martedì 1 Luglio 2025
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Individuata una galassia gemella della Via Lattea: è la più distante mai osservata

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Presenta caratteristiche che la rendono sorprendentemente simile alla Via Lattea, è nata quando l’Universo aveva appena un miliardo di anni ed è stata scoperta per puro caso grazie al telescopio spaziale James Webb (JWST): è la galassia con struttura a disco e bracci a spirale più distante mai osservata, denominata Zhúlóng dal nome di un drago della mitologia cinese. Lo riporta il lavoro di un team di scienziati guidato da ricercatori dell’Università di Ginevra, i quali hanno dettagliato i loro risultati all’interno di un nuovo studio scientifico sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Astronomy & Astrophysics. Secondo gli autori, la galassia non stupisce solo per la sua forma ordinata, ma anche per il suo rigonfiamento centrale antico e un vasto disco di formazione stellare, ovvero tutte caratteristiche che si ritenevano appannaggio di galassie molto più evolute e recenti. «Abbiamo chiamato questa galassia Zhúlóng, che nella mitologia cinese significa ‘Drago Torcia’. Nel mito, Zhúlóng è un potente drago solare rosso che crea il giorno e la notte aprendo e chiudendo gli occhi, simboleggiando la luce e il tempo cosmico», commentano i ricercatori.

Fino a poco tempo fa, si riteneva che galassie a spirale grandi e ben strutturate – come la nostra Via Lattea – richiedessero miliardi di anni per formarsi. Durante il primo miliardo di anni dopo il Big Bang, infatti, l’Universo era considerato un ambiente turbolento, popolato da galassie piccole, caotiche e irregolari. Tuttavia, spiegano i ricercatori, le osservazioni nell’infrarosso del JWST stanno ribaltando questa visione, in quanto immagini sempre più dettagliate mostrano galassie massicce e sorprendentemente mature già in queste epoche remote, il che costringe inoltre gli astronomi a riconsiderare i tempi e i meccanismi della formazione galattica. Per quanto riguarda Zhúlóng, si tratta di una galassia scoperta in modo fortuito grazie alla modalità “parallela pura” del JWST, che consente di ottenere immagini di vaste aree del cielo anche durante l’osservazione di altri obiettivi. «È una modalità che permette al JWST di mappare vaste aree del cielo, il che è essenziale per scoprire galassie massicce, poiché sono incredibilmente rare. Questa scoperta evidenzia il potenziale dei programmi puramente paralleli per scoprire oggetti rari e distanti che mettono alla prova i modelli di formazione delle galassie», spiega l’astronoma Christina Williams.

Grazie al programma PANORAMIC – pensato proprio per sfruttare tale modalità nella ricerca di oggetti rari e distanti – Zhúlóng è stata individuata ad un redshift – che fornisce una misura della distanza di un oggetto cosmico: più è alto il valore, più antica è l’immagine che osserviamo – di 5,2, corrispondente a circa un miliardo di anni dopo il Big Bang. Si estende per oltre 60.000 anni luce e possiede una massa stellare stimata superiore a 100 miliardi di masse solari. Inoltre, possiederebbe un rigonfiamento centrale rosso e quiescente, contornato da un disco stellare attivo e da bracci a spirale ben definiti, ovvero tutte caratteristiche che, secondo gli autori, indicherebbero una crescita “dall’interno verso l’esterno”. Nonostante l’attività del disco, però, la galassia presenta un tasso di formazione stellare relativamente basso – circa 66 masse solari all’anno – molto inferiore a quello di altre galassie ultra-massicce della stessa epoca. «Questa scoperta mostra come il JWST stia cambiando radicalmente la nostra visione dell’Universo primordiale», commenta il Prof. Pascal Oesch – professore associato presso il Dipartimento di Astronomia della Facoltà di Scienze dell’UNIGE e co-ricercatore principale del programma PANORAMIC – anche se ulteriori osservazioni risulteranno essenziali per confermare le proprietà rilevate e svelare ulteriori dettagli sulla sua storia di formazione.

