Nuovo capitolo nella crisi diplomatica tra Francia e Algeria. Nell’arco di quarantotto ore, Parigi e Algeri hanno proceduto a espulsioni reciproche di trenta dei loro agenti diplomatici e consolari, 15 francesi e 12 algerini. I rapporti tra i due Paesi, storicamente segnati da tensioni legate al passato coloniale, si sono ulteriormente deteriorati a partire dallo scorso anno, quando il presidente Emmanuel Macron ha espresso pubblicamente il sostegno alla posizione del Marocco sulla questione del Sahara occidentale, irritando profondamente Algeri – alleata degli indipendentisti saharawi. Mai dal 1962, anno dell’indipendenza algerina dal padrone coloniale francese, il legame diplomatico franco-algerino si era trovato ad un punto così basso, segno di una profonda divisione tra i due Paesi.
Lo scorso martedì 13 maggio, il ministero degli Esteri francese ha convocato l’incaricato d’affari algerino per notificargli l’espulsione di 12 cittadini algerini titolari di passaporti diplomatici, entrati in Francia senza visto. La decisione segue quella algerina di domenica scorsa, con cui sono stati espulsi dal Paese 15 funzionari francesi in servizio ad Algeri ritenendo la loro presenza irregolare. «La Francia si riserva il diritto di adottare ulteriori misure a seconda dell’evoluzione della situazione», ha dichiarato il ministero degli esteri in un comunicato diffuso dopo il colloquio con il funzionario algerino. Il Ministro degli Esteri francese, Jean-Noël Barrot, durante un intervento sull’emittente televisiva BFMTV, ha annunciato l’espulsione di diplomatici algerini, definendo la decisione dell’Algeria come «ingiustificata e ingiustificabile». Secondo Jean-Noël Barrot, l’espulsione dei funzionari francesi è stata presa sulla base di una «decisione unilaterale delle autorità algerine di stabilire nuove condizioni di accesso al territorio algerino per i funzionari pubblici francesi titolari di un passaporto ufficiale, diplomatico o di servizio, in violazione dell’accordo bilaterale del 2013».
Le frizioni diplomatiche segnano un nuovo picco. Una simile situazione era avvenuta nel marzo scorso, quando il Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri algerino, Lounès Magramane, aveva ricevuto l’incaricato d’affari dell’Ambasciata francese in Algeria per denunciare atti unilaterali di espulsione intrapresi dalla Francia. Poi la questione si era ripetuta alla metà di aprile, nonostante pochi giorni prima il Ministro degli Esteri francese si fosse recato ad Algeri su invito del Presidente della Repubblica democratica popolare d’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, per discutere dei legami tra i due Paesi. Proprio alla metà del mese scorso, quando ci fu un altro scambio reciproco di espulsioni diplomatiche, la Francia si era allineata alla politica della “sedia vuota” adottata lo scorso anno dall’Algeria, richiamando il proprio ambasciatore dal Paese del Màghreb. L’Algeria aveva infatti già richiamato il proprio ambasciatore da Parigi il 30 luglio dello scorso anno, in seguito al capovolgimento francese pro-marocchino sulla questione del Sahara occidentale. Proprio da quel momento è iniziato il vigoroso precipitare dei legami diplomatici tra Francia e Algeria.
In occasione del riconoscimento francese delle istanze marocchine sul Sahara occidentale, l’Algeria espresse «grande rammarico e forte denuncia» ritenendo il governo francese come responsabile del probabile deterioramento delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Un altro strappo tra Francia e Algeria si consumò poi tra le fine di ottobre e l’inizio di novembre. Il 29 ottobre Macron si recò in visita in Marocco, dove incontrò il re Mohammed VI, per ristabilire le relazioni diplomatiche tra i rispettivi Paesi e stringere accordi commerciali. Come risposta, l’8 novembre, l’Algeria annunciò la sospensione del commercio con la Francia come misura di ritorsione per la decisione francese di voltare le spalle ad Algeri sulla questione del Sahara occidentale, dove da sempre l’Algeria è schierata a fianco del popolo Sahrawi, ospitando decine di migliaia di rifugiati nei campi profughi costruiti sul proprio territorio.
E così si arriva ad oggi, con una situazione diplomatica tra Francia e Algeria che segna un punto minimo mai visto dall’indipendenza algerina. E potrebbe non essere finita qui.
L’esercito dell’Indonesia ha ucciso 18 separatisti papuani durante un’operazione nella regione più orientale della Papua avvenuta ieri. A riferirlo sono stati oggi alcuni funzionari, i quali hanno aggiunto che sono morti anche tre civili. Durante l’operazione, l’esercito ha sequestrato decine di munizioni, tra cui un fucile d’assalto, archi e frecce e un’arma artigianale non specificata, ha affermato in un comunicato il portavoce militare Kristomei Sianturi. Quest’ultimo ha dichiarato che non ci sono state vittime tra i militari indonesiani.
