sabato 18 Ottobre 2025
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Le leggi tech europee vengono sistematicamente attaccate dagli USA

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Oggi, mercoledì 3 settembre, la Commissione Giustizia della Camera statunitense ha annunciato un’audizione dal titolo eloquente: La minaccia dell’Europa alla libertà di parola e all’innovazione americana. Si tratta dell’ultimo passo in un’escalation che vede l’amministrazione Trump schierarsi apertamente contro la normativa europea destinata a incidere sugli interessi delle Big Tech, con un approccio fondato sullo strumento del bullismo istituzionale e sulla sempreverde minaccia di nuovi dazi.

Nel mirino delle autorità statunitensi figurano il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA), insieme ai loro omologhi britannici, l’Online Safety Act (OSA) e il Digital Markets, Competition and Consumers Act (DMCC). La Commissione ritiene che queste norme “prendono di mira le aziende americane e danneggiano l’innovazione”, una posizione che riflette senza dissonanze il tono assunto di recente dall’intera Casa Bianca. Per intuire dove si voglia andare a parare, basta guardare alla lista degli osservatori esteri che sono stati invitati: Nigel Farage, politico di estrema destra che ha buone possibilità di essere il nuovo Primo Ministro del Regno Unito, e Thierry Breton, ex commissario europeo per il Mercato interno.

L’orientamento politico è chiaro: Washington intende usare la leva dei dazi per piegare le legislazioni straniere ai propri interessi. Non si tratta di un’interpretazione, ma di un messaggio che è stato formulato fin troppo esplicitamente. Il 21 agosto, il presidente della Commissione federale per il commercio (FTC), Andrew Ferguson, ha inviato alle grandi aziende tecnologiche una lunga lettera piena di retorica in cui le invita a ignorare tutte le norme europee che potrebbero impattare sulla libertà di parola statunitense — un concetto volutamente vago che concede ampio margine per contestare in pratica qualsiasi regolamentazione del web.

Pochi giorni più tardi, il 26 agosto, Donald Trump ha alzato ulteriormente i toni sul suo social network Truth Social: «in qualità di Presidente degli Stati Uniti, terrò testa alle nazioni che attaccano le nostre strepitose aziende tech americane», ha scritto richiamando esplicitamente il DSA e il DMA. «Avviso tutte le nazioni con tasse digitali, legislazioni, regole e regolamenti che, qualora queste misure discriminatorie non vengano ritirate, in qualità di Presidente degli Stati Uniti, imporrò ulteriori tasse consistenti sulle esportazioni di queste nazioni verso gli USA e limiterò le esportazioni nei loro confronti della nostra tecnologia protetta e dei chip».

Tierry Breton ha declinato l’invito a partecipare all’audizione odierna della Camera dei Rappresentanti, ufficialmente a causa di impegni pregressi. Una decisione che reitera una tacita posizione già espressa a fine luglio, quando il presidente della Commissione Giustizia Jim Jordan aveva tentato di incontrarlo a Bruxelles, incappando in un garbato rifiuto. Più diretta, invece, è Henna Virkkunen, vicepresidente esecutiva della Commissione europea e commissaria per le Tecnologie digitali: «il DSA e il DMA sono leggi sovrane. Non discriminatorie, applicabili a tutte le piattaforme online in Europa. Proteggono pienamente i nostri diritti fondamentali, compresa la libertà di espressione. Continuerò a farle rispettare, per i nostri figli, i nostri cittadini e le nostre imprese», ha scritto su X.

Nonostante i tentativi europei di ricomporre le tensioni sui dazi, Washington ha continuato a rivendicare la libertà di rimettere in discussione gli accordi commerciali, facendo leva sulla coercizione economica per piegare le istituzioni europee. L’abbandono della cosiddetta “web tax” non è stato sufficiente a sedare il sedicente alleato: l’amministrazione Trump chiede di più, sostenuta da un ristretto ma potentissimo gruppo di aziende che trainano integralmente l’attuale crescita economica statunitense. In vista delle elezioni di metà mandato, queste stesse corporation si preparano peraltro a rafforzare la propria influenza politica, lanciando due nuovi Super PAC, giganteschi comitati di raccolte fondi che sono capaci di convogliare enormi risorse finanziarie per oliare gli ingranaggi della politica. La questione, insomma, sembra essere lontana dal trovare una soluzione pacifica.

