sabato 10 Maggio 2025
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Uno studio rivela che le microplastiche hanno raggiunto anche l’Antartide

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Nonostante l’enorme distanza da grandi centri urbani, le severe normative sui materiali che vengono trasportati in zona e i numerosi allarmi lanciati negli ultimi anni sui potenziali effetti avversi per l’uomo e per l’ecosistema, le microplastiche hanno raggiunto anche la neve dell’Antartide. Lo rivela uno studio guidato da scienziati del British Antarctic Survey (BAS), sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Science of the Total Environment. Secondo la ricerca, condotta grazie a una tecnica di rilevamento basata sulla spettroscopia infrarossa, i campioni di neve analizzati presentano plastiche di dimensioni inferiori ai 50 micrometri, con densità comprese tra 73 e 3.099 particelle per litro. I coautori hanno dichiarato che, sebbene il problema sia ben noto, questa sarebbe la prima volta in assoluto che vengono rilevate concentrazioni così alte in aree così remote, il che «evidenzia la cruda realtà che anche gli angoli più incontaminati del pianeta non sono esenti dall’impatto umano».

L’inquinamento da microplastiche è una delle emergenze ambientali più preoccupanti degli ultimi decenni. Composte da polimeri sintetici di varia natura, queste particelle si disperdono nell’ambiente attraverso processi industriali, rifiuti plastici e persino il deterioramento di abbigliamento tecnico. Finora, le microplastiche erano state rinvenute in quasi tutti gli ecosistemi terrestri e marini, dai fondali oceanici alla troposfera. L’Antartide, protetta da rigide normative ambientali che limitano l’introduzione di materiali plastici, era considerata una delle ultime aree incontaminate. Anche se alcuni studi avevano già segnalato la presenza di microplastiche nell’acqua e nei sedimenti marini antartici – suggerendo che le correnti oceaniche e i venti potessero trasportare questi inquinanti anche in luoghi remoti – il nuovo studio è il primo a dimostrare la diffusione delle microplastiche a concentrazioni elevatissime anche nella neve. Questo solleva interrogativi sul loro impatto sul clima e sulla fauna locale.

I ricercatori hanno utilizzato una metodologia innovativa per rilevare particelle di plastica di dimensioni estremamente ridotte: anziché affidarsi alla selezione manuale, il team ha filtrato la neve sciolta e analizzato i residui con spettroscopia infrarossa, identificando polimeri come poliammide, polietilene tereftalato, polietilene e gomma sintetica. La poliammide, utilizzata in tessuti tecnici e corde, è risultata particolarmente abbondante nei campioni raccolti nei pressi dei campi di lavoro, mentre era assente nei siti più remoti, suggerendo una possibile contaminazione locale. Analizzando campioni di neve prelevati da Union Glacier, Schanz Glacier e dal Polo Sud sono state rilevate particelle piccole fino a 11 micrometri (circa le dimensioni di un globulo rosso) e in concentrazioni fino a 100 volte superiori rispetto a studi precedenti. «Riteniamo che ciò significhi che ci siano fonti locali di inquinamento da plastica, almeno per quanto riguarda la poliammide. Ciò potrebbe derivare dagli indumenti da esterno o dalle corde e dalle bandiere utilizzate per contrassegnare percorsi sicuri dentro e intorno al campo», ha commentato la dottoressa Clara Manno, ecologa oceanica presso il British Antarctic Survey, la quale ha aggiunto che le implicazioni delle microplastiche in questa «selvaggia natura ghiacciata» non sono ancora del tutto comprese.