Sette anni dopo aver ricevuto un violento messaggio di odio via social, Ilaria Cucchi – sorella di Stefano Cucchi, 31enne ucciso nel 2009 dopo aver subito percosse da parte di esponenti dei carabinieri mentre si trovava in custodia cautelare – è ancora in attesa che si apra il processo contro l’autore. L’hater, nascosto dietro il nome “Dentone”, le augurava di morire tra atroci sofferenze. La donna, oggi senatrice, denunciò subito l’uomo, ma da allora è iniziata un’odissea giudiziaria fatta di errori procedurali, rinvii e rimpalli di competenze. Il 13 maggio 2025, il Tribunale di Roma ha dichiarato la propria incompetenza territoriale: tutto verrà trasferito a Milano. Intanto, il tempo scorre e il rischio prescrizione si fa ogni giorno più concreto.
Era il 19 ottobre 2018 quando un utente pubblicò sul social Twitter (attuale X) un commento carico d’odio contro Ilaria Cucchi, oggi parlamentare nelle file di Alleanza Verdi e Sinistra. «Vorrei far patire alla sorella di Stefano Cucchi, di cui non me ne frega un c***o che nome abbia, far patire due volte quello che hanno fatto al fratello. Le auguro di morire patendo ogni dolore sia fisico che mentale. Tr**a!», scriveva l’uomo, che si trincerava dietro all’anonimato. Un attacco vile e gratuito, rivolto a chi da anni chiede verità e giustizia per una delle vicende più drammatiche della cronaca italiana.
Ilaria Cucchi si rivolse subito alla magistratura. Tuttavia, come ricostruito dalla stessa in un post sui social, la risposta delle istituzioni fu da subito debole, e alla donna fu detto che mancavano gli strumenti per poter risalire all’identità del profilo. Così, con l’aiuto del suo avvocato Fabio Anselmo e di alcuni giornalisti, la senatrice decise di indagare da sola. E ci riuscì, identificando l’autore. Ma anche dopo aver fornito il nome del responsabile, la giustizia italiana non ha proceduto con efficacia. La prima reazione fu la richiesta di archiviazione da parte della pm Antonia Giammaria, oggi trasferita al ministero della Giustizia. I giudici, però, la rigettarono, ordinando l’apertura del processo. Da allora, tuttavia, si è aperto un percorso tortuoso scandito da rinvii tecnici: la prima udienza, prevista per il 4 novembre 2024, fu rimandata al 24 febbraio 2025 per un errore nella notifica all’imputato. Anche la seconda data saltò, per un vizio procedurale nei termini della notifica. Si arriva così al 13 maggio di quest’anno, quando arriva l’ennesima beffa: il Tribunale di Roma si dichiara territorialmente incompetente, poiché l’imputato risiede in Lombardia. Dopo tre udienze inutili, dunque, tutto viene trasferito a Milano.
Il caso è emblematico di un sistema giudiziario che troppo spesso lascia sole le vittime. Secondo il rapporto pubblicato lo scorso anno dalla Commissione europea per l’efficienza della giustizia (CEPEJ), nel 2022 in Italia un processo civile di primo grado richiedeva in media 540 giorni, tra i più alti in Europa. Sul versante penale, invece, la durata media dei procedimenti in Europa è pari a 133 giorni in primo grado, 110 in secondo grado e 101 in terzo grado. In Italia, invece, il procedimento penale dura in media 355 giorni in primo grado, 750 in appello e 132 in Cassazione. Una differenza assai significativa.
Dopo anni di depistaggi e omertà, solo nell’aprile del 2022 i carabinieri responsabili del violento pestaggio ai danni di Cucchi, Alessio Di Bernardo e Raffaele d’Alessandro, sono stati condannati in via definitivaper omicidio preterintenzionale. Per loro è stata stabilita la pena di 12 anni di carcere. Nel processo bis sul caso Cucchi, dove sono alla sbarra esponenti dell’Arma per il reato di depistaggio, nel dicembre scorso il Procuratore generale ha chiesto in appello 3 assoluzioni e 2 condanne.
La Corte di appello belga ha decretato che il Transparency and Consent Framework (TCF), l’inquadramento che viene adoperato da innumerevoli portali per profilare i dati degli utenti, non è compatibile con le leggi europee. In sostanza, la decisione giuridica sancisce ufficialmente che gran parte del mondo inserzionistico della Rete naviga nell’illegalità, violando sistematicamente la sicurezza e i diritti dei soggetti tutelati dal Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR).
