Ieri sera, venerdì 17 gennaio, il governo israeliano ha ratificato l’accordo di cessate il fuoco a Gaza. L’approvazione del governo era l’ultimo degli step necessari a rendere ufficiale l’entrata in vigore dell’accordo. Il cessate il fuoco entrerà in vigore a partire da domani alle 8:30 locali (le 7:30 in Italia). Esso prevede tre fasi, di cui solo la prima ben delineata: la fase 1 durerà sei settimane e vedrà una prima serie di scambi di prigionieri tra le parti. Hamas riconsegnerà 33 ostaggi, mentre Israele ha annunciato che rilascerà 737 prigionieri palestinesi. Mentre attende l’entrata in vigore dell’accordo, l’esercito israeliano continua a bombardare Gaza. Dall’annuncio dell’accordo, Israele ha ucciso 122 persone in tutta la Striscia.
Il ddl 1660 lede il diritto di protesta: sei relatori ONU contro l’Italia
Sei Relatori Speciali delle Nazioni Unite hanno scritto una lettera al governo italiano esprimendo preoccupazione per le misure contenute nel disegno di legge 1660, attualmente in discussione al Parlamento. Secondo il loro parere, infatti, le disposizioni contenute nella bozza – con particolare riferimento al reato di occupazione arbitraria e di blocco stradale, oltre che alle aggravanti introdotte per una lunga serie di reati – violerebbero una lunga lista di diritti umani e civili, ponendosi in contraddizione con patti e trattati europei per la tutela dei diritti umani e civili sottoscritti e ratificati dall’Italia. Per tale ragione, i sei Relatori hanno chiesto al governo italiano di modificare o revocare del tutto alcune delle norme contenute nella bozza.
I Relatori si sono soffermati, in particolare, su una dozzina di articoli contenuti nel ddl, a partire dall’art. 1, che preve la reclusione fino a sei anni per chi «si procura o detiene» materiale utile alla preparazione o all’uso di armi al fine di compiere non meglio specificati atti di terrorismo (scritto «con un linguaggio vago ed eccessivamente ampio, rischiando di criminalizzare atti che non sono terroristici»). L’art. 10, che introduce il reato di occupazione arbitraria, insieme all’art. 14 (reato di blocco stradale) contraddice il diritto di protesta pacifica e di compiere atti di disobbedienza civile definito dal Comitato per i Diritti Umani, oltre che ledere il diritto delle persone a protestare pacificamente per questioni legate all’ambiente – il blocco stradale è infatti una tecnica utilizzata spesso da gruppi quali Extintion Rebellion. Per quanto riguarda articoli come il 19 e il 21 (che introducono aggravanti per fatti violenti commessi contro le forze dell’ordine o al fine di impedire la costruzione di «infrastrutture strategiche»), i Relatori fanno notare che il linguaggio utilizzato dai relatori non definisce con chiarezza cosa si intenda con «violenza». In aggiunta a ciò, impedire alle persone di realizzare atti di protesta pacifici in relazione alla realizzazione di infrastrutture strategiche costituisce una ulteriore limitazione del diritto di manifestare.
Secondo l’analisi effettuata dai Relatori ONU, se le norme contenute all’interno della bozza di decreto fossero approvate così come sono violerebbero una lunga serie di normative europee, tra le quali «l’art. 9 (diritto alla libertà e alla sicurezza e la proibizione della detenzione arbitraria), 12 (diritto alla libertà di movimento), 14 (diritto a un giusto processo), 17 (diritto alla privacy), 19 (diritto alla libertà di espressione e opinione), 21 (libertà di riunione pacifica) e 22 (libertà di associazione) del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR)». Il testo potrebbe anche contenere violazioni degli obblighi dell’Italia specificati all’interno della Convenzione Aarhus (sui diritti dei cittadini alla partecipazione nei processi decisionali e all’accesso alla giustizia sui temi ambientali) della Commissione Economica per l’Europa (UNECE), ratificata dall’Italia nel 2001. Inoltre, notano i Relatori, il rischio è che chi è già discriminato per ragioni di razza, colore della pelle, nazionalità o status migratorio si trovi ad essere enormemente più colpito da questo provvedimento rispetto ad altre persone.
