mercoledì 27 Agosto 2025
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Il leader curdo Ocalan ha annunciato la fine della lotta armata del PKK

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Abdullah Öcalan, storico leader incarcerato del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), ha proclamato ufficialmente la fine della lotta armata del gruppo contro lo Stato turco, aprendo la strada a una «nuova fase» basata sulla politica e sul diritto democratico: «La fase della lotta armata è finita. Questa non è una sconfitta, ma un guadagno storico», ha dichiarato Öcalan, esortando il parlamento turco a istituire una commissione speciale che possa gestire il processo di disarmo e facilitare un dialogo politico inclusivo. Il disarmo comincerà con un primo gruppo di militanti che deporrà le armi nella città di Suleymaniyah, nel nord dell’Iraq. Il PKK, nato alla fine degli anni Settanta e considerato un’organizzazione terroristica da Turchia, Stati Uniti e Unione Europea, aveva già annunciato a maggio la decisione di sciogliersi, in risposta a un primo appello scritto di Öcalan risalente a febbraio.

L’annuncio di Öcalan è stato rilasciato ieri, mercoledì 9 luglio, con un video diffuso dall’agenzia di stampa Firat, vicina al PKK. Il processo di deposizione delle armi inizierà domani, e andrà avanti per giorni. Per portarlo avanti, ha detto Öcalan, verrà istituito un meccanismo che assicuri l’integrazione dei curdi nell’Assemblea nazionale turca, che coinvolgerà in maniera diretta il partito filo-curdo DEM, la terza forza del Paese. Una portavoce del partito, Aysegul Dogan, ha dichiarato che il processo di disarmo del PKK deve essere reso permanente attraverso una serie di garanzie legali e la creazione di meccanismi che garantiscano una transizione verso una politica democratica. Dogan ha aggiunto che i membri di DEM avrebbero partecipato alla cerimonia di disarmo a Sulaymaniyah insieme a un gruppo di combattenti del PKK. Al termine della fase di disarmo, Öcalan ha annunciato che pubblicherà il “Manifesto per una Società Democratica” che sostituirà il precedente manifesto “Strada per la Rivoluzione del Kurdistan”.

Dopo la pubblicazione del video di Öcalan, l’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK), organizzazione politica che tiene insieme il PKK, il Partito dell’Unione Democratica (PYD, siriano), il Partito per la Vita Libera in Kurdistan (PJAK, iraniano) e il Partito della Soluzione Democratica del Kurdistan (PÇDK, iracheno), ha rilasciato una dichiarazione in cui accoglie le richieste del leader curdo. Il KCK ha affermato di essere «determinato» a realizzare la “Società per la Pace e la Democrazia” di cui parla Öcalan, sottolineando che la chiamata «non riguarda solo noi, ma anche lo Stato, il Parlamento e tutti gli attori politici con una responsabilità», chiedendo dunque alla Turchia di andare incontro alle esigenze del popolo curdo. Il KCK ha anche ribadito la sua posizione per cui il processo di pacificazione debba passare dalla liberazione di Öcalan. Anche il presidente turco Erdoğan sembra avere accolto favorevolmente le parole di Öcalan, augurandosi che il processo di integrazione curda e smilitarizzazione del PKK proceda senza intoppi.

L’annuncio di Öcalan arriva al termine di un processo di riapertura dei dialoghi iniziato nella fine del 2024. Tutto è partito con un’apertura da parte di Devlet Bahçeli, leader del Partito del Movimento Nazionalista, il più grande alleato esterno del presidente turco. Bahçeli ha chiesto a Erdoğan di aprire un colloquio con Öcalan per porre fine al conflitto, che durava da oltre trent’anni, suggerendo la possibilità di liberare il fondatore del PKK in cambio di un suo eventuale ordine di deporre le armi. A dicembre, è stato ufficialmente rotto l’isolamento del leader del PKK, che ha ricevuto una visita di due deputati di DEM, il principale partito curdo del Paese. I colloqui si sono così fatti sempre più serrati, fino a quanto il 27 febbraio, dal carcere, Öcalan ha lanciato uno storico annuncio in cui ha chiesto a tutte le firme curde di abbandonare le armi e indire un congresso per deliberare uno scioglimento. Poco dopo, il PKK ha annunciato un cessate il fuoco temporaneo e organizzato il congresso richiesto da Öcalan. A maggio, il congresso si è riunito e ha approvato lo scioglimento del partito e la deposizione delle armi.

