sabato 25 Ottobre 2025
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Alessandria: dove gli PFAS prodotti da Solvay avvelenano il sangue dei cittadini

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Una manifestazione di comitati e cittadini contro il silenzio delle istituzioni e le ricadute dello stabilimento produttivo Solvay a Spinetta Marengo

Entriamo in contatto con sostanze inquinanti ogni giorno, spesso senza nemmeno farci caso. Ma una cosa è sapere che l’inquinamento esiste, un’altra è scoprire di averlo dentro. Nel sangue. È quanto accaduto agli abitanti di Spinetta Marengo, frazione di Alessandria, in Piemonte, nota un tempo per la storica battaglia tra le truppe di Napoleone Bonaparte e l’esercito austriaco, e oggi per una crisi ambientale che ha travolto la comunità. Negli ultimi anni, il nome di Spinetta Marengo è infatti legato alla contaminazione da PFAS, sostanze chimiche definite “eterne” perché si accumulano nell’ambiente e nell’organismo umano senza degradarsi. Le conseguenze dell’esposizione sono gravi: i PFAS sono associati a tumori, disturbi ormonali e patologie cardiovascolari, rappresentando una minaccia a lungo termine per la salute di chi vive in quest’area.

Ma come si è arrivati a questo punto? Secondo le analisi condotte negli ultimi anni, la fonte della contaminazione è un impianto chimico attivo da decenni, che ha lasciato un’impronta tossica nelle acque e nei terreni della zona. A gestirlo è stata per anni la multinazionale belga Solvay. Oggi l’impianto è passato all’azienda Syensqo, ma si tratta di un cambiamento solo apparente: Syensqo è un’azienda da una dismissione della divisione “Specility” di Solvay, creata a fine 2023 all’interno di un’operazione di riorganizzazione societaria. Seppur si tratti di una azienda autonoma, a guidarla è Ilham Kadri, già amministratrice delegata di Solvay, a conferma di una continuità tra le due realtà.

Un’eredità tossica 

Tra il 2019 e il 2023 Ilham Kadri è stata amministratore delegato di Solvay. Dopo la scissione della società nel dicembre 2023, ha continuato a ricoprire la carica di CEO di Syensqo

Lo stabilimento chimico di Spinetta Marengo ha una storia che inizia nei primi del Novecento. Fondato nel 1905 da un gruppo di imprenditori locali, l’impianto avviò la produzione di composti chimici di base, tra cui pigmenti, acidi e, in particolare, solfato. Negli anni ’30, in piena crisi economica, l’impianto viene acquisito dalla Montecatini, allora gigante dell’industria chimica italiana, che ne amplia le attività. Nel dopoguerra inizia una nuova fase di espansione, culminata nella fusione tra Montecatini ed Edison nel 1966, che porta la fabbrica sotto il controllo di Montedison, uno dei colossi industriali europei.

Negli anni ’70, l’impianto si orienta sulla produzione di polimeri fluorurati, plastiche particolarmente resistenti ma difficili da smaltire. Questa direzione produttiva resta centrale fino agli anni ’90, quando lo stabilimento passa prima ad Ausimont, controllata di Montedison, e poi nel 2002 alla multinazionale belga Solvay. È in questo periodo che la produzione di polimeri speciali e fluorurati — tra cui i PFAS, composti poli e perfluorurati noti per la loro persistenza nell’ambiente e nel corpo umano — diventa uno dei fulcri dell’attività. Anche dopo il 2023, quando l’impianto viene formalmente trasferito a Syensqo la produzione di sostanze chimiche avanzate prosegue, mantenendo elevato il rischio di contaminazione ambientale.

Se si guarda la cronologia dal punto di vista produttivo, a Spinetta Marengo è passato di tutto. L’impianto ha iniziato con la chimica degli acidi forti, come l’acido solforico e fluoridrico, per poi spostarsi sulla produzione di cromati e bicromati, sostanze che possono provocare irritazioni, corrosioni delle mucose e, nei casi più gravi, ulcerazioni e perforazione del setto nasale. Col tempo, la produzione si è concentrata sui fluoroderivati, segnando la fase in cui i PFAS diventano centrali per lo stabilimento. Utilizzati in una vasta gamma di applicazioni industriali e di consumo, questi composti hanno lasciato cicatrici profonde sull’ambiente e sulla salute.

Quello che per decenni è stato considerato un esempio di successo industriale si è rivelato, col passare del tempo, un’eredità tossica: una realtà che continua a generare inquinamento e a minacciare la salute delle persone e degli ecosistemi in un’intera area del territorio.

I PFAS a Spinetta Marengo

Per anni, l’inquinamento a Spinetta Marengo è stato un sospetto più che una certezza. Se negli anni ’80 si parlava già dell’impatto ambientale dello stabilimento chimico, a mancare erano però dati e prove. Almeno fino al 2007, quando, secondo uno studio coordinato dall’Università di Stoccolma e citato dall’organizzazione ambientalista Greenpeace, il polo chimico della Solvay viene indicato come la principale fonte di PFOA (una molecola appartenente al gruppo PFAS, classificata dall’OMS come cancerogena per l’uomo) nel bacino del Po.

