sabato 18 Ottobre 2025
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Israele ordina a migliaia di palestinesi di Gaza City di andarsene

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Israele continua a rilasciare ordini di evacuazione per i residenti di Gaza City, portando avanti l’assedio della capitale della Striscia. Tra ieri e oggi, 7 settembre, l’esercito dello Stato ebraico ha ordinato ai residenti di sei distinti blocchi di Gaza City di lasciare le proprie case e di andare verso sud, in direzione della neo-istituita “area umanitaria” di Al Mawasi, a Khan Younis. Gli ordini riguardano aree adiacenti alle torri residenziali della capitale, che Israele ha intenzione di demolire spianando il terreno di Gaza. Con essi, procede senza sosta il piano Gedeone 2, volto a occupare interamente la capitale gazawi e a fare migrare la popolazione in aree sempre più prossime al confine, aprendo la via a un’eventuale deportazione dei palestinesi fuori dalla Striscia. Nel frattempo, non si fermano i bombardamenti nel resto della Striscia: nella sole notte tra ieri e oggi, Israele ha ucciso almeno 17 palestinesi.

Gli ordini di evacuazione rilasciati dalle autorità israeliane riguardano i blocchi 783, 784, 688, 690, e i blocchi 726, 727, 786. Entrambi, interessano le aree confinanti con due torri residenziali gazawi, che Israele intende demolire con gli esplosivi. In generale, il piano Gedeone 2 prevede la distruzione di tutti i 51.544 edifici residenziali della capitale, per livellare la città e accelerare lo sfollamento forzato della popolazione palestinese. In questi giorni, l’esercito sta prendendo di mira specialmente le torri abitative, che contengono decine di appartamenti: tra venerdì 5 settembre e oggi, Israele ha demolito la torre Al Sousi (nell’area ovest della capitale) e la torre Mashtaha (a sudovest); secondo le testimonianze dei pochi giornalisti attivi nella Striscia, la torre Al Sousi sarebbe stata demolita solo mezz’ora dopo la pubblicazione dell’ordine di evacuazione.

Mentre l’esercito demolisce torri e case nella capitale, la popolazione viene costretta a migrare verso sud, e precisamente verso Al Mawasi, campo per sfollati situato presso il governatorato di Khan Younis. Qui, Israele ha istituito quella che definisce “area umanitaria” che sarebbe raggiungibile percorrendo una strada che sostiene essere libera dai combattimenti. Gedeone 2, infatti, non prevede solo l’invasione e l’occupazione totale di Gaza City, ma anche lo spostamento forzato dei residenti della capitale verso sud. Parallelamente, Israele ha infatti proposto un altro piano per costruire un gigantesco campo profughi a Rafah, governatorato all’estremo sud della Striscia, dove ospitare oltre mezzo milione di palestinesi; gli altri verrebbero collocati in altre aree isolate, tutte nella zona meridionale della Strisca. Una volta spostati i palestinesi nelle aree di confine, Israele occuperebbe la Striscia, e proverebbe a realizzare il progetto di trasformare Gaza nella nuovaRiviera del Medio Oriente”, di cui è recentemente uscita una bozza. Questo secondo piano è ufficialmente slegato da Gedeone 2 e non è ancora stato approvato e presentato nei dettagli.

Nel frattempo, continuano gli attacchi ai civili palestinesi. Nella sola notte tra ieri e oggi, Israele ha ucciso almeno 17 persone, attaccando scuole, campi profughi e abitazioni. Dall’escalation del 7 ottobre, Israele ha distrutto, danneggiato o reso inutilizzabile il 92% delle case (l’ultimo aggiornamento è di agosto 2025), l’83% delle terre coltivabili e il 71% delle serre (i dati più recenti sono di aprile 2025), il 91,8% delle scuole (dato aggiornato all’8 luglio 2025), l’89% delle strutture idriche (febbraio 2025) e, in generale, il 78% di tutte le strutture della Striscia (8 luglio 2025); la metà esatta degli ospedali risultano funzionanti (31 agosto 2025), e l’86,5% del territorio della Striscia è sotto ordine di evacuazione o interdetto ai civili. In totale, l’esercito israeliano ha inoltre ucciso direttamente almeno 63.746 persone, anche se il numero totale dei morti potrebbe superare le centinaia di migliaia, come sostenuto da un articolo della rivista scientifica The Lancet e da una lettera di medici volontari nella Striscia.