Turchia, arrestati 7 funzionari dell’opposizione

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Le autorità turche hanno ordinato l’arresto di sette funzionari di municipalità di Istanbul gestite dal principale partito di opposizione, il Partito Popolare Repubblicano (CHP). Di preciso, i funzionari sono stati arrestati nell’ambito di una inchiesta per corruzione, che ha portato alla detenzione di 15 sindaci di comuni vicini a Istanbul. Gli arresti seguono di un giorno la rimozione di Ozgur Celik, capo provinciale di Istanbul. Essi arrivano in un contesto di progressivo aumento della stretta repressiva nei confronti dei politici e dei membri dell’opposizione, inaugurata lo scorso marzo con l’arresto del principale leader di opposizione Ekrem Imamoglu.

Sicilia: mentre salpa la Global Flotilla, un aereo israeliano transita da Sigonella

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Nella giornata di ieri, martedì 2 settembre, intorno alle 18.40 del pomeriggio, un aereo dell’esercito israeliano è atterrato nella base NATO di Sigonella, in provincia di Catania. Identificato con la sigla IAF (Israeli Air Force) 292, il volo era parito dalla base israeliana di Nevatim, nel deserto del Negev, alle 15.10 del pomeriggio. È poi ripartito alle 22.15, per arrivare a Nevatim alle 3.09 ora locale. Il modello sarebbe un KC-130H Karnaf, impiegato dall’esercito israeliano per trasporto pesante. Il transito del mezzo è avvenuto proprio mentre a Catania si prepara a partire la flotta della Global Sumud Flotilla, la missione dal basso che intende rompere l’assedio di Gaza consegnando tonnellate di aiuti umanitari alla popolazione civile.

L’atterraggio dei mezzi militari viene autorizzato dal comandante del 41° stormo dell’aeronautica militare italiana di stanza a Sigonella, che è anche responsabile del controllo radar spazio aereo della Sicilia orientale. Secondo quanto riferito dal giornalista Antonio Mazzeo, esperto in tematiche riguardanti la militarizzazione e impegnato da tempo nella denuncia del traffico di armi, si tratta di un evento del tutto eccezionale, dal momento che «da anni» i voli dell’esercito israeliano non atterrano nelle basi militari italiane. «Posso escludere arrivi e presenze di aerei israeliani negli ultimi anni. Ci sono stati numerosi transiti di aerei americani diretti in Israele, ma non di aerei israeliani», spiega Mazzeo a L’Indipendente. Come riporta il sito stesso della IAF, il mezzo è utilizzato per il trasporto di carichi di grandi dimensioni, come veicoli corazzati, camion, veicoli più leggeri, munizioni e truppe.

«Nevatim è una delle principali basi aeree israeliane, utilizzata anche dai reparti che vanno a bombardare a Gaza», prosegue Mazzeo, «è l’aeroporto di arrivo di molti aerei cargo che inviano materiale militare a Israele». Per via della tipologia del mezzo, Mazzeo esclude che si trovi a Catania per monitoriare in qualche modo le attività della Global Sumud Flotilla. «Escludo che si trovi a Catania per questo motivo, perchè non si tratta di un aereo di intelligence, se fosse stato un mezzo del genere non avrebbe nemmeno avuto bisogno di atterrare. Si può ipotizzare che sia atterrato per fare rifornimento di materiale bellico statunitense». La rotta Sigonella-Nevatim è infatti utilizzata dagli Stati Uniti per effettuare il rifornimento di armi e mezzi verso Israele. In passato, riferisce Mazzeo, «ci sono stati aerei simili che da Sigonella sono andati a Nevatim a trasportare munizioni e armi, ma statunitensi. Il fatto che a farlo sia un mezzo israeliano rappresenta una questione anomala».

Mentre nella base militare siciliana i mezzi israeliani transitano indisturbati, a Catania si prepara a partire una parte delle navi della Global Sumud Flotilla, la flotta internazionale composta da membri della società civile che mira a far arrivare a Gaza centinaia di tonnellate di aiuti umanitari, raccolti nelle scorse settimane. Proprio oggi, alle 18.30, è prevista una manifestazione di solidarietà con l’equipaggio in partenza analoga a quella svoltasi sabato 30 agosto a Genova, che ha visto la partecipazione di decine di migliaia di persone. Israele ha già fatto sapere che tratterà gli attivisti come «terroristi», ma questo non ha fermato le imbarcazioni.

