sabato 10 Maggio 2025
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Gaza, appello di Francia, Germania e Regno Unito: “Cessate il fuoco”

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Francia, Germania e Regno Unito hanno lanciato un appello congiunto chiedendo un «immediato cessate il fuoco» nella Striscia di Gaza. I tre Paesi si sono detti «indignati» per il numero di vittime tra i civili da quando Israele ha violato la tregua martedì scorso. I ministri degli esteri dei tre Paesi hanno denunciato la «drammatica battuta d’arresto per la popolazione di Gaza, gli ostaggi, le loro famiglie e l’intera Regione», invitando le parti in gioco a «riprendere i negoziati affinché il cessate il fuoco sia attuato» e «sia consentita immediatamente la consegna degli aiuti» nella Striscia di Gaza.

La Germania ha modificato la propria Costituzione per aumentare la spesa militare

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La camera alta del Parlamento tedesco, il Bundesrat, ha approvato oggi una riforma costituzionale che permetterà alla Germania di fare debito, allentando la cosiddetta regola del “freno al debito”, che attualmente limita l’indebitamento pubblico allo 0,35% del prodotto interno lordo (Pil), con l’obiettivo di finanziare le spese militari e gli investimenti in infrastrutture, ma anche di rilanciare la più grande economia europea. La riforma, voluta dal futuro cancelliere Friedrich Merz e già passata martedì al Bundestag, è passata alla camera alta con 53 voti a favore, vale a dire oltre la maggioranza dei due terzi richiesti. È stata sostenuta dalla CDU (Unione Cristiano-Democratica di Germania), il più importante partito di centrodestra che ha vinto le elezioni federali lo scorso 23 febbraio, dai Socialdemocratici (SPD) e dai Verdi. Nello specifico, la modifica costituzionale permette di esentare dal vincolo del freno al debito le spese militari che superano l’uno per cento del Pil all’anno, ossia circa 45 miliardi di euro, e di creare un fondo da 500 miliardi di euro per migliorare le infrastrutture tedesche. Si tratta di una svolta storica nella politica fiscale tedesca, che per più di un decennio si è basata su una rigida austerità, rappresentando il modello da seguire per gli altri Stati dell’Unione. Per entrare in vigore, la legge dovrà ora essere firmata dal presidente federale tedesco Frank-Walter Steinmeier.

Dei 500 miliardi di euro destinati al fondo infrastrutturale, 100 miliardi saranno destinati al fondo per la trasformazione climatica ed economica, come richiesto dai Verdi. Delle restanti risorse, invece, 300 miliardi andranno al governo federale e 100 ai governi dei Länder (gli Stati federati). Inoltre, a ciascuno dei 16 stati federati della Germania sarà consentito di gestire un piccolo deficit strutturale pari allo 0,35% della propria produzione economica, che gli consentirà di avere 16 miliardi di euro in più da spendere, mentre finora non gli era consentito fare deficit. L’approvazione della modifica costituzionale arriva in un momento di forte difficoltà per l’economia teutonica e in un contesto internazionale in rapido mutamento. Dopo il divario crescente tra l’UE e gli USA di Donald Trump e dopo aver perso l’ombrello difensivo degli Stati Uniti, propensi a riprendere i contatti con la Russia, la Germania sta pienamente assecondando il piano di riarmo di Bruxelles. Le deroghe ai rigidi vincoli di bilancio riguardano, infatti, prevalentemente l’apparato militare e infrastrutturale. Indirettamente, però, revocando il freno al debito che Berlino aveva adottato a partire dal 2009, il governo tedesco sta confermando come le politiche di austerità imposte come un dogma negli ultimi anni a tutti gli Stati membri siano contrarie allo sviluppo economico e alla crescita. Lo stesso sindaco di Berlino, Kai Wegner, ha affermato che «la Germania è stata in parte distrutta nel corso di decenni. La nostra infrastruttura è stata, negli ultimi anni, più gestita che sviluppata attivamente», aggiungendo che «Per troppo tempo abbiamo fatto solo il minimo indispensabile e non possiamo e non dobbiamo continuare in questo modo». Il sindaco ha definito il pacchetto da 500 miliardi di euro un «Piano Marshall» per la Germania.

