copie fisiche. Un disimpegno digitale che costringe i consumatori ad accettare licenze sempre più restrittive e policy poco trasparenti, nonché a tollerare l’obbligo di essere costantemente connessi alla Rete per poter usufruire del prodotto.

Questo modello commerciale unisce gli svantaggi della vendita tradizionale — il costo — a quelli dei servizi in streaming — la subordinazione dell’utente a un’infrastruttura online — incarnando un paradigma economico che si allontana sempre più dall’idea di titolarità del consumatore, in favore di un ecosistema fatto di abbonamenti e servizi on-demand. Un universo in cui tutto è in affitto: dai programmi per computer alle automobili in leasing. In questo senso, Scott identifica i videogiochi come terreno di sperimentazione occulta, dove le aziende testano i limiti di tolleranza di legislatori e associazioni dei consumatori, sviluppando modelli che rischiano poi di estendersi ad altri settori.

Per chiedere un cambiamento, il movimento Stop Killing Games ha fatto ricorso al meccanismo legale dell’ECI, che consente ai cittadini dell’UE di proporre nuove leggi ai rappresentanti a Bruxelles. Leggi che, in questo caso, sono state formulate nella prospettiva di trovare un compromesso tutt’altro che estremista: l’obiettivo di Scott non è imporre agli editori di mantenere per sempre attive le infrastrutture online, bensì obbligarli a fornire soluzioni che rendano “ragionevolmente giocabili” quei titoli nati per funzionare online, anche in forma ridotta.

La petizione ha già raggiunto il numero minimo di firme necessario per essere considerata valida, tuttavia il suo promotore invita i sostenitori a continuare a firmare, in modo che un numero più ampio di adesioni possa compensare eventuali firme invalide raccolte nel frattempo. Trattandosi di un’iniziativa formale, infatti, l’autenticità dei firmatari sarà verificata dalle istituzioni, al pari di un qualsiasi referendum. Nel frattempo, la lobby europea del videogioco, Video Games Europe, ha già fatto sapere in una lettera aperta di non essere affatto favorevole all’iniziativa.

Secondo le aziende coinvolte, l’introduzione di queste nuove tutele per i consumatori avrebbe “un effetto raggelante sullo sviluppo dei videogame”, “aumentando i costi di produzione” al punto da rappresentare “un disincentivo a rendere disponibili i giochi in Europa”. È una minaccia già sentita: le lobby e le grandi aziende tecnologiche l’hanno spesso impiegata quando le normative europee hanno messo in discussione i loro modelli di business. Tuttavia, finora, si è rivelata per lo più vuota e poco credibile. Quando si è trovata a contrastare le pressioni delle Big Tech, l’Unione Europea è riuscita occasionalmente a raggiungere traguardi che hanno avuto ricadute positive su scala globale: dal consolidamento degli standard dei cavi di ricarica al diritto alla riparazione, alcune normative UE sono riuscite a fissare limiti chiari a pratiche commerciali discutibili. Stop Killing Games potrebbe raccogliere questa eredità, tracciando un percorso verso un mercato digitale che, sotto molti aspetti, naviga ancora a vista.

Trump dà del bugiardo a Putin e annuncia l’invio di missili Patriot all’Ucraina

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Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, si è reso protagonista dell’ennesimo cambio di rotta sulla questione ucraina. In una riunione di gabinetto aperta ai giornalisti, Trump ha mostrato la propria frustrazione nei confronti di Putin e delle sue dichiarazioni: «Se volete sapere la verità, Putin ci lancia addosso un sacco di scemenze. È sempre molto gentile, ma alla fine quello che dice è privo di significato». I toni di Trump nei confronti di Putin sono tornati a essere più critici a partire dalla loro ultima telefonata, che sembra abbia lasciato Trump insoddisfatto. Da quel momento, il presidente si è avvicinato sempre più a Kiev, che ha annunciato di volere supportare inviando più armi, andando contro una sua stessa decisione presa qualche giorno fa. L’annuncio è stato accolto con piacere dall’Ucraina, che tuttavia ha detto di non aver ricevuto notifica del cambio di posizione di Trump.