Tutti i punti ancora oscuri del caso Emanuela Orlandi

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Fascicoli vuoti o svuotati, dimenticati e impolverati. Documenti transitati per archivi mai aperti. Il mistero di Emanuela Orlandi dura ininterrottamente dal 1983. Da quel pomeriggio di giugno di 42 anni fa, in cui una ragazzina quindicenne esce dalla lezione di musica e sparisce per sempre. Dietro di sé ha lasciato una lunga scia di sospetti e dubbi. Sullo sfondo dell’incubo di una famiglia che da decenni bussa a porte che non si sono mai aperte, un balletto macabro a cui hanno partecipato in tanti. Dal Vaticano ai servizi segreti, passando per terroristi, malavitosi e uomini delle istituzion...

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USA, Corte Suprema blocca le deportazioni accelerate

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La Corte Suprema degli Stati Uniti ha bloccato temporaneamente le deportazioni accelerate di detenuti venezuelani volute dall’amministrazione Trump, accogliendo un ricorso d’urgenza degli avvocati degli interessati. I venezuelani erano ristretti in carcere in Texas e accusati di essere membri di bande criminali, circostanza che, secondo Trump, consentirebbe l’espulsione rapida in base a una legge del 1798. Trump ha criticato duramente la decisione. Il caso non affronta la legittimità dell’uso della legge, ma il diritto di contestare l’espulsione. Intanto, il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale ha chiesto 20mila soldati della Guardia Nazionale per supportare le retate degli immigrati in tutto il Paese.

Israele lancia la nuova “operazione Gedeone” su Gaza e uccide 115 palestinesi in un giorno

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Gli attacchi israeliani sono continuati per tutta la notte, in quella che l’esercito israeliano ha ribattezzata l’operazione “carri di Gedeone”, di fatto una nuova fase della guerra il cui obiettivo è occupare e prendere il controllo di una vasta zona di Gaza, giustificando il tutto come una necessità per «completare il lavoro e sconfiggere Hamas». Dall’alba di venerdì sono almeno 115 i palestinesi uccisi dagli attacchi israeliani, tra essi intere famiglie e decine di bambini, mentre nella Striscia gli aiuti umanitari non vengono lasciati entrare da 75 giorni. «L’intensificarsi dei bombardamenti e la negazione degli aiuti umanitari sottolineano che sembra esserci una spinta verso un cambiamento demografico permanente a Gaza, una violazione del diritto internazionale che equivale a una pulizia etnica», ha affermato l’Alto Commissario dell’ONU, Volker Turk. Ma la verità è che ancora una volta nessuna potenza mondiale sembra realmente determinata a fermare Israele, meno che mai gli Stati Uniti, con Donald Trump che ieri dal Qatar è tornato a dire che «sarebbe orgoglioso se gli Stati Uniti prendessero Gaza per trasformarla in una zona di libertà», tornato in pratica a ribadire il folle piano di comprare Gara per trasformarla in una riviera di lusso senza palestinesi.

L’operazione “carri di Galeone” è stata approvata dall’esercito israeliano all’inizio di maggio. Si tratta di un piano che mira, in prospettiva, a mantenere a tempo indeterminato quello che il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha definito il «controllo operativo» su Gaza (ossia la sua occupazione militare), sfollando la popolazione palestinese nella parte meridionale della Striscia di Gaza, l’unica dove Tel Aviv prevede di far ripartire la distribuzione di aiuti umanitari per la popolazione palestinese allo stremo. Naturalmente, a parole, l’obiettivo sbandierato da Israele è sempre e solo quello di «sconfiggere Hamas», anche se negli ultimi giorni è stato addirittura il Washington Institute (ossia il centro studi statunitense fondato dall’American Israel Public Affairs Committee, la più potente lobby sionista presente in America) a criticare Netanyahu affermando che il piano di occupazione prolungata di Gaza potrebbe finire per rafforzare la resistenza armata palestinese «dando luogo a una guerriglia estesa».