Per anni lo Stato tedesco ha perseguito una politica rigorista, fondata su una cieca austerità di bilancio, prescritta anche agli altri Paesi europei, il cui effetto non è stato altro che quello di comprimere la domanda interna – anche attraverso la svalutazione dei salari – per spingere le esportazioni. Ora però che la politica mercantilista tedesca ha subito un brusco declino, prima a causa dell’interruzione dei rapporti commerciali con la Russia, e ora per via dei potenziali dazi degli Stati Uniti, Berlino sta rapidamente cambiando rotta. La priorità, però, non è stata accordata allo Stato sociale o al sostegno di famiglie e imprese, bensì all’ambito della difesa, seguendo pedissequamente le indicazioni di Bruxelles e della NATO. Gli Stati europei, che hanno designato la Russia come una «minaccia esistenziale», non esitano a investire miliardi di euro nel riarmo, dopo aver tagliato per decenni le principali voci della spesa pubblica. Non a caso, con riferimento alla questione russa e alla sicurezza, Merz ha detto ai legislatori prima del voto che «Per almeno un decennio abbiamo avvertito un falso senso di sicurezza. La decisione che prendiamo oggi sulla prontezza della difesa non può che essere il primo importante passo verso una nuova comunità di difesa europea».

Secondo l’istituto di ricerca economica ZEW, i piani fiscali hanno sollevato il morale degli investitori tedeschi questo mese, in quanto il suo indice di fiducia economica ha segnalato un aumento a 51,6 punti dai 26,0 punti di febbraio. Secondo l’istituto economico tedesco DIW, invece, il solo fondo infrastrutturale pianificato dalla Germania potrebbe aumentare la produzione economica di una media di oltre due punti percentuali all’anno nei prossimi dieci anni. Tuttavia, gli economisti affermano che ci vorrà tempo prima che lo stimolo entri in vigore e contribuisca a risollevare un’economia in contrazione da due anni consecutivi.

[di Giorgia Audiello]

L’esercito del Sudan annuncia la conquista del palazzo presidenziale

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L’esercito del Sudan ha annunciato di aver preso il pieno controllo del palazzo presidenziale nel centro della capitale Khartum. L’aggiornamento è arrivato oggi, venerdì 21 marzo, dopo giorni di segnalazioni di scontri nei pressi della capitale, che indicavano un avvicinamento dell’esercito al palazzo. La conquista del palazzo presidenziale da parte dell’esercito regolare rappresenterebbe una delle più importanti vittorie delle forze armate sudanesi contro il movimento ribelle delle Forze di Supporto Rapido (RSF), che ne aveva preso possesso nell’aprile del 2023.

Un report forense suggerisce che il caso Paragon sia più grave del previsto

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A fine gennaio, è emerso che giornalisti e attivisti italiani sono stati intercettati illecitamente con uno spyware noto come Graphite, prodotto dall’azienda di natali israeliani Paragon. Il Governo italiano, cliente dell’impresa in questione, non ha ancora comunicato al pubblico gli esiti della sua indagine interna. Chi ha espresso un’opinione è invece il The Citizen Lab, gruppo dell’Università di Toronto che ha analizzato la situazione dal lato tecnico. Secondo il suo primo report, la situazione potrebbe essere più grave di quanto fino a oggi noto.

Il rapporto, pubblicato il 19 marzo, si è focalizzato sul verificare due scenari: quello canadese, vicino alla realtà dell’accademia, e quello italiano, contesto che è stato malauguratamente in grado di fornire numerosi elementi di ricerca. Gli accademici hanno riscontrato un possibile legame tra Graphite e le Forze di polizia dell’Ontario, tuttavia gli elementi più interessanti emergono proprio dallo scenario nostrano.

Grazie all’intervento di Meta, sappiamo da tempo che almeno sette italiani sono stati monitorati su WhatsApp attraverso il software di spionaggio. Tra questi Francesco Cancellato, direttore del giornale Fanpage, Luca Casarini, fondatore di Ong Mediterranea, Giuseppe Caccia e don Mattia Ferrari, rispettivamente co-fondatore e cappellano di bordo di Mediterranea Saving Humans. Indiscrezioni intercettate da The Guardian e discussioni politiche hanno dunque rivelato che Roma ha contratti in essere con Paragon e che questi siano stati sospesi dopo l’esplosione dello scandalo.