Corea del Sud: arrestato l’ex presidente Yoon

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L’ex presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol è stato arrestato. L’arresto è stato effettuato per decisione del Tribunale distrettuale centrale di Seoul, che ha così accolto il mandato emanato dai procuratori speciali per il caso Yoon, che hanno accusato l’ex presidente di avere bloccato tentativi di arresto lo scorso gennaio. Il tribunale ha dichiarato che Yoon è stato arrestato a causa della possibilità che distruggesse le prove. Yoon è tornato nel Centro di Detenzione di Seul, dove aveva trascorso 52 giorni all’inizio dell’anno per poi essere rilasciato a marzo per motivi tecnici. Yoon è sotto indagine per avere provato a instaurare la legge marziale nel Paese lo scorso dicembre.

Gli Stati Uniti hanno annunciato sanzioni contro Francesca Albanese

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Dopo mesi di tentativi di affossamento, gli Stati Uniti hanno deciso di muoversi in prima persona e sanzionare la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese. L’ordine è stato firmato dal segretario di Stato Marco Rubio e si basa sullo stesso decreto con cui Trump aveva aperto la strada alle sanzioni contro membri della Corte Penale Internazionale, abbattendo la scure delle limitazioni sul procuratore della Corte Karim Khan, reo di aver formulato accuse contro Netanyahu. Albanese, insomma, è stata accusata di avere contribuito direttamente ai tentativi della CPI di indagare, arrestare o perseguire cittadini israeliani e statunitensi; precisamente, lo avrebbe fatto con il suo ultimo rapporto, “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”, in cui smaschera le aziende che fiancheggiano Israele nel suo progetto genocidario traendone profitto. Il rapporto evidentemente non è andato giù all’amministrazione statunitense: Albanese, ora, sarà soggetta a limitazioni come il divieto di entrare negli USA, e le associazioni statunitensi non potranno sostenerla nel suo lavoro.

L’ordine di Rubio è stato firmato ieri, mercoledì 9 luglio. Il segretario di Stato sostiene che nel corso del suo ufficio Albanese abbia «vomitato» supporto al terrorismo, contrastato apertamente gli interessi di USA, Israele e Occidente, e mostrato «sfacciato antisemitismo». Senza dilungarsi troppo nelle formalità, Rubio passa subito a elencare i motivi per cui Albanese andrebbe sanzionata: le sue accuse «estreme e infondate» contro aziende statunitensi della finanza, della tecnologia, della difesa, dell’energia e dell’ospitalità, e la sua richiesta di provvedimenti. Tradotto: il suo ultimo rapporto, in cui Albanese esplora «i meccanismi aziendali che sostengono il progetto coloniale israeliano». Le sanzioni degli Stati Uniti si basano sul medesimo atto con cui Trump aveva in precedenza aperto la strada al contrasto alla CPI e a coloro che la sostengono. Questo prevede sanzioni di svariato genere: ad Albanese e ai suoi parenti, compreso il marito e i figli, è impedito l’ingresso negli Stati Uniti; i beni – e gli eventuali interessi che essi generano – della Relatrice che si trovano negli USA sono congelati; le aziende statunitensi non possono fare affari o elargire donazioni ad Albanese né sostenerla nella sua attività. L’ordine vieta dunque anche l’eventuale supporto finanziario volto a rimborsare le spese per le sue attivitàche Albanese svolge pro bono per le Nazioni Unite – o donazioni che rientrano sotto la sezione 203(b)(2) dell’International Emergency Economic Powers Act, ossia vestiti, medicine o generi alimentari.

Non è la prima volta che gli Stati Uniti provano a colpire Albanese, ma mai prima d’ora si erano mossi per sanzionarla in maniera così diretta. Poco prima del rinnovo automatico del suo mandato, gli USA avevano inviato all’ONU una lettera per contestare la sua attività e chiedere che la sua rielezione venisse messa in discussione; le richieste degli Stati Uniti, tuttavia, non riuscirono a fare breccia nel Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, che confermò come l’attività della giurista fosse stata in linea con il codice di condotta presente nel suo mandato. In generale, Albanese è oggetto di una vera e propria campagna volta ad affossarla: a oggi, se una persona che non ha interagito spesso con contenuti che la riguardano cerca il suo nome sul motore di ricerca di Google, il primo risultato che si ottiene è una pagina sponsorizzata dal nome “Francesca Albanese controversy” (controversie su Francesca Albanese), che riporta a un documento per screditarla redatto dallo stesso governo israeliano. A proposito di Google, il Washington Post ha recentemente rivelato che il co-fondatore della piattaforma, Sergey Brin, avrebbe definito le Nazioni Unite «apertamente antisemite», in risposta allo stesso rapporto di Albanese, che fa riferimento ad Alphabet (la holding a cui fa capo Google). Albanese è una giurista italiana che ricopre un incarico internazionale. Di fronte alle accuse nei suoi confronti, alle campagne diffamatorie e alle sanzioni statunitensi, tuttavia, non ha mai trovato né trova oggi supporto dalle autorità del Paese.