Nigeria, attacco di Boko Haram: 63 morti

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I militanti del gruppo islamista Boko Haram hanno ucciso almeno 63 persone, di cui 7 soldati, in un assalto notturno a un villaggio nello stato nigeriano del Borno. L’attacco è stato lanciato a Darul Jamal, vicino a Banki, nell’area del governo locale di Bama, attorno alle 20:30 di venerdì 6 febbraio ed è stato riportato ieri sera. Da quanto riportano testimonianze locali, i miliziani sarebbero entrati nell’insediamento sparando ai civili e dando fuoco alle case. I soldati dell’esercito regolare sarebbero intervenuti, ma sarebbero stati sopraffatti dall’assalto e sarebbero fuggiti assieme ai civili. La Nigeria è da anni al centro di attacchi di gruppi islamisti che si concentrano proprio nello Stato nordorientale del Borno.

Pallavolo, Italia in finale ai mondiali femminili

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Si è conclusa 3-2 (22-25, 25-22, 28-30, 25-22, 15-13) per l’Italia la semifinale dei mondiali femminili di pallavolo. Dopo aver battuto il Brasile in una partita tesissima, le azzurre sfideranno per il titolo la Turchia, che ha già battuto 3-1 il Giappone. «È stata una partita incredibile di squadra. Non era facile, abbiamo avuto due infortuni durante il gioco contro il Brasile, siamo state veramente forti di testa», commenta Sarah Fahr. La finale è prevista per domani, domenica 7 settembre, con la diretta che inizierà alle ore 14:00 italiane sul canale Rai 1.

Dopo aver messo in ginocchio decine di aziende l’inchiesta sulla cannabis light è stata archiviata

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È terminata con un nulla di fatto la maxi-inchiesta sulla cannabis light iniziata due anni fa. L’indagine è stata una delle più grandi di sempre nel settore della canapa: ha interessato 14 persone e diverse aziende, accusate di produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti; nell’ambito dell’inchiesta era stato disposto il sequestro di circa 2 tonnellate di infiorescenze, dal valore complessivo di 18 milioni di euro. Le accuse si basavano sull’ipotesi che la cannabis sequestrata avesse livelli di concentrazione di THC superiori a quelli imposti dai limiti di legge, ma il tribunale d’appello di Torino ha archiviato il caso, sostenendo che l’attività delle aziende fosse «essenzialmente lecita». Nonostante l’archiviazione, i danni al settore restano: le migliaia di chili sequestrate sono infatti finite al macero perché non rispettano più gli standard di qualità; senza considerare che oggi, dopo l’approvazione del DL Sicurezza, il governo ha reso illegale l’intera filiera delle infiorescenze, dalla coltivazione fino alla vendita.

L’inchiesta contro la cannabis light è stata avviata dalla procura di Torino nella primavera del 2023, quando aveva mandato i carabinieri del NAS a perquisire 49 rivenditori tra punti vendita e distributori automatici situati nelle province di Torino, Cuneo, Forlì-Cesena, Lecce, Milano, Monza e Brianza e Rimini. Riusciti a risalire ai fornitori, i carabinieri sono arrivati alle singole aziende agricole, e verso la fine di maggio hanno condotto un’operazione nella quale sono stati sequestrati oltre 1.800 chili di infiorescenze. Queste, ci spiega Massimo Munno, avvocato di una delle aziende coinvolte, sono state consegnate ai consulenti del pubblico ministero, che hanno avviato le analisi su campioni dei prodotti. Vista la gran quantità dei lotti sequestrati, le analisi sono andate avanti per parecchio tempo, e sono terminate solo qualche mese fa.