È stato scoperto un tempio di una misteriosa civiltà precedente agli Inca

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Ha dimensioni pari a un isolato cittadino ed è rimasto per secoli nascosto agli occhi di tutti, nonostante fosse attraversato quotidianamente da un sentiero locale: è il tempio Palaspata, un complesso cerimoniale attribuito alla misteriosa civiltà di Tiwanaku e scoperto sugli altopiani boliviani vicino al comune di Caracollo. Lo rivela un nuovo studio guidato dal ricercatore José Capriles della State University, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Antiquity. Attraverso tecniche avanzate e grazie all’utilizzo di droni, gli autori hanno scoperto che il tempio si trova circa 210 chilometri a sud della storica capitale Tiwanaku – in un’area finora ritenuta esterna al nucleo centrale di sviluppo della civiltà – e che la sua struttura, con piattaforme terrazzate e un cortile ribassato, richiama lo stile architettonico già noto nell’area del lago Titicaca. «Non ce lo aspettavamo in questo luogo specifico, il fatto che esista lì è straordinario», commenta Capriles, aggiungendo che Palaspata potrebbe aver avuto un ruolo strategico nell’espansione politica, economica e religiosa dei Tiwanaku.

Ricostruzione del tempio appena scoperto. Crediti: José Capriles / Penn State

Nata sulle rive meridionali del lago Titicaca, la civiltà di Tiwanaku rappresenta una delle prime grandi formazioni statali delle Ande, sviluppatasi tra il 500 e il 1000 d.C., ben prima dell’impero Inca. Gli archeologi definiscono “formazione statale primaria” una società complessa che nasce senza modelli esterni, e Tiwanaku si sviluppò proprio così: da semplici villaggi agricoli a un centro politico e religioso che esercitava influenza su vaste aree. L’agricoltura in quota, difficile in quelle regioni, fu affiancata da un sistema di scambi gestiti grazie alle carovane di lama, che trasportavano beni come il mais coltivato nelle valli di Cochabamba e altri prodotti provenienti da zone lontane. Monumenti come piramidi terrazzate, templi e monoliti testimoniavano la centralità della religione, che si intrecciava con il potere politico ed economico. Il tempio di Palaspata quindi, allineato con l’equinozio solare, rientra in questa tradizione architettonica in cui gli edifici sacri non erano solo luoghi di culto, ma anche strumenti di controllo territoriale e sociale. Per effettuare la scoperta, spiegano gli autori, sono stati impiegati droni e la fotogrammetria – una tecnica che ricostruisce modelli tridimensionali a partire da fotografie – per mappare e ricostruire digitalmente il sito, nascosto in un paesaggio agricolo apparentemente ordinario.

Alcuni frammenti di tazze di keru. Credit: Crediti: José Capriles / Penn State

In particolare, il complesso misura circa 125 per 145 metri e include 15 recinti modulari disposti attorno a un grande cortile. Durante le ricerche sono emersi anche numerosi frammenti di “tazze di keru”, utilizzate per bere la chicha, una bevanda alcolica a base di mais. Questo dato, spiegano gli esperti, suggerisce che il tempio fosse sede di feste e raduni, in cui la dimensione rituale si intrecciava con quella economica e politica: «La posizione di questo sito è strategica tra due importanti zone geografiche degli altopiani andini», aggiunge Capriles, sottolineando come Palaspata potesse controllare i flussi commerciali e culturali tra gli altipiani, l’arido Altiplano e le fertili valli di Cochabamba. Il sindaco di Caracollo, Justo Ventura Guarayo, ha parlato di un patrimonio finora trascurato: «Questa scoperta è vitale per la nostra comunità e crediamo che la sua documentazione sarà preziosa per promuovere il turismo e valorizzare la ricca storia della nostra regione». Secondo Capriles, infatti, il tempio dimostra come religione, politica ed economia fossero inseparabili nella civiltà Tiwanaku, in un sistema in cui ogni transazione veniva mediata attraverso il sacro. «C’è ancora così tanto da scoprire che non sappiamo, e che potrebbe essere nascosto in bella vista. Basta aprire gli occhi per vedere cosa c’è là fuori», conclude l’archeologo.

