The State of the World’s Indigenous Peoples è il rapporto annuale redatto dal Forum permanente delle Nazioni Unite sulle questioni indigene (UNPFII). L’ultima edizione, pubblicata il 24 aprile scorso, evidenzia un netto squilibrio, una disuguaglianza: sebbene i popoli indigeni rappresentino solo il 6% della popolazione mondiale, custodiscono l’80% della biodiversità residua del pianeta, ma ricevono meno dell’1% dei finanziamenti internazionali destinati ai programmi di protezione ambientale. Il rapporto propone una valutazione che invita a riflettere: l’azione in favore della protezione ecologica non solo è priva dell’urgenza necessaria, ma è anche profondamente iniqua. Dai progetti di energia rinnovabile imposti senza consenso alle decisioni politiche prese in contesti da cui le voci indigene sono escluse, queste comunità non solo vengono tagliate fuori dalle soluzioni, ma sono anche sfollate dalle proprie terre da iniziative “verdi” che in realtà sono guidate dal mercato e dal profitto.
«Anche se siamo colpiti in modo sproporzionato dalla crisi climatica, i popoli indigeni non sono vittime», scrive nel rapporto Hindou Oumarou Ibrahim, presidente del Forum permanente delle Nazioni Unite sulle questioni indigene, «siamo custodi del mondo naturale, impegnati a mantenere l’equilibrio del pianeta per le generazioni a venire». Il rapporto sollecita un cambiamento radicale nel modo in cui la conoscenza indigena viene compresa e rispettata, troppo spesso ridotta a elemento «tradizionale» o folcloristico, anziché riconosciuta come sapere scientifico e tecnico. I sistemi di conoscenza indigeni, sottolineano gli autori, sono «testati nel tempo, guidati dal metodo» e fondati su relazioni dirette con ecosistemi che hanno sostenuto la vita per millenni.
Ad esempio, in Perù, una comunità quechua di Ayacucho ha rilanciato pratiche di semina e raccolta dell’acqua per adattarsi al ritiro dei ghiacciai e alla siccità. Questi metodi, parte della gestione ancestrale dei cicli idrologici, vengono oggi condivisi oltre i confini con agricoltori costaricani come modello di cooperazione climatica Sud-Sud. In Somalia, le tradizioni orali fungono da legge ecologica. Il rapporto cita norme culturali come i divieti di abbattere determinati alberi (gurmo go’an) come esempio di governance ambientale trasmessa attraverso la saggezza generazionale, veicolata da proverbi, storie e tabù, piuttosto che da leggi e norme. Nel frattempo, il popolo Comcaac del Messico codifica la conoscenza ecologica e marittima nella propria lingua. Nomi come Moosni Oofia («dove si riuniscono le tartarughe verdi») e Tosni Iti Ihiiquet («dove i pellicani depongono le uova») fungono da dati viventi, «vitali per la loro sopravvivenza».
Il rapporto evidenzia le storture e i paradossi del presente: sebbene il mondo si avvii verso un futuro alimentato da energia rinnovabile, molti popoli indigeni si ritrovano in prima linea non come partner della transizione ecologica, ma come vittime collaterali di alcune soluzioni proposte. «Le cosiddette soluzioni verdi spesso rappresentano una minaccia per le popolazioni indigene quanto la crisi ecologica stessa», si legge nel rapporto. Dall’espansione dei biocarburanti ai meccanismi di compensazione del carbonio (di cui abbiamo parlato dettagliatamente in questo articolo) e ai mercati ad esso legati, fino all’estrazione di minerali per le tecnologie energetiche pulite, la nuova economia verde si fonda troppo spesso su ingiustizie di stampo coloniale e razzista.
Per le popolazioni indigene, molto spesso, i progetti green si traducono in sfollamento, deportazione e distruzione sociale, e persino — per quanto possa sembrare paradossale — in devastazione ambientale. Alla base di questi interventi rimane infatti il principio del profitto: la mercificazione di processi che dovrebbero generare benefici ambientali e sociali finisce per produrre l’effetto opposto. Il rapporto sottolinea in più punti che, se le azioni per il clima e l’ambiente continueranno a essere progettate e attuate senza porre i popoli indigeni al centro, rischieranno di replicare i sistemi estrattivi ed esclusivi che hanno generato e alimentato la crisi stessa.
Il documento invoca quindi un cambiamento strutturale: non si tratta solo di aumentare i finanziamenti, ma di modificare profondamente chi li gestisce. Tra le raccomandazioni principali figurano la creazione di meccanismi finanziari guidati direttamente dalle popolazioni indigene, il riconoscimento formale dei loro sistemi di autogoverno e la sovranità dei dati, affinché siano le comunità stesse a controllare le modalità con cui vengono raccolte e utilizzate le conoscenze sui loro territori e mezzi di sussistenza. Senza una trasformazione di questi sistemi, avverte il rapporto, la transizione ecologica rischia di riprodurre gli stessi schemi di esclusione ed espropriazione che, da sempre, minano i diritti indigeni e ostacolano gli obiettivi ambientali globali.
Un gruppo di uomini armati non identificati ha ucciso a colpi d’arma da fuoco Andriy Portnov, stretto collaboratore dell’ex presidente ucraino filo-russo Viktor Yanukovich, deposto durante i sollevamenti del 2014. Da quanto comunica una fonte del Ministero dell’Interno spagnolo all’agenzia di stampa Reuters, diverse persone gli avrebbero sparato alla schiena e alla testa per poi fuggire verso una zona boschiva. Il corpo è stato rinvenuto attorno alle 9:15, colpito da almeno tre proiettili. Nel 2014, dopo la caduta di Yanukovich, Portnov partì per la Russia, mentre l’Ucraina avviò un’indagine nei suoi confronti accusandolo di tradimento e appropriazione indebita. Il fatto che si trovasse in Spagna era ignoto al pubblico.
La Procura generale russa ha messo al bando l’organizzazione internazionale non governativa Amnesty International, designandola come organizzazione «indesiderabile» in Russia, con l’obiettivo di «ripulire lo spazio informativo nazionale da qualsiasi influenza esterna distruttiva», come dichiarato dal Servizio di Sicurezza Federale (FSB) russo della regione di Sverdlovsk. Nella dichiarazione della Procura si legge che «La Procura generale ha deciso di riconoscere le attività di Amnesty International Limited, un’organizzazione internazionale non governativa registrata a Londra, come indesiderate sul territorio della Russia». Secondo le autorità russe, la sede londinese dell’organizzazione internazionale per i diritti umani sarebbe un centro di formazione per progetti russofobi globali, «finanziato dai complici del regime di Kiev».