«Nonostante le severe normative sui materiali che entrano in Antartide, le nostre scoperte rivelano contaminazione da microplastiche anche in aree remote e altamente controllate. Ciò sottolinea la natura pervasiva dell’inquinamento da plastica, dimostrando che nessun luogo sulla Terra è veramente incontaminato. La nostra ricerca evidenzia la necessità di sfruttare la presenza antartica esistente per un monitoraggio continuo. Mentre il mondo cerca di assumersi le proprie responsabilità attraverso il Trattato globale sulla plastica dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente, valutazioni regolari in tali ambienti incontaminati potrebbero fornire prove fondamentali per politiche e azioni», ha aggiunto la dottoressa e coautrice Kirstie Jones-Williams, concludendo che gli esperimenti evidenziano la «cruda realtà» che anche gli angoli più incontaminati del pianeta non sono esenti dall’impatto umano, a conferma della necessità di ulteriori studi a riguardo.

[di Roberto Demaio]

Turchia, si diffondono le proteste: Erdogan chiude metro e social

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Dopo l’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, principale rivale politico del presidente Recep Tayyip Erdoğan, in Turchia è scoppiata una ondata di manifestazioni antigovernative, che hanno visto la partecipazione di decine di migliaia di persone. L’arresto di İmamoğlu è visto dai dimostranti come un nuovo tentativo di eliminare ogni residuo di opposizione politica e sociale nel Paese, facendo leva sulla magistratura. Tra mercoledì 20 e giovedì 21 marzo, a Istanbul, migliaia di persone si sono radunate davanti al municipio, mentre si sono registrati scontri nelle università. In generale, le proteste vanno avanti in tutto il Paese, nonostante il governo abbia vietato per quattro giorni ogni manifestazione politica. Nel tentativo di arginare sul nascere ogni possibile mobilitazione, l’esecutivo turco ha anche limitato l’accesso ai social media e chiuso la metropolitana di Istanbul.

Le proteste in favore di İmamoğlu sono ormai arrivate al secondo giorno consecutivo e non sembrano volersi fermare. Mercoledì, le manifestazioni si sono concentrate a Istanbul, dove l’amministrazione aveva vietato di manifestare e limitato l’accesso alle strade per scongiurare le mobilitazioni. Dopo l’arresto del sindaco, Özgür Özel, il capo del Partito Popolare Repubblicano (CHP), il partito di İmamoğlu, ha lanciato un appello alla mobilitazione, invitando i cittadini a unirsi presso il municipio e davanti alla sede centrale della polizia dove İmamoğlu è detenuto. La polizia ha bloccato l’accesso agli edifici. Le proteste di mercoledì hanno raggiunto le università, le stazioni della metropolitana, la sede del partito di İmamoğlu, e gli stessi luoghi indicati da Özel. All’Università di Istanbul si sono registrati scontri tra manifestanti e polizia, che ha usato lo spray al peperoncino per disperdere la folla.

Giovedì le proteste sono andate avanti. Davanti al municipio di Istanbul, piccoli gruppi di dimostranti si sono scontrati con la polizia mentre cercavano di avvicinarsi a piazza Taksim, che era stata chiusa alla folla. Ad Ankara, la capitale turca, la polizia ha utilizzato idranti per disperdere la folla di studenti radunatasi presso la Middle East Technical University, e analoghe proteste sono state segnalate anche nella città di Smirne (sulla costa egea della Turchia) e ad Adana (nella Turchia meridionale). A partire da ieri, inoltre, le proteste sono andate avanti anche sotto forma di post e contenuti sui social. L’ondata di critiche ha spinto le autorità turche a limitare l’accesso a varie piattaforme di social media, tra cui Facebook, Instagram, Signal, Telegram, TikTok, WhatsApp, X e YouTube, portando, secondo giornali specializzati, a un aumento dell’uso di VPN e metodi alternativi per accedere alle piattaforme soggette a restrizioni. Il ministro degli Interni turco, Ali Yerlikaya, ha poi dichiarato che la polizia ha arrestato 37 persone per aver condiviso post «provocatori» sui social media.

