venerdì 9 Maggio 2025
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Tre attivisti dell’associazione Luca Coscioni saranno processati per aiuto al suicidio

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Tre attivisti dell’Associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, Felicetta Maltese e Chiara Lalli, saranno processati per aiuto al suicidio. L’accusa riguarda l’assistenza fornita nel 2022 a Massimiliano Scalas, un uomo di 44 anni affetto da sclerosi multipla, accompagnato dai tre attivisti in una clinica in Svizzera per accedere al suicidio assistito. La gip di Firenze, Agnese Di Girolamo, ha infatti respinto la richiesta di archiviazione presentata sul caso dalla Procura e ha disposto l’imputazione coatta, affermando che Scalas non sarebbe stato mantenuto in vita da «trattamenti di sostegno vitale», uno dei quattro criteri richiesti dalla giurisprudenza italiana per considerare non punibile l’aiuto al suicidio. Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, ha rivendicato l’azione come un atto di disobbedienza civile, dichiarando di essere pronto ad assumersi le proprie responsabilità per denunciare l’inerzia legislativa italiana sul tema del fine vita.

Nonostante la sentenza n. 135 del 2024 della Corte costituzionale abbia ampliato l’interpretazione del concetto di «trattamento di sostegno vitale» includendo anche procedure di assistenza continua da parte di familiari o caregiver, la gip ha stabilito che la condizione di Scalas non rientrava nei parametri previsti. Secondo l’ordinanza, infatti, il caso di Scalas non avrebbe soddisfatto tutti i requisiti stabiliti dalla Consulta per accedere legalmente all’aiuto al suicidio in Italia, dal momento che l’uomo non era mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, come ventilazione artificiale o nutrizione forzata. La gip ha spiegato che «è indispensabile la necessità dello stretto collegamento con la natura vitale dei trattamenti di sostegno, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte in un breve lasso di tempo». Inoltre, il giudice ha ribadito che la verifica delle condizioni del paziente deve avvenire in Italia e non può essere sostituita da una valutazione effettuata in Svizzera. La parola finale sarà quella del gup, che deciderà se rinviare i tre a giudizio (esito più comune nei casi delle imputazioni coatte) o emettere una sentenza di non luogo a procedere. L’articolo 580 del codice penale prevede per il reato di aiuto al suicidio una pena dai 5 ai 12 anni di reclusione.

La difesa degli imputati conta di dimostrare che il supporto fornito a Scalas rientri nei margini di non punibilità definiti dalla Corte costituzionale. «La gip di Firenze ha disposto l’imputazione coatta in quanto a suo avviso non risulta che Massimiliano fosse dipendente da un trattamento di sostegno vitale, nemmeno secondo l’interpretazione estensiva della Corte con la sentenza 135 del 2024 – ha dichiarato l’avvocata Filomena Gallo, Segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni –. Affronteremo il processo per difendere il diritto ad autodeterminarsi di Massimiliano e di tutte le persone nelle sue condizioni, la cui vita è totalmente dipendente da altri». Marco Cappato, Tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, ha commentato evidenziando che quella intrapresa con Lalli e Maltese è stata «un’azione di disobbedienza civile», spiegando che ai tempi si autodenunciò insieme alle due attiviste «perché eravamo, e siamo, pronti ad assumerci le nostre responsabilità, nel pieno rispetto delle decisioni della magistratura, e nella totale inerzia del Parlamento», con un’azione che continuerà «fino a quando non sarà pienamente garantito il diritto alla libertà di scelta fino alla fine della vita, superando anche le discriminazioni oggi in atto tra malati in situazioni diverse».