La Procura generale dello Stato eurasiatico sostiene che Amnesty International alimenti il confronto militare in Ucraina: «I membri dell’organizzazione sostengono organizzazioni estremiste e finanziano le attività di agenti stranieri». Inoltre, accusa l’organizzazione di insistere sull’isolamento politico e economico della Russia. Non è tardata ad arrivare la dura reazione dell’ONG internazionale fondata a Londra nel 1961: Questa decisione fa parte di un più ampio sforzo del governo russo per mettere a tacere il dissenso e isolare la società civile. […] Le autorità si sbagliano di grosso se credono che, etichettando la nostra organizzazione come “indesiderabile”, interromperemo il nostro lavoro di documentazione e denuncia delle violazioni dei diritti umani, anzi. Non cederemo alle minacce e continueremo imperterriti a lavorare per garantire che i cittadini russi possano godere dei loro diritti umani senza discriminazioni», ha dichiarato Agnès Callamard, Segretaria generale di Amnesty International.
La decisione della Procura russa di designare l’organizzazione come «indesiderabile» arriva dopo anni di tensioni tra l’ONG e il Cremlino: nel 2022, infatti, le autorità russe avevano già bloccato l’accesso ai siti web di Amnesty International in Russia, chiudendone anche la sede a Mosca. La messa al bando dell’ONG si basa sulla cosiddetta legge “sugli agenti stranieri”, che monitora e prende provvedimenti contro tutte quelle organizzazioni che sono finanziate in modo cospicuo da Stati, fondazioni o individui stranieri. La legge è duramente criticata dagli Stati occidentali, sebbene molti di essi – compresi gli Stati Uniti – prevedano leggi simili nel loro ordinamento giuridico. La legge è stata anche motivo di proteste e dissidi diplomatici in Georgia, dove migliaia di cittadini sono scesi in piazza contro la legge col sostegno degli USA e dell’UE. La partecipazione alle attività di organizzazioni etichettate come «indesiderate» sono punibili per legge secondo la legislazione russa: i primi reati in tal senso possono comportare sanzioni amministrative fino a 15.000 rubli (circa 185 dollari), mentre le violazioni ripetute, così come il finanziamento o la gestione di tali organizzazioni, comportano responsabilità penali e possono portare a pene detentive fino a sei anni.
Secondo Amnesty International, la designazione di organizzazione indesiderabile colloca l’associazione «tra le decine di ONG e organi di stampa indipendenti che sono stati presi di mira negli ultimi anni nell’ambito di una vasta campagna volta a reprimere il dissenso e smantellare la società civile in Russia, impedendo agli osservatori e ai partner internazionali di fornire supporto o mostrare solidarietà». Durante gli ultimi anni, Amnesty International ha denunciato le violazioni dei diritti umani in Ucraina da parte della Russia, così come ha fatto in altri contesti di guerra in tutto il mondo, compresa Gaza: secondo l’ONG, nel 2024 le vittime civili in Ucraina sono aumentate a causa degli attacchi alle infrastrutture energetiche e sanitarie, tra cui alcuni ospedali. Ha denunciato, inoltre, l’aumento delle esecuzioni sommarie di prigionieri di guerra ucraini da parte delle forze russe. L’organizzazione non ha mancato di evidenziare anche il tentativo di repressione del governo ucraino alla libertà di espressione, riportando che «Diversi importanti organi d’informazione hanno lamentato pressioni da parte delle autorità ucraine. A gennaio, i giornalisti di bihus.info hanno riferito che erano stati sorvegliati e i loro telefoni intercettati».
Sebbene non si registrino casi di doppi standard da parte di Amnesty International, che ha documentato anche i crimini di guerra da parte di Stati occidentali, come quelli in Iraq da parte dell’amministrazione statunitense, l’ONG ha esplicitamente assunto una posizione che si può definire filoccidentale nella guerra in Ucraina, dichiarando che “L’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia costituisce il crimine internazionale di aggressione” e che “Qualsiasi negoziato sul futuro della popolazione ucraina dovrà avere come priorità la giustizia per tutti i crimini di diritto internazionale commessi a seguito dell’intervento militare russo del 2014”. Inoltre, l’organizzazione ha ricevuto alcuni finanziamenti da parte della Open Society Foundations del finanziere George Soros, che si è distinta per il suo esplicito sostegno alla Rivoluzione di Maidan nel 2014, una rivoluzione esplicitamente filoeuropea e antirussa.
Dopo la messa al bando dell’ONG, la segretaria di Amnesty International ha ribadito con forza che «non cederemo alle minacce» e che «Se il Cremlino ti bandisce, vuol dire che stai facendo la cosa giusta».
Gli oranghi selvatici sono capaci di emettere suoni con una elevata complessità stratificata che si pensava fosse esclusiva della comunicazione umana, il che avrebbe serie implicazioni riguardanti la storia evolutiva della nostra specie e di quelle più simili a noi: è quanto emerge da un nuovo studio condotto da ricercatori dell’Università di Warwick, a Coventry, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Annals of The New York Academy of Sciences. Analizzando registrazioni riguardanti i suoni degli oranghi femmina selvatici e studiandoli per mesi, i ricercatori hanno scoperto livelli annidati di comunicazione, con strutture ritmiche organizzate in moduli sempre più ampi. Inoltre, si tratterebbe di composizioni di suoni che variano anche a seconda del predatore, in quanto i richiami diventano più rapidi e urgenti davanti a una minaccia reale come una tigre, mentre rallentano se il pericolo percepito è ambiguo. «Trovare questa caratteristica nella comunicazione degli oranghi mette in discussione l’idea che la ricorsività sia prettamente umana», commenta la Dott.ssa Chiara De Gregorio, assegnista di ricerca presso l’Università di Warwick e coautrice.
Per ricorsività si intende un meccanismo linguistico che consente di inserire elementi all’interno di altri simili, come in una serie di matrioske, permettendo la costruzione di messaggi potenzialmente infiniti a partire da un numero limitato di unità. È ritenuta una delle caratteristiche fondamentali del linguaggio umano, in quanto ci permette di articolare pensieri complessi e articolati. Fino ad oggi, infatti, si riteneva che questa capacità fosse unica della nostra specie, anche se il nuovo studio appena pubblicato potrebbe indicare il contrario, ovvero che forme di ricorsività potrebbero essere emerse molto prima, e in altre specie. Per verificare questa ipotesi, i ricercatori hanno analizzato registrazioni dei richiami d’allarme delle femmine di orango in libertà, isolando le loro strutture ritmiche e studiando come i suoni si organizzano in sequenze sempre più articolate. Il risultato è stata l’identificazione di una complessità su tre livelli integrati, paragonabile a una vera e propria sintassi sonora.