Concentrazioni di PFAS in varie province del Piemonte [elaborazione grafica: L’indipendente]
A far scattare l’allarme è un evento del tutto casuale. In quell’anno una nota catena di supermercati chiede di acquistare un terreno poco distante dalla fabbrica. Per ottenere i permessi, vengono condotte analisi sulla falda acquifera. I risultati forniti da ARPA Piemonte parlano chiaro: l’acqua è contaminata. Nel 2008, l’Istituto di Ricerca sulle Acque (IRSA-CNR) avvia uno studio sulla diffusione dei PFAS nei corpi idrici italiani. La ricerca, durata 24 mesi, conferma che lo stabilimento di Spinetta Marengo è una delle principali fonti di PFOA, sostanza che appartiene al gruppo PFAS.

Nel 2019, nuovi dati di ARPA Piemonte (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale), rivelano che la contaminazione non riguarda solo le acque superficiali. Le falde acquifere continuano a essere compromesse, dimostrando che la barriera idraulica installata dall’azienda per contenere l’inquinamento non si è dimostrata risolutiva. Criticità sottolineate da Angelo Robotto, Direttore generale di ARPA Piemonte che, intervenendo presso la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, tenutasi il 22 ottobre 2020, affermava: «La barriera è andata in crisi già due volte nel giro di cinque anni e a volte c’è stata una mancanza di informazioni circa il suo reale funzionamento». E non è tutto: a partire dal 2020 emerge un aspetto ancora più preoccupante. I PFAS non si fermano all’acqua, ma si disperdono nell’aria, trasportati dai venti ben oltre l’area dello stabilimento. L’inquinamento, insomma, non è circoscritto a Spinetta Marengo. Indagini condotte da Greenpeace Italia nel 2024 dimostrano che il C6O4, una molecola appartenente alla categoria generale dei PFAS e prodotta esclusivamente in questo stabilimento, è arrivata perfino nelle acque potabili di comuni lontani, da Torino alla Valle di Susa, fino alla provincia di Sondrio. Un’accusa a cui Syensqo ha risposto con un comunicato in cui, tra le altre cose, scrive: «C6O4 è l’unico fluorotensioattivo ancora prodotto a Spinetta Marengo e viene gradualmente eliminato. È registrato nell’ambito della legislazione europea (REACH) e non è bioaccumulabile né biopersistente». 

Ma il problema non è solo ambientale. Le ultime analisi condotte nel giugno 2024 su un campione di 36 cittadini hanno rilevato che il 100% dei soggetti presentava concentrazioni di PFAS superiori ai 2 nanogrammi per millilitro, il limite oltre il quale possono manifestarsi effetti dannosi per la salute.

Perché sono dannosi 

I PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) costituiscono una vasta famiglia di composti chimici artificiali, con oltre 4700 varianti conosciute. Queste sostanze si sono distinte nell’industria per la loro straordinaria resistenza al calore, all’acqua e ai grassi, grazie ai fortissimi legami chimici tra carbonio e fluoro. Una caratteristica che le rende ideali per applicazioni che richiedono materiali durevoli e impermeabili, come rivestimenti per padelle antiaderenti, tessuti, schiume antincendio, prodotti per la pulizia e cosmetici. La loro grande diffusione è legata proprio a questa resistenza, un vantaggio per le aziende da una parte, un danno inestimabile per l’ambiente e per il corpo umano dall’altra. Una volta introdotti, i PFAS restano infatti in circolo per anni, se non decenni, rappresentando un serio rischio per la salute degli esseri viventi. Essendo così persistenti, tendono ad accumularsi nel corpo umano, penetrando attraverso diverse vie: l’acqua potabile contaminata è una delle principali fonti di esposizione, ma anche l’aria e la catena alimentare possono diventare veicoli di contaminazione.

Concentrazioni di PFAS in località del vercellese a confronto con Spinetta Marengo. Il limite di legge suggerito è 0.5 µg/L. Dati simulati a scopo illustrativo basati su criteri di valutazione generici dell’ARPA Piemonte [elaborazione grafica: L’indipendente]
Nel tempo, l’esposizione cronica a queste sostanze può causare danni significativi alla salute. Studi scientifici hanno collegato l’accumulo di PFAS nel corpo umano a problemi come malattie del fegato, disturbi del sistema immunitario, alterazioni del colesterolo e, in alcuni casi, danni al sistema riproduttivo. Inoltre, prove sempre più numerose suggeriscono che i PFAS contribuiscano allo sviluppo e alla progressione di specifici tipi di tumore, come il cancro ai reni e ai testicoli, in particolare in relazione all’esposizione al PFOA. La loro permanenza nell’organismo è una delle principali preoccupazioni: non essendo facilmente eliminabili, gli effetti negativi tendono ad accumularsi nel tempo, aumentando il rischio per la salute. 

La battaglia legale 

Una manifestazione di comitati e cittadini contro il silenzio delle istituzioni e le ricadute dello stabilimento produttivo Solvay a Spinetta Marengo

La vicenda giudiziaria legata alla contaminazione da PFAS a Spinetta Marengo ha un percorso che si snoda attraverso indagini e sentenze. Una delle prime e più significative tappe del processo si registra nel 2008, quando il Nucleo Operativo Ecologico (NOE) dei Carabinieri avvia un’indagine approfondita sullo stabilimento chimico di Spinetta Marengo, sotto la direzione della Procura di Alessandria. Gli investigatori iniziano a raccogliere evidenze sulla contaminazione ambientale causata dalle attività industriali del sito, in un lavoro meticoloso protrattosi per oltre un decennio. I risultati arrivano nel 2019, con la pronuncia di una condanna nei confronti dei vertici aziendali per il reato di disastro colposo innominato. Nello stesso anno, le indagini dell’ARPA Piemonte rivelano la costante presenza di inquinanti collegabili alle produzioni Solvay nelle acque di falda. I monitoraggi evidenziano l’inefficacia della barriera idraulica installata dall’azienda, teoricamente progettata per filtrare le acque contaminate e convogliarle a un apposito impianto di trattamento.