La procura accusava le aziende coinvolte di produzione e traffico di stupefacenti, contraffazione di merce in danno della salute, somministrazione di medicinali pericolosi, frode in commercio e vendita di medicinali senza autorizzazione, ipotizzando inoltre che alcune delle infiorescenze fossero state trattate appositamente per gonfiare i livelli di THC. Nel 2023, ci precisa Munno, i prodotti di cannabis light potevano essere commercializzati solo se la loro concentrazione di THC risultava inferiore allo 0,4%. In seguito alle analisi condotte sul materiale sequestrato è emerso che solo una minima parte delle infiorescenze risultava poco al di sopra della soglia di sicurezza, e che non vi era stata alcuna manomissione sui prodotti.

L’azienda rappresentata da Munno si è vista sequestrare 100 chili di infiorescenze, dal valore complessivo di circa 200mila euro. Molti di quei prodotti erano già stati oggetto di tutte le analisi necessarie per la commercializzazione; Munno e i suoi assistiti hanno consegnato immediatamente la documentazione alle autorità, ma non sono riusciti a ottenere il dissequestro anticipato. In seguito alle analisi, i consulenti hanno trovato che solo un chilo del materiale sequestrato sforava la soglia limite; questo era parte dei lotti non ancora analizzati dall’azienda, e dunque non commercializzato, e probabilmente era stato oggetto di una «contaminazione involontaria». L’azienda, ci spiega Munno, segue un rigido protocollo interno di trattamento delle infiorescenze che sforano la soglia limite, e prevede la distruzione – previa segnalazione alle autorità – di tutto il materiale fuori norma. Vista la ridotta quantità di infiorescenze al di sopra dei livelli di THC, per giunta non ancora in vendita, il pm ha chiesto l’archiviazione dell’indagine, che è stata accettata dal gip.

La vicenda, si legge nella richiesta di archiviazione del tribunale, va «ridimensionata alla luce dell’attività commerciale, essenzialmente lecita, svolta dagli indagati, della marginalità del materiale oltre soglia rinvenuto e della nota imprevedibilità» dei test; è stato dunque disposto il dissequestro degli oltre 1.800 chili di cannabis light prelevati, che tuttavia oggi non possono essere commercializzati. Oltre al fatto che, due anni dopo il loro ritiro, i prodotti non rispetterebbero più gli standard di freschezza e qualità imposti, la loro vendita è stata infatti vietata dal DL Sicurezza. L’articolo 18 del decreto legge, compara il cannabidiolo con THC sotto i limiti di legge italiani ed europei a uno stupefacente, mettendolo di fatto fuorilegge. La misura colpisce l’intera filiera delle infiorescenze, anche se contenenti bassi livelli di THC, vietando coltivazione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, e consegna di tutti i prodotti, includendo estratti, resine e oli derivati dai fiori.

In questo momento, il clima dei lavoratori nel settore della canapa non è dei migliori, e il DL Sicurezza ha ridotto «la propensione agli investimenti», ci spiega Beppe Croce, Presidente di Federcanapa. La categoria, tuttavia, continua a lavorare, in attesa dell’esito dei diversi appelli presso la Corte Costituzionale contro il DL Sicurezza. Anche le procure, ci spiega Munno, stanno attendendo la pronuncia della Consulta. A parte qualche caso sporadico nel sud Italia, come a Benevento e Caserta, pare che le procure italiane stiano evitando di muoversi contro le aziende agricole del settore, per timore che l’impianto legislativo che giustificherebbe un loro eventuale intervento frani su sé stesso. La situazione di stallo non è comunque gradita dai lavoratori, che continuano a operare nell’incertezza, costretti ad assumersi il rischio di vedere crollare la propria azienda da un giorno all’altro.