In particolare, i richiami degli oranghi si compongono inizialmente di suoni singoli che si aggregano in piccole combinazioni (primo strato). Queste combinazioni, a loro volta, si uniscono in gruppi più ampi (secondo strato), che infine si integrano in serie ancora più lunghe e strutturate (terzo strato). A ogni livello, il ritmo dei suoni resta regolare, come in un brano musicale con schemi ripetuti, anche se non si tratta però di una struttura fissa: gli oranghi modificano il ritmo dei richiami in base alla minaccia percepita, segnalando consapevolmente il grado di pericolo. «Trovare questa caratteristica nella comunicazione degli oranghi mette in discussione l’idea che la ricorsività sia prettamente umana. Questa scoperta dimostra che le radici di una delle caratteristiche più distintive del linguaggio umano – la ricorsività – erano già presenti nel nostro passato evolutivo. Gli oranghi ci stanno aiutando a capire come i semi della struttura del linguaggio potrebbero aver iniziato a crescere milioni di anni fa», commenta De Gregorio, aggiungendo che i forniscono il primo riscontro empirico a favore dell’ipotesi secondo cui la ricorsività potrebbe essere stata selezionata e sviluppata gradualmente in un antenato comune, rendendo gli oranghi una finestra vivente su una fase antichissima dell’evoluzione del linguaggio.
Oggi, in Pakistan, almeno sei persone, di cui quattro bambini, sono state uccise in un’esplosione che ha coinvolto uno scuolabus nel distretto di Khuzdar, nella regione separatista del Belucistan. Altre 38 persone sono rimaste ferite e stanno venendo trasportate in aereo verso la città di Quetta. Secondo le prime indagini, sul veicolo erano presenti 46 studenti, e il veicolo sarebbe stato colpito da un «attacco con ordigno esplosivo improvvisato trasportato da un veicolo». L’esercito pakistano ha condannato la violenza e accusato «agenti terroristici indiani» di essere coinvolti nell’attacco, senza tuttavia condividere prove a sostegno di tale affermazione. Per ora non c’è stata alcuna rivendicazione dell’attacco.
Il ministro degli Esteri britannico, David Lammy, ha annunciato la sospensione dei colloqui per un nuovo accordo di libero scambio con Israele. L’annuncio è stato dato in un discorso davanti al Parlamento in cui Lammy ha contestato le operazioni israeliane a Gaza e il lancio dell’operazione Carri di Gedeone, aggiungendo inoltre che il Paese sanzionerà individui, avamposti di coloni illegali e organizzazioni che sostengono la violenza contro le comunità palestinesi in Cisgiordania. Il fermo dei negoziati, specifica il governo britannico, non riguarda gli accordi ancora in corso, ma il ministro degli Esteri britannico ha affermato che, se Israele non cesserà le ostilità, il Paese potrebbe prendere ulteriori contromisure. Si tratta di una mossa dai risvolti più politici che concreti, insomma, volta a esercitare pressione sullo Stato ebraico senza cambiare troppo le carte in tavola, e ad ampliare il ventaglio di possibilità del Paese, assumendo una prima timida presa di posizione contro il genocidio del popolo palestinese.
L’annuncio del blocco dei negoziati con Israele è arrivato martedì 20 maggio ed è stato dato formalmente in un discorso nel Parlamento britannico. Negli oltre dodici minuti di intervento, Lammy ha parlato dell’attuale situazione a Gaza e dei crimini di guerra di cui si sta macchiando Israele, criticando le operazioni militari sulla Striscia e l’avvio dell’operazione Carri di Gedeone. Negli ultimi minuti del discorso, Lammy ha annunciato il blocco dei negoziati per estendere la sfera d’azione dell’accordo di libero scambio UK-Israele, e ha convocato l’ambasciatore israeliano per un colloquio. Il ministro, inoltre, ha dichiarato che il Paese rivedrà gli accordi nel quadro della cosiddetta “Tabella di marcia 2030”. Siglata nel 2023, la “roadmap” definisce il percorso delle relazioni bilaterali tra Regno Unito e Israele per i successivi anni, basandosi proprio sul trattato di libero scambio. Nello specifico, la Tabella di marcia prevede un’ampia cooperazione in materia di sicurezza e difesa, il contrasto al programma nucleare iraniano, la promozione degli Accordi di Abramo, investimenti industriali e tecnologici, nonché scambi accademici.
Nel suo discorso, Lammy ha parlato anche di sanzioni a coloni ed entità coloniali israeliane in Cisgiordania. In particolare, si legge nel comunicato governativo, il Regno Unito ha aggiunto alla lista degli individui sanzionati altri due coloni di spicco, tra cui Daniella Weiss, fondatrice di un insediamento e di un’associazione per lo sviluppo e la promozione delle colonie, insieme ad alcuni avamposti di coloni illegali e a due organizzazioni. La mossa segue la «drammatica impennata di violenze da parte dei coloni in Cisgiordania, con le Nazioni Unite che hanno registrato oltre 1.800 attacchi da parte dei coloni contro le comunità palestinesi dal 1° gennaio 2024». Individui ed entità sanzionati saranno ora soggetti a misure quali «restrizioni finanziarie, divieti di viaggio e interdizioni per amministratori».
La mossa sugli accordi del Regno Unito, per quanto significativa, ha di fatto limitati risvolti pratici perché – almeno per ora – non ferma alcun trattato in essere. L’aggiunta di 2 individui e 4 entità alla lista dei soggetti sanzionati risulta già più concreta, ma è ben lontana da una formale condanna dell’occupazione israeliana in Palestina e dal creare danni strutturali alla pratica: in totale, il Regno Unito ha infatti sanzionato 20 soggetti tra individui ed entità israeliane, ma, nella sola Cisgiordania, al 2017, risultavano presenti oltre 200 insediamenti in cui abitavano 620mila persone. La scelta di fermare i negoziati con lo Stato ebraico, aprire alla revisione della Roadmap 2030 e sanzionare le colonie sembra insomma avere una valenza prevalentemente politica, cambiando la postura del Regno Unito senza minare alla radice i rapporti con l’alleato. Con essa, comunque, Londra compie un primo passo per allontanarsi dallo Stato ebraico e apre a nuove possibili misure di pressione diplomatica.