In Argentina le nonne di Plaza de Mayo hanno ritrovato il 140° figlio dei desaparecidos

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L’Argentina ha appena vissuto un altro importante capitolo nella sua lunga e dolorosa ricerca della verità sui “desaparecidos”, le vittime della dittatura civile-militare che ha sconvolto il Paese tra il 1976 e il 1983. L’organizzazione delle Abuelas de Plaza de Mayo, da sempre simbolo di resistenza e lotta per i diritti umani, ha recentemente annunciato il ritrovamento del “nipote numero 140”. L'uomo, che ora ha 48 anni e vive a Buenos Aires, è stato sottratto alla sua famiglia durante la dittatura, uno dei tanti neonati rapiti dalle madri detenute in gravidanza e mai restituiti alle loro fam...

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La Romania vieta l’ingresso a un politico moldavo di opposizione

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La Romania ha vietato l’ingresso nel Paese a Ion Ceban, sindaco di Chișinău, capitale della Moldavia, e ad altri due cittadini del Paese limitrofo. Il divieto, annunciato dal Ministero degli Esteri rumeno, si estende anche all’area Schengen. Ceban è un politico di opposizione della attuale presidente filo-occidentale Maia Sandu. Il Ministero non ha specificato le ragioni del divieto, motivandolo con generiche questioni di «sicurezza nazionale».

In Abruzzo una nuova seggiovia riapre lo scontro tra sviluppo turistico e tutela ambientale

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A Ovindoli, in provincia de L’Aquila, è stata ufficialmente bandita una gara da 6,2 milioni di euro per la realizzazione di una nuova seggiovia quadriposto nel cuore del Parco Naturale Regionale Sirente-Velino. L’opera, finanziata dal Fondo per lo Sviluppo e la Coesione 2021-2027 grazie a un accordo tra Regione Abruzzo e Governo, punta a rafforzare l’offerta turistica della stazione sciistica di Ovindoli, ma ha riacceso lo scontro tra sviluppo turistico e tutela ambientale. Il progetto ha ottenuto tutte le autorizzazioni ambientali, ma è contestato da numerose associazioni, le quali denunciano la distruzione di 13 ettari di habitat protetti e l’anacronismo dell’opera in un contesto di nevosità invernale sempre minore.

Il nuovo impianto, “Costa della Tavola”, collegherà la quota 1926 metri della stazione a valle con i 2032 metri di quella a monte, sviluppandosi per 560 metri e servendo nuove piste (Costa della Tavola 1 e 2, Genziana). L’obiettivo dichiarato dalle amministrazioni comunale e regionale è quello di rafforzare il comprensorio e porre le basi per un futuro collegamento con Campo Felice, creando un unico grande bacino sciistico. «Stiamo andando avanti verso un obiettivo molto ambizioso e utile per il turismo abruzzese», ha ribadito il presidente della Regione Marco Marsilio (FdI), che vede nell’ampliamento un volano economico per il territorio. Sulla stessa linea il sindaco di Ovindoli, Angelo Ciminelli, al terzo mandato e con una carriera da maestro di sci: «Con la firma della convenzione Regione-Comune andiamo avanti in tempi record, con grande determinazione». Ma il progetto non convince gli ambientalisti, che parlano di “cancellazione del paesaggio” e di un intervento in pieno contrasto con la legislazione europea. L’area è infatti non solo dentro un Parco Regionale, ma ricade anche nella Zona a Protezione Speciale (ZPS) Sirente Velino e confina con la Zona Speciale di Conservazione Monte Sirente e Monte Velino. Secondo le associazioni Lega Italiana Protezione Uccelli (LIPU), Mountain Wilderness Italia, Club Alpino Italiano, Stazione Ornitologica Abruzzese e Salviamo l’Orso, la nuova seggiovia impatterà su 13 ettari di territorio caratterizzato da almeno sei habitat naturali riconosciuti e protetti a livello europeo. Senza contare le minacce dirette anche per specie di interesse comunitario come la Vipera ursinii «Si sta distruggendo la più vasta area dell’Appennino per questi interventi – denuncia Augusto De Sanctis della Stazione Ornitologica Abruzzese – nonostante il divieto esplicito di legge, si andranno a cancellare habitat prioritari di prateria». Un rischio confermato da Bruno Petriccione, presidente di Appennino Ecosistema, che ha portato il caso fino alla Commissione Europea nel 2023 con un ricorso ancora in attesa di risposta.