La riunione di gabinetto degli Stati Uniti si è tenuta ieri, martedì 8 luglio. Trump ha criticato Putin, sostenendo che con le sue decisioni il presidente russo «sta uccidendo un sacco di persone». L’ennesimo cambio di opinione sulla questione ucraina era stato in qualche modo preannunciato venerdì 5 luglio, quando Trump e Putin si erano sentiti al telefono in una conversazione che si era risolta in un nulla di fatto. Il presidente russo aveva infatti detto che la Russia non avrebbe abbandonato i propri obiettivi, mentre Trump aveva mostrato la propria insoddisfazione nei confronti della chiamata e negato di avere sospeso l’invio di armi a Kiev, informazione trapelata all’inizio della scorsa settimana. Lunedì il cambio di toni più netto: in occasione di un incontro con il premier israeliano Netanyahu, in visita a Washington, Trump ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero inviato altri missili all’Ucraina per permetterle di difendersi. Tale decisione è stata rimarcata anche ieri, dopo un attacco russo che avrebbe colpito l’Ucraina, interessando anche la capitale Kiev. Trump, inoltre, ha detto di stare considerando l’imposizione di ulteriori sanzioni contro la Russia.

Nel rilasciare le proprie dichiarazioni, Trump non ha specificato quanti missili spedirà all’Ucraina, né quando questi dovrebbero arrivare. Il ministero della Difesa ucraino ha accolto favorevolmente le parole di Trump, ma ha affermato di non aver ricevuto notifica ufficiale del cambio di politica del presidente statunitese. Secondo il sito di informazione Axios, Trump avrebbe deciso di inviare immediatamente dieci missili Patriot all’Ucraina; Trump avrebbe anche affermato di voler contribuire nella ricerca di ulteriori canali di rifornimento. I dieci missili Patriot che Trump avrebbe deciso di spedire a Kiev farebbero parte della spedizione della scorsa settimana che era stata bloccata al confine tra Polonia e Ucraina. Tale carico, comprendente un totale di trenta missili Patriot, sarebbe stato bloccato a causa del timore statunitense di aver esaurito le proprie scorte balistiche. A oggi, si ritiene che l’Ucraina disponga di otto batterie Patriot, dal valore di oltre 1 miliardo di dollari ciascuna, dalle quali sparare i missili intercettori.

Taiwan: via a una maxi-esercitazione militare

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Taiwan ha lanciato l’esercitazione militare annuale Han Kuang, per verificare come l’esercito possa decentralizzare il comando in caso di un attacco alle comunicazioni. L’esercitazione durerà 10 giorni e coinvolgerà circa 22.000 riservisti, il maggior numero di sempre. Nell’addestramento verranno impiegati per la prima volta i nuovi sistemi missilistici di artiglieria ad alta mobilità HIMARS, prodotti da Lockheed Martin, e verranno condotti attacchi simulati ai sistemi di combattimento e alle infrastrutture dell’isola.

Negli ultimi 25 anni si è quasi dimezzato il lavoro minorile nel mondo

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Negli ultimi 25 anni, la lotta contro il lavoro minorile ha fatto importanti passi avanti. Grazie a sforzi internazionali e a politiche mirate, oggi nel mondo ci sono circa 100 milioni di bambini in meno obbligati a lavorare rispetto al 2000, nonostante l'aumento della popolazione infantile. Se nel 2000 erano circa 246 milioni i bambini impegnati nel lavoro minorile, oggi la cifra è scesa a 138 milioni. Tra i fattori che hanno contribuito al miglioramento ci sono politiche per l'istruzione gratuita e di qualità, l'espansione dei sistemi educativi, l'introduzione di misure di protezione sociale...