L’indagine forense di The Citizen Lab, effettuata in collaborazione con Meta, aggiunge ulteriori tasselli. Gli apparecchi Android infetti analizzati hanno rivelato la presenza di un artefatto che è stato battezzato per l’occasione BIGPRETZEL, il quale si ritiene sia connesso all’azienda israeliana. Partendo dalla traccia digitale, è emerso dunque che lo spyware non si sia limitato a infettare Whatsapp: lo smartphone di Caccia evidenzia per esempio almeno altre due app infette, tra cui una non meglio definita “popolare app di messaggistica”.

Il gruppo canadese ha quindi scandagliato l’iPhone di David Yambio, rifugiato libico e fondatore di Refugees in Libya, il quale non figura tra i famosi sette identificati da Meta, ma ha comunque ricevuto una notifica omologa da parte di Apple. Il telefono ha evidenziato delle attività anomale il 13 giugno 2024, fenomeni che l’azienda produttrice dell’apparecchio non esita a identificare come “attacchi spyware molto sofisticati”. La falla che ha consentito il monitoraggio di Yambio pare sia stata colmata con l’aggiornamento a iOS 18, tuttavia è probabile che i dati dell’attivista siano stati compromessi.

The Citizen Labs sospetta che l’Italia sia un cluster di fenomeni di spionaggio, un polo di sorveglianza che viene motivato dal posizionamento strategico nel Mediterraneo e dal ruolo che le ONG manifestano nei confronti dell’accoglienza e dell’assistenza a migranti e rifugiati. La verifica effettuata dai ricercatori si limita agli avvenimenti più recenti, tuttavia si sospetta che la presenza di spyware sia antecedente al caso Paragon, che possa aver coinvolto altre imprese di spionaggio.

I ricercatori hanno inoltrato i loro risultati a Paragon stessa, la quale ritiene che contengano “diverse imprecisioni”, sostenendo però di non poter commentare più approfonditamente in assenza di dettagli tecnici più precisi. The Citizen Labs nota inoltre che l’azienda israeliana custodisca un “registro dettagliato” delle attività dello spyware Graphite e suggerisce alle autorità italiane di richiederne accesso, così da verificarne gli eventuali impieghi illeciti. “Anche se gli spyware mercenari sono stati acquistati con uno scopo primario, come per esempio investigare gruppi criminali, l’esperienza ci rivela che, con il tempo, la tentazione di usare queste potenti tecnologie per scopi politici è considerevole”, conclude amaramente il report.

[di Walter Ferri]

Inchiesta Sogei, ex direttore patteggia tre anni per corruzione

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L’ex direttore generale di Sogei, Paolino Iorio, ha patteggiato una condanna a tre anni nell’ambito dell’inchiesta che lo vedeva accusato per il reato di corruzione impropria. Iorio è stato arrestato lo scorso ottobre mentre intascava una tangente da 15 mila euro, mentre nella sua abitazione, nelle perquisizioni, furono rinvenuti circa 100 mila euro. Il Gip di Roma ha ratificato la condanna a 3 anni per l’imprenditore Massimo Rossi (anche lui ha patteggiato), che venne fermato dalla Guardia di Finanza mentre cedeva la mazzetta. È stata dunque disposta la scarcerazione di Iorio, che era ristretto ai domiciliari.

Gaza: ancora stragi mentre Trump annuncia “sostegno totale” a Israele

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Un’altra strage di civili palestinesi si è verificata ieri a Gaza, dopo che Israele ha violato il cessate il fuoco martedì scorso riprendendo i bombardamenti e le operazioni via terra: nella sola giornata di ieri 91 palestinesi sono stati uccisi e decine sono rimasti feriti negli attacchi avvenuti in tutta la Striscia. Le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno annunciato di aver avviato operazioni di terra nel distretto di Shaboura, nella città più a sud di Gaza, Rafah, al confine con l’Egitto. Allo stesso tempo, l’esercito dello Stato ebraico ha reso noto di aver dato il via a operazioni di terra anche nel nord dell’enclave, lungo la strada costiera di Beit Lahiya. La ripresa della campagna militare nell’enclave palestinese ha avuto il «sostegno totale» del presidente statunitense Donald Trump: la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha dichiarato che «Il presidente ha reso molto chiaro ad Hamas che, se non avessero rilasciato tutti gli ostaggi, ci sarebbero state conseguenze gravi. E purtroppo, Hamas ha scelto di giocare con i media a spese di vite umane». Inoltre, la Casa Bianca ha fatto sapere che Israele ha consultato gli Stati Uniti prima di riprendere gli attacchi. Da parte sua, il gruppo di resistenza palestinese Hamas ha ribadito il suo impegno nei confronti dell’accordo e ha invitato i mediatori ad «assumersi le proprie responsabilità».