I manifestanti accusano il governo di sfruttare la propria influenza sulla magistratura per mettere a tacere il dissenso nel Paese. Ekrem İmamoğlu, 54 anni, sindaco di Istanbul dal 2019, è stato arrestato mercoledì assieme ad altre 106 persone, con la duplice accusa di corruzione e affiliazione al Partito dei Lavoratori del Kurdistan, che la Turchia considera un’organizzazione terroristica. Con i suoi mandati da sindaco, İmamoğlu ha acquisito parecchia notorietà, diventando gradualmente il principale politico dell’opposizione turca. Domenica sarebbe dovuto essere confermato candidato alle prossime presidenziali, che si dovrebbero tenere nel 2028. Il raid in casa sua, inoltre, è avvenuto solo due giorni dopo la decisione dell’Università di Istanbul di ritirare a İmamoğlu il diploma di laurea, requisito fondamentale per candidarsi alle elezioni. İmamoğlu, inoltre, è finito più volte al centro di vicende giudiziarie che l’opposizione giudica come tentativi di delegittimazione e di fermare una sua possibile candidatura. La sua stessa elezione a sindaco nel 2019, che mise fine a circa 25 anni di governo dell’AKP, il partito del presidente, fu ripetuta per decisione di Erdoğan.

[di Dario Lucisano]

In tutta Italia proteste dei precari dell’Università contro la riforma Bernini

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In occasione della Giornata Nazionale delle Università promossa dalla CRUI, ieri il mondo universitario si è unito in protesta contro il precariato e i tagli agli Atenei, denunciando la riforma Bernini – attualmente sospesa – come un provvedimento che aggraverebbe le condizioni dei ricercatori. Studenti, dottorandi e docenti hanno manifestato in numerosi atenei italiani: a Pisa si è tenuto un presidio in piazza Dante, a Firenze al Polo di Novoli; a Bologna, i ricercatori hanno simbolicamente bloccato il rettorato con nastro bianco e rosso, mentre a Milano, alla Bicocca, i manifestanti hanno chiesto un confronto con la rettrice. I precari denunciano un sistema basato su contratti brevi e senza garanzie, chiedendo stabilizzazione e maggiori finanziamenti.

L’esame del ddl sul precariato universitario, voluto dalla ministra Bernini, era stato sospeso nelle scorse settimane, una vittoria rivendicata dalle associazioni di ricercatori e dottorandi, per mesi in stato di agitazione. Le riforme, infatti, introdurrebbero («sotto altro nome») l’assegno di ricerca, tipologia contrattuale estremamente precaria che costituiva un unicum nel panorama europeo. «A fronte del progressivo esaurimento dei fondi straordinari legati al PNRR, la manovra Finanziaria 2024 ha previsto un taglio al Fondo di Finanziamento Ordinario delle Università, a cui si aggiungeranno altri tagli previsti fino al 2027 per un totale di circa 1,4 miliardi in quattro anni. Questo colpo duro rischia di mettere in pericolo la sopravvivenza degli atenei, soprattutto quelli medi e piccoli» denunciano i ricercatori. In questo contesto, «I fondi che la ministra Bernini ha stanziato sui “contratti di ricerca”, ovvero i contratti che per ora dovrebbero sostituire gli assegni, sono a dir poco irrisori e basteranno a malapena per finanziare qualche centinaio di borse».

Così, in occasione della giornata Università Svelate indotta dalla Conferenza dei rettori, durante la quale gli Atenei di tutta Italia si sono aperti al pubblico con attività di vario genere, i ricercatori dell’Assemblea Precaria di Bologna si sono ritrovati in via Zamboni 33, di fronte alla sede dell’Università, per «svelare l’inganno su cui si regge l’Università italiana oggi», ovvero «sul lavoro precario di migliaia di lavoratori e lavoratrici». A Milano, i ricercatori della Bicocca hanno dato via a un presidio, al quale hanno preso parte anche docenti e studenti. Nel corso della giornata è partito anche un corteo che, attraversando il campus dietro uno striscione recante la scritta «Inganno svelato: tagli, guerre e precariato», ha contestato la rettrice Iannantuoni. Le proteste sono state molto partecipate anche a Firenze, Pisa e Torino, dove i ricercatori hanno dato vita a un flash mob all’interno del Campus Luigi Einaudi. In tutti gli atenei le proteste hanno ricevuto anche il sostengo di diversi docenti, che hanno deciso di svolgere le proprie lezioni in piazza.