Le nuove operazioni militari hanno ucciso sessanta persone solo a Khan Younis, dove intere famiglie sono state massacrate. Nella stessa città un raid aereo ha ammazzato il giornalista Hassan Samour, conduttore radiofonico di Al-Aqsa Voice Radio, morto insieme a undici membri della sua famiglia. Un altro reporter, Ahmed al-Helou, tecnico di Quds News Network, è stato ucciso insieme a suo fratello. Salgono così a 216 i giornalisti uccisi in Palestina, un segno ulteriore di come chi racconta il massacro in corso sia visto dall’esercito israeliano come un obiettivo da eliminare.

In questo scenario non sembra ancora vedersi all’orizzonte una soluzione, mentre molti media internazionali continuano a parlare di un presunto piano di Donald Trump che tuttavia non si vede e forse non c’è. Prima di volare per l’appena terminato viaggio nei Paesi arabi il presidente americano aveva annunciato che avrebbe fatto un «grandioso annuncio», con molti analisti che aveva prefigurato che quest’ultimo sarebbe potuto essere un piano di pace per il Medio Oriente o addirittura il riconoscimento dello Stato di Palestina. Gli unici annunci fatti da Trump sono stati invece quelli relativi all’accordo stretto con l’ex jihadista Ahmad al Sharaa, oggi capo della “nuova” Siria, e gli accordi da duemila miliardi di dollari annunciati con Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi. Gli stessi Paesi che teoricamente fungono da mediatori per la fine del conflitto a Gaza, ma che più che a fermare Israele sembrano interessati a concludere affari con il suo principale alleato.

Libia, migliaia di manifestanti sotto la sede del governo

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In Libia resta alta la tensione dopo che migliaia di manifestanti si sono riuniti sotto la sede del governo di unità nazionale a Tripoli, chiedendo le dimissioni del premier Abdelhamid Dbeibah. Secondo i media locali, alcuni dimostranti hanno tentato di entrare nell’edificio, lanciando pietre e sfondando le recinzioni. Durante l’attacco, un agente di polizia è stato ucciso da colpi d’arma da fuoco sparati da ignoti. Il governo ha espresso cordoglio e precisato che l’irruzione è stata contenuta senza danni materiali, definendo l’assalto un’aggressione alle istituzioni e alle risorse dello Stato libico.

In UE crescono PIL e occupazione, anche la Germania dà segnali di ripresa

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Nel primo trimestre del 2025 l’Unione Europea conferma un andamento economico positivo: secondo i dati pubblicati nella giornata di ieri da Eurostat, il PIL destagionalizzato è aumentato dello 0,3% sia nell’Eurozona che nell’intera UE rispetto al trimestre precedente. Una crescita che si accompagna anche a un miglioramento dell’occupazione e della produzione industriale. Tra i segnali più rilevanti spicca peraltro la ripresa, seppur contenuta, della Germania (+0,2%). L’Italia cresce in linea con la media (+0,3%), mentre Irlanda e Cipro registrano i balzi più ampi. In calo, invece, Portogallo e Slovenia.

I numeri rilasciati da Eurostat certificano l’avvio di una fase più dinamica per l’economia dei Paesi europei. Dopo un quarto trimestre 2024 già moderatamente positivo (con +0,2% di crescita per l’Eurozona e +0,4% per l’UE), i primi tre mesi del 2025 hanno consolidato il trend con un incremento dello 0,3% del PIL in entrambe le aree. La tendenza confermata anche su base annua: rispetto al primo trimestre del 2024, il PIL risulta infatti aumentato dell’1,2% nell’Eurozona e dell’1,4% nell’intera Unione europea. A livello nazionale, le statistiche mostrano un’Europa a velocità differenziate. L’Italia registra una crescita dello 0,3% nel primo trimestre 2025, in leggero miglioramento rispetto al +0,2% dell’ultimo trimestre 2024. Tuttavia, su base annua, la performance resta debole: il PIL italiano è aumentato solo dello 0,6%, meno della metà della media UE. Molto meglio dell’Italia hanno fatto Francia (+0,8%), Spagna (+2,8%) e Polonia (+3,8%). Le crescite più marcate sono state registrate da Cipro (+1,3%) e soprattutto dall’Irlanda, con un impressionante +3,2%. Dall’altro lato della classifica, le peggiori performance trimestrali si osservano in Slovenia (-0,8%) e Portogallo (-0,5%), mentre la Germania – reduce da un trimestre negativo – registra una crescita dello 0,2%, segnando un primo segnale di ripresa per la maggiore economia del continente. Il dato tedesco, pur modesto, assume un valore simbolico, essendo la Germania il principale motore economico dell’UE, reduce da mesi di stagnazione e difficoltà industriali.