Il giugno 2020 segna una svolta nella vicenda con l’ingresso in campo del WWF Italia. L’associazione ambientalista, per voce dell’avvocato Vittorio Spallasso, presenta un esposto formale alle autorità giudiziarie: un’azione legale che catalizza l’attenzione dell’opinione pubblica su una problematica fino ad allora relegata principalmente agli ambiti tecnici e specialistici. Il riconoscimento del WWF come “persona offesa” nel procedimento rafforza ulteriormente il peso dell’iniziativa, conferendo all’organizzazione un ruolo formale che le consente di vigilare sull’accertamento delle responsabilità.

L’inchiesta accelera significativamente nel febbraio 2021, quando il NOE conduce una vasta operazione di perquisizione presso lo stabilimento. L’obiettivo è verificare direttamente le modalità di sversamento delle sostanze inquinanti, raccogliendo prove concrete sull’entità dell’inquinamento e sulle responsabilità dei soggetti coinvolti. Azioni che, nell’agosto 2023, portano le autorità giudiziarie a disporre il sequestro preventivo di due discariche di gessi appartenenti al gruppo Solvay. Secondo gli inquirenti, queste strutture — che avrebbero dovuto essere dismesse — erano state illegalmente rimesse in funzione. La Procura ipotizza che i bacini, contenenti scarti di lavorazione e residui della depurazione delle acque, siano privi di adeguate coperture protettive, permettendo alle sostanze tossiche di disperdersi nell’ambiente circostante attraverso le correnti d’aria. Supposizioni che, nel giugno 2024, si trasformano in atti concreti: la Provincia di Alessandria emette due diffide ufficiali nei confronti di Solvay, imponendo all’azienda di rispettare rigorosamente i limiti per gli scarichi di PFAS e ordinando la sospensione delle attività produttive per 30 giorni.

Parallelamente all’iter giudiziario, anche le istituzioni hanno cominciato, seppur tardivamente, a muoversi. L’ARPA, per esempio, ha implementato un geoportale che mappa dettagliatamente la presenza di queste sostanze nel territorio. La Regione Piemonte, in collaborazione con l’ASL di Alessandria, ha avviato nel 2022 il “Biomonitoraggio Integrato”, un progetto nato dalla necessità di valutare concretamente l’esposizione umana ai contaminanti attraverso l’analisi di alimenti di origine animale e vegetale. Iniziative necessarie, ma del tutto insufficienti a risolvere il problema in assenza di una reale bonifica.

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* Rettifica del 12 giugno 2025: Nella versione originale dell’articolo era scritto che l’azienda Syensqo è una divisione di Solvay. Questo non è formalmente corretto, in quanto si tratta di un’azienda autonoma. Seppur la continuità manageriale evidenzi il collegamento tra le due aziende, definire Syensqo una azienda “controllata” da Solvay è formalmente errato.

* Replica di Syensqo in merito ai lavori di bonifica: in data 10 giugno Havas Pr, agenzia che si occupa delle relazioni con i media per conto di Syensqo, ci ha inviato alcune dichiarazioni che pubblichiamo al fine di garantire il diritto di replica:

«Dal 2012 l’impegno di Solvay prima e di Syensqo oggi, è stato continuo e consistente non solo dal punto di vista economico – oltre 47 milioni di Euro investiti e altri 26 già accantonati per interventi futuri – ma anche dal punto di vista tecnologico con l’applicazione delle migliori e più innovative tecnologie disponibili, sviluppate con partner qualificati come l’Università del Piemonte Orientale di Alessandria, oltre alla costante attività di collaborazione e monitoraggio in coordinamento con gli Enti.

Le attività di bonifica stanno procedendo verso il progressivo raggiungimento di tutti gli obiettivi e i monitoraggi, come già anticipato, confermano il significativo miglioramento dello stato qualitativo dei terreni e delle acque di falda. In particolare, tutti gli interventi approvati e pianificati per la rimozione dei solventi clorurati dai terreni e dalle acque di falda all’interno della proprietà sono stati completati.

Per maggiori dettagli, la invitiamo a consultare il pieghevole informativo “Syensqo: il nostro impegno per la bonifica”, relativo allo stato dell’arte della bonifica, distribuito a Marzo 2025 alla comunità di Alessandria».

La lotta dei cittadini contro Solvay e il silenzio delle istituzioni: intervista a Lino Balza

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Giornalista, scrittore, attivista, presidente del Movimento di Lotta per la Salute G. Maccacaro e direttore di Rete Ambientalista, Lino Balza è un volto storico della lotta contro la devastazione ambientale e sanitaria causata dalle attività della Solvay di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria. Le sue denunce contro l’azienda, iniziate dopo trent’anni di lavoro dipendente nell’azienda, gli sono costate ritorsioni quali cassa integrazione, trasferimenti, mobbing, demansionamento e licenziamento, oltre che una decina di cause, tutte vinte. Al momento, Balza si sta battendo strenuamente contro la richiesta di patteggiamento di Solvay per la causa relativa al disastro eco-sanitario dello stabilimento Spinetta Marengo, che permetterebbe all’azienda di chiudere il procedimento in anticipo senza dibattimento in cambio del pagamento di una somma in denaro (come già accaduto nel 2013, a Rosignano, per la questione degli scarichi abusivi in mare).  