ChatGPT non funziona: migliaia di segnalazioni

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Nell’ultima ora diversi utenti del noto chatbot ChatGPT hanno riscontrato problemi con la piattaforma. Le segnalazioni sono arrivate da persone di tutto il mondo e i disservizi hanno interessato anche l’Italia. Ancora ignote le cause del malfunzionamento, ma potrebbe trattarsi di un momentaneo blackout. In caso di malfunzionamenti, OpenAI, l’azienda che gestisce il chatbot, suggerisce di aggiornare la pagina web, svuotare la cache o cambiare browser.

Papa Leone riallinea la Chiesa invitando il presidente israeliano Herzog

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Papa Leone incontrerà domani in Vaticano il presidente israeliano Isaac Herzog. Pronto dunque il riallineamento della Chiesa Cattolica verso lo Stato ebraico, dopo gli ultimi anni del Pontificato di Bergoglio segnati da una forte critica verso i crimini israeliani in Palestina. Dal 7 ottobre 2023 fino alla sua morte, infatti, Papa Francesco non aveva mai incontrato i leader di Tel Aviv, ospitando invece il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen. L’incontro tra Leone e Herzog verterà su diverse questioni, come la liberazione degli ostaggi israeliani, la lotta all’antisemitismo e la protezione delle comunità cristiane in Medio Oriente, le stesse che Israele attacca nella Striscia di Gaza da due anni a questa parte. L’annuncio dell’incontro arriva a poche ore dal proclama del ministro israeliano Ben Gvir, secondo cui «gli europei proveranno il terrorismo in prima persona».

L’incontro tra Herzog e il Papa si terrà domani, giovedì 4 settembre, alle ore 10, presso il Palazzo Apostolico. Lanciata la notizia dell’incontro, l’ufficio del presidente Herzog ha rilasciato una nota in cui afferma che l’incontro sarebbe stato organizzato su richiesta del Papa; il portavoce del Vaticano, Matteo Bruni, tuttavia, rispondendo alle domande dei giornalisti, ha specificato che «è prassi della Santa Sede acconsentire a richieste di udienza rivolte al Pontefice da parte di capi di Stato e di governo, non è prassi rivolgere loro inviti». Secondo i quotidiani israeliani, Herzog pianificava di visitare il Vaticano mesi fa, quando Papa Francesco era gravemente malato; l’incontro di domani, specificano, sarebbe stato organizzato dopo l’insediamento di Leone XIV.

Sin dal suo insediamento, Papa Leone ha ricollocato la Chiesa su una traiettoria più moderata nella sua denuncia dei massacri a Gaza. Il pontefice ha raramente mosso critiche dirette nei confronti della condotta israeliana, e si è spesso limitato a lanciare generici appelli per la pace. Comportamento opposto a quello del suo predecessore, Francesco, che dal 7 ottobre 2023 si è sempre tenuto in contatto con la parrocchia di Gaza e non ha mai ricevuto leader israeliani in Vaticano, criticandoli apertamente. In generale, negli ultimi due anni, i rapporti tra Israele e la chiesa cattolica sono peggiorati notevolmente. In tal senso, ricevere Herzog mentre il Paese di cui è presidente è accusato per genocidio risulta fortemente simbolico. Il presidente, come il primo ministro Netanyahu, su cui pende un mandato di arresto internazionale con l’accusa di aver commesso crimini di guerra, è uno dei più fervidi sostenitori di posizioni razziste nei confronti dei palestinesi, come dimostrato all’indomani del 7 ottobre, quando definì «l’intera nazione responsabile» degli atti di quello che Israele definisce «terrorismo», sostenendo che a Gaza «non ci sono civili innocenti».

USA attaccano nave venezuelana accusata di trasportare droga: 11 morti

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Una nave militare degli Stati Uniti ha sparato contro una nave partita dal Venezuela, accusandola di trasportare droga. Nell’attacco, specifica il presidente Trump, sono state uccise 11 persone. L’esercito statunitense, ha detto Trump, ha identificato l’equipaggio della nave colpita come membri della gang venezuelana Tren de Aragua, che gli Stati Uniti hanno definito un gruppo terroristico a febbraio e sostengono essere controllata dal presidente venezuelano Maduro. Non sono state rilasciate ulteriori informazioni sull’attacco o sul carico trasportato.