La discussione in merito al nuovo decreto Sicurezza, misura cardine del governo Meloni, è in discussione in Parlamento da qualche mese. La società civile si è in più occasioni mobilitata per chiedere che il governo riveda le sue posizioni e non approvi il decreto, che secondo vari legislatori, ONG e personalità della società civile è profondamente lesivo del diritto al dissenso. Al suo interno sono presenti anche misure alquanto controverse, come l’art. 31, che amplia in maniera significativa i poteri dell’intelligence costringendo alla collaborazione una lunga serie di servizi pubblici – come le università. Parallelamente a ciò, il nuovo decreto amplia in maniera significativa i poteri delle forze dell’ordine, che ora potranno portare con sè, anche fuori servizio e anche senza licenza, le armi di cui all’art. 42 del TULPS (Testo Unico sulla Pubblica Sicurezza), ovvero «rivoltelle o pistole di qualunque misura o bastoni animati la cui lama non abbia lunghezza inferiore a 65 cm». Infine, tra le novità principali introdotte dal disegno di legge vi è il divieto di coltivare e vendere la cannabis light, proibendo il commercio, la lavorazione e l’esportazione di foglie, infiorescenze e di tutti i prodotti che contengono sostanze derivate dalla pianta di canapa – misura che, così per come è concepita, andrà a colpire tutta la filiera di produzione della canapa industriale, mettendo dunque a repentaglio migliaia di posti di lavoro.
[di Valeria Casolaro]
Biden impone restrizioni all’export di chip nei confronti di 120 Paesi nel mondo
Il presidente statunitense Joe Biden, in quella che probabilmente sarà la sua ultima azione politica prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il 13 gennaio ha imposto restrizioni all’esportazione di chip informatici avanzati utilizzati per alimentare l’intelligenza artificiale ad un totale di 120 Paesi nel mondo. Se l’amministrazione Trump non interverrà per abrogare tale decisione, le restrizioni entreranno in vigore tra tre mesi. Le nuove normative limiteranno il numero di chip IA che possono essere esportati nella maggior parte dei Paesi e consentiranno l’accesso illimitato alla tecnologia IA degli Stati Uniti per i più stretti alleati dell’America, mantenendo invece un blocco totale sulle esportazioni verso Cina, Russia, Iran e Corea del Nord. Tra i Paesi esentati dalle restrizioni figurano 10 Stati dell’Unione Europea, Italia inclusa.
Tra i Paesi esenti del ban statunitense figurano: Australia, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Corea del Sud, Spagna, Svezia, Taiwan e Regno Unito. Per quanto concerne invece Cina, Russia, Iran e Corea del Nord, le esportazioni sono completamente vietate. L’UE si è detta «preoccupata» per la decisione dell’amministrazione Biden, che limita l’accesso alle esportazioni di chip avanzati di intelligenza artificiale anche per alcuni dei suoi Stati membri. La piccata reazione di Bruxelles è arrivata con un comunicato congiunto della vicepresidente esecutiva della Commissione Europea, Henna Virkkunen, e del commissario UE per il Commercio, Maroš Šefčovič. «Siamo preoccupati per le misure adottate dagli Stati Uniti che limitano l’accesso alle esportazioni di chip AI avanzati per determinati Stati membri dell’UE e le loro aziende» si legge nel comunicato.
Alle aziende statunitensi che producono ed esportano tecnologia avanzata per l’IA sarà richiesto il rispetto di condizioni rigorose in termini di trasparenza, rendicontazione e sicurezza. In particolare,i fornitori globali come Amazon Web Services e Microsoft, non potranno distribuire più del 50 per cento della potenza di calcolo totale fuori dagli Stati Uniti. «L’intelligenza artificiale sta rapidamente diventando centrale sia per la sicurezza che per la forza economica. Gli Stati Uniti devono agire con decisione per guidare questa transizione assicurandosi che la tecnologia statunitense sostenga l’uso globale dell’intelligenza artificiale e che gli avversari non possano facilmente abusare dell’intelligenza artificiale avanzata. Nelle mani sbagliate, i potenti sistemi di intelligenza artificiale hanno il potenziale per esacerbare significativi rischi per la sicurezza nazionale, anche consentendo lo sviluppo di armi di distruzione di massa, supportando potenti operazioni informatiche offensive e aiutando le violazioni dei diritti umani, come la sorveglianza di massa. Oggi, i Paesi interessati impiegano attivamente l’intelligenza artificiale, inclusa l’intelligenza artificiale prodotta negli Stati Uniti, in questo modo e cercano di minare la leadership dell’intelligenza artificiale degli Stati Uniti», è scritto nella nota rilasciata dalla Casa Bianca, nel merito della decisione adottata dell’amministrazione uscente.