Il suicidio assistito è una pratica medica in cui una persona, affetta da una malattia incurabile o da una condizione che le provoca sofferenze fisiche e/o psicologiche insostenibili, sceglie volontariamente di porre fine alla propria vita con il supporto di un medico. A differenza dell’eutanasia, in cui è il medico a somministrare direttamente il farmaco letale, nel suicidio assistito il paziente mantiene il controllo sull’atto finale, assumendo autonomamente il farmaco prescritto. Questa pratica è legale in alcuni Paesi, come Svizzera, Canada, Belgio e in alcuni stati degli USA, dove è regolata da normative stringenti che prevedono una valutazione medica accurata per verificare la lucidità del paziente e la gravità della sua condizione. In Italia, invece, il suicidio assistito è vietato, sebbene la Corte Costituzionale abbia aperto alla possibilità di non punire chi aiuta una persona a morire, in determinate circostanze stabilite dalla storica sentenza n. 242 del 2019 (caso Cappato-Dj Fabo). Nello specifico, il soggetto deve essere capace di prendere decisioni libere e consapevoli, affetto da una patologia irreversibile, sperimentare sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili e dipendere da trattamenti di sostegno vitale. A febbraio, il Consiglio regionale della Toscana ha approvato una legge che regola tempi, modalità e costi per l’accesso al suicidio assistito, rendendo così la regione la prima in Italia a dotarsi di una legge in materia, fondata proprio sulla pronuncia del 2019 della Consulta.

[di Stefano Baudino]

Arrestato, picchiato e rilasciato il regista palestinese che ha vinto l’Oscar con “No Other Land”

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Hamdan Ballal, co-regista del documentario No Other Land recentemente premiato agli Oscar, è stato aggredito da decine di coloni in Cisgiordania, riportando ferite alla teste e allo stomaco. Mentre il regista palestinese veniva trasportato in ospedale su un’ambulanza, le forze di occupazione israeliane lo hanno fermato e arrestato, non prendendo invece alcuna misura contro i coloni autori del linciaggio. D’altronde, le aggressioni a danno dei palestinesi compiute in un clima di impunità sono diventate la norma in Cisgiordania, immortalata anche nello stesso documentario diretto da Ballal insieme a Basel Adra, Rachel Szor e Yuval Abraham, che hanno dato vita a un collettivo israelo-palestinese che solo poche settimane fa, a Los Angeles, avevano chiesto la tutela dei diritti dei palestinesi e denunciato il regime di violenza a cui sono sottoposti nell’inerzia internazionale.

Hamdan Ballal, al momento dell’aggressione, si trovava al villaggio di Susya, nella regione di Masafer Yatta, la stessa in cui è stato girato il documentario premio Oscar “No Other Land”, che ha acceso i riflettori sulle demolizioni arbitrarie compiute dallo Stato ebraico in Cisgiordania e sulle violenze dell’esercito e dei coloni israeliani a danno della popolazione locale. Intorno alle 18, decine di coloni hanno assaltato le case del villaggio, aggredendo residenti e attivisti solidali, tra cui un minorenne israeliano. Hamdan Ballal ha riportato diverse ferite e, come ha scritto Yuval Abraham su X, al momento non si hanno sue notizie.

Il linciaggio del regista palestinese avviene in un clima di escalation totale ad opera di Israele, che martedì scorso ha definitivamente rotto a Gaza un fragile cessate il fuoco e nei fatti poco rispettato: nell’ultima settimana, l’esercito israeliano ha ucciso centinaia di palestinesi, distrutto l’ultimo ospedale oncologico, preso di mira la Croce Rossa e costretto le Nazioni Unite a ritirare parte dei propri dipendenti e ridurre le attività umanitarie.«Abbiamo iniziato con i passi normativi per imporre la sovranità sulla Cisgiordania», ha dichiarato il ministro per le finanze israeliano Bezalel Smotrich, a rappresentanza di un governo che sta continuando l’invasione del territorio palestinese tra sfollamenti e uccisioni. In parallelo, Israele porta avanti indisturbato i bombardamenti in Siria e in Libano. «Riteniamo che queste cose [gli attacchi, ndr] siano inutili perché la Siria in questo momento non sta attaccando Israele e questo alimenta una maggiore radicalizzazione che è anche contro lo Stato ebraico», si è limitata a dire Kaja Kallas, l’alta rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri. Di pressioni concrete e sanzioni neanche l’ombra, per un’Unione europea sempre più complice del partner israeliano.

[di Salvatore Toscano]

Aggiornamento delle ore 16: Hamdan Ballal è stato liberato dalle forze di sicurezza israeliane, «dopo aver trascorso la notte sul pavimento di una base militare, con gravi ferite riportate a seguito dell’aggressione», come dichiarato dal suo avvocato Lea Tsemel.