[di Valeria Casolaro]

Londra, incendio in aeroporto: migliaia di voli cancellati

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L’aeroporto di Heathrow, a Londra, ha dichiarato che rimarrà chiuso per tutta la giornata di venerdì a causa di un vasto incendio scoppiato nella sottostazione elettrica di North Hyde, che ha messo fuori uso l’alimentazione. Heathrow è il più trafficato aeroporto d’Europa e il quinto al mondo: secondo il sito di monitoraggio dei voli FlightRadar24, almeno 120 voli in arrivo sono stati dirottati su altri aeroporti, mentre 1.351 voli avrebbero dovuto atterrare e decollare da Heathrow oggi. L’incendio ha inoltre costretto all’evacuazione di circa 150 persone dagli edifici vicini e ha lasciato migliaia di abitazioni senza elettricità. Ancora ignote le cause dell’incendio.

La maratona dei saharawi per l’indipendenza

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La terra secca sotto i piedi, il vento caldo e la sabbia del deserto dipingono i quarantadue chilometri che separano il punto di partenza, il campo profughi di El Aaiun, dalla meta, il campo profughi di Smara. Dal 2001, atlete e atleti di tutto il mondo si riuniscono nei territori del Sahara Occidentale per partecipare alla Sahara Marathon, una competizione podistica unica nel suo genere, nata per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla resistenza del popolo saharawi.

Ideata dal podista Jeb Carney, questa corsa richiama ogni anno migliaia di partecipanti, creando un contesto sociale di profonda armonia con il territorio e i suoi abitanti. Nei giorni della competizione, infatti, i corridori vivono a stretto contatto con la popolazione locale, che si occupa dell’ospitalità, mentre l’organizzazione della gara è gestita dalla Segreteria di Stato dello Sport della Repubblica Democratica Araba Saharawi (RDAS), con il supporto di volontari provenienti da tutto il mondo. 

L’evento, che si svolge nell’ultima settimana di febbraio, fa da cornice all’anniversario più sentito per il popolo saharawi: l’indipendenza, dichiarata il 27 febbraio 1976 dal Fronte Polisario, il movimento politico e militare che lotta per l’autodeterminazione del Sahara Occidentale. Correre nel deserto, tuttavia, non è semplice. La temperatura media in questo periodo dell’anno si aggira intorno ai venticinque gradi centigradi, e le strutture ricettive per gli atleti non sono certo paragonabili a quelle dei circuiti professionali.

«La Sahara Marathon non cerca la presenza di sportivi d’élite», ha spiegato uno dei promotori della corsa, David Muñoz Avia, ai microfoni di Conversamos sobre el Sahara, «perché anche per loro è difficile, visto che spesso coincide con le competizioni ufficiali». Nonostante ciò, negli anni diversi atleti professionisti e personaggi dello spettacolo hanno preso parte alla gara, tra cui il maratoneta italiano Giorgio Calcaterra e, nel 2018, l’attore Giovanni Storti del trio Aldo, Giovanni e Giacomo.

Iniziata come una semplice maratona, con la partecipazione di un centinaio di atleti internazionali e nessun corridore locale, la competizione si è ampliata nel tempo, accogliendo diverse categorie di gara. Oltre alla maratona classica, infatti, si può scegliere di correre la mezza maratona, la 10 km o la 5 km. A queste si aggiunge una corsa per bambini, pensata per promuovere lo sport tra i giovani saharawi e raccogliere fondi per aiuti umanitari. 