Con il lancio dell’operazione Carri di Gedeone da parte di Israele, l’Unione Europea sta iniziando a capire che – forse – lo Stato ebraico va fermato. I ministri degli Esteri dell’Unione hanno infatti approvato la richiesta di avviare una revisione del trattato di associazione UE-Israele, avanzata dai Paesi Bassi dopo un anno di ripetuti appelli da parte di Spagna e Irlanda. In sede di votazione, comunicano fonti diplomatiche, nove Paesi si sarebbero opposti tra cui, come ormai consolidato in sede diplomatica, anche l’Italia. L’accordo regola le relazioni multilaterali tra Israele e Stati membri e, sin dal preambolo e dai suoi primi articoli, si fonda sul rispetto dei diritti umani e sulla condivisione dei valori democratici. Aprendo a una possibile revisione, l’UE compie così, con drammatico ritardo, i primi passi formali per distanziarsi dallo Stato ebraico, sottolinea Amnesty. «L’entità della sofferenza umana a Gaza negli ultimi 19 mesi è stata inimmaginabile. Israele sta commettendo un genocidio a Gaza con agghiacciante impunità».
La decisione di avviare una revisione dell’accordo di associazione UE-Israele è stata annunciata ieri, martedì 20 maggio, dall’Alta Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri, Kaja Kallas, in una conferenza stampa. Davanti ai giornalisti, Kallas ha fatto il punto dell’incontro tenutosi a porte chiuse a Bruxelles, citando rapidamente la votazione sugli accordi. La richiesta era stata avanzata dai Paesi Bassi, che si erano accodati agli appelli che Spagna e Irlanda lanciano da oltre un anno. A questi tre Paesi se ne sono aggiunti altri sette: Belgio, Finlandia, Francia, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e Svezia, che hanno pubblicamente appoggiato la richiesta. Da quanto si apprende da fonti diplomatiche citate da Euronews, Danimarca, Estonia, Malta, Polonia, Romania e Slovacchia hanno appoggiato la revisione, mentre la Lettonia si sarebbe mostrata neutrale e nove Paesi si sarebbero dichiarati contrari. Tra questi ultimi figura anche l’Italia, che sin dall’escalation del 7 ottobre risulta il baluardo degli interessi di Israele in Europa. Nelle varie votazioni in sede di istituzioni internazionali, infatti, il nostro Paese si è quasi sempre astenuto.
Per ora, non risulta ancora chiaro quando la revisione verrà concretamente effettuata. Malgrado un giornalista abbia infatti posto tale domanda a Kallas, la rappresentante si è limitata a rispondere che «stiamo avviando questo esercizio». Nel frattempo, ha detto Kallas, «spero davvero che gli aiuti umanitari vengano sbloccati e che la situazione migliori». Riguardo ad altre possibili contromisure, Kallas ha affermato che i ministri hanno parlato anche di possibili sanzioni contro i coloni in Cisgiordania, senza tuttavia riuscire ad approvarle a causa del veto proveniente da un Paese. Le stesse fonti diplomatiche citate da Euronews indicano che a opporsi sarebbe stata l’Ungheria.
L’accordo di associazione UE-Israele costituisce la base delle varie relazioni tra lo Stato ebraico e i Paesi membri dell’Unione Europea. Spagna e Irlanda chiedono da tempo che il trattato venga rivisto per esercitare pressioni su Tel Aviv, sostenendo che le azioni di Israele a Gaza vadano contro i principi fondativi e alcuni articoli della Carta. A essere messo in discussione, oltre alle considerazioni iniziali, è l’articolo 2 dell’accordo; esso sancisce che: «Le relazioni tra le Parti, nonché tutte le disposizioni dell’Accordo stesso, si basano sul rispetto dei diritti umani e dei principi democratici, che guidano la loro politica interna e internazionale e costituiscono un elemento essenziale del presente Accordo».
Il Senato ha approvato in via definitiva il decreto legge che modifica il protocollo Italia-Albania per rendere le strutture presenti in Albania utilizzabili per ospitare migranti. Il DL di preciso trasforma la struttura di Gjader, originariamente pensata per l’accoglienza e il trattenimento dei richiedenti asilo, in Centro per il Rimpatrio, destinata a ospitare persone già munite di ordine di espulsione. La modifica arriva dopo che vari tentativi del governo di trasferire migranti in Albania sono stati bloccati dai giudici.
Rosignano Solvay non è soltanto una frazione del Comune di Rosignano Marittimo, un Comune in provincia di Livorno. È un paese nato interamente attorno al suo stabilimento chimico, al punto da portarne il marchio fin nel toponimo. Oggi conta circa 20 mila abitanti, ma la sua storia comincia nel 1912, quando prende forma il polo industriale fondato dai fratelli belgi Ernest e Alfred Solvay. La costruzione dello stabilimento segna l’inizio dello sviluppo urbano: le prime edificazioni sono le ville dirigenziali, affacciate sull’ingresso della fabbrica, seguite dal quartiere operaio, situato sul lato mare della ferrovia Livorno-Vada-Cecina. Da questo nucleo prende forma il paese, cresciuto nel tempo quasi interamente intorno alla fabbrica. Lo stabilimento non ha solo offerto lavoro a migliaia di persone: ha plasmato anche la vita sociale del territorio. Solvay ha costruito scuole, teatro, circoli ricreativi e spazi di aggregazione, contribuendo a modellare la quotidianità e l’identità della comunità operaia e delle generazioni successive. Lo stile architettonico degli edifici ricalca quello del Nord Europa, mentre l’assetto urbano dei primi decenni si distingue per una griglia regolare, priva di grandi spazi aperti o di un vero centro. Una scelta che alcuni leggono anche in chiave politica: un impianto urbano che scoraggia assembramenti e potenziali proteste.
Oggi la forza lavoro non è più quella di un tempo, e il tessuto industriale è cambiato. Il sito non è più esclusivamente Solvay: accanto alla storica azienda, si sono affermati altri attori, come la multinazionale britannica Ineos e diverse piccole e medie imprese. Nel bene e nel male, però, la storia di Rosignano Solvay resta inseparabile da quella della fabbrica che l’ha generata. Una città costruita attorno a un nome, che ancora oggi racconta la sua origine.