USA, tariffe del 25% a chi compra petrolio dal Venezuela

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Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato che il Paese applicherà una tariffa secondaria su gas e petrolio venezuelani, costringendo qualsiasi Paese che acquisti queste risorse dal Venezuela a pagare una tariffa del 25% su tutti i prodotti statunitensi. Le motivazioni dietro questa sanzione, ha spiegato Trump, risiedono nel fatto che il Venezuela avrebbe inviato negli Stati Uniti, «intenzionalmente e ingannevolmente, decine di migliaia di criminali di alto livello». Le tariffe saranno applicate a partire dal 2 aprile e dovrebbero colpire principalmente la Cina. Secondo un rapporto della US Energy Information Administration, tuttavia, dovrebbero coinvolgere anche Spagna, India, Russia, Singapore e Vietnam.

Turchia, continuano le proteste contro Erdogan: oltre mille arresti

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Non si placano a Istanbul le proteste popolari iniziate in seguito all’arresto del sindaco e oppositore di Erdoğan, Ekrem İmamoğlu. La polizia continua a rispondere con la repressione: secondo quanto dichiarato dal ministero della Difesa, sono 1.133 i fermati per «attività illegali» tra il 19 e il 23 marzo. Intanto, il governo ha inondato le piattaforme social con richieste di blocco per centinaia di account, nel tentativo di arginare la diffusione della protesta. La polizia sta inoltre impiegando sistematicamente spray al peperoncino, gas lacrimogeni e camion blindati con idranti per disperdere la folla radunata a Istanbul e in altre grandi città del Paese. I manifestanti contestano l’arresto del sindaco, giudicato come un nuovo tentativo di eliminare ogni residuo di opposizione politica e sociale nel Paese, facendo leva sulla magistratura.

İmamoğlu è stato arrestato all’alba di mercoledì 19 marzo, con la duplice accusa di corruzione e favoreggiamento al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), che la Turchia considera un’organizzazione terroristica. Da allora, le proteste in Turchia si sono progressivamente allargate. Domenica 23 marzo, il Tribunale penale di Istanbul ha confermato l’arresto di İmamoğlu nell’ambito dell’indagine per corruzione. Lo stesso giorno si sono tenute le primarie del Partito Popolare Repubblicano (CHP), di cui İmamoğlu fa parte e per cui risultava l’unico candidato alla corsa per le presidenziali del 2028; secondo le prime stime, si sono presentati ai seggi più di 15 milioni di persone. Con il grande risultato delle primarie e la decisione del Tribunale penale, le proteste, che stavano già vivendo un’ampia partecipazione, si sono ulteriormente intensificate. Mentre le mobilitazioni continuavano, il presidente turco Erdoğan ha accusato i partiti di opposizione di aver provocato un «movimento di violenza», definendo le manifestazioni «malvage» e chiedendo la loro cessazione.

La stessa domenica, decine di migliaia di persone sono scese in strada, raggiungendo 55 delle 81 province del Paese, e la tensione è sfociata in scontri con la polizia. A Istanbul, le forze dell’ordine in tenuta antisommossa hanno caricato i manifestanti con scudi e manganelli, impiegando anche gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e proiettili di gomma. Sempre a Istanbul, un sit-in di protesta ha bloccato il traffico su entrambi i lati del ponte di Galata, mentre, parallelamente, nella capitale Ankara i dimostranti si sono fermati davanti ai camion che trasportavano idranti, chiedendo alla polizia di lasciarli marciare in pace. In generale, l’esecutivo ha promosso un approccio repressivo nei confronti dei manifestanti, arrestando migliaia di persone, tra cui otto giornalisti e fotoreporter, e avviando indagini contro gli oppositori politici attivi sui social. Precedentemente, il governo aveva vietato per quattro giorni ogni manifestazione politica, bloccato strade, infrastrutture e metropolitane a Istanbul, e limitato l’accesso ai social media.

İmamoğlu è stato eletto due volte sindaco di Istanbul, la prima nel 2019 e la seconda l’anno scorso. Con l’elezione del 2019, che si dovette ripetere per decisione di Erdoğan, İmamoğlu mise fine a circa 25 anni di governo dell’AKP, il partito del presidente. Con i suoi mandati da sindaco, ha acquisito grande notorietà, diventando gradualmente il principale politico dell’opposizione turca. Il raid in casa sua, che ha raggiunto uffici e abitazioni in tutto il Paese, fermando altre 100 persone, ha fatto seguito di soli due giorni alla decisione dell’Università di Istanbul di ritirare a İmamoğlu il diploma di laurea, requisito fondamentale per candidarsi alle elezioni. İmamoğlu, inoltre, è finito più volte al centro di vicende giudiziarie che l’opposizione giudica come tentativi di delegittimazione e di ostacolare una sua possibile candidatura.