Mentre chilometro dopo chilometro le scarpe si riempiono di sabbia e il traguardo si avvicina, lo scenario che avvolge la competizione rimane quello di un conflitto irrisolto da oltre quarant’anni. La solidarietà e l’attenzione mediatica sono fondamentali per un popolo confinato in un deserto che da troppo tempo chiama “casa”.

«L’obiettivo iniziale della Sahara Marathon era raccogliere aiuti attraverso lo sport, riconoscendone l’importanza per lo sviluppo personale dei giovani» spiega David Muñoz Avia. Grazie ai finanziamenti derivanti dal progetto, le ragazze e i ragazzi saharawi possono avvicinarsi allo sport, in un contesto dove la pratica sportiva è ostacolata da un territorio ostile sia agli spostamenti sia all’attività fisica in sé. «Questo contributo ha aperto numerose opportunità per i giovani, favorendo la nascita di competizioni di calcio e pallavolo, incentivando lo sport femminile e permettendo la costruzione di strutture dedicate alla pratica sportiva».

La maratona, che dal 2001 non ha mai saltato un’edizione, nemmeno durante le restrizioni pandemiche del 2021, si svolge quest’anno sullo sfondo di una situazione politica rimasta pressoché immutata. Tra i membri dell’ONU e della NATO, è la Spagna a portare il maggior peso: formalmente responsabile di aver abbandonato un territorio coloniale all’aggressione del confinante Marocco, continua ad adottare una politica ambigua e, per questo, subdola. Gli interessi commerciali della Comunità Europea con Rabat rappresentano l’ago della bilancia di un’attività controversa. Tra i vari accordi, ad esempio, si distingue lo sfruttamento delle risorse ittiche saharawi da parte dell’industria della pesca marocchina, dichiarato illegale dal Tribunale di Giustizia dell’Unione Europea, così come il mercato delle tratte aeree operate da compagnie multinazionali come Ryanair, che collegano la Spagna a Dakhla, città del Sahara Occidentale trasformata dalla monarchia marocchina in una meta turistica marittima.

A denunciare questa operazione di marketing, che in realtà nasconde un’occupazione illegale, è stata Tesh Sidi, deputata saharawi del partito Sumar e Más Madrid nel Congresso spagnolo. «Mi sono preparata tutto l’anno per la Sahara Marathon, ma purtroppo non ho potuto partecipare per impegni di lavoro» racconta. «Questo progetto può contribuire a richiamare l’attenzione sul Sahara, anche se, a mio parere, sarebbe utile organizzarne altre anche in Spagna, coinvolgendo i vari club di running». Anche quest’anno migliaia di partecipanti sono partiti dall’accampamento di El Aaiun, che condivide il nome con l’omonima città nei territori occupati del Sahara Occidentale. Migliaia di atleti hanno corso per sostenere la resistenza di una causa sempre più spesso dimenticata, nell’attesa che, un giorno, la gara possa essere disputata nei territori occupati, che i saharawi continuano a chiamare «casa». 

[di Armando Negro]

In Europa aumenta l’aspettativa di vita, Italia al 3° posto

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Nel 2023, l'aspettativa di vita alla nascita nel continente europeo ha superato i livelli pre-covid, raggiungendo la media di 81,4 anni contro gli 81,3 del 2019. L'Italia, di preciso, è tra i Paesi che registrano il risultato migliore, con una aspettativa media di 83,5 anni, inferiore a quella delle sole Svizzera (con 84,3 anni) e Spagna (84). Inoltre, malgrado le disomogeneità interne, nessuna regione del Belpaese scende al di sotto dell'aspettativa europea. A dirlo sono gli ultimi dati diffusi dall'Eurostat, che spiega come una delle ragioni dell'aumento dell'aspettativa di vita è stata la d...