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Stellantis ha perso un terzo della produzione di auto in Italia in sei mesi

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Nei primi sei mesi del 2025, Stellantis ha prodotto un totale di 123.905 vetture, pari al 33,6% in meno rispetto allo stesso periodo del 2024. Se si contano anche i furgoni usciti dal polo di Atessa, il calo della produzione risulta invece pari al 26,9%. A dare l’allarme è il sindacato Fim-Cisl, in una analisi in cui stima che entro fine anno l’azienda dovrebbe produrre circa 440.000 vetture; una cifra ben lontana dal record di due milioni segnato nel 1989, ma anche dalla capacità produttiva degli stabilimenti che sarebbero capaci di produrre circa 1,5 milioni di automobili l’anno. Il colosso delle automobili Stellantis è in crisi da tempo; l’anno scorso, l’azienda minacciava il licenziamento di centinaia di operatori, in un tentativo fatto saltare dalle lotte dei lavoratori. Quest’anno, invece, ha già annunciato un taglio di 610 lavoratori nello stabilimento di Mirafiori.

Secondo quando si legge nel rapporto Fim-Cisl, nel primo semestre del 2025, tutti gli stabilimenti Stellantis sono in negativo in termini di produzione. Il sindacato sostiene di non vedere nulla che suggerisca una ripresa entro fine anno, e che, «anzi, il calo dei volumi e l’uso degli ammortizzatori sociali potrebbero aumentare», finendo per coinvolgere circa la metà della forza lavoro del gruppo. Lo stabilimento che risulta più in crisi è quello di Modena, dove nel primo semestre del 2025 sono state prodotte «solo 45 unità, con una flessione del 71,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente». I giorni effettivi di produzione sono stati circa 11. Segue lo stabilimento di Melfi, che ha registrato un crollo produttivo del 59,4% con 19.070 unità prodotte. In calo anche lo stabilimento di Pomigliano, il più produttivo in assoluto e l’unico che l’anno scorso si era salvato dalla produttività negativa; in questi primi sei mesi di 2025, Pomigliano ha visto un calo del 24% nella produzione. L’auto maggiormente prodotta è la Fiat Panda, che da sola rappresenta il 54% della produzione di auto in Italia, ma, nel primo semestre del 2025, anch’essa ha subito una flessione, pari al 15%.

Davanti a questo scenario, l’azienda mantiene validi i propri obblighi presi in sede istituzionale, ma il sindacato riporta che «dovranno essere verificati puntualmente con i nuovi vertici»; gli impegni prevedrebbero 2 miliardi di investimenti negli stabilimenti italiani e 6 miliardi di acquisti da fornitori nazionali, per raggiungere la soglia di produzione di 1 milione di vetture entro il 2030. Dopo l’uscita di Taveres di fine 2024, l’azienda ha avanzato un nuovo piano di investimenti, che prevede la costruzione di nuove gamme di automobili e veicoli commerciali in diversi stabilimenti. Nonostante ciò, riporta il sindacato, «continuano a mancare ancora risposte importanti su Termoli dopo lo stop alla Gigafactory e sul rilancio di Maserati». In generale, Fim-Cisl sostiene che davanti alla crisi perpetua in cui versa il settore, aggravata dall’introduzione di dazi specifici da parte dell’amministrazione statunitense, il governo italiano e l’UE dovrebbero muoversi in suo aiuto elaborando piani appositi e istituendo fondi comuni.

Il crollo della produzione italiana e l’assenza di un piano industriale in grado di rilanciarla pesano sulle spalle degli operai Stellantis, ma non su azionisti e dirigenti, che in tempo di crisi non rinunciano agli utili, sottraendoli ad esempio alla Ricerca e Sviluppo. A giugno, il gruppo ha infatti avviato una nuova procedura di licenziamento collettivo, con l’obiettivo di allontanare 610 operai tramite incentivo all’esodo; nel frattempo, a maggio, ha approvato la distribuzione dei dividendi fissandolo a 0,68 euro per azione ordinaria, corrispondente a un rendimento del 5%.

Libia orientale: Piantedosi espulso dal governo di Bengasi

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Il ministro dell’Interno italiano, Matteo Piantedosi, è stato espulso dal governo della Libia orientale, parallelo a quello di Tripoli. A dare la notizia è l’agenzia di stampa AFP, che riporta che il ministro italiano era in visita nel Paese con una delegazione di diplomatici che comprendeva i suoi omologhi di Grecia e Malta, e il commissario europeo Brunner. La delegazione avrebbe dovuto incontrare il governo orientale del generale Haftar. Da quanto riportano ufficiali libici anonimi ad AFP, i quattro sarebbero stati espulsi al loro arrivo per «non avere osservato le procedure di ingresso e soggiorno dei diplomatici stranieri stabilite dal governo libico». Sono stati dichiarati personae non gratae.

