mercoledì 29 Ottobre 2025
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Il Pakistan nominerà il primo ambasciatore in Afghanistan in quattro anni

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Il ministro degli Esteri del Pakistan, Ishaq Dar, ha annunciato che il Paese designerà un nuovo ambasciatore di Islamabad in Afghanistan, il primo da quando Kabul è andata sotto il controllo dei talebani nel 2021. In questo momento, infatti, le massime figure diplomatiche che legano i due Paesi sono i rispettivi incaricati d’affari. Il Pakistan non ha ancora reso noto chi nominerà ambasciatore. Dar ha affermato che le relazioni bilaterali tra i due Paesi sono migliorate a partire dalla sua visita in Afghanistan, risalente al mese scorso. Con tale annuncio, il Pakistan diventa il quarto Paese ha designare un ambasciatore in Afghanistan dopo Cina, Emirati Arabi Uniti e Uzbekistan.

Le banane biologiche contengono pesticidi? Facciamo chiarezza

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Le banane sono un frutto gradito a moltissime persone, ma negli ultimi tempi la credibilità di questo alimento viene messa in discussione su vari fronti, dal punto di vista nutrizionale e ambientale. C’è chi sostiene sia un frutto da eliminare a causa del suo elevato contenuto zuccherino (in realtà contiene né più né meno gli zuccheri di una mela gialla Golden, niente di esorbitante), altri ritengono che le coltivazioni di banane, anche quelle BIO, siano inondate di pesticidi e dunque l’alimento sia nocivo o comunque da limitare fortemente, e infine ci sono i detrattori per motivi di tipo ambientale: sostengono che le banane arrivano da molto lontano e quindi inquinano il pianeta. 

Quest’ultima motivazione è sicuramente vera e non contestabile, a patto però che chi la formula sia coerentemente una persona che si limiti a mangiare soltanto la frutta e verdura locale e di stagione. Perché in caso contrario, se acquista l’uva nel mese di Marzo, oppure fragole e zucchine in inverno, allora il ragionamento sulla sostenibilità e impatto ambientale decade completamente, dal momento che il cibo fuori stagione arriva anch’esso dall’altra parte del mondo e richiede coltivazioni in serre riscaldate a gasolio, niente di più ecologico rispetto alle banane che giungono dall’Ecuador insomma. 

Da un punto di vista strettamente salutistico quindi molte persone sono oggi interessate a consumare frutti e verdure che non vengano trattati coi pesticidi e fertilizzanti chimici, dal momento che la scienza ci avverte da tempo che i residui di queste sostanze, presenti nei cibi, possono contribuire allo sviluppo di patologie di vario tipo e all’infiammazione dell’organismo. Ecco perché i consumatori più attenti vorrebbero avere dati rassicuranti sulla produzione della frutta biologica e l’assenza di residui di pesticidi chimici. Da sempre purtroppo si diffondono in rete sospetti e notizie infamanti sul BIO, e i consumatori finiscono per essere preda di affermazioni e notizie confuse e discordanti. Tutto ciò non può fare altro che generare sconforto e perdita di fiducia nelle coltivazioni biologiche, e si finisce per pensare che il cibo BIO è solo un’illusione o una truffa, e in realtà sia trattato con pesticidi e altre sostanze tossiche al pari di quello convenzionale. Con questo articolo mi accingo a dare delle informazioni che smentiscono quest’idea errata sul BIO, e vedremo come vi sia una reale differenza qualitativa delle banane biologiche rispetto a quelle che provengono da coltivazione convenzionale. 

I test di laboratorio sui pesticidi

Abbiamo sempre bisogno di dati certi e numeri per poter dimostrare ciò che ha una valenza oggettiva in fatto di qualità degli alimenti, al di là delle affermazioni della teoria e delle normative di legge previste sulla carta per le produzioni biologiche. Ciò che conta alla fine sono sempre i dati riscontrati sull’alimento. Ecco perché mi avvalgo dei test effettuati sulla banane – sia quelle biologiche che quelle convenzionali – dal mensile Il Salvagente, rivista leader nei test di laboratorio contro le truffe ai consumatori, pubblicati sul numero di febbraio 2022. Questo test sulle banane aveva come titolo Cosa resta sotto la buccia e vorrei partire proprio dal titolo facendo notare ai nostri lettori come i residui di sostanze pesticida siano stati misurati nel frutto e non nella buccia. Questi test sono molto accurati perché ci dicono se ci sono sostanze tossiche nella parte edibile del frutto, quella che poi noi tutti mangiamo e alla quale siamo interessati, dal momento che la buccia è spesso la parte che non viene consumata in alcun modo. 