La pronuncia rappresenta l’esito di una battaglia legale durata sette anni, iniziata con l’introduzione stessa del GDPR nel 2018. Un primo, rilevante traguardo era già stato raggiunto nel 2022, quando – a seguito delle segnalazioni di numerose organizzazioni non governative, tra cui l’Irish Council for Civil Liberties (Irlanda), la Panoptykon Foundation (Polonia), Stichting Bits of Freedom (Paesi Bassi), la Ligue des Droits Humains (Belgio), nonché dei ricercatori Dott. Jef Ausloos e Dott. Pierre Dewitte – il Garante per la protezione dei dati del Belgio aveva riconosciuto che il sistema TCF “rappresenta un rischio significativo nei confronti dei diritti fondamentali e della libertà dei soggetti, in particolare quando sono coinvolti dati personali su grande scala, attività di profilazione, predizione di comportamente e la conseguente sorveglianza dei soggetti stessi”.
La presa di posizione della Corte di appello annulla a causa di errori procedurali la decisione assunta dal Garante, tuttavia approfondisce la questione per porre fine a una serie di ambiguità tecniche che hanno permesso ai raccoglitori di dati di muoversi oltre i limiti consentiti dalla legge. Il tribunale ha infatti definito che le TC Strings, i codici di riferimento dei dati utente, sono da considerare come dati personali e come tali devono essere trattati, a partire dalla richiesta di consenso.
Il peso di questo chiarimento normativo può non apparire subito evidente. Tuttavia, colossi come Microsoft, Google, Amazon, X e, più in generale, circa l’80% delle entrate generate dalla pubblicità basata su offerte in tempo reale (RTB) poggiano sul TCF. Una fetta rilevante dell’ecosistema pubblicitario online si fonda infatti su un sistema d’asta che dipende strettamente dai dati raccolti tramite il TCF, il quale a sua volta si regge su quelle classiche finestre informative in cui i siti web chiedono agli utenti il consenso al trattamento dei dati. La Corte belga ha di fatto stabilito che quei nebulosi popup non bastano a legittimare le successive violazioni del GDPR.
Interactive Advertising Bureau (IAB), l’azienda pubblicitaria statunitense che aveva proposto il TCF come standard di riferimento, gioisce del fatto che i giudici le abbiano riconosciuto solamente una “responsabilità limitata” e rimarca che siano già pronte delle eventuali modifiche al TCF, le quali promettono di risolvere gli elementi critici sollevati nel 2022 dal Garante dei dati.
Le conseguenze concrete di questa presa di posizione restano, al momento, imprevedibili. Quasi l’80% dei ricavi di Google proviene dalla pubblicità, una dipendenza strutturale che accomuna molte realtà aziendali che vivono — o sopravvivono — grazie al web. L’eventuale smantellamento forzato del TCF rischia di innescare un terremoto tecnico-finanziario dalle ricadute profonde, compromettendo anche i delicati equilibri diplomatici con gli Stati Uniti, patria delle Big Tech più potenti e combattive. Più realistico immaginare una soluzione graduale: un percorso condiviso tra i regolatori europei e IAB per riformare il sistema TCF, correggendone le criticità senza ricorrere però a misure radicali e destabilizzanti.
Nel contesto italiano, la decisione belga arriva in un momento cruciale. All’inizio del mese, il Garante per la protezione dei dati personali ha avviato una consultazione pubblica sul modello “pay or ok”, il sistema adottato da molte testate giornalistiche per imporre agli utenti la scelta tra sottoscrivere un abbonamento o acconsentire al trattamento dei propri dati per poter accedere ai contenuti. Il riconoscimento dell’illegalità del TCF rappresenta un elemento rilevante a sostegno di chi si oppone a questa discutibile pratica commerciale e potrebbe spingere il Garante italiano ad adottare posizioni che impatteranno su tutta l’Unione Europea.
[16/05/2025: aggiunto un paragrafo per approfondire la decisione della Corte d’appello belga.]
Poco prima del passaggio del Giro d’Italia a Putignano, piccolo comune in provincia di Bari, una famiglia ha ricevuto la visita di un poliziotto in borghese, che ha chiesto loro di rimuovere la bandiera palestinese appesa al proprio balcone. La ragione sarebbe stata proprio il passaggio della competizione ciclistica: l’agente, infatti, avrebbe riferito alla famiglia che la richiesta dipendeva da una «questione di ordine pubblico». La conferma di quanto avvenuto è giunta dalla stessa Questura di Bari, che ha dichiarato come la decisione dell’agente avrebbe fatto seguito al «fermento» di alcuni cittadini alla vista della bandiera.