Secondo le autorità mediche locali, circa 600 palestinesi sono stati uccisi dalla ripresa dei bombardamenti martedì, di cui più di 200 sono bambini. Il bilancio delle vittime è destinato a salire, considerato l’intensificarsi degli attacchi aerei e terrestri da parte di Israele. Nel frattempo, cresce il malcontento dell’opinione pubblica israeliana: da martedì, infatti, decine di migliaia di persone hanno manifestato contro il governo di Netanyahu e la ripresa delle stragi. I disordini interni non hanno comunque impedito al governo israeliano di riprendere i bombardamenti e di lanciare volantini sui quartieri residenziali intimando alla popolazione di abbandonare le città di Beit Lahiya e Beit Hanoun nel nord, il distretto di Shejaia nella città di Gaza e le città nella periferia orientale di Khan Younis nel sud. «Gli attacchi israeliani nella Striscia di Gaza si sono intensificati, soprattutto all’alba, quando almeno 11 edifici residenziali sono stati rasi al suolo dalle forze israeliane», ha affermato l’inviato dell’emittente araba Al Jazeera, Tareq Abu Azzoum, in un servizio dal centro di Gaza. Come risposta, Hamas, che nelle prime 48 ore di ripresa delle ostilità da parte di Tel Aviv non aveva reagito, ha lanciato razzi verso Israele, affermando che l’operazione di terra israeliana e l’incursione nel corridoio di Netzarim sono state una «nuova e pericolosa violazione» dell’accordo di cessate il fuoco.

Tra gli obiettivi delle forze israeliane c’è quello di espandere la zona cuscinetto che separa la parte settentrionale da quella meridionale della Striscia, nota come corridoio di Netzarim, confermando così implicitamente di non volere ritirare le truppe dall’enclave come prevedrebbe la fase due dell’accordo stipulato a gennaio sotto l’amministrazione Biden. È proprio la mancata volontà di passare alla fase due della tregua che ha indotto Hamas a non rilasciare gli ostaggi israeliani: sin dagli inizi di marzo, infatti, il governo israeliano ha bloccato l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza, violando sia il diritto internazionale umanitario che gli accordi di cessate il fuoco stipulati con il gruppo di resistenza palestinese, con l’intento di forzare Hamas a rilasciare gli ostaggi, senza attuare la fase due dell’accordo. Quest’ultima prevede il ritiro delle truppe israeliane da Gaza, lo scambio degli ultimi ostaggi israeliani con prigionieri palestinesi e la negoziazione definitiva della fine della guerra. Tuttavia, Tel Aviv, con l’appoggio del governo statunitense, non solo non sta ritirando le sue truppe, proponendo solo una proroga temporanea della tregua, ma ha anche minacciato di occupare il territorio palestinese. Oggi, infatti, il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato che «Se gli ostaggi non verranno rilasciati, Israele continuerà a prendere sempre più territorio nella Striscia per un controllo permanente».

La ripresa della campagna militare a Gaza ha scatenato ampie proteste in Israele: da martedì decine di migliaia di persone hanno manifestato contro il governo di Netanyahu a Tel Aviv e a Gerusalemme e la polizia ieri sera ha cercato di sedare le rivolte sparando con gli idranti ed effettuando numerosi arresti. I manifestanti hanno accusato il governo di continuare la guerra per motivi politici e di mettere in pericolo la vita degli ostaggi ancora detenuti a Gaza. Nonostante ciò, il governo israeliano è determinato a proseguire la pulizia etnica del popolo palestinese e minaccia di appropriarsi dei suoi territori. Come riferisce Al-Jazeera, secondo Andreas Krieg, professore associato di studi sulla sicurezza al King’s College di Londra, l’obiettivo dello Stato ebraico è «impadronirsi del territorio e potenzialmente non restituirlo mai più. Vuole rinchiudere la gente di Gaza in spazi ristretti e poi trasferirsi lì». Il tutto sta avvenendo con l’approvazione degli Stati Uniti e, indirettamente, dell’Unione Europea che ieri al Consiglio Europeo non ha condannato gli attacchi israeliani e la violazione del cessate il fuoco da parte di Tel Aviv.