Il primo appunto importante da farci dunque è il seguente: i pesticidi sono stati ritrovati nella polpa della banana di quasi tutti i campioni testati. Quasi tutte le banane hanno evidenziato la presenza di residui di uno o più pesticidi (anche fino a 6 pesticidi diversi in alcuni casi). Quasi tutti dicevo, perché guarda caso alcuni campioni di banane biologiche non avevano alcun residuo di pesticidi, mentre tutte la banane da agricoltura convenzionale portate in laboratorio avevano i pesticidi. In pratica le banane testate sono state quelle di marchi diversi, vendute in supermercati e discount italiani, 20 campioni in tutto. Il secondo appunto da farci è questo: purtroppo le banane sono un frutto che non fa eccezione e hanno residui di pesticidi, specialmente se acquistiamo quelle non biologiche, dove il 100% dei prodotti in commercio è contaminato da pesticidi tossici come Tiabendazolo, Imidacloprid o l’acido gibberellico (quest’ultimo è un ormone per la crescita e la maturazione del frutto), sebbene i valori riscontrati dai test siano stati in tutti i casi sotto ai limiti di legge consentiti.  

Le banane biologiche e i pesticidi naturali

Veniamo al nocciolo dei test effettuati in laboratorio e in particolare concentriamoci sulle banane BIO, assodato che il 100% delle banane da agricoltura convenzionale contiene residuo di pesticidi e ormoni per la maturazione del frutto, come emerso anche da altri test precedenti effettuati ad esempio in Svizzera da un’altra rivista dei consumatori chiamata K-tipp. In questo test svizzero notiamo fra l’altro come nessuna banana BIO avesse residuo di pesticidi nella polpa del frutto. 

Tornando al test italiano de Il Salvagente, va detto subito che in due prodotti BIO sono state trovate tracce di pesticidi proibiti e non ammessi per il BIO: si tratta di 2 banane biologiche di due importanti catene della Grande Distribuzione: la francese Carrefour e l’italiana Esselunga. Due casi che non trovano scusanti, in questi prodotti i pesticidi chimici non devono essere presenti in alcun modo. Le due aziende hanno preso impegni per rimuovere completamente i pesticidi dalle filiere del loro prodotto biologico. Staremo a vedere. 

Poi ci sono stati 2 marchi BIO che hanno mostrato la presenza di un pesticida naturale, lo Spinosad, ovvero di una sostanza consentita nella normativa del biologico per allontanare gli insetti che attaccano le piante di banane. Parliamo però di pesticidi naturali, ben diversi da quelli chimici (mai ammessi nel BIO), che possono essere utilizzati e che hanno caratteristiche di tossicità differenti dai pesticidi chimici di sintesi. Lo Spinosad è una sostanza di origine naturale ad azione insetticida derivata dalla fermentazione provocata dal batterio Saccharopolyspora spinosa, appartenente all’ordine degli Actinomiceti, batteri con caratteristiche simili ai funghi. Questo prodotto è una neurotossina e quando gli insetti entrano in contatto con la sostanza o la ingeriscono, i loro muscoli iniziano a flettersi involontariamente, poiché interferisce sulla trasmissione degli impulsi nervosi. Ciò provoca paralisi in tempo breve e morte nel giro di alcuni giorni. Gli agricoltori biologici utilizzano a volte questo pesticida naturale, diffondendo sui terreni il batterio responsabile della fermentazione. Il limite massimo previsto dal disciplinare di produzione BIO per questa sostanze è di 2 mg/kg e nelle banane BIO in cui è stato ritrovato il valore era di 0,005 mg/Kg, ovvero 400 volte inferiore al limite di legge. 

Possiamo dire tranquillamente in questo caso che il pesticida naturale è del tutto legittimo e non comporta alcun rischio per la salute del consumatore. Infine, altri 3 marchi BIO di banane non avevano assolutamente nessun residuo di alcuna sostanza pesticida, né chimico né naturale. Ribadisco invece che tutti i campioni di banane non biologiche avevano residui di più sostanze pesticida. 