Secondo quanto raccontato dalla proprietaria dell’appartamento a L’Indipendente, l’agente in borghese avrebbe citofonato chiedendo di poter salire fino all’ultimo piano, dove si trovava il balcone con esposta la bandiera della Palestina. Qui, il poliziotto ha riferito ai proprietari di casa che sarebbe stato «opportuno» rimuoverla. «Abbiamo chiesto il motivo e ci è stato ripetuto che sarebbe stato “opportuno”». Secondo quanto dichiarato dalla famiglia, l’agente avrebbe citato il passaggio della competizione ciclistica del Giro d’Italia come ragione per rimuovere la bandiera, lasciando intendere che «sarebbe stata inquadrata dalle telecamere nazionali». «Ho fatto notare che mi trovavo in casa mia, che quella bandiera era sempre stata lì e che ci troviamo in uno stato di diritto, ma l’agente ha ripetuto che sarebbe stato opportuno toglierla, in quanto vi era di mezzo una questione di ordine pubblico. A quel punto, presi alla sprovvista e immaginandoci lì per lì chissà quale emergenza, l’abbiamo tolta». L’indomani, riferisce la famiglia, un funzionario della Questura di Bari si sarebbe scusato con gli inquilini, parlando di un probabile «eccesso di zelo» da parte dell’agente in servizio.
«Dagli accertamenti esperiti è emerso che effettivamente, poco prima del passaggio dei ciclisti, personale impiegato nei servizi, avendo ricevuto segnalazione di un certo fermento da parte di alcuni cittadini per l’esposizione di una bandiera palestinese, sul balcone del sesto piano di una palazzina, ha interloquito con il proprietario dell’appartamento, invitandolo a valutare l’opportunità di rimuovere il vessillo» riporta una nota inviata dalla Digos di Bari a L’Indipendente, nella quale si specifica che non vi è stato alcun «ordine formale» nei confronti dei proprietari dell’appartamento, che non sono stati identificati. Nel comunicato viene specificato anche che «nel corso della medesima giornata, in occasione della partenza del giro da Alberobello un gruppo di appartenenti a movimenti pacifisti ha liberamente esposto striscioni contro il genocidio a Gaza e bandiere della Pace e Palestinesi nel pieno rispetto della libertà di manifestazione del pensiero, coniugata con la sicurezza dell’evento».
Superate le perplessità e la confusione iniziali, la famiglia ha presto rimesso la bandiera al proprio posto, appesa al balcone dove si trova «sin dall’inizio del genocidio». Tuttavia, non sarebbe la prima volta in cui le proteste per la Palestina vengono silenziate nel nome di non meglio specificate “esigenze di ordine pubblico”. Nel frattempo, la notizia è giunta fino in Parlamento, dove deputati di AVS e M5S hanno annunciato l’intenzione di presentare interrogazioni parlamentari a riguardo.
Almeno 82 palestinesi, in gran parte donne e bambini, sono stati uccisi in una nuova ondata di attacchi israeliani nella Striscia di Gaza, secondo quanto riportato da Al Jazeera. Solo nella notte, 57 persone hanno perso la vita a Khan Younis, nel sud del territorio. Tra le vittime anche il giornalista palestinese Hassan Samour e alcuni familiari, colpiti nella loro casa. L’Ospedale Europeo di Gaza è stato dichiarato fuori uso dopo un raid che ha causato 16 morti. Le Forze israeliane hanno affermato di mirare al leader di Hamas, Mohammed Sinwar.
Gli Stati Uniti sono preoccupati per la presenza cinese a Cuba – in particolare, delle operazioni di sorveglianza segrete che potrebbero essere messe in atto nei loro confronti. A rivelarlo è un recente rapporto del Centro per gli Studi Strategici e Internazionali (CSIS), che rivela la presenza di un presunto vettore di antenne a disposizione circolare (CDAA) presso il sito cubano di intelligence di Bejucal, a pochi passi da L’Avana. Le antenne potrebbero individuare segnali radio provenienti da una distanza compresa tra le 3 mila e le 8 mila miglia di distanza, includendo quindi nel proprio raggio d’azione le basi militari statunitensi e persino la capitale, Washington. I risultati del rapporto hanno suscitato una preoccupazione tale che i repubblicani hanno chiesto un briefing al Segretario alla Sicurezza Interna.