[di Dario Lucisano]

Per la Palestina e contro la censura a scuola: riprendono le occupazioni dei licei

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Le occupazioni studentesche tornano protagoniste nelle scuole italiane. Ieri, lunedì 25 marzo, al liceo Leonardo da Vinci di Milano, gli studenti hanno inscenato una protesta contro la creazione di un gruppo di lavoro che limiterebbe la diffusione di volantini e l’affissione di striscioni e contro il rifiuto di tre assemblee su transfemminismo, violenza di genere e migranti. Mentre i professori sono rimasti all’esterno, circa 400 ragazzi si sono introdotti nella struttura per pernottarvi, dando il via alla terza occupazione liceale dell’anno nella città meneghina. A Bologna, invece, dopo l’occupazione degli ultimi giorni del liceo Minghetti, la protesta si è spostata al Copernico. Partita con fumogeni e una bandiera palestinese, l’occupazione è stata lanciata in solidarietà con i ragazzi del Minghetti, denunciati per i danni che avrebbero causato alla struttura. Gli studenti bolognesi, inoltre, hanno già organizzato diverse attività e incontri per parlare di transfemminismo, ambiente e Palestina, e criticano le politiche scolastiche del ministro Valditara e lo stato di abbandono in cui versano le infrastrutture scolastiche.

L’occupazione presso il liceo Leonardo da Vinci di Milano durerà tutta la settimana e prevede l’interruzione delle attività didattiche fino a sabato. Continueranno invece a svolgersi regolarmente le attività amministrative e saranno comunque condotti i test Invalsi. La mobilitazione è scattata alla notizia che la scuola avrebbe avuto l’intenzione di istituire un gruppo di supporto per vietare la diffusione di volantini e l’affissione di striscioni nell’istituto. Gli studenti, inoltre, denunciano di avere «subito una censura»: il Consiglio d’Istituto, infatti, ha bocciato l’organizzazione di tre assemblee che «trattavano temi fondamentali come il transfemminismo, la violenza di genere e la tutela dei migranti», sostenendo che mancasse un contraddittorio; «ma ci chiediamo: chi dovrebbe rappresentare la controparte in un dibattito sulla violenza di genere?». L’occupazione nasce dunque «in segno di protesta contro le limitazioni alla libertà di espressione», contro cui gli studenti chiedono «la creazione di un regolamento concordato con la dirigenza per garantire la libertà di espressione nel rispetto della legge» e «l’istituzione di un sistema anonimo per segnalare criticità didattiche e comportamentali dei docenti». Oltre a ciò, gli studenti propongono l’organizzazione di assemblee mensili su temi di attualità ed educazione civica e un piano di intervento strutturale con la Città metropolitana di Milano per migliorare le condizioni dell’edificio scolastico.

Come quella milanese, anche la protesta bolognese presso il liceo Copernico denuncia la fatiscenza delle infrastrutture scolastiche del Paese. Venerdì 16 febbraio, nello stesso istituto, una ragazza era rimasta ferita dal crollo di un lavandino a cui si era appoggiata, riportando diverse lesioni e venendo trasportata al Pronto Soccorso. In generale, la mobilitazione si è sviluppata all’insegna del contrasto alle politiche scolastiche del ministro Valditara, giudicate, da una parte, repressive, e, dall’altra, poco attente alle esigenze delle istituzioni pubbliche. I ragazzi e le ragazze del Copernico contestano un modello di educazione che rafforzerebbe politiche xenofobe, razziste, nazionaliste e patriarcali, e propongono «una scuola diversa, fondata sul rispetto, sull’inclusività e sulla partecipazione attiva degli studenti». Aperte le critiche alle riforme repressive del governo Meloni e ai programmi di spesa militare, e frontale il sostegno alla causa palestinese; oggi stesso è previsto un incontro con i Giovani Palestinesi.