Quali sono gli scenari futuri dopo la richiesta di patteggiamento di Solvay nella causa per il disastro eco-sanitario di Spinetta Marengo? 

È possibile che il patteggiamento segua lo stesso andamento di quello di Montecastello, Comune in provincia di Alessandria il cui acquedotto è stato chiuso nel 2024 per i PFAS e che si è accontentato di centomila euro per uscire dal processo, nel quale si era costituito parte civile. Solvay non ammetterà mai di star risarcendo qualcuno per le patologie da lei causate, nonostante da un monitoraggio effettuato dalla Regione Piemonte tramite il prelievo del sangue sia emerso che tutti i soggetti analizzati avessero PFAS nel sangue – compreso quello che produce solo Solvay, perché ne detiene il brevetto. Molte persone si sono ammalate di tumori a reni, testicoli, pancreas, tiroide, oltre ad aver sviluppato patologie legate al metabolismo. Questi soggetti, però, sono esclusi dal processo e quindi anche dal patteggiamento (o, meglio, dall’elemosina). All’inizio, l’imputazione nel processo era di disastro doloso, ma il tribunale l’ha poi derubricata a disastro ambientale colposo. Il procedimento è andato peraltro a colpire due pesci piccoli, due direttori anziché l’amministrazione dell’azienda. Per questo Solvay propone i patteggiamenti per evitare dibattimenti e udienze, perché le testimonianze potrebbero aggravare l’imputazione dell’azienda. 

A Rosignano la nuova amministrazione comunale ha dato il via alle procedure per effettuare uno studio epidemiologico sulla cittadinanza, che sarà effettuato dal CNR di Pisa. Le istituzioni pubbliche di Alessandria o della Regione Piemonte che posizioni hanno in merito a tali azioni? 

Ci sono state diverse indagini epidemiologiche nel corso di due decenni, di cui l’ultima nel 2019, dalle quali è emerso che la diffusione di alcuni tipi di tumori è qui altissima rispetto alla media regionale. Invece di condurre analisi su piccoli campioni di popolazione, come quelle effettuate dalla Regione, sarebbe essenziale un monitoraggio su vasta scala, ma non è mai stato fatto. Noi accusiamo da sempre la Regione di essere complice. Prima con Montedison, ora con Solvay. Hanno sempre impedito di realizzare monitoraggi di massa, perché il risultato sarebbe una pistola fumante contro l’industria e costituirebbe una forma di pressione pubblica nei confronti della Regione. Proprio questa pressione rischia di smorzarsi con il patteggiamento in corso: se la Regione Piemonte patteggia (al momento si parla di 600 milioni di euro), la questione si sgonfia e l’azienda ne esce pulita. Solvay ha bisogno di tempo, di alcuni anni ancora di produzione, poi deciderà lei se e quando chiudere. E lo farà senza dover pagare in cause civili e penali quello che uscirebbe fuori dal monitoraggio di massa. 

Anche i Comuni potrebbero patteggiare per chiudere la questione, anche se il sindaco ha il potere di emanare ordinanze con le quali chiudere le produzioni che ritiene siano un pericolo per la salute pubblica, sulla base di indagini epidemiologiche. Nel corso del tempo ho accusato tutti i sindaci che si sono succeduti ad Alessandria di essere complici di Solvay.

Secondo i dati dell’ARPA, poi, oltre agli PFAS ci sono 20 tipi di veleni che vanno a finire nell’aria, nel suolo, nelle falde e nei corsi d’acqua: tra questi, cromo esavalente, arsenico, nitriti, cloroformio, selenio, fluorurati, solfati e idrocarburi. Questi non vengono rilevati dal micro campionamento del sangue effettuato, né vengono cercati, anche se l’ARPA riferisce che le centraline che rilevano questi veleni abbiano registrato valori abnormi, sia nell’aria che nell’acqua. Si tratta di un inquinamento generalizzato, tra l’altro già dichiarato nel processo precedente. 

Il ministero dell’Ambiente si è costituito parte civile nel processo, ma questo governo si è rifiutato di emanare una legge nazionale che proibisse sostanze come gli PFAS. La lobby che sostiene le sostanze tossiche è molto potente, eppure alcuni Stati, come la Danimarca, hanno trovato il coraggio di andarle contro. In questo modo, sostanze come l’amianto e il DDT sono state eliminate. Anche in questo caso, un patteggiamento favorirebbe senz’altro Solvay, ma permetterebbe anche al governo di uscirne senza troppo sforzo.

In un simile contesto, le associazioni della società civile cosa chiedono?

Da un lato, abbiamo diffidato le istituzioni pubbliche dal partecipare ai tavoli di trattativa che favoriscono questo patteggiamento, perché in questo modo vengono estinti i reati penali e civili della contaminazione ambientale, non vengono riconosciute le vittime, le persone ammalate e quelle morte, né la reale entità dei risarcimenti. Dall’altro, abbiamo invitato la Procura a fermare il patteggiamento e lasciare che il processo vada avanti, senza tappare la bocca al dibattimento. 