La narrazione di Solvay
«La sostenibilità è nel nostro DNA»: così si legge nella sezione dedicata all’ambiente sul sito ufficiale di Solvay. A corredo, un’immagine patinata: un prato verde brillante sullo sfondo di un impianto industriale dell’azienda. «Solvay si concentra sulla riduzione della sua impronta ambientale. Stiamo dando priorità alle azioni per ridurre le emissioni di gas serra e sostenere la biodiversità in tutto il mondo. Stiamo implementando piani d’azione per la biodiversità, migliorando la gestione dei rifiuti e dando priorità alla gestione dell’acqua», si legge ancora, in un linguaggio che ricalca quello ormai tipico della comunicazione green delle grandi multinazionali.
In un’altra pagina della stessa sezione compare l’immagine di una bambina che annaffia delle piantine in vaso. La didascalia recita: «In Solvay, stiamo lavorando attivamente per ridurre al minimo l’impatto delle nostre attività sulla natura. Ciò significa agire sia a livello locale che globale per mitigare e adattarsi ai cambiamenti climatici, proteggere gli ecosistemi e prevenire la perdita della natura». Più avanti, un altro passaggio sottolinea: «L’acqua è essenziale per le nostre operazioni e siamo incrollabili nella nostra dedizione per aiutare a conservarla nelle aree in cui siamo attivi. L’aumento della siccità e delle condizioni meteorologiche estreme in tutto il mondo e i rischi ambientali e industriali associati ci hanno portato a creare piani d’azione per la conservazione dell’acqua».
Parole rassicuranti, immagini accattivanti. Ma per chi vive a Rosignano, tutto questo suona più che altro come una beffa. A dispetto dei proclami, la realtà racconta un’altra storia: quella di un territorio segnato da oltre un secolo di presenza industriale, che continua ancora oggi a lasciare tracce evidenti. Per gli abitanti, leggere questi messaggi è spesso percepito come uno schiaffo.
Per quanto condivisibili nelle intenzioni, queste dichiarazioni si inseriscono in quella pratica sempre più diffusa nota come greenwashing: una strategia di comunicazione adottata dalle aziende per costruirsi un’immagine ecologicamente responsabile, spesso in netto contrasto con il reale impatto delle proprie attività sull’ambiente. Più che uno sforzo concreto verso la sostenibilità, le parole appaiono come un’operazione di facciata, e per molti cittadini rappresentano non solo un’ingannevole narrazione, ma anche un’offesa alla propria esperienza quotidiana.
Le spiagge “caraibiche” di Rosignano
Gli scarichi a mare nel Fosso Bianco, Lillatro, Rosignano Solvay
A Rosignano, Solvay scarica direttamente in mare i propri rifiuti solidi. Un fatto che stride fortemente con gli sbandierati concetti di sostenibilità, impronta ambientale, biodiversità, gestione dei rifiuti, conservazione dell’acqua e adattamento ai cambiamenti climatici. Le cosiddette «Spiagge Bianche», celebri per l’aspetto caraibico che attira turisti e fotografie da tutto il mondo, sono in realtà il risultato di decenni di sversamenti industriali. Un habitat morto, trasformato in discarica marina. Tutto questo avviene nel rispetto della legge, grazie a una autorizzazione del Ministero dell’Ambiente, che di fatto ha derogato all’accordo di programma del 2003 nel quale Solvay aveva accettato una drastica riduzione degli scarichi a mare..
Tra i materiali scaricati in mare, insieme a calcare e carbonato di calcio, si trovano sostanze altamente inquinanti: mercurio, arsenico, cadmio, nickel, piombo, zinco, dicloroetano, ammoniaca. Nel 2003, Solvay firmò con gli enti territoriali un accordo di programma che prevedeva una riduzione del 70% dei solidi sospesi scaricati in mare entro il 2007, passando da 200.000 a 60.000 tonnellate annue.
Nel 2008, l’associazione Medicina Democratica presentò un esposto alla Procura di Livorno, denunciando il mancato rispetto dell’accordo da parte dell’azienda, la presenza di quattro scarichi abusivi sconosciuti all’Arpat (Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana) e l’utilizzo di pratiche finalizzate a diluire i fanghi per aggirare i limiti di emissione previsti dalla normativa. Nel maggio 2013, Michèle Huart, direttrice dell’epoca dello stabilimento e altri quattro dipendenti della società, furono iscritti sul registro degli indagati dopo l’indagine della Procura di Livorno che stava indagando sullo scarico illecito di fanghi da parte di Solvay nell’area delle Spiagge Bianche, attraverso un sistema di condotte non mappate che permetteva di diluire sostanze come mercurio, piombo, selenio e fenoli, mantenendo i valori all’interno dei parametri di legge. Non si arrivò a sentenza, in quanto l’azienda scelse di patteggiare, impegnandosi ad attuare un’opera di bonifica del sito.
Secondo quanto dichiarato a L’Indipendente da Maurizio Marchi, storico attivista di Medicina Democratica, quella bonifica non è mai stata realizzata. Tuttavia, il Ministero dell’Ambiente ha continuato a rinnovare l’autorizzazione per lo scarico a mare: l’ultima è del 2022, con limiti persino superiori a quelli stabiliti nell’accordo del 2003. Eppure, come racconta ancora Marchi, mentre le tappe intermedie previste tra il 2004 e il 2006 per la progressiva riduzione degli scarichi fallivano una dopo l’altra, la Regione Toscana erogava comunque 30 milioni di euro pubblici a Solvay in base allo stato di avanzamento dei lavori. «La Regione sapeva dell’inadempienza, ma pagava lo stesso. Qualunque persona onesta penserebbe a una truffa combinata ai danni dello Stato», ha dichiarato Marchi.
A questo si aggiungono numerosi episodi di sversamenti accidentali, in particolare di ammoniaca, avvenuti in seguito a blackout elettrici nello stabilimento, provocando la morte di interi banchi di pesci, poi spiaggiati lungo quella costa che, sotto l’apparenza esotica, nasconde una delle più grandi discariche industriali d’Italia.
Il più recente degli sversamenti di ammoniaca si è verificato il 29 agosto 2017, come denunciato da Medicina Democratica e Rete Ambientalista, oltreché riportato da diversi quotidiani nazionali e locali. La motivazione: un incidente avvenuto in sodiera confermato da Solvay a Il Tirreno, per il quale dai vertici aziendali si specificò di aver rispettato tutte le procedure necessarie, così come sostenuto anche da ARPAT, Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Toscana. Quest’ultima ha comunque rilevato una concentrazione di ammoniaca di 1,71 mg/l a 100 metri a nord dello scarico, informando Comune e ASL. I pesci sono poi stati analizzati presso la sede di Pisa dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale per il Lazio e Toscana, risultando in eccessiva decomposizione per un’attenta analisi.