[di Giorgia Audiello]

Corea del Sud, presentato impeachment contro il presidente ad interim

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I partiti di opposizione sudcoreani hanno presentato una mozione di impeachment per mettere sotto accusa il presidente ad interim Choi Sang-mok. La decisione arriva a causa dei «continui veti» alle proposte di legge dell’opposizione, e del rinvio della nomina del nono giudice della Corte Costituzionale, necessaria per completare la destituzione del presidente Yoon Suk-yeol. Choi, che è anche ministro delle Finanze, è stato nominato presidente ad interim proprio dopo la destituzione di Yoon, accusato di insurrezione, tradimento e abuso di potere per aver tentato di imporre la legge marziale lo scorso 3 dicembre.

Uno studio rivela che le microplastiche hanno raggiunto anche l’Antartide

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Nonostante l’enorme distanza da grandi centri urbani, le severe normative sui materiali che vengono trasportati in zona e i numerosi allarmi lanciati negli ultimi anni sui potenziali effetti avversi per l’uomo e per l’ecosistema, le microplastiche hanno raggiunto anche la neve dell’Antartide. Lo rivela uno studio guidato da scienziati del British Antarctic Survey (BAS), sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Science of the Total Environment. Secondo la ricerca, condotta grazie a una tecnica di rilevamento basata sulla spettroscopia infrarossa, i campioni di neve analizzati presentano plastiche di dimensioni inferiori ai 50 micrometri, con densità comprese tra 73 e 3.099 particelle per litro. I coautori hanno dichiarato che, sebbene il problema sia ben noto, questa sarebbe la prima volta in assoluto che vengono rilevate concentrazioni così alte in aree così remote, il che «evidenzia la cruda realtà che anche gli angoli più incontaminati del pianeta non sono esenti dall’impatto umano».

L’inquinamento da microplastiche è una delle emergenze ambientali più preoccupanti degli ultimi decenni. Composte da polimeri sintetici di varia natura, queste particelle si disperdono nell’ambiente attraverso processi industriali, rifiuti plastici e persino il deterioramento di abbigliamento tecnico. Finora, le microplastiche erano state rinvenute in quasi tutti gli ecosistemi terrestri e marini, dai fondali oceanici alla troposfera. L’Antartide, protetta da rigide normative ambientali che limitano l’introduzione di materiali plastici, era considerata una delle ultime aree incontaminate. Anche se alcuni studi avevano già segnalato la presenza di microplastiche nell’acqua e nei sedimenti marini antartici – suggerendo che le correnti oceaniche e i venti potessero trasportare questi inquinanti anche in luoghi remoti – il nuovo studio è il primo a dimostrare la diffusione delle microplastiche a concentrazioni elevatissime anche nella neve. Questo solleva interrogativi sul loro impatto sul clima e sulla fauna locale.

I ricercatori hanno utilizzato una metodologia innovativa per rilevare particelle di plastica di dimensioni estremamente ridotte: anziché affidarsi alla selezione manuale, il team ha filtrato la neve sciolta e analizzato i residui con spettroscopia infrarossa, identificando polimeri come poliammide, polietilene tereftalato, polietilene e gomma sintetica. La poliammide, utilizzata in tessuti tecnici e corde, è risultata particolarmente abbondante nei campioni raccolti nei pressi dei campi di lavoro, mentre era assente nei siti più remoti, suggerendo una possibile contaminazione locale. Analizzando campioni di neve prelevati da Union Glacier, Schanz Glacier e dal Polo Sud sono state rilevate particelle piccole fino a 11 micrometri (circa le dimensioni di un globulo rosso) e in concentrazioni fino a 100 volte superiori rispetto a studi precedenti. «Riteniamo che ciò significhi che ci siano fonti locali di inquinamento da plastica, almeno per quanto riguarda la poliammide. Ciò potrebbe derivare dagli indumenti da esterno o dalle corde e dalle bandiere utilizzate per contrassegnare percorsi sicuri dentro e intorno al campo», ha commentato la dottoressa Clara Manno, ecologa oceanica presso il British Antarctic Survey, la quale ha aggiunto che le implicazioni delle microplastiche in questa «selvaggia natura ghiacciata» non sono ancora del tutto comprese.