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Congo, ribelli dicono no alla tregua e conquistano Walikale

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Il leader dei ribelli M23 sostenuti dal Ruanda nel Congo orientale ha dichiarato oggi che l’appello di Kinshasa e Kigali per un cessate il fuoco immediato «non preoccupa» le sue forze, che nel frattempo si sono spinte più in profondità nel territorio congolese. Mercoledì i ribelli hanno infatti conquistato la città strategica di Walikale, punto più a ovest da loro raggiunto in un’avanzata che, da gennaio, ha già visto la presa delle due città più grandi del Congo orientale. Il presidente congolese Felix Tshisekedi e il suo omologo ruandese Paul Kagame avevano chiesto martedì un cessate il fuoco immediato dopo un incontro in Qatar.

“Pronti al peggio”: Bruxelles ha approvato il libro bianco della Difesa

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Guidata dalla paura della Russia e dai dubbi sul futuro della protezione degli Stati Uniti, la Commissione Europea ha varato la versione definitiva del libro bianco sulla Difesa europea, che sarà discusso tra oggi e domani dai capi di Stato e di governo dell’UE per una ratifica che ormai sembra del tutto formale e senza sconvolgimenti. L’impianto di base è confermato così come le soluzioni finanziarie. Soprattutto, resta immutato il senso di urgenza ad «essere pronti al peggio». Il piano prevede una «preferenza europea» ma apre alla possibilità di lavorare assieme ai partner extra-europei, il che si traduce in possibili appalti congiunti con Norvegia, Regno Unito, Canada, Giappone, India e Corea del Sud, sebbene, secondo i piani, il grosso della produzione dovrà avvenire in Europa.

La Commissione Europea ha pubblicato ieri il testo finale del libro bianco sulla Difesa europea il quale, tra oggi e domani, aspetta la firma e il via libera da parte dei capi di Stato e di governo dell’UE. Allo stesso tempo, è stata presentata la proposta definitiva del regolamento del Consiglio che istituisce l’azione di sicurezza per l’Europa (SAFE) attraverso il rafforzamento dello strumento europeo dell’industria della difesa. I documenti presentati, discussi in questi giorni, mirano a mobilitare il piano ReArm Europe annunciato dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che stanzierà 800 miliardi di euro per la Difesa europea. Il documento esorta l’Europa a colmare le «lacune di capacità» in settori quali la difesa aerea e missilistica, l’artiglieria, le munizioni e i missili, i droni, il trasporto militare, l’intelligenza artificiale, la guerra informatica e la protezione delle infrastrutture.

L’Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Kaja Kallas, invita ad attenersi al piano messo a punto dal collegio dei commissari perché, sottolinea, «dobbiamo essere preparati al peggio». Si teme che la Russia di Putin possa «testare la nostra capacità di risposta militare da qui a cinque anni», ha detto il commissario per la Difesa, Andrius Kubilius, senza circostanziare con prove o argomenti. D’altronde, il libro bianco della Difesa europea definisce la Russia come una «minaccia esistenziale». La difesa dell’Ucraina contro «una minaccia esistenziale per la sicurezza europea» diventa così un obiettivo a breve termine di primaria importanza per l’Unione, che esorta i suoi Stati a rimanere «fermamente» dalla parte di Kiev. La Russia rappresenta infatti, al momento, «la minaccia diretta e indiretta più significativa per l’UE e la sua sicurezza, nonché per la sicurezza dei Paesi candidati e dei partner dell’UE», è scritto nel libro bianco europeo.

Kubilius ha poi dichiarato che «450 milioni di cittadini dell’Unione europea non dovrebbero dipendere da 340 milioni di americani per difenderci da 140 milioni di russi, che non possono sconfiggere 38 milioni di ucraini». Per fare questo, il piano della Commissione prevede lo stanziamento di 150 miliardi di euro in prestiti ai governi dell’UE da spendere in progetti di Difesa, così come l’allentamento delle norme UE sulle finanze pubbliche, affinché possano essere mobilitati altri 650 miliardi di euro. Inoltre, viene sospeso per quattro anni il patto di stabilità interno per permettere agli Stati membri di accrescere gli investimenti nel settore della Difesa fino a tutto il 2028. A ogni Paese membro verrà concesso di spendere fino all’1,5% di PIL in più ogni anno, potendo anche sforare il 3% del tetto deficit/PIL. Il nuovo assetto da guerra dell’economia europea è stato recepito dalle case automobilistiche che, con il benestare della politica, si dicono pronte alla riconversione o all’allineamento della produzione.