La sostenibilità costa, sversare no
Le Spiagge Bianche di Rosignano Solvay durante l’estate, agosto 2019
Come ci ha raccontato Maurizio Marchi, da tempo Medicina Democratica e altri comitati locali chiedono la chiusura degli scarichi a mare e la realizzazione, all’interno dello stabilimento, di una vasca di decantazione per il trattamento dei rifiuti, in modo da evitare l’enorme impatto ambientale provocato dallo sversamento diretto. Perché Solvay continua a scaricare in mare? La risposta è semplice. Come mostrato dallo stesso Marchi, secondo uno studio condotto nel 2013 dalla sezione di Livorno e Val di Cecina di Medicina Democratica, negli ultimi quarant’anni — cioè da quando è stata introdotta la legge Merli — Solvay avrebbe risparmiato circa 1,4 miliardi di euro rispetto a un corretto smaltimento dei rifiuti in discariche autorizzate. La costruzione di una vasca di decantazione nel parco industriale comporterebbe inoltre un costo stimato in decine di milioni di euro.
La colorazione bianca assunta nel tempo dal mare e dalla sabbia è dovuta principalmente alla dispersione di calcare e carbonato di calcio. Di per sé non si tratta di sostanze pericolose, non fosse che sono accompagnate da metalli pesanti. Inoltre, la colorazione biancastra che impedisce ai raggi solari di penetrare in profondità unitamente al sedimento sul fondale marino dei rifiuti, rende impossibile la sopravvivenza della posidonia, una pianta marina fondamentale per l’equilibrio dell’ecosistema costiero. La prateria di posidonia ospita numerose specie animali e vegetali, contribuisce alla protezione naturale della costa dall’erosione ed è considerata un bioindicatore della qualità delle acque.
Quando abbiamo parlato con l’attuale sindaco di Rosignano, Claudio Marabotti, in carica dall’estate 2024 e a capo di una giunta composta da liste civiche e Movimento 5 Stelle, ci ha raccontato di colloqui avuti con la dirigenza locale e nazionale di Solvay. L’azienda avrebbe manifestato una generica disponibilità a valutare in futuro la chiusura degli scarichi, sostenendo di non avere particolari ostacoli in tal senso. Tuttavia non risulta che sia stata ancora presa alcuna iniziativa concreta in merito.
Secondo quanto riferito dal sindaco, la dirigenza Solvay ha inoltre fatto notare che, nel caso in cui gli scarichi venissero chiusi, nel giro di una quindicina d’anni le Spiagge Bianche scomparirebbero e il mare potrebbe arrivare fino alla ferrovia, a causa dell’assenza di quei sedimenti solidi che hanno modellato l’attuale litorale. In altre parole l’azienda sostiene che, scaricando in mare, non solo non causa danni ma anzi contribuisce positivamente alla stabilizzazione della costa. Abbiamo chiesto a Solvay un incontro, il quale è stato negato, concedendo solo la risposta in forma scritta alle nostre domande. Un carteggio nel quale l’ufficio stampa della multinazionale ribadisce la posizione: «Il calcare in polvere che rimane dal ciclo di produzione viene restituito al mare in tutta sicurezza, contribuendo a stabilizzare la riva delle Spiagge Bianche contro l’erosione».
Quello che non viene ammesso è però un dato incontrovertibile: quel materiale apparentemente inerte è accompagnato da metalli pesanti e altre sostanze inquinanti. Anche lo stesso rilascio di calcare altera profondamente l’equilibrio marino: il fondale si copre di sedimenti melmosi che impediscono la vita della posidonia. Il mare, pur se visivamente suggestivo e per questo meta a basso costo per set fotografici e pubblicità senza dover recarsi ai Caraibi, è di fatto biologicamente morto. Paradossalmente, la funzione naturale di protezione della costa è proprio quella che sarebbe garantita dalla prateria di posidonia, se solo potesse esistere. La natura, insomma, fornisce già la propria difesa. Solvay invece sostiene di essere lei a fare un favore ai cittadini.
Incalzata dalle nostre domande, l’azienda ha dovuto riconoscere la presenza di metalli pesanti, pur mantenendo la propria linea: «È importante notare che Solvay non utilizza né aggiunge metalli pesanti durante il processo di produzione. Il calcare naturale stesso, come molti tipi di roccia o pietra, contiene naturalmente tracce di metalli pesanti, ma questi rimangono imprigionati allo stato solido nel calcare. Le autorità locali e regionali confermano che la qualità dell’acqua vicino all’impianto soddisfa elevati standard ed è coerente con il resto della costa toscana».
Sul punto specifico della scomparsa della posidonia e della sua relazione con il cosiddetto “mare bianco”, però, nessuna risposta.
La presenza di metalli pesanti in mare, in realtà, è accertata da decenni, come dimostrano numerosi studi, tra cui quelli del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Già nel 1999, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) aveva inserito i 14 chilometri di litorale di Rosignano tra le aree più inquinate del Mediterraneo. Una situazione citata anche in un’interrogazione del 2021 posta alla Commissione Europea da alcuni eurodeputati del Movimento 5 Stelle — Massimo Castaldo, Chiara Gemma, Dino Giarrusso e Daniela Rondinelli — in cui si chiedeva come fosse possibile che Solvay rientrasse tra le aziende con i più alti rating ESG (Environmental, Social and Governance), mentre Rosignano risultava uno dei luoghi più inquinati del Mediterraneo. Per l’occasione, si sollecitavano controlli e verifiche più stringenti. Richieste che rischiano oggi di essere vanificate dal nuovo corso politico della Commissione Europea sul Green Deal, che in nome della semplificazione e della competitività sta facendo marcia indietro su molte politiche ambientali.
Mesotelioma, cardiopatie, Alzheimer: lo studio epidemiologico mancante
L’impatto ambientale di Solvay non riguarda solo gli scarichi a mare ma anche le emissioni in atmosfera. Anche le osservazioni inviate all’Italia dalla Commissione Europea — con i quali si dava parere favorevole allo stanziamento di aiuti di Stato a Solvay per l’ammodernamento dell’impianto di produzione del cloro per un valore di 13,5 milioni di euro — confermano indirettamente l’inquinamento da mercurio presente in mare e nell’aria: «Dal punto di vista ambientale il principale vantaggio offerto dal processo a membrana rispetto al processo a catodo di mercurio per la produzione di cloro consiste nell’eliminazione degli scarichi idrici e delle emissioni atmosferiche di mercurio. Il mercurio è un metallo tossico, nocivo per la vita delle persone e degli animali. Lo stabilimento esistente emette 0,0565 kg di mercurio all’anno nell’atmosfera e ne scarica circa 0,1 t all’anno nell’acqua. Inoltre, verranno completamente eliminati i fanghi il cui volume annuo attualmente è pari a 32,94 t/anno», è quanto scrive la Commissione Europea nel 2005. Il nuovo impianto è poi entrato in funzione nel 2007. Il forte inquinamento dell’aria e del mare era stato anche oggetto di un’inchiesta condotta dalla giornalista Adele Grossi per Report nel 2019.