Secondo Politico, la decisione di Biden arriva dopo due importanti eventi che si sono verificati nella comunità scientifico-tecnologica dell’intelligenza artificiale. Il primo riguarda il rilascio dell’ultimo modello di OpenAI, o3, il quale ha ottenuto una positività dell’88% in una serie di test di ragionamento difficili per cui nessun sistema di intelligenza artificiale aveva precedentemente ottenuto un punteggio superiore al 32%. Il secondo evento riguarda invece un’azienda cinese, DeepSeek, la quale ha rilasciato un modello di intelligenza artificiale open source che ha superato qualsiasi modello linguistico open source statunitense. Il risultato avrebbe sorpreso molti ricercatori di intelligenza artificiale e funzionari statunitensi, i quali avevano creduto che la Cina fosse rimasta indietro in termini di capacità di intelligenza artificiale. DeepSeek è riuscita a creare un modello di intelligenza artificiale di livello mondiale nonostante un embargo globale sulla vendita di chip di intelligenza artificiale avanzati alla Cina, posto in essere dal governo degli Stati Uniti. Quindi, estendendo le restrizioni a 120 Paesi nel mondo, gli Stati Uniti cercando di fare in modo che la Cina non posso ottenere la tecnologia statunitense da terze parti. Inoltre, con tale decisione, l’amministrazione Biden tenta reindustrializzare gli Stati Uniti nel settore delle nuove tecnologie, cercando anche di creare migliaia di posti di lavoro.
Resta da capire se la mossa di Biden sarà confermata anche dall’amministrazione Trump o se il presidente eletto la abrogherà. Ci sono però i presupposti che tale mossa venga mantenuta, alla luce della volontà politica di Trump di attuare una specie di protezionismo economico per gli Stati Uniti, sebbene i suoi sostenitori del settore tecnologico, come Elon Musk, potrebbero trovarsi in disaccordo per la limitazione del mercato che subirebbero.
[di Michele Manfrin]
Cuba, bus di turisti anche italiani fuori strada: due morti, vari feriti
Un autobus con a bordo un gruppo di turisti italiani è stato oggetto di un incidente stradale a Cinefuegos, a Cuba, finendo fuori strada. Il minibus, con 16 turisti a bordo di varie nazionalità, sarebbe andato a sbattere contro lo spartitraffico, secondo la ricostruzione dei media locali. Due persone sono decedute nell’incidente: il conducente e la coordinatrice italiana di Avventure nel Mondo, Patrizia Crisolini Malatesta, di 67 anni. Altre due persone sarebbero state ferite e trasportate in ospedale, ma non sarebbero in periocolo di vita. La Farnesina ha riferito che «le dinamiche dell’incidente sono ancora in fase di accertamento».
50 milioni di fondi pubblici per un tunnel sciistico: il controverso progetto Colere-Lizzola
Bucare una montagna, cementificare un’area protetta e costruire infrastrutture in zone a rischio valanghe. È questo ciò che comporta il controverso progetto di collegamento tra le stazioni sciistiche di Colere e Lizzola, due località della Bergamasca distanti circa otto chilometri. Il costo complessivo è stimato in 70 milioni di euro, di cui ben 50 coperti da fondi pubblici regionali. L’iniziativa, promossa dalla società RSI, ha sollevato un acceso dibattito tra sostenitori e oppositori, rendendo evidente il contrasto tra una visione tradizionale del turismo alpino e un futuro più sostenibile. Gli attacchi all’opera sono sfociati in una petizione pubblicata online per mettere in guardia l’opinione pubblica sui danni ambientali, economici e sociali che la sua realizzazione potrebbe comportare.