Il libro bianco prevede una «preferenza europea», seguendo tre principi: cercare una soluzione europea; negoziare con produttori e fornitori europei la riduzione di prezzi e tempi di consegna (con il sostegno dell’Unione); qualora una soluzione europea non fosse disponibile ai prezzi o alle tempistiche richiesti, gli Stati membri dovrebbero rivolgersi insieme a fornitori di Paesi terzi chiedendo pieno controllo del processo. E qui lo sguardo dovrebbe volgersi verso Paesi come Norvegia, Regno Unito, Canada, Giappone, India e Corea del Sud, anziché verso gli Stati Uniti.

Vari ministeri europei della Difesa stanno già rivalutando la dipendenza dagli Stati Uniti. Un problema noto è che i punti dati chiave dei sistemi d’arma americani vengono inviati automaticamente negli Stati Uniti, gli aggiornamenti software cruciali dipendono dai produttori statunitensi e molti sistemi d’arma provengono dagli Stati Uniti. Queste sono dipendenze problematiche in un momento in cui l’Europa sta pensando di andare da sola. Però, sebbene la narrazione rifletta, oltre che sull’avversione alla Russia, sullo scollamento con lo storico alleato statunitense, il libro bianco dell’UE sottolinea che la NATO dovrebbe rimanere l’organizzazione che garantisce la difesa collettiva dell’Europa. Ciò significa che gli sforzi dell’UE dovrebbero essere diretti a sostenere la NATO e i requisiti di capacità dei singoli Stati membri. Di fatto, l’Europa che vuole riarmarsi per fronteggiare la Russia e smarcarsi dagli Stati Uniti di Trump, di fatto sta facendo proprio quanto il presidente USA aveva chiesto: sobbarcarsi maggiormente i costi della NATO.

[di Michele Manfrin]

L’annuncio di Macron: la Francia vuole avere centomila riservisti pronti per la guerra

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In un’intervista rilasciata ad alcuni quotidiani regionali francesi, Emmanuel Macron ha annunciato che la Francia aumenterà la sua forza militare di riserva da 40.000 a 100.000 unità. «Esamineremo le leve della mobilitazione civile», spiega Emmanuel Macron, assicurando di voler «consolidare» la «mobilitazione della società di fronte alle crisi». Nel contempo, il presidente francese ha comunicato che, nelle prossime settimane, avverrà una «grande revisione» del Servizio Nazionale Universale (SNU), il programma di servizio civile che si rivolge a tutti i giovani dai 15 ai 17 anni, con estensioni fino ai 25 anni. Scopo della riforma sarebbe quello di modificarlo per adattarlo alle «esigenze della nazione». «Per me, per gli altri, per la Francia», è il motto dello SNU, all’interno del quale ci sono già programmi per i giovani francesi da svolgere nelle forze dell’esercito. L’annuncio di Macron estenderebbe gli obiettivi già fissati lo scorso anno con la legge sulla programmazione militare 2024-2030, per la quale, nel complesso, sono stati stanziati 413,3 miliardi di euro.