L’allarme è scattato dopo l’esame delle immagini satellitari commerciali, che mostrano nuove costruzioni in corso nel noto sito di intelligence dei segnali cubani (SIGINT) di Bejucal, vicino a L’Avana, il più grande di Cuba. Queste, risalenti al 16 aprile 2025, mostrano i principali sviluppi avvenuti nel sito. Sul lato settentrionale del complesso sono state rimosse sei antenne e al loro posto sono in corso i lavori per costruire un grande CDAA, dalla classica forma circolare, che comprende 19 antenne disposte in un cerchio di circa 175 metri. I CDAA sono utilizzati principalmente per la ricerca e l’individuazione dell’origine di segnali radio da una distanza compresa tra 3.000 e 8.000 miglia. Un nuovo CDAA a Bejucal potrebbe offrire una capacità significativamente migliorata per monitorare l’attività aerea e marittima negli Stati Uniti e dintorni.
Sebbene non vi siano prove concrete che questa struttura, così come altre sull’isola, sia collegabile direttamente alla Cina (la quale già lo scorso anno aveva negato simili accuse), i funzionari statunitensi hanno ripetutamente segnalato che Pechino avrebbe accesso alle strutture di spionaggio cubane. Un gruppo di leader repubblicani della Camera ha richiesto una riunione urgente al Segretario alla Sicurezza Interna, Kristi Noem, scrivendole una lettera. «La RPC si sta posizionando per erodere sistematicamente i vantaggi strategici degli Stati Uniti senza mai sparare un colpo. La vicinanza geografica di sospette strutture collegate alla RPC a Cuba a strutture statunitensi sensibili, tra cui la stazione navale di Guantánamo Bay, il Kennedy Space Center, la base sottomarina navale di Kings Bay e la stazione spaziale di Cape Canaveral, può consentire alla RPC di monitorare le capacità di rilevamento e risposta americane, mappare i profili elettronici delle risorse statunitensi e preparare l’ambiente elettromagnetico per un potenziale sfruttamento futuro», hanno scritto i legislatori nella lettera pubblicata da Fox News.
Durante i dibattiti delle primarie presidenziali statunitensi del 2016, l’allora senatore Marco Rubio, attuale Segretario di Stato dell’amministrazione Trump, aveva accusato Cuba di collaborare con la Cina per azioni di spionaggio nei confronti degli Stati Uniti. Nel 2023, il Wall Street Journalaveva riferito che Cuba e Cina avevano siglato un accordo in base al quale Pechino avrebbe stabilito una struttura di sorveglianza sul territorio cubano in cambio di una ingente somma di denaro. La Cina è accusata di aver costruito simili strutture nel Mar Cinese Meridionale, più precisamente su Mischief Reef e Subi Reef, come suggerirebbero le immagini satellitari pubblicate da Asia Maritime Transparency Initiative.
Al momento, tuttavia, l’unica presenza cinese certa a Cuba rimane quella legata allo sviluppo economico ed energetico, che comprende progetti di implementazione di produzione di energia rinnovabile proveniente dal sole, per aiutare la popolazione cubana a superare la crisi energetica e l’embargo statunitense.
Trentasette lavoratori di un supermercato di Biancavilla, nel Catanese, sarebbero stati sfruttati con turni di oltre 60 ore settimanali e retribuzioni anche di soli 1,6 euro l’ora. Le indagini della Guardia di Finanza hanno portato agli arresti domiciliari il rappresentante legale e il direttore commerciale della società per caporalato e autoriciclaggio, con un sequestro preventivo da 3 milioni di euro. I dipendenti, in stato di bisogno, accettavano condizioni di lavoro durissime, senza ferie né riposi adeguati. Contestate anche violazioni su orari, sicurezza e mancati versamenti per stipendi e contributi previdenziali.
Nella giornata di ieri, il ministro dei Trasporti e leader leghista Matteo Salvini ha presentato davanti al Consiglio dei Ministri il disegno di legge Infrastrutture, che prevede, tra le altre cose, un aumento delle retribuzioni per le aziende che operano nella costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. La norma, nello specifico, fornisce alla società Stretto di Messina la possibilità di aggiornare i vecchi contratti con le aziende del consorzio Eurolink, che aveva vinto l’appalto nel 2010, tenendo tuttavia fissa la soglia di spesa totale a 13,5 miliardi. Gli aumenti previsti potrebbero arrivare fino al 50% in più degli stipendi.