Anche l’occupazione segue, in generale, l’andamento positivo del PIL. Nell’Eurozona risulta in crescita dello 0,3% rispetto al trimestre precedente e dello 0,8% rispetto al medesimo periodo del 2024. Nell’UE, i dati sono rispettivamente +0,2% e +0,6%. Un segnale letto come incoraggiante, che va a indicare non soltanto una maggiore attività produttiva, ma anche una progressiva riduzione del gap tra crescita economica e creazione di posti di lavoro. Sorridono anche i dati legati alla produzione industriale. A marzo 2025, nell’area euro la produzione è cresciuta del 2,6% su base mensile e del 3,6% su base annua. Nell’intero continente l’incremento è stato dell’1,9% rispetto a febbraio, del 2,7% rispetto a marzo 2024. Se compariamo i dati europei a quelli fatti registrare dagli Stati Uniti d’America, rileviamo che il nostro continente appare ancora in ritardo in termini assoluti, dal momento che il PIL statunitense è aumentato del 2% rispetto all’anno precedente. Tuttavia, nel primo trimestre 2025, l’economia USA ha registrato una flessione dello 0,1% rispetto a quello precedente, segnando un rallentamento nei primi mesi del secondo mandato di Trump.

Le difficoltà economiche affrontate negli ultimi anni dalla Germania si inseriscono nel contesto più ampio della guerra tra Russia e Ucraina e alla relativa strategia americana di disaccoppiare l’economia europea (in particolare tedesca) da quella Russa attraverso l’uso delle sanzioni economiche. La Germania è stata infatti la nazione che più ha risentito di tale disaccoppiamento, dal momento che importava più della metà del suo fabbisogno energetico da Mosca, all’interno di un modello industriale che faceva del gas russo a basso costo l’elemento vincente del suo sistema economico. Berlino sembra ora intenzionata a puntare le sue carte migliori sul piano di riarmo: la Germania ha infatti chiesto alla Commissione Europea una sospensione del Patto di Stabilità per aumentare la spesa per la difesa nei prossimi anni.

Ucraina e Russia tornano a parlarsi dopo 3 anni, ma la strada per la pace è lunga

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Niente cessate il fuoco tra Russia e Ucraina. I primi colloqui dopo tre anni di guerra hanno confermato la distanza tra le parti e le sensazioni della vigilia, caratterizzate da uno scambio reciproco di accuse e insulti. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, atterrato ieri ad Ankara, ha fortemente criticato l’assenza dell’omologo Vladimir Putin e la scelta di inviare in Turchia una delegazione di basso livello. Quest’ultima ha comunque incontrato la controparte ucraina oggi pomeriggio, a un tavolo durato appena due ore, durante le quali è stato raggiunto un accordo per il rilascio di mille prigionieri di guerra per parte. Il presidente americano Donald Trump, che fino all’ultimo non aveva escluso un viaggio in Turchia, ha commentato: «non succederà nulla finché io e Putin non ci incontreremo».

Dalle prime indiscrezioni emerse, quello di oggi non dovrebbe essere l’unico round di negoziati previsti nell’immediato futuro. L’Ucraina spinge per un incontro diretto tra i capi di Stato – richiesta che la delegazione russa ha preso in considerazione, come fatto notare dal consigliere di Putin Vladimir Medinsky, presente a Istanbul. L’accordo del rilascio reciproco di una parte dei prigionieri non esaurisce di certo il confronto tra le parti: sul tavolo scotta il raggiungimento del cessate il fuoco dopo tre anni dall’invasione russa dell’Ucraina. La priorità di Kiev è una tregua incondizionata di 30 giorni, mentre Mosca avrebbe avanzato la richiesta di ottenere la cessione dei territori occupati prima di un accordo del genere.