La CPI ha emanato mandati d’arresto per due leader talebani

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La Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di arresto per due leader talebani in Afghanistan, accusandoli di crimini contro l’umanità . A essere oggetto dei mandati sono il leader spirituale Haibatullah Akhundzada e il presidente della Corte Suprema dei talebani, Abdul Hakim Haqqani. La Corte ha accusato i due leader di avere perseguito donne, ragazze e altre persone che non si allineano alla politica dei talebani in materia di genere.

Vicenza: la polizia sgombera i cittadini in presidio contro gli espropri per la TAV

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È iniziato questa mattina all’alba lo sgombero da parte della polizia del bosco di Ca’ Alte e Lanerossi, a Vicenza, dove era stato installato il presidio permanente degli attivisti contro gli espropri di boschi e case per la costruzione della linea ad alta velocità. Il bosco è occupato ormai da un anno dai cittadini, che intendevano così difendere le zone verdi dalle ruspe. Oggi sarebbero dovuti iniziare i lavori di sgombero: il cantiere interessa un’area di circa 177 mila metri quadrati di territorio e prevede lo sfratto di 200 famiglie. Il piano per l’alta velocità a Vicenza, dal valore di circa 1,82 miliardi di euro, rientra nel più ampio progetto della linea ad alta velocità/capacità Verona-Padova; la tratta vicentina prevede lavori su 6,2 chilometri all’interno della città, lungo i quali verrebbero abbattuti decine di edifici e intere aree verdi, come lo stesso bosco Lanerossi.

I poliziotti hanno portato via attivisti e attiviste che si erano incatenati ai cancelli di ingresso del bosco, mentre quelli che si trovavano all’interno, su di piattaforme sopraelevate costruite sugli alberi, sono stati fatti scendere dai vigili del fuoco mediante un camion con braccio. Successivamente, le piattaforme sopraelevate sono state abbattute per mezzo di una ruspa, mentre la polizia in assetto antisommossa ha respinto con gli idranti gli ultimi attivisti rimasti a presidiare l’area. Una volta concluse le operazioni di sgomebro, molti di loro sono comunque rimasti all’esterno del bosco, per dare segnale alle forze dell’ordine che la resistenza contro gli sgomberi e l’abbattimento degli alberi non si sarebbe fermata. Secondo quanto denunciano gli attivisti, nel primo pomeriggio uno di loro si trovava ancora in cima a un cedro all’interno del bosco, uno dei primi alberi che avrebbero dovuto essere abbattuti dalle ruspe.

Il Progetto Av/Ac Verona-Padova 2° lotto “Attraversamento di Vicenza” prevede il raddoppio dei binari sulla linea Milano-Venezia, inclusi i tratti che attraversano il centro abitato della città veneta. Per la realizzazione del piano per l’alta velocità sono previste diverse demolizioni abitative, soprattutto nei quartieri di San Lazzaro, San Felice e Ferrovieri, tra i più popolosi di Vicenza, per un totale di circa 62.316 metri quadri di superficie. L’opera andrà a modificare 6,2 chilometri di tratto con annessi interventi all’intera viabilità nella parte ovest della città, fino alla stazione ferroviaria nel centro storico. Le proteste contro l’opera si sono intensificate da maggio dell’anno scorso, quando il bosco Lanerossi è stato occupato dai collettivi che si oppongono alla sua distruzione. Gli attivisti hanno organizzato performance, proiezioni, attività per bambini e momenti di condivisione collettiva, con l’obiettivo di fare luce sulle criticità del progetto e sull’impatto ambientale dell’opera.