L’obiettivo dichiarato è quello di garantire adeguate condizioni economiche alle imprese coinvolte, favorendo l’attrazione di partner internazionali e riducendo i rischi di blocchi nei cantieri per difficoltà finanziarie. Ciò che appare chiaro è però che il meccanismo di adeguamento dei contratti previsto nel decreto omnibus, pur entro il tetto complessivo di 13,5 miliardi di euro, rischia di trasformarsi in un importante regalo alle grandi imprese edili. La bozza del decreto, composta da 16 articoli, è attualmente in fase di revisione presso la Ragioneria generale dello Stato e dovrà ricevere il via libera definitivo prima di tornare in Consiglio dei Ministri per l’approvazione formale. Proprio ieri, tuttavia, il vertice di governo è stato rinviato, anche a causa dei dubbi sollevati dal Quirinale su alcuni passaggi del decreto, con particolare riguardo a quelli relative al Ponte sullo Stretto. Inoltre, il provvedimento contiene oltre duecento nuove previsioni di legge, e le ragioni di necessità e urgenza – requisito base per entrare in un decreto – non sembrano valere per tutte. Il percorso legislativo prevede ora il passaggio al vaglio del Parlamento e del Senato, con possibili modifiche della commissione Bilancio e Lavori Pubblici. Restano in sospeso i rilievi del Quirinale e la quantificazione definitiva delle coperture finanziarie, ma il governo punta a chiudere l’iter entro la prossima estate, per dare il via ai primi cantieri già entro il 2025.
Solo poche settimane fa, il governo italiano ha inviato un dossier alla Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen in cui il Ponte sullo Stretto viene inquadrato addirittura come una questione di sicurezza continentale. La realizzazione dell’opera è stata infatti definita dall’esecutivo «imperativa e prevalente per l’interesse pubblico» non soltanto per ragioni economiche o di protezione civile, ma anche e soprattutto per motivazioni geopolitiche e militari, fondamentali in caso di scenari di guerra per «il passaggio di truppe e mezzi della NATO». La strategia è infatti quella di inserire il ponte nel Military Mobility Action Plan dell’UE, il piano continentale per facilitare il movimento rapido delle forze armate, contando così sull’etichetta di “opera strategica militare” al fine di ottenere le indispensabili deroghe ambientali. Se la Commissione europea darà l’ok, il Ponte sullo Stretto potrebbe perfino rientrare nel novero delle spese militari utili a far crescere il rapporto spesa-difesa/Pil, come auspicato dall’Alleanza Atlantica. Nella relazione allegata alla richiesta, l’esecutivo ha enucleato le ragioni della scelta: «L’aumentata connettività della Sicilia rispetto al resto del Paese e dell’Europa ha delle chiare implicazioni geopolitiche e, quindi, per la difesa del territorio». Il documento del governo cita anche i recenti scenari internazionali di instabilità, dai Balcani al Medio Oriente, come fattori che rendono ancora più urgente e necessaria la costruzione dell’opera.
Se dovessimo coniare una parola per descrivere la continua rielaborazione degli stessi fatti storici riguardanti conflitti internazionali a fini propagandistici, questa potrebbe avere il nome di “afghanizzazione mediatica”. Quello dell’Afghanistan non è certo l’unico caso di territorio dove si sono combattute guerre spinte da narrative costruite ad arte e supportate da sentimenti popolari appositamente promossi da governi invasori.
Di tutti i luoghi in cui questo fenomeno è avvenuto nella storia contemporanea, però, l’Afghanistan è certamente uno di quelli in cui si è ripetuto con più frequenza. Qui, inoltre, vi è stato il minor interesse nel riprendere in mano gli eventi con maggiore lucidità per riscrivere la storia senza dover seguire la narrazione bellica e pre-bellica dei fatti prodotta dalle potenze che hanno compiuto la guerra in oggetto.
Dentro il regime, ma con i social media
Dopo essere stato in Afghanistan a novembre 2024, questo fenomeno mi è apparso molto chiaramente davanti. L’Afghanistan dei talebani vive, dopo il reinsediamento del movimento di matrice religiosa islamica sunnita al governo de facto del Paese, nel 2021, un tentativo di apertura verso l’esterno. Questa sta tuttavia passando quasi inosservata sui media tradizionali, nonostante sui social media siano sempre più numerosi contenuti che suggeriscono di viaggiare nel Paese, mostrandone le bellezze archeologiche, paesaggistiche e culturali.
Questi video spesso promuovono, direttamente o indirettamente, il turismo in Afghanistan e mostrano come le condizioni di sicurezza siano molto migliorate rispetto agli ultimi vent’anni. Ancor più importante però, mostrano i talebani come un gruppo sì simile a come li si conosce, ma tutto sommato accogliente e innocuo verso gli stranieri. Per capire l’emersione di questo nuovo fenomeno mediatico, molto più in mano alla popolazione comune piuttosto che ai media tradizionali, bisogna capire come si è arrivati fino a questo punto storico e “come sta”, ora, l’Afghanistan.
Da “Freedom fighters” a “pericolo globale”
Un gruppo di combattenti pashtun durante la seconda guerra angloafghana del 1878-1880. I pashtun sono l’etnia alla quale la stragrande maggioranza dei talebani appartiene
L’imprevedibilità della situazione interna dell’Afghanistan è sempre stata una costante nella storia del Paese sin dal periodo delle guerre contro i britannici, iniziato con una storica disfatta di questi ultimi nel 1842 e conclusosi nel 1919 con la firma degli accordi che avrebbero portato alla definizione dell’attuale confine tra Afghanistan e Pakistan.