Pochi minuti fa, Zelensky ha incontrato in Albania il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz, il premier polacco Donald Tusk e il primo ministro britannico Keir Starmer, a margine della sesta riunione della comunità politica europea. I leader si sono poi collegati con Trump, in un aggiornamento di quanto avvenuto a Istanbul.

ONU: 300 milioni di persone soffrono di fame acuta

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Al 2024 circa 300 milioni di persone si trovavano in uno stato di fame acuta: 14 milioni di persone in più rispetto al 2023, per un dato in crescita per il sesto anno di fila. Sono stati monitorati 65 Paesi, 53 dei quali risultati colpiti da una grave insicurezza alimentare, riguardante il 22,6% della popolazione. A diffondere i dati del Food Security Information Network (FSIN) è stata la Rete globale contro le crisi alimentari di Nazioni Unite, Unione europea e agenzie non governative.

La Colombia entra nella Via della Seta e allontana il Sudamerica dalla sfera di influenza USA

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La Colombia di Gustavo Petro ha firmato questa settimana l’adesione alla “nuova Via della Seta” cinese, nell’ambito della quarta riunione ministeriale Cina-Celac (Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribenos), che comprende 33 Stati dell’America Latina e dei Caraibi, svoltasi a Pechino. La decisione rappresenta una svolta importante nella politica estera della Colombia, che negli ultimi decenni era stato un alleato chiave e affidabile degli Stati Uniti in America Latina, contribuendo così ad allontanare il continente sudamericano dalla sfera d’influenza statunitense. «La storia delle nostre relazioni estere sta cambiando. D’ora in poi la Colombia interagirà col mondo intero su un piano di uguaglianza e libertà», ha scritto su X il presidente colombiano Petro, la cui amministrazione è entrata in contrasto con il governo Trump. Mentre il capo della Casa Bianca era impegnato nel suo viaggio in Medio Oriente, dunque, la Cina era intenta a rafforzare i suoi legami commerciali con l’intera America Latina, annunciando un nuovo piano di investimenti del valore di 9,2 miliardi. L’accordo con la Colombia guarda proprio in questa direzione: come ha dichiarato Edwin Palma, Ministro delle Miniere e dell’Energia colombiano, «Non si tratta di una questione tra i due Paesi, ma di un piano importante che coinvolge la Cina e l’intera America Latina. Attraverso una cooperazione specifica, possiamo superare l’influenza esercitata dagli Stati Uniti sulla Colombia».

Palma ha dichiarato al giornale cinese Global Times che l’accordo garantirà alla Colombia maggiori opportunità nei trasporti e nel settore della connettività: «Faciliterà la crescita delle esportazioni del nostro Paese verso l’Asia, in particolare nelle aree in cui la Colombia ha potenziale. Soprattutto, questo guiderà lo sviluppo dell’economia del futuro», ovvero «l’economia basata sulla conoscenza», ha affermato. L’adesione alla nuova Via della seta (in inglese BRI, Belt and Road Initiative) inoltre, dovrebbe contribuire anche allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, dei data center e delle infrastrutture interne. In particolare, la Cina potrebbe svolgere un ruolo importante nello sviluppo del sistema ferroviario della Nazione sudamericana, collegando diverse regioni del Paese, soprattutto le aree remote, come ha dichiarato il ministro dei Trasporti colombiano, Mamria Fernanda. All’evento che ha inaugurato la cooperazione commerciale tra Cina e Colombia, svoltosi mercoledì a Pechino, hanno partecipato circa 40 aziende cinesi, tra cui importanti società come Huawei, BYD e State Grid.