Gli studenti del Copernico hanno inscenato la loro protesta anche in solidarietà ai colleghi del Minghetti, che hanno occupato la settimana scorsa, finendo, di tutta risposta, denunciati dalla scuola. Il dirigente dell’istituto contesta il picchetto degli alunni, nonché danni alla serratura della presidenza e a un cancello. È in corso la valutazione dei danni. Al Minghetti la protesta è stata lanciata contro il piano “ReArm Europe” e il taglio alla spesa destinata alle scuole, contestando inoltre il cosiddetto DDL Sicurezza, l’alternanza scuola-lavoro (oggi PCTO) e il «modello di scuola repressivo ed autoritario» promosso da Valditara.

Anche l’occupazione del Minghetti ha mostrato solidarietà alla causa palestinese. Nel corso di tutto il 2024, contro il genocidio, si era mobilitata un’ampia frangia degli studenti italiani, dai liceali di Roma agli universitari di gran parte degli atenei del Paese. In generale, l’anno scorso è stato caratterizzato da un ritorno delle lotte studentesche sulla scena politica, che hanno promosso un approccio intersezionale, connettendo i vari temi relativi a inclusività, guerra e repressione. Lungi dal “buttare tutto nel calderone”, come spesso gli è stato denunciato, gli studenti intendevano superare quel ragionamento a compartimenti stagni che porta avanti singole rivendicazioni, cercando piuttosto le cause alla radice dei temi a loro cari e mostrandone i reciproci legami.

[di Dario Lucisano]

Israele bombarda la Siria e Gaza: 23 morti nell’enclave

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L’esercito israeliano è tornato a bombardare la Siria. Lo ha reso noto l’IDF, che ha dichiarato sul social X di aver colpito «le restanti capacità militari nelle basi militari di Tadmur (Palmira) e T4», base aerea a circa 50 chilometri a ovest di Palmira, per «rimuovere ogni minaccia per i cittadini israeliani». Nel frattempo, Israele continua a bombardare Gaza per l’ottavo giorno consecutivo, uccidendo almeno 23 persone negli attacchi effettuati prima dell’alba, tra cui sette bambini. L’esercito ha inoltre ordinato agli abitanti della zona di Jabaliya, nel nord della Striscia di Gaza, di evacuare le proprie case in vista di un attacco aereo.

La Puglia stanzia 11 milioni di euro per riqualificare i beni confiscati alla mafia

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riqualifica beni confiscati mafia puglia

Restituire nuova vita agli immobili sottratti alla criminalità organizzata: è a questo obiettivo che sono destinati gli 11 milioni di euro stanziati dalla Regione Puglia con il supporto della Sezione Sicurezza del Cittadino, Politiche per le Migrazioni e Antimafia Sociale. L’iniziativa punta infatti a riconsegnare parte degli oltre 1500 beni attualmente confiscati alla comunità, trasformandoli in spazi di aggregazione e servizi a sostegno delle fasce più vulnerabili della popolazione. I Comuni assegnatari di beni confiscati, che spaziano da masserie a capannoni industriali, fino a fabbricati r...

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USA-Filippine, esercitazioni militari congiunte

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I soldati dell’esercito filippino e statunitense hanno iniziato ampie esercitazioni militari congiunte. A dare l’annuncio è l’esercito filippino, che ha spiegato che le esercitazioni, che coinvolgeranno circa 5.000 soldati, saranno incentrate sulla difesa del territorio, sulla cooperazione tra gli eserciti e sull’organizzazione di possibili schieramenti di forze su larga scala, prevedendo simulazioni di combattimenti. Le esercitazioni, denominate Salaknib, si svolgeranno in due «fasi», di cui la seconda è prevista per la fine dell’anno. Il programma Salaknib è iniziato nel 2016 e prevede una serie di esercitazioni annuali tra USA e Filippine.

Serbia, la popolazione chiede un’indagine sull’uso di armi soniche durante le proteste

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Quasi 600mila persone hanno firmato una petizione per chiedere che sia aperta un’indagine internazionale indipendente sulla polizia serba, la quale viene accusata di aver impiegato, sabato 15 marzo, un’arma sonica contro un gruppo di manifestanti. Secondo i dimostranti, la protesta era stato disturbata da un suono sibilante emesso ad alta frequenza. Ivica Dacic, Ministro dell’Interno, ha negato che la polizia serba abbia utilizzato questo tipo di arma. Tuttavia, online sono comparse foto e video che mostrano veicoli delle Forze dell’ordine dotati di quelli che sembrerebbero essere dispositivi acustici ad alta frequenza. I cannoni sonori rientrano in quella categoria chiamata “armi a energia diretta”, ovvero armi letali e non letali che utilizzano l’energia per colpire a distanza le menti e i corpi degli obiettivi contro cui sono dirette.