Da quel quarantennio di giochi tra potenze, principalmente Regno Unito e Impero russo, il Paese ha visto diversi cambi di regime, periodi di stabilità interrotti da colpi di Stato e, più recentemente, una guerra civile caratterizzata da un’anomia politica che ha permesso l’emersione di gruppi come quello talebano.
Fino agli anni ’90, cioè fino a quando l’URSS non si era ancora ritirata dall’Afghanistan e i mujaheddin (da una cui costola nacquero proprio i talebani) erano finanziati in chiave anti-sovietica da USA, Arabia Saudita e Cina, gli uomini barbuti che venivano dalle montagne erano una risorsa. Come diceva l’ex presidente degli Stati Uniti d’America Jimmy Carter in un suo famoso discorso alla nazione trasmesso sulle TV statunitensi, l’invasione sovietica dell’Afghanistan era «un intenzionale sforzo di un potente governo ateo di soggiogare un popolo musulmano indipendente».
Il movimento raggiunse il suo apice dapprima nel 1996, prendendo controllo di gran parte del Paese presto sbaragliato dall’invasione statunitense del 2001. A partire dagli anni immediatamente precedenti l’invasione, i talebani vennero dipinti nei media nostrani (e di tutto l’Occidente) come un movimento altamente ostile e pericoloso per l’intera umanità. Dai divieti per le donne alla conversione dei cinema in moschee, i talebani, amici di al-Qaeda, erano uno dei nuovi mali assoluti sul piano internazionale.
Nel 2020 le carte in tavola cambiano ancora. Dopo gli accordi di Doha, firmati tra Stati Uniti e governo talebano (riconosciuto de facto da numerosi Paesi nel mondo, ma non ufficialmente a livello internazionale), l’immagine e l’atteggiamento dei talebani sono iniziate a cambiare lentamente.
Il “Nuovo” Emirato Islamico, amici (e nemici) come prima
Firma degli accordi a Doha da parte del rappresentante degli Stati Uniti d’America, Zalmay Khalilzad, e Abdul Ghani Baradar, vice primo ministro dell’Emirato Islamico di Afghanistan dal 2021 (Foto del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America)
Non è da poco il fatto che gli Stati Uniti abbiano siglato degli accordi con il governo talebano nel 2020, dotandolo di fatto di un’implicita autorità sul territorio afghano. E non è da poco neanche che degli accordi di Doha sia stata pubblicata solo una parte, mantenendone secretata un’altra – la cui esistenza è tuttavia stata annunciata sin da subito. Una mossa che potrebbe servire in futuro, in particolare agli Stati Uniti, per ricorrere al ricatto in caso le promesse dei talebani esplicitate nella parte segreta non venissero mantenute, oppure per legittimare un’azione strategica che, in un determinato momento storico, sarebbe invece inaccettabile per l’opinione pubblica sulla base della sola parte pubblica degli accordi.
Mentre i rapporti con Washington e l’Occidente rimangono ufficialmente freddi, la Turchia finanzia la costruzione di moschee nel Paese, come suo solito nella sua area di interesse strategico, usando l’Islam come legame culturale e identitario per esercitare il proprio soft power, laddove la carta dell’etnicità turca non sia utilizzabile. Gli Emirati Arabi Uniti intrattengono rapporti formali con i talebani, ospitando un loro ufficio consolare a Dubai che, curiosamente, espone ancora la bandiera della ormai decaduta Repubblica Islamica. Proprio a Dubai ha poi sede la Alokozay, azienda produttrice di tè, acqua in bottiglia e altri prodotti alimentari molto conosciuta in Asia occidentale.
Fondata da un imprenditore afghano, questa prende il nome di una tribù pashtun, la quale mantiene presumibilmente ancora contatti con il governo talebano, essendo di gran lunga il principale fornitore di acqua in bottiglia del Paese.
I rapporti con altri Paesi a maggioranza musulmana sono sempre più sviluppati: per questo, in Afghanistan, i musulmani sono i benvenuti ovunque, potendo contare anche su ingressi gratis nelle moschee e in alcuni luoghi turistici. I non musulmani, in quanto turisti, sono comunque trattati mediamente con accoglienza, data comunque la risorsa economica e di soft power sottesa al turismo internazionale.