Da qui la conclusione che possiamo trarre, come messaggio finale, è che le coltivazioni biologiche sono ancora una buona garanzia di prodotto privo di pesticidi, e che chi getta fango nel cibo BIO potrebbe avere interessi legati alla grande industria delle produzioni intensive, che non può certo fare a meno di usare sostanze tossiche e ormoni nelle coltivazioni. La credibilità del BIO, inevitabilmente, è legata ai dati oggettivi e alle percentuali di confronto con le produzioni convenzionali: in media il 96% delle produzioni convenzionali di frutta e verdura presenta i residui di pesticidi (anche fino a 10-12 molecole diverse in uno stesso frutto, nel caso di mele o di alcuni ortaggi), mentre il 98,17% delle produzioni BIO non presenta nessun residuo, e spesso quando lo si ritrova è dovuto a contaminazioni accidentali, tipicamente da trasporto di sostanze per via del vento, provenienti dai trattamenti di produttori vicini che spruzzano i pesticidi nei loro campi e coltivano col metodo convenzionale. Questi sono i dati con cui ad oggi, da consumatori, dobbiamo fare i conti e trarre le nostre conclusioni sulle scelte di acquisto.

Nigeria, inondazione sommerge una città: 117 morti

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Almeno 117 persone sono morte nello Stato centro-settentrionale del Niger, in Nigeria, a causa di una grave inondazione. L’inondazione si è verificata ieri, giovedì 29 maggio, nella città di Mokwa e il primo dato sui danni è stato fornito oggi dalle Ibrahim Hussaini, capo dell’Agenzia per la Gestione delle Emergenze dello Stato nigeriano del Niger. Da quanto comunica Hussaini, ci sarebbero diversi dispersi, e diverse case sarebbero state sommerse. I primi rapporti non fornivano il numero di dispersi, ma parlavano di almeno 50 case distrutte. Secondo delle ricostruzioni apparse sui media, l’inondazione sarebbe stata causata dal crollo di una diga di una città vicina.

Israele ha approvato la costruzione di 22 nuove colonie illegali su terre rubate ai palestinesi

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Israele ha approvato la costruzione di altre 22 colonie illegali sul territorio palestinese in Cisgiordania. La notizia è arrivata dal ministero della Difesa israeliano e si colloca all’interno di una iniziativa del ministro della Difesa israeliano Israel Katz e del ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, che promuovono da tempo il progetto di espansione coloniale di Israele. Questo, si legge in un comunicato del ministero ripreso dai media israeliani, consiste «in una visione strategica a lungo termine, il cui obiettivo è rafforzare la presa israeliana sul territorio, evitare la creazione di uno Stato palestinese e creare le basi per il futuro sviluppo degli insediamenti nei prossimi decenni». Israele continua così a strappare con la forza i territori palestinesi al loro legittimo popolo, violando apertamente leggi e risoluzioni internazionali, alcune delle quali vincolanti, che dichiarano illegali gli insediamenti e la pratica di espansione coloniale.

La notizia dell’approvazione della costruzione di nuovi insediamenti da parte di Israele è arrivata giovedì 29 maggio. Da quanto si apprende dai media israeliani che hanno visionato il testo, registrato come classificato, tra le 22 nuove colonie ci saranno Homesh e Sa-Nur, due ex insediamenti evacuati nel 2005 insieme al disimpegno di Israele dalla Striscia di Gaza, quando fu approvata una legge che proibiva agli israeliani di entrare in quella parte della Cisgiordania settentrionale. Nei vent’anni che hanno seguito il ritiro israeliano, si sono verificati ripetuti tentativi di ristabilire la presenza dei coloni negli insediamenti evacuati, e l’anno scorso la legge che proibiva agli israeliani di entrare nella zona è stata abrogata, aprendo la strada al reinsediamento coloniale. La lista dei nuovi insediamenti comprende anche quattro nuove comunità lungo il confine con la Giordania, e l’ampliamento di quelli che vengono definiti “avamposti”, territori dove i coloni si insediano spontaneamente erigendo abitazioni e costruendo infrastrutture, prima di ottenere il riconoscimento del governo israeliano. Negli ultimi anni, il lavoro di Smotrich, spalleggiato da Katz, si è concentrato proprio sul riconoscimento e l’ampliamento degli avamposti coloniali.