Il piano, presentato dalla società RSI sei mesi fa, prevede la costruzione di quattro impianti di risalita, un tunnel di 500 metri scavato sotto il Pizzo di Petto e tre nuove piste da sci. Inoltre, si prevede di realizzare un bacino artificiale con una capacità tra i 60 e gli 80mila metri cubi per l’innevamento lungo i nuovi tracciati. Questi interventi interesseranno aree delicate come la Val Sedornia, parte della rete europea Natura 2000, e il Parco delle Orobie bergamasche. Non mancano però rischi geomorfologici: i geologi hanno infatti evidenziato in più punti il pericolo di valanghe. Il progetto ha suscitato forti opposizioni da parte di associazioni ambientaliste, sezioni locali del Club Alpino Italiano (CAI), Legambiente e cittadini riuniti nel comitato terreAlt(r)e. Le organizzazioni sottolineano come il modello dello sci alpino sia sempre meno sostenibile a causa dei cambiamenti climatici. Le stazioni sotto i 2.000 metri di quota sono ormai economicamente e tecnicamente difficili da gestire. La Banca d’Italia stessa scoraggia nuovi investimenti in questo settore. Inoltre, il sistema di innevamento artificiale previsto non solo è energivoro, ma anche poco praticabile, dal momento che il riscaldamento globale riduce i giorni utili per la produzione di neve tecnica.
A fine dicembre, il collettivo TerreAlt(r)e ha lanciato una petizione dal titolo “No al collegamento sciistico Colere Lizzola. Salviamo un’area incontaminata delle Orobie”, che ha ottenuto oltre 8mila firme sul portale Change.org. «L’operazione ad oggi ha un costo di 70 milioni, di cui 50 pubblici, anche se si prevede un incremento dei costi di almeno il 36% – si legge all’interno della petizione -. Il dispendio di energia dovuto a nuovi impianti più potenti e più veloci ricadrebbe sul costo del biglietto, rendendo la fruizione di questo sport sempre più appannaggio di pochi. Il costo non prevede il miglioramento delle infrastrutture per raggiungere i luoghi interessati, e nemmeno lo smantellamento degli impianti una volta arrivati a fine vita. La concessione ad RSI del comprensorio è calcolata in 60 anni». TerreAlt(r)e scrive ancora che l’opera «non risponde al problema dello spopolamento e l’incremento del turismo di massa creerebbe ulteriori disagi alle infrastrutture della valle», aggiungendo che «l’aumento dei prezzi degli immobili inoltre, renderebbe inaccessibile alle persone delle valle l’acquisto e quindi la permanenza sul territorio». Il collettivo chiede dunque che il progetto così come presentato venga interrotto e che siano individuate, in collaborazione con le realtà locali, «risposte più lungimiranti e rispettose dell’ambiente dei territori montani, per garantire servizi essenziali valorizzando l’esistente con costi molto più contenuti rispetto a quelli ipotizzati per il collegamento».
Nonostante le contestazioni, il progetto trova appoggio tra alcuni amministratori locali e rappresentanti politici. Il sindaco di Valbondione, Walter Semperboni, è uno dei più accesi sostenitori. «Senza il collegamento, Lizzola muore e diventa un paese fantasma», ha dichiarato il primo cittadino, che ha sottolineato come le seggiovie esistenti siano obsolete e non vi siano alternative per attrarre investimenti. «Gli impianti servono per destagionalizzare il turismo. D’estate le persone ne possono usufruire, compresi gli anziani e i disabili, che hanno il diritto di godere delle nostre montagne», ha aggiunto, sostenendo che i vantaggi economici superino i costi ambientali. Il collegamento Colere-Lizzola rappresenta un caso emblematico del conflitto tra due visioni della montagna. Da una parte, chi punta su grandi opere per rilanciare il turismo tradizionale; dall’altra, chi invoca un approccio più sostenibile e diversificato. Mentre si attende la conferenza dei servizi che potrebbe dare il via libera definitivo, il dibattito resta acceso.
[di Stefano Baudino]
Caso Visibilia, la ministra Santanchè rinviata a giudizio
La ministra del Turismo Daniela Santanchè (Fratelli d’Italia) andrà a processo per false comunicazioni sociali in merito al caso Visibilia, una delle società del gruppo da lei fondato e dal quale ha dismesso le cariche. Le indagini hanno evidenziato, per l’accusa, presunti bilanci truccati per sette anni, tra il 2016 e il 2022, per nascondere “perdite” milionarie. Santanchè è stata rinviata a giudizio insieme ad altri 16 imputati, tra cui il compagno Dimitri Kunz e la sorella Fiorella Garnero. La ministra è coinvolta anche in un’inchiesta per truffa aggravata all’Inps e indagata per bancarotta dopo i fallimenti delle società Ki Group e Bioera, parte del suo gruppo.