Milano, migliaia in piazza per il Leoncavallo

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A due settimane dallo sgombero del centro social Leoncavallo, migliaia di persone – quindici mila secondo la stampa locale – sono scese in piazza per manifestare. Il primo corteo è partito alle 13:00 dalla Stazione Centrale per poi unirsi alle 15:00 al secondo, partito da Porta Venezia e in arrivo – secondo gli organizzatori – a piazza Duomo, nonostante questa mattina sia stato notificato il divieto di arrivare davanti alla cattedrale con indicazioni di terminare in Piazza Fontana. Tra i manifestanti anche sigle come Avs, Cgil, Anpi e Arci che hanno voluto far sentire la loro presenza.

La Spagna ha approvato un grande piano per la prevenzione dei disastri climatici

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Il governo spagnolo ha presentato una proposta di Patto di Stato per affrontare e prevenire i disastri climatici, un piano di ampio respiro che mira a trasformare la gestione delle catastrofi naturali da risposta emergenziale a prevenzione strutturale. L’iniziativa, annunciata dal premier Pedro Sánchez, intende coordinare su scala nazionale la protezione civile, creare una rete di rifugi climatici e infrastrutture verdi nelle città e nei paesi, istituire fondi permanenti per la ricostruzione e obbligare le imprese a rendicontare le proprie emissioni. Il lancio del piano arriva in una fase cruciale: l’estate del 2025 è stata segnata da incendi devastanti che hanno colpito soprattutto il nord-ovest del Paese: Galizia, Castiglia-e-León, Asturie ed Estremadura hanno visto bruciare oltre 300.000 ettari di boschi, con un elevato bilancio di vittime, oltre a evacuazioni di massa e gravi danni alle infrastrutture che pesano sulle casse dello Stato con danni per 32 miliardi di euro. L’ampiezza e la rapidità di propagazione delle fiamme hanno dimostrato la fragilità del sistema di protezione civile e la difficoltà di coordinare le risposte a livello regionale. A questo si somma il ricordo ancora vivo della tragica alluvione del 29 ottobre 2024, che provocò oltre duecento morti e miliardi di danni, soprattutto nella Comunità Valenciana. L’evento mise in evidenza la debolezza delle previsioni, la scarsa efficacia dei sistemi di allerta e la mancanza di infrastrutture di protezione adeguate.

Al centro della proposta del governo c’è la creazione di un’Agenzia statale per la protezione civile e le emergenze, destinata a coordinare in modo unitario l’azione su tutto il territorio, superando la frammentazione delle competenze regionali. Accanto a questa struttura è prevista la realizzazione di una rete nazionale di rifugi climatici, che i comuni dovranno attivare per proteggere la popolazione dalle ondate di calore sempre più frequenti e fuori stagione. Il piano contempla fondi permanenti per la ricostruzione e la rinaturalizzazione dei territori devastati, la modernizzazione della gestione forestale, il rilancio del pascolo e la reforestazione con specie resistenti. Sul fronte idrico sono in programma nuove infrastrutture per difendersi da siccità e inondazioni. Particolare attenzione viene posta alla tutela dei lavoratori, con regole specifiche per ridurre i rischi dello stress termico, e all’educazione dei più giovani, che nelle scuole dovranno ricevere una formazione orientata alla prevenzione. Il patto ha un’impronta inclusiva: Sánchez ha invitato partiti politici, autonomie regionali, sindacati, comunità scientifiche e mondo rurale a collaborare. È previsto, inoltre, un coordinamento con Francia e Portogallo, per affrontare insieme le emergenze transfrontaliere. A livello economico, il patto introduce l’obbligo per le imprese di rendicontare in maniera trasparente le proprie emissioni di carbonio, rafforzando la dimensione di responsabilità sociale e ambientale. Infine, sono stati incrementati gli aiuti alle vittime di incendi e alluvioni, con l’estensione delle aree di emergenza in sedici comunità autonome. L’ambizione dichiarata dal governo è passare dalla gestione delle catastrofi alla costruzione di un sistema strutturato di protezione e adattamento, valido per tutto l’anno e non limitato ai mesi estivi. In questo senso, il patto non si presenta solo come un insieme di misure tecniche, ma come un cambiamento di paradigma politico e culturale.