I turisti devono tuttavia sottostare a regole precise, anche se queste vengono sempre meno applicate. Tra le più importanti, vi è il divieto assoluto di fotografare e riprendere donne, dovuto a una volontà di preservarne (dal punto di vista talebano) la dignità. La decisione si muove soprattutto verso una progressiva totale proibizione della diffusione di immagini di volti di esseri viventi, in accordo con la loro interpretazione dell’Islam sull’idolatria. I volti umani, e anche quelli animali, sono stati per questo censurati su molti cartelloni pubblicitari e vetrine delle città.
Alcune di queste misure seguirebbero, secondo alcuni osservatori esterni, la corrente di pensiero di stampo wahhabita propria del pensiero politico arabo-saudita. Pure i sauditi, seppur in maniera forse più coerente dei talebani, avrebbero infatti realizzato una delle più grandi campagne di “marketing strategico” sul piano internazionale degli ultimi decenni, producendo risultati formidabili nella loro legittimazione (o quantomeno tolleranza) da parte di popolazioni come quella occidentale. I talebani, incentivando l’ingresso di visitatori e capitali nel Paese, potrebbero star tentando la stessa strada, partendo tuttavia da una posizione molto più svantaggiata in termini di risorse, capacità e, soprattutto, di reputazione internazionale (tra le peggiori al mondo).
L’immagine dei talebani sembra essere il più grande nodo della questione, difficile da sciogliere per la stessa élite talebana, la quale in parte ancora spinge per il mantenimento del vestiario militare e degli AK-47 sempre a tracolla, simbolo dell’onore e della valorosità del combattente tipico della cultura pashtun. Dal modo in cui i talebani si sono presentati a Doha nel 2020 e in vari recenti incontri internazionali (come ad esempio all’ultima COP), sembra tuttavia che stiano cercando di adottare una corrente più “formale” e “diplomatica” anche sul piano estetico, neutralizzando gli elementi fisici che rendono i talebani tanto riconoscibili, ma anche ostili, all’occhio di un osservatore esterno – in particolare occidentale.
Non tutti sono “così talebani”
Il volto di un bambino cancellato da un cartellone pubblicitario in uno dei quartieri più ricchi di Kabul (Foto di Giacomo Casandrini)
L’opinione interna afghana, intanto, prende delle pieghe interessanti. Se nei primissimi tempi del nuovo governo i talebani erano visti da moltissimi afghani con assoluto terrore, a causa anche della violenza e della disorganizzazione con cui presero il potere ad agosto 2021, oggi la popolazione comincia a rendersi conto che il Paese potrebbe, dopo quasi 50 anni di squilibri, tendere verso la stabilità. L’accettazione dei talebani da parte del popolo non avviene però senza compromessi: oggi, quella in atto è più che altro una sopportazione da parte delle minoranze non pashtun e non direttamente connesse alla struttura del potere pashtun. La diffidenza tra queste e governo rimane alta, ma se la situazione si mantenesse pacifica e le restrizioni venissero sempre più ridotte, anche per molti afghani rimasti nel Paese i talebani potrebbero un giorno diventare un governo legittimo e autorevole. In merito a tematiche quali l’educazione delle donne, tuttavia, non sembrano esserci miglioramenti in vista. E non ve ne saranno almeno fino a quando tali cambiamenti non diverranno convenienti sul piano strategico.
L’Afghanistan è ancora in guerra?
Il Band-e Amir canyon, una delle aree naturali più suggestive del Paese (Foto di Giacomo Casandrini)
Nel frattempo, l’Occidente rimane ancora largamente fisso sulle immagini del passato. Non tanto da un punto di vista morale e culturale, quanto da quello degli sviluppi economici e geopolitici in atto nella regione. I talebani continuano a usufruire degli aeroporti delle principali città del Paese, costruiti inizialmente a scopi militari con il finanziamento anche di alcuni Stati europei (tra cui l’Italia, con un prestito di 137 milioni di euro dai termini mai chiariti) e oggi usati per voli commerciali interni e verso l’estero. Molti verso Dubai, ma anche verso Paesi che intrattengono rapporti con l’Emirato, come Pakistan e Turchia.
In questo quadro di drammatica obsolescenza della nostra informazione, trovano spazio video di creatori di contenuti che mostrano immagini di un Afghanistan “come non te lo aspettavi”, ricco di tradizioni e bellezze. In questo contesto, i talebani sono rappresentati tanto “umani come noi” quanto nella forma di goffi sempliciotti che, armati di AK-47, danno vita a situazioni tragicomiche degne di diventare virali sui social.
Di fronte a questo grottesco scenario mediatico, bisogna tornare urgentemente a reinterpretare e conoscere l’Afghanistan e la sua storia, avendo quindi a che fare anche con coloro che, piaccia o meno, lo stanno governando in maniera incontrastata da alcuni anni a questa parte.
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