Ponte sullo Stretto, nuova battuta d’arresto: il TAR accoglie il ricorso dei Comuni
Arriva un nuovo ostacolo per il progetto del Ponte sullo Stretto di Messina. Il TAR del Lazio ha infatti accolto il ricorso dei comuni di Reggio Calabria e Villa San Giovanni – i quali avevano contestato che i loro pareri non fossero stati considerati nel processo decisionale – contro l’ok del Ministero dell’Ambiente all’opera. Ai Comuni sarà dunque consentito di presentare nuovi documenti sui possibili impatti ambientali del Ponte sullo Stretto. Il Ministero dei Trasporti e la società Stretto di Messina avevano chiesto l’inammissibilità del ricorso, ma il TAR ha deciso di esaminarlo nel merito. L’udienza è stata dunque rinviata a data da destinarsi, ritardando ulteriormente l’inizio dei lavori.
Il ricorso verte su due elementi chiave: il parere positivo, seppur con 62 prescrizioni, della Commissione tecnico-scientifica per la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), e il verbale conclusivo della Conferenza di servizi, svoltasi presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit). L’avvocato Daniele Granara, legale delle due amministrazioni, ha spiegato che è stato necessario integrare il ricorso principale con motivi aggiuntivi, impugnando i provvedimenti emessi il 23 dicembre scorso dalla Direzione generale per lo sviluppo del territorio del Ministero dei Trasporti. Secondo Granara, infatti, tali atti presentano criticità «sia dal punto di vista formale che sostanziale», compromettendo la legittimità dell’intero progetto. In una nota, i sindaci di Villa San Giovanni e Reggio Calabria hanno ribadito la loro «ferma opposizione nei confronti di un progetto e di una procedura illegittimi», nonché «inutili e dannosi per le realtà territoriali coinvolte». Nonostante il parere VIA abbia dato l’ok al progetto, i ricorrenti sostengono che la decisione sia stata viziata da forzature procedurali. La Conferenza di servizi avrebbe dovuto fungere da momento cruciale per raccogliere le istanze locali, ma, secondo gli amministratori calabresi, molte informazioni fondamentali non sarebbero state condivise. Da qui la richiesta di un approfondimento giudiziario, mirato a chiarire se le procedure siano state condotte nel rispetto delle normative vigenti. Sul fronte opposto, il Mit e la società Stretto di Messina hanno negato qualsiasi irregolarità. Pietro Ciucci, amministratore delegato della società, ha dichiarato che la rinuncia alla fase cautelare da parte dei ricorrenti conferma l’assenza di urgenza nel ricorso. «La Conferenza di servizi istruttori si è svolta seguendo un iter conforme alle disposizioni di legge – ha affermato Ciucci -. Tutti i documenti sono stati resi disponibili nei tempi e nei modi previsti».
Il progetto del Ponte sullo Stretto continua così a dividere. I sostenitori lo vedono come un volano per lo sviluppo del Mezzogiorno e il potenziamento delle infrastrutture nazionali. Gli oppositori sollevano invece dubbi sulla sostenibilità economica e ambientale dell’opera, definendola una priorità mal posta rispetto a problemi infrastrutturali più urgenti, come il miglioramento della rete ferroviaria. La scorsa settimana, il Tribunale di Roma aveva respinto la class action di 104 cittadini contro la realizzazione del Ponte sullo Stretto, dichiarandola inammissibile e imponendo il pagamento di quasi 300mila euro di spese legali ai ricorrenti. Questi ultimi contestavano alla Società Stretto di Messina la violazione di diligenza, correttezza e buona fede nel portare avanti il progetto, ritenuto privo di interesse strategico e non fattibile a livello ambientale, strutturale ed economico. I giudici hanno stabilito che l’azione non è giustificata, poiché non esisterebbero danni ambientali evidenti e la società starebbe agendo secondo la legge. Sono però ancora pendenti altri ricorsi contro l’opera. Oltre a quello dei comuni di Reggio Calabria e Villa San Giovanni, su cui si esprimerà il TAR, c’è anche quello presentato congiuntamente da Legambiente, Lipu e WWF, che sarà esaminato con procedura ordinaria.