L’attuale sindaco di Rosignano Claudio Marabotti
Nel 2016 l’attuale sindaco di Rosignano, Claudio Marabotti — cardiologo di professione — condusse insieme a Paolo Piaggi, Paolo Scarsi, Elio Venturini, Romina Cecchi e Alessandro Pingitore uno studio ecologico comparativo tra Rosignano Solvay e Cecina, due aree geograficamente vicine ma con livelli molto diversi di inquinamento ambientale. L’obiettivo eraverificare l’incidenza della mortalità per malattie cronico-degenerativerispetto alla media regionale della Toscana. Dallo studio emerse che in tutta la Bassa Val di Cecina i tassi standardizzati di mortalità risultavano significativamente più alti per patologie come mesotelioma, cardiopatie ischemiche, malattie cerebrovascolari, Alzheimer e altre malattie neurodegenerative. Nel Comune di Rosignano, in particolare, fu riscontrato un eccesso significativo di mortalità per tutte queste patologie. I risultati suggerivano un possibile legame causale tra la vicinanza agli impianti industriali — e agli altri siti inquinanti presenti nella zona — e l’aumento della mortalità, indicando quindi un potenziale ruolo patogenetico delle sostanze inquinanti.
Per confermare questa ipotesi sarebbe stato necessario uno studio epidemiologico sulla popolazione. Uno strumento più preciso, richiesto da tempo da comitati e cittadini, ma mai realizzato per l’inerzia delle istituzioni pubbliche. Ora, però, la nuova giunta guidata da Marabotti ha dato il via libera all’avvio dello studio. Il sindaco ci ha riferito che le pratiche per l’affidamento dell’incarico sono state avviate e che lo studio epidemiologico sarà condotto dai laboratori del CNR di Pisa.
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* Rettifica del 12 giugno 2025: Nella versione originale dell’articolo si scriveva che, nel maggio 2013, venne “accertato” uno scarico illecito di fanghi da parte di Solvay. Questo non è corretto, in quanto la fattispecie di reato non venne accertata in sede processuale in seguito al patteggiamento.
Il rischio zero all’interno di un parco industriale, com’è noto, non esiste. Esistono però buone pratiche, protocolli e normative pensati per prevenire gli incidenti o, almeno, per contenerne gli effetti in caso si verifichino. Questo vale per la sicurezza interna agli impianti, ma c’è un altro aspetto da considerare: la sicurezza dei cittadini. Un tema particolarmente rilevante a Rosignano Solvay, dove il tessuto urbano si è sviluppato quasi interamente attorno alla fabbrica, come conseguenza diretta della sua storia urbanistica. Se la sicurezza dei lavoratori ricade sotto la responsabilità della dirigenza del parco industriale, quella dei cittadini è un compito condiviso: coinvolge sì la stessa dirigenza, ma soprattutto l’amministrazione comunale e la prefettura, cioè gli organi pubblici chiamati a garantire la tutela della popolazione.
Il 28 agosto 2024, alle 13:15 circa, un’esplosione ha interessato una tubatura sotterranea di azoto liquido, secondo alcuni lavoratori — intervistati da L’Indipendente — a causa della mancata chiusura di una valvola che ha portato alla rottura del collettore di distribuzione dell’azoto. Fortunatamente, non ci sono stati feriti. L’esplosione ha provocato una voragine nel manto stradale e causato danni a un furgone e a un’auto parcheggiati nelle immediate vicinanze. «Questo incidente è solo l’ultimo di una serie di eventi pericolosi che mettono in luce la precaria sicurezza degli impianti», aveva denunciato in una nota il gruppo Resistenza Popolare su Facebook. L’incidente è avvenuto durante il periodo della cosiddetta “fermata”, ovvero la fase dell’anno in cui gli impianti vengono arrestati per consentire gli interventi di manutenzione. In questa fase, il carico di lavoro per gli operai aumenta sensibilmente, mentre le imprese appaltatrici principali forniscono personale aggiuntivo alle ditte che operano all’interno del parco industriale.
“Fermata” e fughe di cloro-metano
Mappa parziale di Rosignano Solvay: 1. Scuole Elementari e Medie Ernesto Solvay 2. Stadio Ernesto Solvay 3. Circolo Ricreativo Solvay 4. Cinema Teatro Solvay 5. Distretto Sanitario Azienda USL Toscana nord ovest 6. Ingresso principale stabilimento Solvay Linea verde – perimetro parziale dello stabilimento industriale
Come ci è stato raccontato da fonti interne alla fabbrica — che hanno chiesto di restare anonime — chi lavora per le due multinazionali o per le ditte interne, spesso organizzate in forma di cooperativa, deve essere obbligatoriamente formato per accedere agli impianti industriali, seguendo protocolli di sicurezza specifici. Anche durante il periodo della cosiddetta ‘’fermata’’, quando vengono assunti lavoratori a tempo determinato per far fronte all’aumento del carico di lavoro, è previsto per legge l’obbligo di corsi di formazione sulla sicurezza. Tuttavia questa preparazione risulterebbe spesso insufficiente. «Voglio tornare a casa da mia figlia» è quanto ebbe a dire una delle nostre fonti a un giovane dipendente assunto temporaneamente durante la fermata, sorpreso con il cellulare in tasca su un impianto classificato a rischio. In contesti simili, infatti, le componenti elettroniche possono provocare l’innesco di un’esplosione in caso di fuga di gas. Per questo motivo, l’uso dei telefoni cellulari è vietato in alcune aree ad alto rischio. A tutto ciò si aggiungono precise norme di sicurezza anche per quanto riguarda l’abbigliamento da utilizzare all’interno dello stabilimento.