«Nonostante le severe normative sui materiali che entrano in Antartide, le nostre scoperte rivelano contaminazione da microplastiche anche in aree remote e altamente controllate. Ciò sottolinea la natura pervasiva dell’inquinamento da plastica, dimostrando che nessun luogo sulla Terra è veramente incontaminato. La nostra ricerca evidenzia la necessità di sfruttare la presenza antartica esistente per un monitoraggio continuo. Mentre il mondo cerca di assumersi le proprie responsabilità attraverso il Trattato globale sulla plastica dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente, valutazioni regolari in tali ambienti incontaminati potrebbero fornire prove fondamentali per politiche e azioni», ha aggiunto la dottoressa e coautrice Kirstie Jones-Williams, concludendo che gli esperimenti evidenziano la «cruda realtà» che anche gli angoli più incontaminati del pianeta non sono esenti dall’impatto umano, a conferma della necessità di ulteriori studi a riguardo.

[di Roberto Demaio]

Turchia, si diffondono le proteste: Erdogan chiude metro e social

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Dopo l’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, principale rivale politico del presidente Recep Tayyip Erdoğan, in Turchia è scoppiata una ondata di manifestazioni antigovernative, che hanno visto la partecipazione di decine di migliaia di persone. L’arresto di İmamoğlu è visto dai dimostranti come un nuovo tentativo di eliminare ogni residuo di opposizione politica e sociale nel Paese, facendo leva sulla magistratura. Tra mercoledì 20 e giovedì 21 marzo, a Istanbul, migliaia di persone si sono radunate davanti al municipio, mentre si sono registrati scontri nelle università. In generale, le proteste vanno avanti in tutto il Paese, nonostante il governo abbia vietato per quattro giorni ogni manifestazione politica. Nel tentativo di arginare sul nascere ogni possibile mobilitazione, l’esecutivo turco ha anche limitato l’accesso ai social media e chiuso la metropolitana di Istanbul.

Le proteste in favore di İmamoğlu sono ormai arrivate al secondo giorno consecutivo e non sembrano volersi fermare. Mercoledì, le manifestazioni si sono concentrate a Istanbul, dove l’amministrazione aveva vietato di manifestare e limitato l’accesso alle strade per scongiurare le mobilitazioni. Dopo l’arresto del sindaco, Özgür Özel, il capo del Partito Popolare Repubblicano (CHP), il partito di İmamoğlu, ha lanciato un appello alla mobilitazione, invitando i cittadini a unirsi presso il municipio e davanti alla sede centrale della polizia dove İmamoğlu è detenuto. La polizia ha bloccato l’accesso agli edifici. Le proteste di mercoledì hanno raggiunto le università, le stazioni della metropolitana, la sede del partito di İmamoğlu, e gli stessi luoghi indicati da Özel. All’Università di Istanbul si sono registrati scontri tra manifestanti e polizia, che ha usato lo spray al peperoncino per disperdere la folla.

Giovedì le proteste sono andate avanti. Davanti al municipio di Istanbul, piccoli gruppi di dimostranti si sono scontrati con la polizia mentre cercavano di avvicinarsi a piazza Taksim, che era stata chiusa alla folla. Ad Ankara, la capitale turca, la polizia ha utilizzato idranti per disperdere la folla di studenti radunatasi presso la Middle East Technical University, e analoghe proteste sono state segnalate anche nella città di Smirne (sulla costa egea della Turchia) e ad Adana (nella Turchia meridionale). A partire da ieri, inoltre, le proteste sono andate avanti anche sotto forma di post e contenuti sui social. L’ondata di critiche ha spinto le autorità turche a limitare l’accesso a varie piattaforme di social media, tra cui Facebook, Instagram, Signal, Telegram, TikTok, WhatsApp, X e YouTube, portando, secondo giornali specializzati, a un aumento dell’uso di VPN e metodi alternativi per accedere alle piattaforme soggette a restrizioni. Il ministro degli Interni turco, Ali Yerlikaya, ha poi dichiarato che la polizia ha arrestato 37 persone per aver condiviso post «provocatori» sui social media.