[di Stefano Baudino]
USA, razzo SpaceX esplode dopo il decollo: deviati voli aerei
Nella notte, un razzo Starship di SpaceX – società aerospaziale di Elon Musk – si è distrutto nello spazio pochi minuti dopo il lancio dal Texas, obbligando i voli a modificare le rotte sul Golfo del Messico per evitare i detriti. Nella capsula della navicella si è sviluppato un incendio che ha portato alla distruzione del veicolo. Il razzo, senza equipaggio, trasportava un carico di prova di satelliti replica. La perdita di contatto è avvenuta otto minuti dopo il decollo. L’incidente ha causato ritardi negli aeroporti di Miami e Fort Lauderdale e deviazioni di decine di voli. Le operazioni sono ora tornate alla normalità.
Israele ed Hamas hanno firmato ufficialmente il cessate il fuoco
Quando in Italia erano le due del mattino di oggi, 17 gennaio, a Doha i negoziatori di Israele, Hamas, Stati Uniti e Qatar hanno firmato ufficialmente l’accordo per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e per il rilascio degli ostaggi israeliani. La firma è arrivata al culmine di un giorno di estenuanti trattative sugli ultimi dettagli, segnato da nuove stragi compiute dall’esercito israeliano (solo ieri almeno 101 palestinesi sono stati uccisi, tra cui 27 bambini e 31 donne) e da tensioni politiche in Israele, dove una parte della maggioranza di governo si è opposta alla tregua, con manifestazioni di piazza contro il rilascio dei detenuti palestinesi. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato che il gabinetto di sicurezza e il governo israeliano si riuniranno oggi per ratificare l’accordo, che dovrebbe entrare in vigore a partire da domenica.
Secondo gli accordi, la prima fase del cessate il fuoco, al momento l’unica delineata, durerà 42 giorni. L’accordo integrale non è ancora stato divulgato, ma, secondo quanto anticipato da Biden e ricalcando la bozza di cessate il fuoco che era fallita lo scorso maggio (che, per ammissione americana, è la stessa ora approvata), prevede un cessate il fuoco totale, il ritiro delle forze israeliane dalle aree popolate di Gaza, la liberazione di «numerosi» ostaggi, tra cui americani, donne e anziani, il rientro dei civili palestinesi nelle proprie abitazioni e un incremento significativo negli aiuti umanitari. Più precisamente, sono previsti lo scambio di 33 ostaggi israeliani con 250 prigionieri palestinesi, l’ingresso di 600 camion di aiuti al giorno, la riapertura degli ospedali e l’installazione di nuove strutture di emergenza, oltre al ritiro dell’esercito israeliano dal confine di Gaza per una profondità di 700 metri.
Durante questa prima fase del cessate il fuoco sarà discussa la seconda fase, che dovrebbe entrare in vigore al termine dei 42 giorni iniziali di pace. Questa seconda fase prevede il rilascio completo degli ostaggi da parte della resistenza palestinese in cambio della liberazione di ulteriori detenuti palestinesi dalle carceri israeliane, l’attuazione di un cessate il fuoco definitivo e il ritiro totale dell’esercito israeliano. Successivamente, dovrebbe aprirsi una terza fase, dedicata alla definizione di una nuova forma di governo per Gaza che, secondo Israele, in questo appoggiata da USA e Unione Europea, non dovrà più vedere al potere Hamas. Tuttavia, arrivare a questa terza fase si preannuncia estremamente complesso, con il nuovo corso statunitense che sembra voler cercare di forzare le trattative facendo negoziare la leadership di Hamas con la classica “pistola puntata alla testa”, nel tentativo di obbligarla alla resa. Strategia già messa in atto in questa fase di trattative («se Hamas non rilascerà gli ostaggi prima del mio insediamento scatenerò l’infermo su Gaza», aveva detto pochi giorni fa Donald Trump), ma che deve dimostrare di funzionare fino in fondo contro una forza che gode ancora di grande sostegno popolare a Gaza e anche dopo 15 mesi di bombe e massacri israeliani ha dimostrato fino all’ultimo una indomita operatività militare, indebolita ma non certo neutralizzata.
Si vedrà, intanto mentre Joe Biden afferma che Netanyahu deve «trovare un modo per soddisfare le legittime preoccupazioni» dei palestinesi, e l’Europa annuncia 120 milioni di aiuti per Gaza e rilancia sulla necessità di dare uno Stato ai palestinesi, da parte della nuova amministrazione Trump ci si limita a mandare messaggi di appoggio a Netanyahu, con il nuovo segretario di Stato, Marco Rubio, che ha assicurato che quella entrante sarà «l’amministrazione americana più filo-israeliana della storia».