L’iter autorizzativo, non a caso, ha avuto uno storico travagliato. Nel 2022 il Tar Abruzzo aveva dato ragione alle associazioni annullando il provvedimento unico regionale che autorizzava le opere. Ma nel 2023 il Consiglio di Stato ha ribaltato la sentenza, sbloccando di fatto il progetto. Per le istituzioni, però, i permessi sono regolari, le quali evidenziano che il progetto “garantisce la conservazione degli habitat presenti”, forti dei pareri favorevoli della Valutazione di Incidenza Ambientale e del nulla osta in materia di tutela del paesaggio del Comune di Ovindoli, cui si aggiungono l’esito positivo della Valutazione di Impatto Ambientale della Regione e l’autorizzazione paesaggistica del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Il nuovo lotto segue la realizzazione della seggiovia Max Bortolotti, inaugurata a marzo 2025, parte del primo pacchetto di interventi finanziato con fondi pubblici. Il Masterplan Abruzzo prevede un investimento complessivo salito a circa 13 milioni di euro, articolato in più lotti per potenziare gli impianti esistenti e costruirne di nuovi. Non tutti gli operatori turistici, però, sembrano entusiasti di questa corsa all’espansione. Giancarlo Bartolotti, gestore degli impianti, ha espresso più volte perplessità: «La nostra è una stazione sciistica di dimensioni contenute. Un incremento improvviso e massiccio di visitatori rischierebbe di compromettere l’equilibrio che abbiamo mantenuto negli anni».

Il dibattito resta quindi acceso. Da un lato la Regione e il Comune spingono per consolidare il turismo invernale come risorsa strategica per l’economia locale. Dall’altro, ambientalisti e parte della comunità temono la definitiva trasformazione di un paesaggio unico dell’Appennino centrale, mettendo in discussione la compatibilità tra sviluppo economico e tutela di un territorio riconosciuto a livello europeo per il suo valore naturalistico. Il caso, comunque, è tutt’altro che isolato. Lungo tutto lo Stivale sono infatti diverse le opere anacronistiche come questa che, in un contesto di riscaldamento globale, investono ancora denaro pubblico a favore di un settore morente e sempre più impattante.

Grecia: stop all’accoglimento di migranti per tre mesi

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La Grecia interromperà l’elaborazione delle domande di asilo provenienti dal Nord Africa per fare fronte all’impennata di arrivi dalla Libia. L’annuncio è arrivato il giorno dopo il respingimento del ministro dell’interno greco da parte del governo di Bengasi della Libia orientale, parallelo al governo centrale di Tripoli. Il premier Kyriakos Mitsotakis ha spiegato che l’esame delle domande d’asilo sarà inizialmente sospeso per tre mesi, e che in generale le leggi contro le persone migranti saranno rese più severe, con la costruzione di un centro di detenzione per migranti a Creta.

“Truccata da Hamas”: la bufala sulla giornalista di Gaza sopravvissuta al massacro 

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Di fronte a una tragedia, la propaganda non si limita a distorcere la realtà: spesso la inventa. Questa volta con la regia dichiarata di un apparato organizzato e ideologico che ha come unico obiettivo il sabotaggio della verità. È il caso dell’ennesima bufala confezionata dal canale Gazawood e ripresa con entusiasmo dalla testata italiana Libero («Ferita dai colpi israeliani» Ma era Hamas a truccarla – sabato 5 luglio 2025), secondo cui l’attivista palestinese Bayan Abu Sultan sarebbe stata “truccata” in un finto backstage per fingere di essere una vittima dei bombardamenti israeliani a Gaza. Peccato che quella che viene spacciata come “prova” – un reel pubblicato il 30 giugno 2025 dall’account Instagram di Mohammed Abusalama – non solo non dimostri nulla, ma sia facilmente smentibile grazie a dati visivi, geolocalizzazioni, video da altre angolazioni e un minimo di logica, che però manca a chi ha interesse a falsificare la realtà.