La mattina del 31 ottobre 2024 si è verificata una fuga di cloro-metano dagli impianti Ineos. Il cloro-metano, a temperatura ambiente, si presenta in forma gassosa; sotto pressione diventa un gas liquefatto. È quasi incolore, ha un odore leggermente etereo e pungente, ed è altamente infiammabile, capace di formare miscele esplosive in presenza di aria, oltre a risultare irritante e corrosivo per le vie respiratorie. In passato veniva impiegato come gas refrigerante, ma a causa della sua tossicità il suo utilizzo è stato progressivamente abbandonato ed è oggi escluso dai prodotti di largo consumo.
Secondo quanto riferito da nostre fonti interne allo stabilimento, la fuoriuscita sarebbe stata causata dalla rottura di una guarnizione tra due accoppiamenti flangiati. Dopo l’incidente, sono scattati i protocolli di emergenza, ma solo nella parte del parco industriale gestita da Ineos. Mentre gli operai di quest’ultima abbandonavano gli impianti per raggiungere i punti di raccolta, le entrate e le uscite venivano bloccate e veniva effettuato l’appello dei lavoratori, nella parte di stabilimento dove opera Solvay, invece, le attività proseguivano regolarmente.
Le fonti ci hanno riferito che alcuni operai Solvay, insieme a quelli delle ditte interne, sono stati fermati dai lavoratori Ineos e fatti entrare nei punti di raccolta mentre attraversavano i settori in cui erano in corso le procedure di evacuazione. Un gesto che evidenzia come, tra gli operai Ineos, vi fosse una chiara percezione del rischio, tale da spingere ad allertare anche i colleghi delle aree adiacenti. Un atteggiamento di prudenza che contrasta con la scelta di Solvay di mantenere le attività regolarmente in corso.
Abbiamo chiesto a Solvay come mai, in presenza di una fuga di gas — che per sua natura si propaga con l’azione del vento — non fosse stato attivato alcun protocollo di emergenza. La risposta — pervenutaci via mail da parte della Responsabile Media e Reputazione della multinazionale, Laetitia Van Minnenbruggen — è stata la seguente: «L’azienda ha attuato misure di sicurezza preventive per i suoi dipendenti». Alla richiesta di chiarire cosa si intendesse con «misure preventive» — definizione che solitamente si riferisce a ciò che precede un evento, non che lo segue — ci è stato risposto: «La sicurezza dei nostri dipendenti è la nostra massima priorità. Per garantire la loro sicurezza, Solvay li ha informati e ricordato le misure di sicurezza, ha monitorato costantemente la qualità dell’aria e ha seguito le procedure interne. Poiché l’incidente si è verificato lontano dall’area di Solvay, i sensori non hanno rilevato anomalie e non è stato necessario alcun ulteriore intervento». Alla domanda su come sia stata gestita l’emergenza nei confronti della cittadinanza, invece, non è arrivata alcuna risposta. Del resto, se per Solvay era tutto sotto controllo all’interno dello stabilimento, è difficile immaginare che ci sia stata attenzione a ciò che accadeva fuori.
Domande senza risposta
Rosignano Solvay, l’esplosione di una tubatura ad agosto 2024
La mattina del 31 ottobre, alcuni cittadini che vivono o lavorano nelle immediate vicinanze della fabbrica — in un’area in cui si trovano anche il distretto sanitario, lo stadio, il teatro, il circolo ricreativo e, soprattutto, le scuole elementari e medie — hanno sentito una voce provenire dagli altoparlanti dello stabilimento e avvertito un forte odore nell’aria. La cittadinanza, però, è rimasta all’oscuro di quanto stava accadendo. L’unica comunicazione ufficiale è arrivata solo diverse ore dopo, tramite un post pubblicato sulla pagina Facebook dell’amministrazione comunale. Non esattamente una prassi e un metodo di comunicazione ideale e tempestivo in un episodio del genere.
L’azienda ha avvertito il Comune dell’accaduto «non rapidissimamente», ha confermato a L’Indipendente il sindaco Claudio Marabotti. Il messaggio rilasciato sui social media dall’amministrazione riportava: «Siamo stati informati che questa mattina è avvenuta la fuoriuscita di gas (composto intermedio della lavorazione dei clorometani) da una tubazione situata in un impianto Ineos. Sono state attivate le procedure di sicurezza, sono stati evacuati i lavoratori ed è stato isolato il tratto di tubazione interessato dalla perdita. I dirigenti Ineos informano che non ci sono stati danni al personale e che non esiste rischio per i cittadini. Per precauzione sono stati interrotti gli ingressi dall’esterno all’interno del parco industriale».
Ma se non vi era alcun rischio per la popolazione, tanto da non attivare nemmeno la sirena di allarme, perché avvisare il sindaco ad alcune ore di distanza? E ancora: trattandosi di una fuga di gas, che per natura si diffonde con il vento, chi decide se esiste o meno un rischio per la cittadinanza? L’azienda non dovrebbe limitarsi a riportare con la massima tempestività l’accaduto e lasciar decidere alle autorità cittadine e sanitarie se vi sono o non vi sono rischi per la cittadinanza? Anche su questi punti da Solvay non è arrivata alcuna risposta alle nostre domande.
Il piano di emergenza fermo al 2015
A rendere la vicenda ancora più preoccupante è un dettaglio non secondario: il piano di emergenza cittadino è fermo al 2015, mentre i programmi di esercitazione per la popolazione risultano sospesi da ancora prima. A spiegarlo sono stati il sindaco Claudio Marabotti e l’assessore Giacomo Cantini. La redazione di questo piano dovrebbe avvenire congiuntamente tra le istituzioni pubbliche — in particolare l’amministrazione comunale e la prefettura — e la dirigenza dello stabilimento. Il sindaco, per legge, è considerato il massimo responsabile della salute e della sicurezza della cittadinanza, prerogativa condivisa con la prefettura.
La nuova giunta comunale guidata da Marabotti, in carica dal 2024 dopo decenni di amministrazioni a guida Partito Democratico, è frutto dell’alleanza tra le liste civiche Rosignano nel Cuore e Io Voto Io Vinco con il Movimento 5 Stelle. Secondo quanto riferito da Cantini, una delle prime azioni della nuova amministrazione è stata proprio quella di chiedere alla prefettura l’attivazione di un tavolo di lavoro per l’aggiornamento del piano di emergenza. L’assessore ha inoltre evidenziato come sia necessario che la cittadinanza venga adeguatamente istruita su come comportarsi in caso di incidente, in base alla tipologia del rischio. Ma da almeno un decennio nulla di tutto questo viene fatto. Una situazione particolarmente allarmante per una città che è cresciuta e vive a ridosso di uno dei più grandi poli chimici del Paese.
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