Putin avvicina l’accordo con l’Ucraina: ok a garanzie di sicurezza e ingresso nell’UE

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Nel corso di un incontro con il primo ministro slovacco Robert Fico, svoltosi a Pechino, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca non si è mai opposta a una eventuale adesione dell’Ucraina all’Unione Europea e che ritiene possibile trovare un accordo sulla sicurezza per entrambe i Paesi. Tuttavia, ha ribadito che l’eventuale ingresso dell’Ucraina nella NATO è «un’altra questione». Il presidente ha poi definito «assordità» l’ipotesi, avanzata da alcuni leader UE, secondo la quale la Russia avrebbe piani di aggressione contro l’Europa. Le radici del conflitto attuale, ha riferito Putin, sono da ricercare nella necessità della Russia di reagire a quello che ha definito un tentativo dell’Occidente e della NATO di assorbire l’intero spazio post-sovietico, con le conseguenti implicazioni di sicurezza per Mosca. Putin si è inoltre detto soddisfatto del fatto che l’amministrazione Trump sia disposta a dialogare con Mosca.

Il conflitto in Ucraina, ha dichiarato Putin, non è scoppiato «a causa del nostro comportamento aggressivo», ma per via «dell’incoraggiamento da parte dell’Occidente al colpo di Stato in Ucraina». Nonostante nel 2014 i funzionari di Francia, Germania e Polonia avessero «firmato come garanti di un accordo tra le autorità di opposizione in Ucraina», pochi giorni dopo «è stato compiuto un colpo di Stato» e i tre Paesi in questione, anzichè intervenire per «per riportare il processo politico in Ucraina nel quadro costituzionale», hanno «sostenuto coloro che hanno organizzato il colpo di Stato». «È così che è iniziato questo conflitto», ha dichiarato Putin, aggiungendo che, successivamente, la situazione è «giunta al culmine» in Crimea e in Donbass. L’aggressione, ha dichiarato il presidente, non è avvenuta per un comportamento aggressivo della Russia, ma «dell’altra parte»: in sostanza, «noi non abbiamo altri obiettivi se non proteggere i nostri interessi». In questo contesto, «la NATO viene usata come strumento per conquistare tutto lo spazio post-sovietico», fattore al quale «dovevamo reagire». Per quanto riguarda le ipotesi, avanzate più volte in sede UE, di un piano russo per aggredire l’Europa, si tratta di «una totale assurdità senza fondamento». I «tentativi incessanti di alimentare l’isteria su una presunta intenzione della Russia di attaccare l’Europa» sono atti di «provocazione o totale incompetenza», dal momento che «qualsiasi persona ragionevole capisce perfettamente che la Russia non ha mai avuto, non ha e non avrà mai alcun desiderio di attaccare nessuno». Quest’ipotesi è stata suggerita in maniera più o meno esplicita, oltre che dall’Ucraina, anche personalità quali l’alta rappresentante europea per gli Affari Esteri Kaja Kallas e il segretario della NATO Mark Rutte.

In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, «non abbiamo mai sollevato obiezioni». L’ingresso nella NATO, invece, «è una questione diversa, poichè riguarda la sicurezza della Federazione Russa» nel lungo termine. Un’eventualità di questo tipo, ha chiarito Putin, è «inaccettabile». Sebbene spetti all’Ucraina garantire la propria sicurezza, questa «non può avvenire a scapito della sicurezza di altri Paesi», come affermato anche in numerosi documenti fondamentali «relativi alla sicurezza in Europa». Facendo riferimento ai colloqui avvenuti a ferragosto con il presidente americano Donald Trump ad Anchorage, in Alaska, Putin ha dichiarato che «esistono opzioni per garantire la sicurezza dell’Ucraina nel caso in cui il conflitto dovesse terminare» e sulle quali «penso che potremo raggiungere un consenso».