Il contesto: un massacro vero, una bufala costruita

Il 30 giugno 2025, l’esercito israeliano ha colpito un Internet café di Gaza City, l’Al-Baqa, uccidendo oltre 39 persone, tra cui civili e giornalisti. Le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno giustificato la strage sostenendo di aver preso di mira diversi agenti di Hamas. L’Internet café bombardato era noto non per essere un “covo di terroristi”, ma per essere frequentato da molti giornalisti palestinesi. Tra le vittime, anche Ismail Abu Hatab, famoso fotoreporter palestinese. I suoi reportage da Gaza erano stati esposti in una mostra a Los Angeles lo scorso aprile. Le immagini dal luogo della strage hanno circolato rapidamente: tra queste, quelle dell’attivista e femminista palestinese Bayan Abu Sultan, con il volto e i vestiti insanguinati. Consultando l’archivio di Getty Images, attraverso la parola chiave “Al-Baqa”, è possibile trovare due foto che la ritraggono.

Gazawood, la macchina della disinformazione filo-israeliana

Pochi giorni dopo la strage, parte il contrattacco mediatico. Il 1° luglio 2025, tra i primi a mettere in dubbio la vicenda, troviamo l’account X Gazawood, che di fatto rilancia la teoria del complotto nota come Pallywood (secondo cui tutto ciò che proviene da Gaza sarebbe una messa in scena, e i palestinesi inscenerebbero tragedie per sensibilizzare l’opinione pubblica). A ruota segue Libero, che riprende la bufala sostenendo si tratti di una messinscena (lo screenshot dell’articolo è stato condiviso dallo stesso Gazawood). La “prova regina”? Un video girato in un ambiente chiuso – non nel café – dove si vedrebbe Bayan “prepararsi”, ossia farsi truccare come su un set cinematografico, facendosi cospargere di sangue finto. In realtà, il video è stato pubblicato dopo l’attacco e mostra la donna con cerotti al braccio assenti nelle foto precedenti (quindi successivi all’attacco), e la differenza nella tonalità del sangue sui vestiti è compatibile con l’ossidazione naturale del sangue esposto all’aria. Nulla che non si possa verificare con un minimo di buon senso (e persino Open ha dedicato un ampio approfondimento di debunking per smentire questa assurda teoria del complotto).

Il cuore pulsante di questa narrazione non è il video, ma il progetto Gazawood. Nato a fine 2023, l’account X (ex Twitter) si propone esplicitamente di dimostrare che tutto ciò che proviene da Gaza è una messa in scena. La sigla è un gioco di parole su Pallywood (Palestina + Hollywood), vecchio cavallo di battaglia della propaganda israeliana. Dietro Gazawood troviamo un ex autore di romanzi fantasy, Idan Knochen, affiancato da noti nomi della galassia della disinformazione: il professor Richard Landes della Boston University, teorico di Pallywood, e l’ex generale israeliano Yossi Kuperwasser, già direttore generale del Ministero degli Affari Strategici. Il gruppo agisce con un metodo rozzo ma efficace: analizza video da Gaza, li decontestualizza, isola dettagli irrilevanti e grida alla messinscena.

Secondo l’organizzazione investigativa Fake Reporter, su oltre 730 post pubblicati da Gazawood tra dicembre 2023 e agosto 2024, solo il 5,75% è stato ritenuto fondato. Il resto è ciarpame propagandistico, condito da ironie di dubbio gusto su morti, feriti e bambini straziati.

La costruzione del falso: errori, omissioni e distorsioni

Le menzogne di Gazawood e Libero sul caso Bayan Abu Sultan non solo non reggono a una verifica approfondita, ma sono facilmente smontabili con un’analisi accurata:

  • Geolocalizzazione: le foto della donna sono state scattate all’interno del café Al-Baqa colpito dai raid israeliani. Lo confermano fonti visive incrociate tra Google Maps, Getty Images e NurPhoto.
  • Tempistica: il video in cui l’attivista palestinese è accusata di “truccarsi” è stato pubblicato su Instagram da Fadi Turban (@fadi_turban) dopo l’attacco. Lo dimostrano i cerotti visibili nel video, assenti nelle foto precedenti. Un altro video, pubblicato dall’account Instagram di Majd Abo Alouf (@moamen_abualouf), riprende la scena da un’altra angolazione, mostrando Bayan con i vestiti sporchi di sangue. Un’ulteriore clip, pubblicata su Instagram da Hassan Salem (@hassan.salem.gaza), mostra la donna che, davanti a uno specchio, tenta di rimuovere il sangue dal volto. Questa scena precede quella usata per accusarla di prepararsi alla messinscena.
  • Video paralleli: due clip da angolazioni diverse mostrano Bayan con gli stessi vestiti sporchi. In una, la bassa risoluzione riduce la visibilità delle macchie, ma non le cancella.
  • Sangue: la differenza di tonalità è compatibile con il naturale processo di ossidazione del sangue (non con presunto sangue finto). Il sangue fresco appare rosso acceso, quello secco tende al marrone.
  • Contesto: a confermare la presenza della donna sul posto, con i vestiti insanguinati, è un video pubblicato su Telegram dal canale @hamza20300. Chi avrebbe mai potuto prevedere un attacco a un café e organizzare in pochi minuti una messinscena con truccatori e costumisti in una città sotto assedio?

Le accuse rivolte all’attivista palestinese Bayan Abu Sultan sono totalmente prive di fondamento. Il video utilizzato per sostenere la teoria del complotto non è la ripresa di un “backstage”, e le immagini registrate poco dopo l’attacco israeliano confermano la presenza della donna sul luogo della strage, le ferite sul braccio e le macchie di sangue sugli abiti.Nel vortice dell’informazione bellica, la realtà viene spesso inghiottita da costruzioni mediatiche tossiche. Come ricordava Hannah Arendt, mentire continuamente non ha lo scopo di far credere alle persone una bugia, ma di garantire che nessuno creda più in nulla. E, in questo caso specifico, che si dubiti persino delle atrocità compiute dall’esercito israeliano a Gaza.

Leonardo e Ferrovie nell’accordo UE per la mobilità militare

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Leonardo S.p.A. e Rete Ferroviaria Italiana sono entrate a far parte di Military Mobility, progetto volto a sviluppare le «capacità infrastrutturali e digitali esistenti, per assicurare la movimentazione di risorse militari, all’interno e all’esterno dell’Europa». La notizia è stata diffusa da PeaceLink, associazione pacifista, che sottolinea come i due gruppi hanno il ruolo di «identificare l’architettura e le funzionalità della piattaforma digitale integrata di gestione della circolazione» militare, che dovrebbe favorire la mobilità attraverso infrastrutture a doppio uso civile e militare. Leonardo metterà a disposizione le proprie tecnologie di intelligenza artificiale per censire e monitorare tali infrastrutture e per sviluppare modelli di ottimizzazione.

Gaza: dietro gli aiuti di Israele e USA ci sarebbe un piano per sfollare i palestinesi

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Il ruolo della Gaza Humanitarian Foundation nella Striscia di Gaza sembra sempre più legato al piano di deportazione dei palestinesi proposto da Trump. Secondo rivelazioni di media e testate internazionali, GHF avrebbe ideato un piano per creare delle “Aree di Transito Umanitario” fuori e dentro la Striscia, in cui trasferire in massa i palestinesi; in questi luoghi, la popolazione verrebbe incentivata tramite sussidi a «spostarsi volontariamente» al di fuori di Gaza, in un’operazione che potrebbe coinvolgere circa un quarto della popolazione. Con la popolazione confinata, il resto della Striscia si trasformerebbe in un cantiere aperto per la costruzione della “Riviera del Medio Oriente”. Tale piano sembra coerente con una recente operazione lanciata da Israele, volta a creare una maxi-area umanitaria a Rafah dove spingere circa 600mila palestinesi; esso, inoltre, rispecchia i dettagli rilasciati dalla stampa israeliana sull’operazione militare “Carri di Gedeone”, iniziata circa due mesi fa.