La cooperazione tra Cina e Colombia rappresenta un passaggio fondamentale nei rapporti tra Cina e America Latina e, in generale, è un passo avanti per lo sviluppo del cosiddetto Sud globale: «La Cina e i Paesi dell’America Latina e dei Caraibi sono membri importanti del Sud del mondo. Indipendenza e autonomia sono la nostra gloriosa tradizione. Sviluppo e rivitalizzazione sono un nostro diritto intrinseco. E l’equità e la giustizia sono la nostra ricerca comune», ha affermato il presidente cinese durante il discorso di apertura del forum Cina-Celac. Con un implicito, ma chiaro riferimento, agli Stati Uniti, Global Times sottolinea come “La Cina e i paesi dell’America Latina e dei Caraibi hanno dimostrato, attraverso una cooperazione pragmatica, che l’America Latina non è il “cortile di casa” di nessuno, né un “campo di battaglia a somma zero” per la rivalità tra grandi potenze”. Oltre due terzi dei paesi dell’America Latina fanno già parte della BRI, l’enorme progetto infrastrutturale e commerciale annunciato dal presidente cinese Xi Jinping nel 2013 che prevede l’investimento di centinaia di miliardi di dollari per le infrastrutture in Africa, Asia e America Latina. L’obiettivo è quello di implementare il commercio globale secondo la logica cinese “win-win” su un piano di parità e nell’ottica del multilateralismo. La maggior parte delle nazioni occidentali, però, considera il progetto solamente in un’ottica di competitività sul piano dell’influenza che può esercitare sulla nazioni in via di sviluppo.

La Colombia di Gustavo Petro si è allontanata recentemente dall’orbita statunitense in seguito a contrasti con l’amministrazione Trump, avvenuti nelle prime settimane del nuovo governo USA: Bogotà aveva rifiutato di fare atterrare due aerei statunitensi con a bordo migranti colombiani espulsi dall’amministrazione statunitense. Come ritorsione, gli USA hanno imposto dazi del 25% e il governo di Petro era stato costretto a inviare aerei per recuperare i cittadini colombiani in territorio statunitense. Da quel momento il governo di Bogotà ha deciso di rivedere i suoi rapporti commerciali con Washington e non ha perso occasione per allacciare più strette relazioni con altri attori geopolitici internazionali come Pechino, aderendo alla BRI. Già nel 2024 gli scambi tra Cina e Colombia hanno raggiunto i 149,63 miliardi di yuan nel 2024, con un aumento del 13,1% rispetto all’anno precedente, mentre nei primi quattro mesi del 2025 hanno raggiunto il record di 48,34 miliardi di yuan (6,7 miliardi di dollari). La decisione di Petro rappresenta un chiaro segnale di discontinuità rispetto alla politica estera seguita fino a poco tempo fa dalla Colombia e un messaggio preciso all’amministrazione Trump sulle posizioni geostrategiche e commerciali che intende perseguire il governo colombiano. Una situazione che avvantaggia Pechino nel suo piano di espansione commerciale e di influenza politica sui Paesi della regione.

La Banca Mondiale si impegnerà a riparare i danni ambientali e sociali dei suoi progetti

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La Banca Mondiale ha pubblicato per la prima volta un quadro normativo finalizzato a gestire e riparare i danni ambientali e sociali causati dai progetti finanziati attraverso le sue filiali dedicate al settore privato, prime fra tutte la International Finance Corporation (IFC) e la Multilateral Investment Guarantee Agency (MIGA). Entrambe queste realtà sono note per finanziare iniziative che, in diversi casi, hanno avuto ripercussioni negative sulle comunità o l’ambiente. Con il nuovo Remedial Action Framework, pubblicato ad aprile, la Banca Mondiale intende facilitare il processo di riparazione. Ma le criticità non mancano. A partire dal fatto che il quadro non si applica ai casi passati e non stabilisce chi dovrà effettivamente risarcire i danni.

La Banca Mondiale è da tempo oggetto di critiche per i danni sociali e ambientali generati dai progetti che sostiene e per la lentezza con cui affronta le denunce. Ad ogni modo, è una decisione storica. «Per la prima volta l’IFC riceve un mandato chiaro: se un progetto che finanzia causa un danno, allora l’IFC deve fornire un rimedio», ha dichiarato a Mongabay Carla García Zendejas, direttrice del programma People, Land and Resources. L’IFC è stata più volte ritenuta negligente dal proprio meccanismo indipendente di valutazione, il Compliance Advisor Ombudsman (CAO). Un caso emblematico è quello della Salala Rubber Corporation in Liberia, e il relativo investimento in una piantagione di gomma, finanziata dall’IFC. Le indagini del CAO hanno confermato gran parte delle denunce dei residenti, tra cui acquisizioni irregolari di terre, violenze di genere, inquinamento delle acque e profanazione di tombe. Il CAO ha evidenziato come l’IFC non abbia consultato adeguatamente le comunità né valutato i rischi dell’investimento, raccomandando misure per rimediare alle violazioni. Tuttavia, in assenza di un quadro operativo per la riparazione, l’IFC ha fatto ben poco. Se non nulla.