Come assicurato da Macron, questa revisione non avrà nulla a che vedere con un eventuale ritorno del servizio militare obbligatorio, soppresso nel 2001: «Non è un’opzione realistica», ha detto il presidente francese. Con la professionalizzazione dell’esercito, infatti, lo Stato francese non ha più una base logistica per gestire la coscrizione obbligatoria e centinaia di migliaia di giovani. Dunque, per arrivare all’obiettivo di ingrandire l’esercito, specie le file dei riservisti, passando da 40.000 a 100.000 entro il 2035, si deve passare attraverso il convincimento della società civile, soprattutto i giovani e i giovanissimi. Da qui l’idea di potenziare il Servizio Nazionale Universale (SNU), il programma di servizio civile che si rivolge a tutti i giovani dai 15 ai 17 anni, con estensioni fino ai 25 anni, come strumento di disciplina e di proselitismo per le forze armate.

Oltretutto lo SNU ha già una vasta fetta di programmi che si inseriscono proprio nell’ambito della Difesa e della Sicurezza. Infatti, oltre a servizi quali la «riserva civica» e i «giovani vigili del fuoco», vi sono anche la «riserva operativa della Polizia nazionale», la «riserva operativa negli eserciti», la «riserva della Gendarmeria nazionale», il «servizio militare volontario», il «servizio militare adattato» e gli «squadroni aerei giovanili dell’esercito dell’aeronautica e dello spazio». Questi programmi, previsti per la seconda fase dello SNU, dopo una prima fase della durata di 12 giorni, hanno una durata che va dai 3 mesi a un anno, a seconda del programma scelto. «Poiché siete una gioventù profondamente impegnata, lo SNU vi offre l’opportunità di rafforzare il vostro senso dell’azione attraverso iniziative individuali e collettive molto concrete al crocevia delle vostre preoccupazioni e delle sfide che il Paese deve affrontare», si legge sul sito in cui vengono presentati i vari programmi.

Quanto affermato da Macron alla stampa era già stato detto alla fine di gennaio dallo stesso presidente francese durante un discorso all’Army Digital and Cyber Support Command. In quell’occasione, aveva chiesto alle forze armate di redigere proposte che descrivessero in dettaglio come più giovani volontari potessero essere mobilitati in caso di bisogno e aveva esortato le giovani generazioni a rafforzare le capacità di Difesa del Paese. L’annuncio di Macron estende quindi gli obiettivi fissati per i riservisti previsti nella legge di programmazione militare 2024-2030 adottata nel luglio dello scorso anno. All’interno della legge, per cui vengono stanziati in tutto 413,3 miliardi di euro, si prevede infatti un aumento da 40.000 a 80.000 entro il 2030.

Insomma, in linea con la piega ultra-militarista presa dall’Europa, la Francia cerca di espandere il proprio esercito, come annunciato da altri Paesi europei attraverso varie forme e programmi. Un annuncio simile è infatti stato fatto dalla Polonia, che vuole addestrare tutti gli uomini del Paese per aumentare significativamente la forza di riserva dell’esercito. Siamo in pieno paradosso (o dilemma) della sicurezza, ovvero quella situazione di reciproca percezione di pericolo tra due o più Stati. Quando uno stato aumenta la propria sicurezza armandosi, aumenta l’insicurezza degli altri Stati, i quali a loro volta si armeranno per sentirsi più al sicuro, causando così l’aumentare dell’insicurezza degli altri che reagiranno allo stesso modo. La corsa agli armamenti finisce così per far sì che tutti siano armati e tutti si sentano in pericolo.

[di Michele Manfrin]

Sudan, l’esercito avanza nella capitale

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L’esercito del Sudan ha annunciato di essere vicino a riprendere il controllo del Palazzo Presidenziale della capitale Khartum, strappandolo al gruppo ribelle delle Forze di Supporto Rapido (RSF). Le RSF hanno preso il controllo del palazzo e di gran parte della capitale allo scoppio della guerra, nell’aprile 2023, ma negli ultimi mesi le Forze Armate Sudanesi hanno portato avanti una rapida avanzata, avvicinandosi alla città lungo il fiume Nilo. La ripresa della capitale potrebbe accelerare la presa del Sudan centrale da parte dell’esercito, dove sono ancora in corso gli scontri.