Il presunto coinvolgimento di GHF nel piano di deportazione di Trump è suggerito da diverse rivelazioni e inchieste giornalistiche uscite su media e testate internazionali nelle ultime settimane. Una delle più rilevanti è un’inchiesta del Financial Times che indaga sul presunto ruolo del Boston Consulting Group, una società di consulenza statunitense, nella costituzione di GHF. Ad aprile, i sostenitori israeliani dell’iniziativa GHF avrebbero chiesto al gruppo di consulenza di elaborare un modello finanziario che valutasse gli eventuali costi di uno scenario in cui ampie fasce della popolazione palestinese fossero trasferite fuori da Gaza. Secondo lo scenario modellato, per il «trasferimento volontario», ai cittadini di Gaza verrebbe offerto un pacchetto comprensivo di 5.000 dollari, un affitto agevolato per quattro anni e un anno di cibo sussidiato, in cambio dell’abbandono della Striscia. Per ogni palestinese che uscirebbe dalla Striscia, verrebbero risparmiati circa 23.000 dollari. BCG ha negato il proprio coinvolgimento, sostenendo che tale progetto sarebbe stato portato avanti da due collaboratori a sua insaputa.

Il modello richiesto a BCG per comprendere i costi della deportazione dei palestinesi procederebbe in parallelo a un altro dei presunti progetti di GHF. Secondo una rivelazione dell’agenzia di stampa Reuters, lo scorso febbraio GHF e la società di sicurezza che la affianca avrebbero proposto un piano dal valore di 2 miliardi di dollari per costruire otto campi su larga scala chiamati “Aree di Transito Umanitario”, all’interno e all’esterno di Gaza. In queste aree, la popolazione potrebbe «risiedere temporaneamente, deradicalizzarsi, reintegrarsi e prepararsi al trasferimento, se lo desidera»; esse servirebbero a «guadagnare la fiducia della popolazione locale» e a spianare la strada alla «visione per Gaza» di Trump, mentre intanto la Striscia verrebbe «smilitarizzata» e «ricostruita». La GHF «supervisionerebbe e regolerebbe tutte le attività civili necessarie per la costruzione, la deradicalizzazione e il trasferimento volontario temporaneo», si leggerebbe nella proposta. Il documento mostrerebbe inoltre delle frecce indicanti l’Egitto e Cipro come possibili mete dei palestinesi o sedi delle Aree di Transito.

Tanto il piano di deportazione, quanto la costruzione di maxi-aree umanitarie sono due dei perni centrali su cui ruota l’operazione Carri di Gedeone, inaugurata da Israele lo scorso maggio. Come anticipato da L’Indipendente qualche giorno prima del suo lancio, il piano vedeva nella centralizzazione degli aiuti umanitari nelle mani di Israele uno dei suoi aspetti fondamentali. Esso prevedeva inoltre una fase iniziale di invasione della Striscia che sarebbe andata via via intensificandosi, fino a spingere a sud l’intera popolazione gazawi. Proprio a sud, Israele vuole creare la maxi-area umanitaria di Rafah. In un primo momento, questa ospiterebbe 600mila palestinesi, che corrispondono proprio a poco meno di un quarto della popolazione al 7 ottobre: lo stesso numero di persone che, secondo le stime per GHF, «lascerebbero volontariamente» la Striscia. L’operazione è stata annunciata dal ministro della Difesa israeliano Israel Katz ai media del Paese e prevedrebbe di spingere gradualmente l’intera popolazione gazawi a Rafah. Katz ha anche sottolineato la sua ambizione di incoraggiare i palestinesi a «emigrare volontariamente» dalla Striscia di Gaza verso altri Paesi, affermando che tale aspirazione «dovrebbe venire realizzata». Come sottolineano i media israeliani, dopotutto, l’area di Rafah suona simile alle Aree di Transito Umanitario di cui parla Reuters.

Questo quadro non è coerente solo con Carri di Gedeone, ma con la stessa proposta di Trump di trasformare Gaza nella nuova Riviera del Medio Oriente. Tanto il documento visionato da Reuters, quanto il presunto piano finanziario di BCG parlerebbero infatti della fase di ricostruzione di Gaza, che verrebbe portata avanti in parallelo alla deportazione. Sulla base del piano di BCG, infatti, un gruppo di imprenditori israeliani avrebbe elaborato un progetto, con il sostegno del Tony Blair Institute, di cui fa parte anche Matteo Renzi, per trasformare Gaza in un polo commerciale. Il progetto prevedrebbe la costruzione di isole artificiali al largo della costa, simili a quelle di Dubai, un porto in acque profonde per collegare Gaza al corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, e l’istituzione di zone economiche speciali a bassa tassazione. Tra i maxi-progetti, la costruzione di autostrade, della “Riviera Trump” e della “Elon Musk Smart Manufacturing Zone”, dove costruire auto elettriche statunitensi destinate all’esportazione in Europa.