Alle parole di Putin hanno fatto eco le dichiarazioni del ministro degli Affari Esteri russo Lavrov. Nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano indonesiano Kompas, Lavrov ha dichiarato che la risoluzione pacifica del conflitto rimane «una priorità» per Mosca. Dopo i primi colloqui di pace del 2022, falliti dopo che «il regime di Kiev, seguendo i consigli dei suoi manipolatori occidentali, ha abbandonato il trattato di pace scegliendo invece di continuare la guerra», questi sono ripresi nella primavera di quest’anno e «sono stati compiuti progressi su questioni umanitarie». A questi sono seguiti i colloqui con l’amministrazione Trump, con il colloquio in Alaska che è stato «molto proficuo».

Páramo di Antisana: l’ecosistema andino rinato dopo secoli di pascolo intensivo

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cordigliera ande

Per decenni quella del Páramo dello stratovulcano Antisana, a sud-est della capitale Quito, è stata considerata e trattata come un’area da sfruttare: pascoli intensivi, incendi, terreni compattati dal passaggio continuo di mandrie. Oggi, lo stesso paesaggio mostra segni evidenti di rigenerazione. A partire dal 2010, il Governo locale e l’azienda idrica della capitale hanno iniziato un processo graduale ma determinato di ripristino ambientale, acquistando terreni da allevatori e rimuovendo gli animali non autoctoni. Azioni che in poco tempo hanno permesso all’ecosistema e ai suoi abitanti di ri...

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“Dove non arrivano i governi possono i popoli”: intervista alla Global Sumud Flotilla

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Le ultime navi della Global Sumud Flotilla sono pronte per unirsi al convoglio partito il 31 agosto in direzione di Gaza, con lo scopo di portare aiuti umanitari nella Striscia. Cinquanta imbarcazioni, settecento attivisti in viaggio, e trecento tonnellate di aiuti umanitari raccolte in cinque giorni nella sola città di Genova: è questo l’ingente movimento che proverà ancora una volta a rompere l’assedio israeliano a Gaza. L’iniziativa costituisce il più grande sforzo umanitario di sempre per raggiungere la Palestina via mare, per arrivare là dove i governi non vogliono arrivare. Israele, dal canto suo, ha già preparato un piano per bloccare il convoglio e impedirgli di raggiungere la Striscia, affermando senza mezzi termini che gli attivisti a bordo delle navi verranno trattati come «terroristi». Abbiamo parlato della missione con Maria Elena Delia, portavoce del movimento in Italia.

Come è nata l’iniziativa della Global Sumud Flotillla? Quali sono gli scopi e il messaggio politico che c’è dietro?

L’iniziativa della Global Sumud Flotilla è nata al ritorno della Global March to Gaza, a metà giugno, quando migliaia di persone provenienti da tutto il mondo hanno cercato di marciare pacificamente verso il valico di Rafah, dove fino a qualche mese fa entravano gli aiuti umanitari. Tornati dall’Egitto, ci siamo resi conto che un risultato l’avevamo ottenuto: si era creato nuovamente un enorme e coeso movimento internazionale, che oggi si chiama Global Movement to Gaza. Visto che non siamo riusciti ad aprire un corridoio umanitario via terra, abbiamo pensato di riaprirlo via mare, come dal 2008 prova a fare la Freedom Flotilla Coalition. La differenza con le precedenti missioni della Freedom Flotilla è la dimensione: se prima a provare ad arrivare a Gaza erano una o due barche, in questo caso le barche saranno quasi 50 con a bordo tra le 600 e 700 persone. Il numero di partecipanti dà l’idea del messaggio politico che vogliamo lanciare a quei governi e quelle istituzioni che stanno in silenzio da quasi due anni: i cittadini non sono più disposti a non fare niente, anche a costo di intraprendere in prima persona una missione pericolosa. L’obiettivo è semplice: dire no al genocidio, rompere il blocco di Gaza, e chiedere a gran voce la riapertura dei corridoi umanitari istituzionali.

I detrattori dell’iniziativa sostengono che la missione sarebbe velleitaria, che non servirebbe a niente. C’è anche chi l’ha criticata per la scarsa presenza di palestinesi a bordo, come a ipotizzare che non vi sia il consenso palestinese. Come rispondete alle critiche?