Il Jerusalem Post, basandosi sulla mappa delle nuove colonie condivisa dallo stesso Smotrich, spiega che i nuovi insediamenti costituiranno una «cintura di sicurezza» attorno ai territori palestinesi considerati più «pericolosi». L’agenzia di stampa Israel Hayom riporta che le nuove colonie nella Valle del Giordano, «un luogo che le valutazioni indicano come una delle principali vie attraverso cui l’Iran introduce di contrabbando equipaggiamento militare attraverso la Giordania nella Samaria settentrionale», saranno gestite dai veterani di guerra che hanno prestato servizio in prima linea durante il genocidio a Gaza. Sembra inoltre che il governo voglia utilizzare i nuovi insediamenti per rafforzare la presenza israeliana lungo la strada 443, che collega Gerusalemme e Tel Aviv. Dalle dichiarazioni politiche e dalle ricostruzioni dei media, insomma, lo scopo dei nuovi insediamenti sembra chiaro: essi, servirebbero, da una parte, a consolidare e rafforzare la presenza israeliana sul territorio e, dall’altra, a isolare le città palestinesi. Gettando un rapido sguardo alla mappa condivisa da Smotrich si nota infatti come quattro dei nuovi insediamenti verranno posti tra Tulkarem e Jenin, uno a nord di Nabuls, due tra Ramallah e Gerico e tre attorno a Hebron.

L’annuncio della costruzione di nuove colonie da parte di Israele è stato accompagnato da un assoluto silenzio delle istituzioni Occidentali. Eppure, sono diverse le risoluzioni e le sentenze che dichiarano illegale la presenza israeliana nei Territori Palestinesi Occupati, chiedendo che gli Stati prendano posizione per impedirla e disincentivarla. La risoluzione 446 del Consiglio di Sicurezza del 1979, dal valore vincolante, definisce gli insediamenti privi di «validità giuridica», sostiene che la pratica costituisce una «flagrante violazione del diritto internazionale», e chiede a Israele di interromperla. La risoluzione 2334 del 2016, la più recente tra le vincolanti, reitera questi stessi punti. La costruzione di insediamenti da parte dei coloni è una pratica che viene portata avanti mediante l’uso della violenza, cacciando con la forza i palestinesi dalle proprie case, abbattendo le loro abitazioni con le ruspe, arrestando la popolazione, minacciandola – o sparandole – con i fucili, organizzando raid contro i residenti, uccidendo il bestiame delle comunità locali. Tutte queste pratiche sono ampiamente documentate da organizzazioni umanitarie, da inchieste giornalistiche, ONG (anche israeliane) e dalle stesse istituzioni internazionali come l’ONU. Secondo organizzazioni umanitarie, al solo 2017 e nella sola Cisgiordania, erano presenti oltre 200 colonie abitate da almeno 620mila coloni.

In tutta Italia aumentano le mobilitazioni contro le nuove norme sulla caccia

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Le nuove norme promosse dal governo Meloni sulla caccia, ispirate dal ministro Francesco Lollobrigida, sono finite nel mirino della società civile, che con molteplici iniziative sta contestando i piani dell’esecutivo. Le nuove misure, che devono ancora passare in Consiglio dei Ministri, mirano a stravolgere radicalmente il quadro normativo esistente: estensione delle aree cacciabili, liberalizzazione delle catture di richiami vivi, apertura di nuove concessioni perfino sui litorali demaniali e la possibilità di sparare fino a notte fonda e in periodo di nidificazione sono solo alcuni dei punti più controversi del disegno di legge. Critici e associazioni animaliste lanciano l’allarme su un potenziale scenario di «caccia selvaggia», denunciando l’impatto devastante sulla biodiversità, la sicurezza dei cittadini e l’immagine turistica del Paese.