Il leader spagnolo, travolto dal “caso Koldo” e bersaglio di numerose critiche per la gestione della sua amministrazione, ha chiesto “lealtà istituzionale” all’opposizione. “Abbiamo bisogno di un patto di Stato”, ha spiegato Sánchez durante un’intervista al canale TVE, in cui ha anche spiegato che “l’emergenza climatica sta superando tutte le stime degli scienziati”. Non mancano, tuttavia, le critiche. Ester Muñoz, portavoce del Partito Popolare, ha subito attaccato le parole del leader socialista in quella che ha definito la sua “prima intervista in un anno”, accusando Sánchez di voler coprire gli errori della passata gestione e considerando la proposta una mera “cortina fumogena” con cui il governo vorrebbe distogliere l’attenzione dalla sua responsabilità nella gestione degli incendi, la cui prevenzione ed estinzione sono di competenza dei governi regionali. Vox, invece, continua a negare che esista un’“emergenza climatica”, mentre i partiti della sinistra radicale giudicano il piano troppo lento nell’attuazione. Molti osservatori sottolineano, inoltre, come l’efficacia dipenderà dalla capacità di applicare le misure in tutte le regioni, spesso restie a cedere competenze allo Stato centrale. Il Patto di Stato si inserisce comunque in una traiettoria più ampia e si propone come un tassello ulteriore, volto ad affrontare in modo organico fenomeni sempre più frequenti e distruttivi. La Ley 7/2021, nota come Ley de cambio climático y transición energética, approvata nel 20 maggio 2021, ha fissato la neutralità carbonica al 2050. Nel 2024, dopo le alluvioni, è stato introdotto un “congedo climatico” retribuito, che consente ai lavoratori di assentarsi per alcuni giorni in caso di emergenze ambientali. Esistono poi piani di adattamento come l’Horizon 2035, dedicato alla riduzione dei rischi naturali. Il governo presenterà una nuova proposta rafforzata entro la fine dell’anno: la sua efficacia dipenderà dalla capacità di applicare le misure promesse, superare le divisioni politiche e garantire che le risorse vengano impiegate con rapidità e concretezza.

Trump cambia nome al Pentagono: “Da ora è il Dipartimento della Guerra”

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Il presidente statunitense Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per rinominare il Dipartimento della Difesa in “Dipartimento della Guerra”. Lo riportano le agenzie di stampa internazionali a seguito dell’ordine esecutivo mostrato dallo stesso Trump nello Studio Ovale della Casa Bianca, il quale ha dichiarato: «È un cambiamento molto importante, perché è un cambiamento di atteggiamento. Si tratta davvero di vincere». Intanto, anche il titolo sulla porta del Segretario della Difesa Pete Hegseth è stato cambiato con quello di “Segretario alla Guerra”. «Andremo all’attacco, non solo alla difesa. Massima letalità, non tiepida legalità. Effetto violento, non politicamente corretto», ha commentato Hegseth.

Scudo penale per i medici: per accertare la colpa si terrà conto delle “scarse risorse”

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Il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge delega che istituzionalizza lo scudo penale per i medici. La misura, già sperimentata in forma emergenziale durante la pandemia e poi prorogata, diventa ora una disposizione stabile del sistema giuridico italiano. Secondo il testo, i professionisti sanitari saranno punibili solo in caso di “colpa grave”, a condizione di aver rispettato linee guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate al caso concreto. Il giudice dovrà valutare la condotta del medico tenendo conto di una serie di fattori: la scarsità delle risorse umane e dei materiali disponibili, le carenze organizzative inevitabili, la complessità delle patologie trattate, l’urgenza della situazione clinica e la limitatezza delle conoscenze scientifiche o delle terapie disponibili al momento del fatto. Il provvedimento riconosce, di fatto, la scarsità di mezzi di cui dispongono i medici per far fronte al proprio lavoro, ma non vengono proposte soluzioni per ovviare al problema.