Allo stesso tempo, è necessario fermare la produzione e l’utilizzo di sostanze tossiche e cancerogene, azzerare le emissioni e procedere con una seria procedura di bonifica a carico dell’azienda. Non come adesso, che Solvay dichiara di portare avanti la bonifica mentre il sito di produzione continua ad andare avanti. Così è come cercare di svuotare una vasca d’acqua lasciando il rubinetto aperto. La bonifica deve essere fatta con gli impianti di produzione chiusi.

Giungere alla redazione di una diffida congiunta insieme a tutti i comitati e le organizzazioni sociali è stato un grande risultato condiviso, perché una coesione simile non è sempre possibile. Spesso le persone hanno paura di esporsi e perdere il posto di lavoro: ad Alessandria, per esempio, non c’è una mobilitazione come quella di Vicenza, le condizioni sono diverse soprattutto perché a Spinetta Marengo si produce ancora.

Secondo lei vi è stata, negli anni, una adeguata copertura mediatica della situazione di Spinetta Marengo? 

Negli scorsi decenni a livello locale c’è stata una grande attenzione, poi personalmente ho iniziato a essere censurato, tanto da Montedison quanto da Solvay. Il motivo è stato chiaro quando sono uscite le intercettazioni telefoniche delle conversazioni tra i dirigenti dell’azienda e i giornalisti di organi di informazione locale, che si facevano dettare il contenuto degli articoli. Esistono prove certe di questo. A livello nazionale, invece, negli ultimi anni se ne è parlato moltissimo. Anche noi comitati e organizzazioni varie raggiungiamo tutti i giornali italiani con la nostra informazione e le nostre denunce. 

I lavoratori dell’azienda sono coscienti dei pericoli nei quali possono incorrere per la loro salute? 

Gran parte della questione ruota attorno alla fabbrica e la sua relazione con la realtà sociale ed economica della zona. Il ricatto salute-lavoro, quello è il nodo di tutto: le persone mettono in secondo piano il proprio diritto alla salute per il timore di perdere il lavoro. Nonostante la lotta di comitati e organizzazioni locali, non è semplice, quando avviene un ricatto del genere sui cittadini e la pressione sociale ed economica è così forte. Inoltre, con il passare del tempo, il problema viene normalizzato, non viene più percepito come tale. Ultimamente ci sono state un paio di fughe di gas, che ho denunciato, però parla oggi, parla domani, le fughe di gas alla fine le si da quasi per scontate.

Nell’ultimo anno in Europa sono state rimosse 542 barriere fluviali

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Nel 2024 in Europa sono state rimosse 542 barriere fluviali tra dighe, chiuse e sbarramenti ormai inutilizzati: il dato più alto mai registrato. Si tratta di un incremento dell’11% rispetto al precedente record del 2023 e di un salto netto rispetto al 2020, quando gli interventi erano stati meno di un quinto. Le rimozioni hanno coinvolto 23 Paesi e hanno permesso di liberare oltre 2.900 chilometri di corsi d’acqua, ripristinando la continuità ecologica interrotta da anni. Un cambiamento che migliora la qualità dell’acqua, favorisce il ritorno della fauna autoctona e aiuta a diminuire i danni p...

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Romania: Simion chiede l’annullamento delle elezioni

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A due giorni dalla sconfitta alle elezioni presidenziali romene, George Simion, candidato di destra al ballottaggio, ha annunciato di avere chiesto alla Corte Costituzionale di annullare le elezioni. Le ragioni dietro la sua richiesta, si legge in un post pubblicato da Simion su X, «sono le stesse per cui sono state annullate le elezioni di dicembre: interferenze esterne di attori statali e non statali». Simion, di preciso, accusa Francia e Moldavia di avere interferito nelle elezioni. Parigi era già stata accusata da Pavel Durov, fondatore di Telegram, durante il giorno delle elezioni: Durov aveva detto di essere stato contattato dalla Francia per «silenziare le voci conservatrici romene».

Caccia, la riforma Lollobrigida vuole allentare i vincoli a favore delle doppiette

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La maggioranza, con Fratelli d’Italia in prima linea, ha preparato una radicale riscrittura della legge 157/92 sulla caccia, riducendo le tutele ambientali e favorendo il mondo venatorio. Secondo le anticipazioni di diversi media, il disegno di legge, promosso dal ministro Lollobrigida, aprirebbe alla caccia in spiagge, aree demaniali e perfino durante la notte e fuori stagione, con meno controlli contro il bracconaggio. Verrebbero riattivati i roccoli, liberalizzati i richiami vivi e rimosso il parere vincolante dell’Ispra. Diverse associazioni ambientaliste hanno denunciato la «palese incostituzionalità» della norma, sostenendo inoltre che essa si porrebbe in contrasto con diverse direttive europee; il governo, invece, punta ad approvare la riforma entro l’estate, per aggirare limiti e sentenze sfavorevoli.

La notizia del nuovo disegno di legge presentato dal ministro Lollobrigida è stata data da diversi media che ne hanno visionato in anteprima il contenuto, come La Repubblica e Il Fatto Quotidiano. Secondo i quotidiani, la proposta di legge conterebbe 18 articoli e rivoluzionerebbe il contenuto della legge 157/92 sulla caccia. Il completo rovesciamento delle regole in vigore sarebbe visibile sin dal primo articolo della legge: la caccia verrebbe infatti definita una pratica che «concorre alla tutela della biodiversità e dell’ecosistema» nonché «attività sportivo-motoria con importanti ricadute» sociali, culturali ed economiche. Alla caccia, insomma, verrebbe dato il ruolo della salvaguardia ambientale previsto dall’articolo 9 della Costituzione.