Una petizione firmata da quasi 600mila persone, indirizzata alla Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti alla libertà di riunione pacifica e di associazione, Gina Romero, alla Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di opinione e di espressione, Irene Kahn, al Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty, e al rappresentante dell’OSCE, chiede un’indagine internazionale indipendente sull’uso di un cannone sonoro contro i manifestanti pacifici a Belgrado, che sarebbe stato utilizzato durante la protesta del 15 marzo. Con la petizione viene chiesto che si identifichino i responsabili delle istituzioni e gli individui che avrebbero ordinato l’utilizzo di simili apparecchi, nonché di sondare quali possano essere gli aspetti medici, legali e tecnici del loro impatto sulla salute e sui diritti umani.

«Questo non è solo un attacco al diritto di protestare, ma anche una violazione dei diritti umani fondamentali garantiti dalle convenzioni internazionali. Secondo la Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite, il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR) e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, di cui la Serbia è firmataria, ogni individuo ha il diritto inalienabile di riunirsi pacificamente e di esprimere la propria opinione senza timore di repressione», viene espresso nella petizione. «La Serbia, in quanto membro delle suddette istituzioni internazionali e firmataria di trattati internazionali, è tenuta a garantire ai propri cittadini il diritto alla libertà di riunione e di espressione delle proprie opinioni. L’uso di mezzi illeciti contro i civili costituisce una grave violazione dei diritti dei cittadini riconosciuti a livello costituzionale e internazionale, che richiede una risposta urgente da parte degli organismi internazionali», prosegue il testo.

La Serbia è attraversata da forti tensioni sociali e proteste da quando 15 persone sono morte a seguito di un crollo alla stazione ferroviaria di Novi Sad, il 1° novembre 2024. Quella vicenda è considerata il simbolo più tangibile della corruzione e dell’incuria delle istituzioni serbe e ha acceso la miccia di una protesta popolare senza precedenti. Da allora, il movimento studentesco e sociale serbo non si è fermato, portando in strada e in piazza centinaia di migliaia di persone. L’enorme, e ininterrotta, protesta dei cittadini serbi ha portato il Primo Ministro, Miloš Vučević, a rassegnare le proprie dimissioni il 28 gennaio scorso. Lo stesso Sindaco di Novi Sad, Milan Đurić, si è dimesso lo stesso giorno in cui si è dimesso il Primo Ministro serbo.

Le manifestazioni non si sono però arrestate. Anzi, per certi versi hanno aumentato la propria portata, sentendo di poter aumentare la pressione sulle istituzioni politiche. Il 15 marzo scorso, giorno in cui sarebbe stata utilizzata l’arma sonica contro i manifestanti, 300mila persone sono scese in strada per protestare utilizzando lo slogan “15 per 15” in ricordo dei morti alla stazione ferroviaria. Gli studenti hanno così alzato la posta in gioco, chiedendo le dimissioni dello stesso Presidente serbo, Aleksandar Vučić. In quella giornata di protesta, il Presidente ha rilasciato un messaggio televisivo in cui ha parlato della necessità di un «cambiamento», aprendo alla possibilità di nuove elezioni, senza tuttavia annunciare le proprie dimissioni, come chiesto dagli studenti e dai manifestanti.

[di Michele Manfrin]

Milano, incendio al carcere minorile Beccaria: 5 intossicati

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Un rogo è divampato oggi al secondo piano del carcere per minori Cesare Beccaria di Milano. Lo hanno reso noto i vigili del fuoco, intervenuti con sette mezzi per domare le fiamme, che sarebbero state causate dall’incendio di alcuni materassi. Sarebbero cinque – due detenuti, due agenti e un medico – le persone rimaste intossicate, che non si troverebbero in gravi condizioni. Le squadre dei Vigili del fuoco stanno completando la bonifica dell’area. Nella stessa struttura, dove la situazione legata al sovraffollamento è fuori controllo, lo scorso 13 marzo cinque persone erano rimaste lievemente ferite in un altro incendio appiccato da alcuni detenuti.