L’obiettivo dichiarato dal governo è duplice: da un lato, ridurre la medicina difensiva – ossia la pratica di prescrivere esami e terapie superflue per timore di azioni legali, un fenomeno che costa al Servizio sanitario oltre dieci miliardi di euro l’anno – dall’altro, rendere più attrattiva la carriera pubblica e frenare la fuga di professionisti verso il privato, in un contesto segnato da turni massacranti, organici ridotti e carenze strutturali che espongono i medici al rischio di errori. Il disegno di legge contiene anche altre misure, come l’istituzione di una Scuola di specializzazione per i medici di famiglia al posto dei corsi regionali, incentivi per gli specializzandi e una riorganizzazione della governance sanitaria, compresa la regolazione dell’uso dell’intelligenza artificiale.

L’approvazione del provvedimento ha diviso la categoria. Pur salutato come un passo avanti da gran parte dei sindacati medici – il presidente della Fnomceo, Filippo Anelli, ha accolto il provvedimento come “molto atteso dalla professione” – lo scudo penale solleva anche diverse critiche. In particolare, viene sottolineata la vaghezza della nozione di “colpa grave”, che potrebbe lasciare ampio margine di interpretazione ai giudici. Il presidente della Federazione Cimo-Fesmed, Guido Quici, ha sottolineato “il rischio che, nel concreto, per i medici non cambi nulla”, poiché mancando “la definizione di colpa grave, che sarà qualificata di volta in volta dal giudice”, il professionista dovrà comunque affrontare un processo. La vaghezza di questi parametri consente di fatto anche una deresponsabilizzazione, soprattutto in un contesto sanitario nazionale cronicamente sottofinanziato, afflitto da carenze strutturali e da una gestione delle risorse spesso inefficiente. Negli ultimi anni, le denunce per malasanità sono aumentate, segnale che il problema non è l’“accanimento giudiziario” contro i medici, ma la reale insoddisfazione dei cittadini per le cure ricevute. La legge Gelli-Bianco del 2017 aveva cercato un equilibrio tra tutela dei pazienti e serenità dei professionisti; con la nuova norma questo equilibrio si rompe a favore dei secondi. Il provvedimento apre una zona grigia in cui la negligenza, se non gravissima, può facilmente confondersi con difficoltà operative: il pericolo è che chi può si rivolga sempre più al privato, mentre chi resta nel pubblico subisca un’assistenza dove l’errore medico non è solo possibile, ma difficilmente punibile. Al tempo stesso, la riforma lascia in ombra le responsabilità delle strutture sanitarie e delle direzioni ospedaliere: non sono previsti controlli rafforzati né sanzioni per inefficienze organizzative. La critica principale, però, riguarda il paradosso insito nel testo. Lo Stato riconosce la scarsità di risorse come elemento da considerare nel processo penale, ma allo stesso tempo non prevede alcun investimento strutturale per colmare quelle carenze. In altre parole, si accetta come dato di fatto che il personale sanitario operi con organici ridotti, attrezzature obsolete e turni massacranti e ci si limita a esentare il medico da responsabilità penale in simili condizioni, senza però affrontare la radice del problema. Il risultato è che si proteggono i professionisti dopo l’errore, ma non si forniscono gli strumenti per evitarlo.