La proposta introduce diverse modifiche, interamente volte a liberalizzare la caccia. Essa estenderebbe il numero di specie cacciabili e di quelle utilizzabili come richiami vivi (che passerebbero da 7 a 47), eliminando inoltre ogni limite di possesso di volatili utilizzabili come esche nel caso provengano da un allevamento. Il governo intenderebbe inoltre permette di cacciare «nei territori e nelle foreste del demanio statale, regionale e degli enti pubblici in genere», e dunque anche in aree come le spiagge, che rientrano nel demanio statale; la caccia sarebbe consentita anche al tramonto, le gare anche di notte, i periodi di caccia verrebbero estesi, la caccia su territorio privato completamente deregolamentata, e la braccata sarebbe concessa anche su terreni innevati. La proposta eliminerebbe le tre opzioni di specializzazione consentendo a tutti di cacciare tutto, semplificherebbe l’ottenimento dei permessi per i cittadini stranieri, e permetterebbe anche alle guardie giurate di banche e supermercati di uccidere animali. Le regioni sarebbero costrette a ridurre le aree protette se ritenute «eccessive», fissando al 30% l’area massima di territorio regionale denominabile protetta. La legge, infine, prevedrebbe sanzioni fino a 900 euro per chi protesta contro le uccisioni di animali durante le attività di controllo.

Appresa la notizia del disegno di legge, le associazioni ENPA, LAC, LAV, Lipu e WWF Italia hanno lanciato un allarme, sottolineando inoltre come in mezzo a tutte le liberalizzazioni concesse dalla proposta, non una legge prevede una stretta su pratiche illecite come il bracconaggio. Il governo deve ancora approvare la proposta, ma da quanto ha detto Lollobrigida l’esecutivo intende varare la misura entro l’apertura della prossima stagione di caccia.

La Cina annuncia 500 milioni in donazioni all’OMS

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La Cina donerà altri 500 milioni di dollari all’Organizzazione Mondiale della Sanità in cinque anni. L’annuncio è stato dato dal vicepremier cinese del Consiglio di Stato, Liu Guozhong in occasione dell’Assemblea Mondiale della Sanità a Ginevra. Esso arriva in un momento di difficoltà per l’agenzia delle Nazioni Unite, che sta cercando finanziamenti aggiuntivi per compensare la perdita degli gli Stati Uniti, principale finanziatore dell’OMS. «Il mondo sta ora affrontando gli impatti dell’unilateralismo e della politica di potere che portano grandi sfide alla sicurezza sanitaria globale. Il multilateralismo è una via sicura per affrontare le difficoltà», ha affermato Liu Guozhong.

Riflessioni sul referendum per il diritto alla cittadinanza

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Avevo 17 anni e avrei voluto partire per la Francia, per festeggiare il compleanno di una mia amica. Un viaggio, una piccola fuga, il sogno di ogni adolescente. Ma non potevo. Il mio passaporto somalo non mi permetteva di attraversare i confini. Nonostante fossi nata a Milano, avessi vissuto qui per tutta la vita, avessi parlato italiano da sempre, avessi studiato nelle scuole italiane, il documento che portavo con me non mi riconosceva come cittadina. La legge mi separava dalla mia stessa identità, dalla mia stessa casa. Non sono andata. Ogni anno, fino ai 18, c’era quel giorno in cui, invece di andare a scuola, mi trovavo in fila per rinnovare il permesso di soggiorno. 

Ogni anno, lo stesso rituale: un appuntamento con una burocrazia che mi ricordava che, nonostante fosse la mia vita, non ero mai completamente riconosciuta come parte di questa nazione. La mia identità non corrispondeva a quella che la legge riteneva “italiana”, e il mio status sembrava sempre rimanere in attesa di una conferma che non arrivava mai. A 18 anni, finalmente, sono diventata italiana. Ma oggi, mentre io posso raccontare questa storia con un lieto fine, oltre un milione di bambini e ragazzi nati o cresciuti in Italia stanno ancora aspettando quel riconoscimento. In Italia, quasi un bambino su dieci è figlio di genitori stranieri. Più di 877.000 minori nati o cresciuti qui non hanno la cittadinanza. Studiano nelle nostre scuole, parlano il nostro dialetto, condividono le stesse esperienze dei loro coetanei italiani — ma non sono considerati parte del Paese che chiamano casa. 

Come Still I Rise, lavoriamo ogni giorno in scuole da Nairobi ad Aden, da Kolwezi a Bogotà. E ovunque, la storia si ripete: senza documenti, i minori restano invisibili. Solo pochi mesi fa, uno dei nostri studenti rifugiati ha superato un’audizione per uno spettacolo teatrale in Italia. Sarebbe dovuto salire su un palco, recitare in una lingua che non era la sua, dimostrare che l’arte può superare ogni confine. Ma quel confine è rimasto chiuso. Senza passaporto, non è potuto venire. 