Il rapporto ONU sulle torture in Ucraina di cui nessun media occidentale parla 

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In un rapporto recente, che i media occidentali hanno per lo più fatto finta di non vedere, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR) dettaglia i crimini contro la comunità commessi dalle parti coinvolte nel conflitto russo-ucraino. Smentendo la narrazione mainstream che impone l’esistenza di un “buono” e un “cattivo”, l’OHCHR specifica come tali violazioni siano state commesse da entrambe le parti. Sebbene si dilunghi molto su quanto imputato alla Russia, nella parte finale il documento riporta anche i crimini contro l’umanità che l’Ucraina commette contro i propri stessi cittadini. 

Il rapporto spiega come il 95% delle vittime civili sia stato ucciso nei territori controllati dall’Ucraina a causa dell’utilizzo di armi esplosive ad ampio raggio in aree popolate. L’OHCHR ha documentato diversi attacchi che coinvolgono anche munizioni a grappolo, il cui uso in aree popolate è incompatibile con il diritto internazionale umanitario. Un esempio sarebbe l’attacco russo a Dobropillia, verificatosi il 7 marzo 2025, che ha ucciso 11 civili e ne ha feriti 48. Inoltre, l’aumento delle vittimi civili avuto in questo periodo sarebbe imputabile ad un utilizzo sempre più massiccio di droni a corto raggio, che hanno ucciso 207 civili e causato 1.365 feriti nel periodo di indagine. 

L’OHCHR denuncia anche almeno cinque occasioni in cui le forze russe hanno colpito strutture ospedaliere e condotto 115 attacchi alle infrastrutture energetiche, interrompendo così le forniture di gas alla popolazione civile. Inoltre, l’OHCHR ha registrato anche accuse sull’uso, da parte della Federazione Russa, di bambini ucraini al fine di condurre operazioni di sorveglianza, trasmettere informazioni militari o commettere atti di sabotaggio e incendio doloso. I bambini sarebbero stati contattati tramite social media e pagati per compiere tali atti. Inoltre, secondo le informazioni raccolte dall’OHCHR, almeno 35 soldati ucraini catturati sono stati giustiziati dalle forze russe. Interviste con prigionieri di guerra ucraini rilasciati hanno confermato l’uso diffuso e sistematico di torture e maltrattamenti. Infine, i tribunali russi hanno condannato almeno 125 prigionieri di guerra ucraini con accuse legate al terrorismo per atti che rientrano nelle legittime azioni di guerra.

Nella parte finale del rapporto dell’OHCHR vengono esposte anche le accuse rivolte verso le forze ucraine. Nel periodo di indagine, almeno un soldato russo prigioniero è stato giustiziato e diverse interviste hanno confermato l’utilizzo di tortura, violenza sessuali e finte esecuzioni durante la detenzione in Ucraina. Per quanto concerne i cittadini ucraini, l’OHCHR ha intervistato 56 individui detenuti dalle autorità ucraine con accuse di tradimento, “collaborazione” e altri crimini legati alla sicurezza nazionale. Alcuni di loro hanno descritto percosse e minacce durante l’arresto o l’interrogatorio. Molti sostengono di aver compiuto azioni considerate come tradimento e diserzione soltanto per salvarsi la vita.

Almeno 11 uomini delle comunità dei Testimoni di Geova e Battisti hanno invocato l’obiezione di coscienza, ma sono stati comunque accusati di evasione dal servizio militare o diserzione e poi picchiati. La Corte Suprema dell’Ucraina ha confermato la condanna a tre anni di prigione per un obiettore di coscienza. Sempre rimanendo in tema di religione, il rapporto analizza la repressione del culto applicata nei territori ucraini. La violenza viene perpetrata da gruppi “radicali” contro la Chiesa Ortodossa Ucraina, con la polizia che non interviene immediatamente e rimane a guardare per poi intervenire in un secondo momento. Irruzioni e passaggi all’interno delle chiese ortodosse sono frequenti e ben documentati.

Insomma, il rapporto espone come in guerra non ci siano buoni e cattivi ma solo vittime. Esporne il contenuto significa mettere in luce i crimini commessi nel teatro di guerra da entrambe le parti e non parteggiare ciecamente in nome di principi democratici e liberali, i quali ripropongono un doppio standard nella narrazione del conflitto e si infrangono sulla realtà dei fatti.