Il sistema è al collasso, eppure la norma, pur proponendosi di proteggere i professionisti, non affronta il degrado strutturale, spostando così il baricentro della responsabilità e lasciando i cittadini sempre più soli di fronte agli errori sanitari. I numeri, infatti, fotografano una crisi profonda: secondo un sondaggio del 2024, il 72% dei medici del pubblico vorrebbe lasciare il Servizio sanitario nazionale, esaurito da carichi di lavoro insostenibili e da una vita personale compromessa. Inoltre, un rapporto della federazione medici denuncia che, solo negli ultimi dieci anni, sono stati chiusi oltre 100 ospedali e pronto soccorso, persi quasi 39.000 posti letto e mancano quasi 30.000 operatori tra cui oltre 4.300 medici. Nel frattempo, il cittadino rinuncia alle cure: 4 milioni di italiani hanno evitato visite o esami nel 2024 a causa dei tempi d’attesa, un aumento del 51% in un anno. Questo mentre la carenza di medici di base rischia di lasciare, entro il 2026, fino a 15 milioni di italiani senza medico di famiglia. Il rischio concreto è che lo scudo penale si trasformi in una sorta di copertura giuridica che attenua il contenzioso, ma non riduce gli errori medici. Perché gli errori diminuiscano, servirebbero investimenti in personale, formazione, tecnologia, logistica e gestione del rischio clinico. In assenza di questi elementi, la norma rischia di spostare l’attenzione dalle cause strutturali alle conseguenze giudiziarie, senza sanare i veri nodi del sistema. Il medico continuerà a lavorare in ospedali sotto organico, con macchinari insufficienti e tempi di attesa ingestibili, mentre il paziente rimane esposto agli stessi rischi di prima.

Silenzio

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Dovremmo dedicare un giorno ogni tanto a sospendere qualsiasi commento, a esercitare il silenzio stampa delle nostre reazioni, punendo così chi ci provoca, chi offende, chi vanta pretese infondate, chi insinua, chi fraintende volontariamente, chi non perdona chi sbaglia, chi si sente nella ragione comunque.

Tacere. Silenzio. Non reagire. Muti i social. Teniamoci per noi i nostri giudizi. Una grande fatica. Ma sappiate che il male si alimenta del bene. 

Il delinquente che governa quel Paese del Medio Oriente e vuole cancellare chiunque decida, lui, l’Orrendo, lasciamolo senza nome, e così i suoi ministri, i suoi complici e i suoi alleati.

Silenzio, sino al giorno che non sappiamo, quando la voce della giustizia gli lascerà l’amaro in bocca. Quando il silenzio predicato dal Talmud gli aprirà le porte della preghiera, della volontà di Dio. E capirà nella solitudine di avere crudelmente sbagliato.

Capisco che si tratta di un paradosso chiamare con le parole al silenzio. Ma bisogna pur ammettere che il vero silenzio è pieno di echi, di voci inascoltate, di espressioni giuste non dette, di rimpianti per non aver urlato le proprie ragioni.

Il silenzio è lo specchio del nostro io ignoto, è il volto di chi ci accompagna, è la preghiera sospesa.

Taciamo. Ma ragioniamo, come scriveva Massimo Baldini, sulla differenza fra parole parlanti e parole parlate. Le prime si contornano di silenzi, immaginano ma non pretendono risposte, contengono amore, verità, sensazioni, stimoli che moltiplicano i pensieri.

Le parole parlate invece riempiono inutilmente i social, insultano, blandiscono, sono sempre reazioni istintive, nervose, circuiscono, sfuggono, sembrano gesti più che frasi. 

Non cadiamo dunque nella trappola delle parole parlate, ascoltiamo con curiosità le voci che arrivano nel silenzio. Il silenzio che dà senso, che sa ospitare ogni giusta ragione.

Israele: ordine di evacuazione per il centro di Gaza City

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Le forze israeliane hanno ordinato l’evacuazione dei residenti del centro di Gaza City verso l’area di al-Mawasi, a Khan Younis, nel sud della Striscia, indicata come “zona umanitaria”. L’IDF afferma che l’area dispone di ospedali da campo, impianti idrici e di desalinizzazione, cibo e forniture mediche. Al-Mawasi, già sovraffollata, era stata designata come zona “sicura” a inizio conflitto, ma è stato bombardata più volte, uccidendo centinaia di civili che vi si erano rifugiati. Dall’alba di oggi, almeno 21 palestinesi sono stati uccisi nei raid israeliani, 13 dei quali nella città di Gaza, secondo fonti ospedaliere citate da Al Jazeera.