È accaduto in Colombia. Ma accade anche qui. La cittadinanza negata e la mancanza di documenti rappresentano una barriera globale. In Italia, ci sono adolescenti che non possono partecipare a una gita scolastica all’estero, bambini esclusi da concorsi, giovani che non possono firmare una petizione per una causa in cui credono. Perché la legge sulla cittadinanza è ferma al 1992, quando il mondo — e l’Italia — erano profondamente diversi. Il referendum che ci attende è un’opportunità concreta per cambiare tutto questo. La proposta di riforma introduce un nuovo modello di cittadinanza: il diritto di diventare cittadini italiani per chi vive legalmente in Italia da almeno cinque anni. Il cambiamento riguarda anche i figli minori di chi ottiene la cittadinanza, permettendo loro di essere riconosciuti come parte del Paese in cui stanno crescendo. Non si parla più solo di origine o di documenti, ma di un legame reale con il territorio, costruito giorno dopo giorno attraverso il lavoro, la scuola, le relazioni, la vita quotidiana. Un percorso fatto di appartenenza. Di radici. 

Il referendum riguarda circa 1,1 milioni di giovani. Ma l’impatto va ben oltre quel numero: coinvolge famiglie, scuole, comunità intere. Con un SÌ, si permette a questi ragazzi di fare ciò che per molti è scontato: iscriversi a una squadra sportiva, firmare un contratto, viaggiare con i compagni di classe, sentirsi finalmente parte della società in cui sono cresciuti. 

Perché la cittadinanza non è solo un diritto individuale. È un patto collettivo. È il diritto di partecipare, a pieno titolo, alla vita del Paese. Di poter andare in gita con la propria classe. Di iscriversi a un concorso. Di prendere un aereo. Di non sentirsi “ospiti” nella propria casa. Votare SÌ alla riforma significa riconoscere questo patto. Noi, come Still I Rise, voteremo SÌ. Lo faremo per tutti quei bambini e ragazzi che ogni giorno incontriamo nelle nostre classi. Lo faremo perché crediamo che l’identità non si imprima solo su un passaporto, ma viva nella lingua che si sogna, nei ricordi che si costruiscono, nei luoghi che si chiamano “casa”. Per un Paese che cresce senza lasciare nessuno indietro. Perché ogni ragazzo e ragazza ha il diritto di brillare.

Il Mali sta bloccando le esportazioni di litio alle multinazionali estere

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In un nuovo slancio anticoloniale, il Mali sta bloccando l’export di litio, aumentando i controlli affinchè le aziende straniere che estraggono minerali e metalli preziosi paghino di più per appropriarsi delle risorse del Paese. Questa volta a farne le spese è la britannica Kodal Minerals, la quale vede bloccate migliaia di tonnellate di litio ferme nel Paese africano, senza possibilità di esportarle, in quanto il governo maliano non avrebbe infatti concesso l’approvazione finale all’export del materiale.

Secondo quanto riferito a Reuters dal’amministratore delegato dell’azienda, Bernard Aylward, sarebbero circa 20.000 le tonnellate di litio estratte dalla sua compagnia mineraria e ferme in Mali a causa di ostacoli normativi. Aylward ha detto che i funzionari maliani stanno prendendo in considerazione un meccanismo di determinazione dei prezzi per garantire che le proprie risorse (non solo il litio estratto da Kodal) siano vendute ai tassi di mercato prevalenti. La società è bloccata nei negoziati, che vanno avanti dallo scorso anno, per l’approvazione finale all’export. Kodal ha un accordo per vendere tutta la sua produzione alla cinese Hainan Mining. La miniera di Bougouni, sfruttata dalla compagnia Kodal Minerals, situata a 170 km a sud di Bamako, mira a una produzione mensile di 11.000 tonnellate di litio, posizionandosi come il secondo progetto operativo di questa materia prima del Mali, dopo la miniera Goulamina gestita dalla cinese Ganfeng Lithium. «Anche altre operazioni in Mali stanno avendo ritardi nei permessi di esportazione. Non è limitato al team Kodal», ha detto Aylward a Reuters. Infatti, molte sono le compagnie che hanno dovuto sborsare molto più denaro per poter continuare ad estrarre o per poter esportare le materie fuori dal Mali.

Lo scorso anno, la compagnia mineraria australiana Resolute Mining ha pagato 160 milioni di dollari al governo del Mali per risolvere una disputa fiscale, dopo che il suo amministratore delegato, Terence Holohan, insieme a due dipendenti della compagnia, era stato arrestato dalle autorità maliane. Nel gennaio di quest’anno, invece, l’azienda di estrazione mineraria Barrick Gold, la seconda più importante al mondo, ha dovuto interrompere le operazioni di estrazione dell’oro dal complesso minerario di Loulo-Gounkoto, dopo che il governo ha sequestrato provvisoriamente le scorte estratte dal sito e le ha messe sotto custodia in una banca locale. Il governo aveva preso tale decisione poiché riteneva che l’azienda non stesse rispettando i termini di un contratto che prevedeva una redistribuzione più equa delle ricchezze estratte dalla cava per tutte le parti in gioco, Stato compreso. Nel febbraio scorso, il Mali aveva sostanzialmente obbligato la francese Total ha cedere le proprie attività a Coly Energy Mali, filiale locale della società beninese Benin Petro. La mossa era stata salutata dalla giunta militare al potere nel Paese come un ulteriore atto liberazione dalla presenza francese.

Il Mali dimostra ancora una volta come non abbia nessuna intenzione di retrocedere nel suo percorso di decolonizzazione dai Paesi e dalle compagnie occidentali, proprio come stanno facendo suoi due alleati nella fascia subsahariana, ovvero Burkina Faso e Niger.