I manifestanti accusano il governo di sfruttare la propria influenza sulla magistratura per mettere a tacere il dissenso nel Paese. Ekrem İmamoğlu, 54 anni, sindaco di Istanbul dal 2019, è stato arrestato mercoledì assieme ad altre 106 persone, con la duplice accusa di corruzione e affiliazione al Partito dei Lavoratori del Kurdistan, che la Turchia considera un’organizzazione terroristica. Con i suoi mandati da sindaco, İmamoğlu ha acquisito parecchia notorietà, diventando gradualmente il principale politico dell’opposizione turca. Domenica sarebbe dovuto essere confermato candidato alle prossime presidenziali, che si dovrebbero tenere nel 2028. Il raid in casa sua, inoltre, è avvenuto solo due giorni dopo la decisione dell’Università di Istanbul di ritirare a İmamoğlu il diploma di laurea, requisito fondamentale per candidarsi alle elezioni. İmamoğlu, inoltre, è finito più volte al centro di vicende giudiziarie che l’opposizione giudica come tentativi di delegittimazione e di fermare una sua possibile candidatura. La sua stessa elezione a sindaco nel 2019, che mise fine a circa 25 anni di governo dell’AKP, il partito del presidente, fu ripetuta per decisione di Erdoğan.

[di Dario Lucisano]

In tutta Italia proteste dei precari dell’Università contro la riforma Bernini

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In occasione della Giornata Nazionale delle Università promossa dalla CRUI, ieri il mondo universitario si è unito in protesta contro il precariato e i tagli agli Atenei, denunciando la riforma Bernini – attualmente sospesa – come un provvedimento che aggraverebbe le condizioni dei ricercatori. Studenti, dottorandi e docenti hanno manifestato in numerosi atenei italiani: a Pisa si è tenuto un presidio in piazza Dante, a Firenze al Polo di Novoli; a Bologna, i ricercatori hanno simbolicamente bloccato il rettorato con nastro bianco e rosso, mentre a Milano, alla Bicocca, i manifestanti hanno chiesto un confronto con la rettrice. I precari denunciano un sistema basato su contratti brevi e senza garanzie, chiedendo stabilizzazione e maggiori finanziamenti.

L’esame del ddl sul precariato universitario, voluto dalla ministra Bernini, era stato sospeso nelle scorse settimane, una vittoria rivendicata dalle associazioni di ricercatori e dottorandi, per mesi in stato di agitazione. Le riforme, infatti, introdurrebbero («sotto altro nome») l’assegno di ricerca, tipologia contrattuale estremamente precaria che costituiva un unicum nel panorama europeo. «A fronte del progressivo esaurimento dei fondi straordinari legati al PNRR, la manovra Finanziaria 2024 ha previsto un taglio al Fondo di Finanziamento Ordinario delle Università, a cui si aggiungeranno altri tagli previsti fino al 2027 per un totale di circa 1,4 miliardi in quattro anni. Questo colpo duro rischia di mettere in pericolo la sopravvivenza degli atenei, soprattutto quelli medi e piccoli» denunciano i ricercatori. In questo contesto, «I fondi che la ministra Bernini ha stanziato sui “contratti di ricerca”, ovvero i contratti che per ora dovrebbero sostituire gli assegni, sono a dir poco irrisori e basteranno a malapena per finanziare qualche centinaio di borse».

Così, in occasione della giornata Università Svelate indotta dalla Conferenza dei rettori, durante la quale gli Atenei di tutta Italia si sono aperti al pubblico con attività di vario genere, i ricercatori dell’Assemblea Precaria di Bologna si sono ritrovati in via Zamboni 33, di fronte alla sede dell’Università, per «svelare l’inganno su cui si regge l’Università italiana oggi», ovvero «sul lavoro precario di migliaia di lavoratori e lavoratrici». A Milano, i ricercatori della Bicocca hanno dato via a un presidio, al quale hanno preso parte anche docenti e studenti. Nel corso della giornata è partito anche un corteo che, attraversando il campus dietro uno striscione recante la scritta «Inganno svelato: tagli, guerre e precariato», ha contestato la rettrice Iannantuoni. Le proteste sono state molto partecipate anche a Firenze, Pisa e Torino, dove i ricercatori hanno dato vita a un flash mob all’interno del Campus Luigi Einaudi. In tutti gli atenei le proteste hanno ricevuto anche il sostengo di diversi docenti, che hanno deciso di svolgere le proprie lezioni in piazza.

[di Valeria Casolaro]