Il nuovo quadro, tuttavia, non affronterà i casi passati, quindi, si applicherà esclusivamente a nuove denunce legate a nuovi progetti. In un’email a Mongabay, un portavoce dell’IFC che ha chiesto l’anonimato ha chiarito che il Remedial Action Framework si applica solo ai “piani d’azione gestionali futuri sottoposti al Board nell’ambito dei casi del CAO”. L’efficacia del nuovo quadro dipenderà quindi dalla sua applicazione nei nuovi casi. Il provvedimento non prevede nemmeno un risarcimento diretto da parte dell’IFC. Piuttosto, l’istituzione si impegna a far sì che le aziende private da essa finanziate offrano rimedi concreti alle comunità colpite. Un cambio di rotta importante dal punto di vista etico e procedurale, ma che non comporta un’assunzione di responsabilità finanziaria diretta da parte della Banca Mondiale per i danni causati dai soggetti privati beneficiari dei suoi fondi. Piuttosto, obbliga l’IFC a garantire che ci sia un piano di azione per il rimedio, che potrebbe includere misure da parte del soggetto privato finanziato. In altre parole, l’IFC dovrà assicurarsi che le aziende che finanzia abbiano meccanismi per affrontare e rimediare ai danni. Se non lo fanno, teoricamente l’IFC dovrebbe intervenire per garantire comunque una soluzione.

Per molti Paesi del Sud globale, la Banca Mondiale rappresenta un attore chiave nel finanziamento dello sviluppo sociale. Attraverso le sue branche private come l’IFC e la MIGA, finanzia direttamente aziende private, come multinazionali, società agricole, minerarie, infrastrutturali. I progetti da queste portate avanti possono però causare, e hanno già causato, danni sociali, quali espropri illegittimi, abusi e violenze. Risale a meno di anno fa il caso di un accordo mediato dal tribunale del Delaware tra l’IFC e alcuni attivisti honduregni che hanno subito violenze per mano delle forze di sicurezza presumibilmente legate alla Dinant Corporation, una società centroamericana di olio di palma a cui la Banca Mondiale aveva prestato 30 milioni di dollari nel 2009. L’IFC ha accettato di patteggiare e di pagare quasi 5 milioni di dollari in risarcimenti, senza alcuna ammissione di responsabilità. Storicamente, l’IFC non si è mai assunta responsabilità diretta quando eventi dannosi come questo si verificavano, sostenendo che era compito dell’azienda. Con il nuovo Remedial Action Framework, l’IFC deve assumere per la prima volta un dovere istituzionale. Una responsabilità operativa sì, ma non giuridica o finanziaria diretta in tutti i casi.

Oltre ai già menzionati danni alle comunità, una parte delle attività finanziate dalla Banca Mondiale può poi avere impatti negativi direttamente sulla biodiversità. Un’analisi dei progetti finanziati tra il 1995 e il 2014, pubblicata su Global Environmental Change, ha rivelato che le attività potenzialmente dannose tendono a collocarsi proprio in zone ad elevata biodiversità, come Biodiversity Hotspot, Key Biodiversity Areas e aree con alta concentrazione di specie minacciate a livello globale. In generale, non sono nemmeno emerse prove solide che le attività siano sistematicamente collocate per evitare la sovrapposizione con tali aree. I risultati sollevano quindi dubbi sull’efficacia delle misure ambientali adottate nel prevenire impatti diretti sulle aree ecologicamente più sensibili, nonché mettono in dubbio il ruolo di riferimento per le buone pratiche internazionali che la Banca Mondiale riveste. Con il nuovo quadro le cose cambieranno? È presto per dirlo.