Alternanza scuola-lavoro: 600 incidenti nel 2025, ma il governo la estende ai 15enni

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Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL), gli incidenti sul lavoro tra gli studenti continuano ad aumentare. Nel primo trimestre del 2025, infatti, si sono verificati circa 600 incidenti che hanno interessato gli studenti coinvolti nei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO, l’ex alternanza scuola-lavoro). Di questi, 4 si sono rivelati mortali. Di fronte a tali dati, il governo non demorde, tanto che intende estendere il modello del PCTO anche ai 15enni, come previsto dal Decreto PNRR-Scuola.

Secondo i dati INAIL, nel primo trimestre di quest’anno, le denunce di infortunio degli studenti di ogni ordine e grado sono state 25.797, in aumento dell’1,9% rispetto alle 25.322 del 2024. Queste includono tutte le denunce presentate dagli studenti coinvolti in attività scolastiche, e dunque anche quelle relative a incidenti avvenuti all’interno degli istituti. L’incidenza degli infortuni occorsi a studenti rappresenta il 18,1% del totale delle denunce registrate nel 2025. A guidare la classifica delle denunce è la Lombardia, con il 23% del totale delle denunce (+3,4% sul 2024); seguono il Veneto con il 12%, (+8,2%), l’Emilia-Romagna con l’11% (-3,5%) e il Piemonte con l’11% (+9,9%). Su scala nazionale, il 96% delle denunce riguarda gli studenti delle scuole statali, e il 4% gli studenti delle scuole non statali e private.

Per quanto riguarda gli incidenti a studenti coinvolti nelle attività del PCTO, l’INAIL comunica che nel periodo gennaio-marzo 2025 sono emerse 4 denunce di infortunio mortale, contro la singola denuncia nello stesso periodo del 2024; 2 i ragazzi morti in Lombardia, 1 a Bolzano e 1 in Campania. Ad aumentare è anche l’incidenza delle denunce di infortunio in occasione di lavoro sul totale delle denunce di infortuni con esito mortale occorsi a studenti. Sia l’anno scorso che quest’anno, infatti, si è registrato una morte di studente non impegnato nelle attività di PCTO (in termini percentuali, l’influenza è perciò passata dal 50% del 2024 al’80% del 2025). Malgrado ciò, il governo intende estendere il modello ai quindicenni. Negli istituti tecnici, «nel primo biennio, oltre alle attività orientative collegate al mondo del lavoro e delle professioni, è possibile realizzare, a partire dalla seconda classe, i Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento».

Il modello dell’alternanza scuola-lavoro fu pensato nel 2003, ma è nel 2015, con la cosiddetta “Buona Scuola” di Renzi che l’istituto assunse dimensione obbligatoria. Nel 2019 cambiò nome nel più generico PCTO, ma la sostanza rimase la stessa: lo sfruttamento della manodopera giovanile a costo zero, proprio perché parte di un «percorso formativo» obbligatorio. Nel 2022, dopo la morte di Lorenzo Perelli, un ragazzo di soli 18 anni coinvolto in un progetto di alternanza scuola lavoro, le studentesse e gli studenti scesero in piazza per chiedere l’abolizione di tale istituto. Il governo, tuttavia, si limitò a estendere la tutela INAIL agli studenti e a istituire un fondo per risarcire le famiglie degli studenti deceduti durante i PCTO.

Il mercato dei libri in Italia continua ad andare molto male

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Nei primi quattro mesi del 2025, gli italiani hanno comprato un milione di libri in meno. Una flessione che preoccupa il mondo dell’editoria, dalle piccole realtà ai grandi gruppi, equivalente a circa sedici milioni di euro di incassi in meno. I dati sono stati distribuiti dall’AIE, l’Associazione Italiana Editori, il cui presidente, Innocenzo Cipolletta, ha sottolineato come si tratti di una tendenza di lungo periodo, sulla quale influiscono i più diversi fattori – dal calo demografico all’impatto delle nuove tecnologie.

Già nel 2024, l’editoria italiana di varia aveva subito nell’intero anno un calo dello 0,9%, che si è aggiunto a quello dei libri scolastici (-0,5%) e universitari (-15,1%). Per quanto riguarda i primi 4 mesi del 2025, a determinare la flessione di acquisti sarebbe determinante, secondo AIE, il venir meno di misure di sostegno quali le Carte riservate ai neo-diciottenni – solamente gli acquisti effettuati con queste sono stati pari a 18,3 milioni di euro, contro i 45,9 milioni del 2024. A ciò si aggiunge poi, spiega AIE, la generale diminuzione dei prezzi dei libri, «in flessione dello 0,3% rispetto all’anno precedente, contro un’inflazione generale del 2%». A venir meno sono soprattutto gli acquisti nelle librerie indipendenti, che diminuiscono del 7,5% (322 mila copie circa).

Eppure, i dati diffusi immediatamente dopo la pandemia avevano fatto ben sperare. Nel 2022 le stime dell’AIE stessa rivelavano come gli italiani leggessero in media molto di più rispetto al 2019, con le vendite online in parte sostituite dagli acquisti nelle librerie fisiche. «Il calo demografico, l’impatto delle nuove tecnologie sui modi e i tempi della lettura, modalità di studio differenti che nelle università tendono a marginalizzare l’approfondimento sui libri sono fenomeni che dispiegano i loro effetti a largo raggio sull’industria editoriale e che hanno riflessi sulla vita culturale del Paese» ha spiegato Cipolletta, sottolineando come sia «necessaria una riflessione e azioni collettive, degli attori pubblici e privati assieme, che rimettano il libro al centro».