In verità uno dei fautori dell’iniziativa è palestinese; e in barca di palestinesi ce ne sono diversi. Poi è ovvio, è una iniziativa che parte da un movimento che raduna persone di tutto il mondo: europei, nordafricani, persone del Sudest asiatico, del Sud America… ci sono rappresentanti da più di 44 Paesi del mondo. È poi vero che è una iniziativa che non parte dalla Palestina, ma quali sono le iniziative umanitarie di questi detrattori che lo fanno? Se invece vogliamo andare a ragionare sull’efficacia, posso dire che è dal 1948 che per la Palestina va sempre peggio: evidentemente anche tutte le altre modalità di intervento non sono riuscite a ottenere qualcosa. Le barche della Freedom Flotilla provano a fare quello che stiamo facendo noi dal 2008; in quell’agosto si riuscì a rompere l’assedio di Gaza. Se dobbiamo stare a dire che tanto non serve a niente, allora rimaniamo davanti alla televisione a non fare nulla.

A proposito del messaggio politico di cui parlavamo prima: come rappresentanza italiana avete avuto un confronto con il governo italiano o con il ministero degli Esteri?

No, nessuno si è fatto sentire; mi preme ricordare che noi stiamo per compiere una iniziativa del tutto legale, perché le acque in cui navigheremo sono internazionali. Non c’è alcun bisogno di contattare il governo. Certo, ci aspettavamo che dopo le dichiarazioni del ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Ben Gvir, che ha detto che gli attivisti a bordo delle navi saranno trattati alla stregua di terroristi, ci arrivasse una chiamata di sostegno da parte del nostro governo, ma non è ancora arrivata. Naturalmente speriamo che nel momento in cui dei cittadini italiani si dovessero trovare nella piena legittimità delle loro azioni a essere sequestrati e incarcerati, il nostro esecutivo, che ha il dovere di proteggerci e di tutelarci, si muova per farlo.

E come movimento globale? Quei leader internazionali che sono generalmente percepiti come sostenitori della causa hanno mostrato apertura per fornire una qualche forma di supporto? 

La maggior parte dei Governi ha taciuto, come a fornire un lasciapassare a Israele per agire indisturbata. Però c’è chi ha sostenuto la lotta dal basso pubblicamente. Il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha dichiarato che la Spagna farà di tutto per proteggere e tutelare i suoi cittadini a bordo delle imbarcazioni. Anche il presidente colombiano Gustavo Petro ha inviato un messaggio di solidarietà, così come il governo malese, da sempre al fianco della questione palestinese. Non si tratta di aiuti “concreti” come potrebbe essere un finanziamento, ma sono dichiarazioni politiche forti, specialmente di fronte a quanto detto da Ben Gvir. Anche perché una volta che sono state rilasciate pubblicamente, si è tenuti a onorarle.

Riguardo alle dichiarazioni di Ben Gvir: se doveste venire intercettati, come vi comportereste?

Io stessa in questo momento sto svolgendo un training obbligatorio di comportamento non violento assieme agli attivisti che partiranno dalla Sicilia. Noi siamo nel giusto, siamo nella legalità. Insomma, non faremmo niente. Non forzeremmo nulla, ma ci fermeremmo e ci limiteremmo ad alzare le mani; e se ci dovessero chiedere di tornare indietro ci rifiuteremmo, perché Israele non ha la potestà di imporre le proprie decisioni in acque internazionali. Dopodiché, sono i nostri governi a dovere intervenire e a dovere dire che noi abbiamo tutto il diritto di andare avanti, perché altrimenti si crea un precedente pericoloso: il problema non siamo noi, il problema è che nel momento in cui si concede a uno Stato di contravvenire a una regola che tutti gli altri Paesi devono rispettare, si crea una iniquità, uno squilibrio. Oggi tocca ai palestinesi, domani chissà a chi.

C’è qualcosa che volete comunicare a tutti coloro che vi hanno sostenuto e che rimarranno a terra?

L’unica cosa che mi sento di aggiungere è che, al di là di ogni retorica, l’ondata di solidarietà che abbiamo riscontrato ci ha davvero sconvolto positivamente. E come facciamo ogni volta che possiamo, chiediamo a tutte e a tutti di sostenerci nel momento in cui le comunicazioni dovessero saltare o se dovesse succedere qualcosa a queste barche. Non per noi, ma per il fatto che siamo strumenti al servizio dei palestinesi: scendete in piazza, chiedete a chi di dovere di intervenire quando noi non potremo farlo perché ci avranno bloccato le comunicazioni. Tutti insieme, forse, ce la possiamo fare.