Tante sono le iniziative da segnalare. Centrale è il ruolo che sta svolgendo il WWF nella mobilitazione, con il lancio della petizione #StopCacciaSelvaggia, che ha già visto la firma di oltre 30mila persone. «Il Governo vuole stravolgere le regole sulla caccia: più mesi per sparare, aumento delle specie cacciabili, meno aree protette, fucili anche in spiaggia e nei boschi, migliaia di uccelli catturati rinchiusi a vita in gabbia, meno libertà di vivere in natura», scrive l’organizzazione, parlando di «una legge pericolosa che mette a rischio animali già vulnerabili e trasforma la natura in un campo di tiro». Negli scorsi giorni, inoltre, Italia Nostra – associazione non-profit italiana che si occupa di tutela, promozione e valorizzazione del patrimonio culturale, storico e artistico del Paese – ha indirizzato un appello formale al Presidente Sergio Mattarella: «La prospettiva descritta dalla nuova legge sulla caccia di animali uccisi tutto l’anno e in ogni luogo e l’inevitabile previsione di nuovi incidenti di caccia solleva interrogativi profondi sulla nostra coscienza collettiva e sul rispetto per la vita umana ed animale – si legge nel testo che gli organizzatori invitano a inviare al Capo dello Stato tramite l’apposito form -. Viviamo in un’epoca in cui la sostenibilità e la tutela della biodiversità dovrebbero essere al centro delle nostre politiche, eppure questa nuova norma sembra andare in direzione opposta. […] Le chiedo con forza di “bloccare” l’entrata in vigore di questa norma sulla caccia selvaggia, che potrebbe avere conseguenze devastanti per la nostra fauna, per l’ecosistema e per le nuove generazioni».

Oltre 1.600 cittadini hanno inoltre firmato una petizione online per chiedere chiarezza sul rapporto tra il ministro Lollobrigida e le lobby venatorie. I promotori accusano il governo Meloni di aver favorito, fin dall’inizio della legislatura, i cacciatori a scapito della fauna selvatica con provvedimenti a ripetizione, norme “ad personam” e un apparente disprezzo per gli obblighi europei in materia di conservazione. La petizione denuncia il tentativo di silenziare il dibattito pubblico e di imporre misure drastiche senza alcuna consultazione con ecologisti, enti locali e semplici cittadini. Un’altra petizione è stata poi lanciata dall’Associazione Bearsandothers, che in una lettera aperta alla premier Giorgia Meloni ha messo in luce il contrasto tra la promessa di tutela ambientale del governo e le misure di fatto più permissive mai viste in un testo unico sulla caccia. «É una proposta di legge, devastante, dirompente, che liberalizza il bracconaggio e addirittura prevede penalizzazioni per chi lo contrasta visto che diventerebbe legale: un vero e proprio ritorno al medioevo, dove tutto era lecito e permesso, sponsorizzato dal governo italiano che vuole accaparrarsi i voti della lobby dei cacciatori e dei costruttori di armi», hanno scritto in un comunicato i proponenti. «È necessario attivarsi in ogni dove e presso l’Europa per fermare questa proposta di legge, che è anticostituzionale, visto che all’articolo 9 della costituzione, dopo decenni di lotta si è riusciti a fare immettere il concetto di rispetto della biodiversità», conclude l’associazione.

In ultimo, occorre ricordare che già da marzo è partito l’iter della raccolta firme per un referendum volto ad abrogare l’Art. 19 Ter, che renderebbe di fatto legale la caccia in ogni area del Paese. L’obiettivo della campagna, che al momento vede 32.700 a fronte delle 500mila richieste, è restituire milioni di ettari di bosco e campagna alle famiglie e agli escursionisti, che oggi temono di imbattersi in “zone di guerra” frequentate da cacciatori. Salvare la vita degli animali selvatici – sottolineano gli organizzatori – significa anche proteggere il diritto di ciascuno a passeggiare nei boschi, raccogliere funghi o castagne in tranquillità, senza il timore di piombate indiscriminate. Parallelamente, è inoltre possibile sottoscrivere la proposta che si pone la finalità di vietare la caccia nei fondi privati andando a modificare l’Art. 842 Codice Civile, che attualmente prevede l’ingresso dei cacciatori nei fondi privati anche senza l’autorizzazione del proprietario.

Istat: cala l’inflazione ma sale il carrello della spesa

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Nelle stime preliminari messe nero su bianco dall’Istat, nel mese di maggio l’inflazione scende all’1,7% dall’1,9% di aprile. Il rallentamento risente del calo dei prezzi energetici, degli alimentari non lavorati e di alcune tipologie di servizi. L’inflazione di fondo scende al 2% a maggio dal 2,1% di aprile. Continua invece a salire il carrello della spesa, attestandosi al 3,1% dal 2,6% di aprile. «Un sostegno alla dinamica dell’inflazione si deve alla decisa accelerazione dei prezzi degli alimentari lavorati (+3,2% da +2,2%), che traina il “carrello della spesa”», scrive l’Istituto nazionale di statistica.

La crisi dell’auto spinge la Volvo a tagliare il 15% della forza lavoro

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In una mossa già anticipata a fine aprile, ieri la casa automobilistica Volvo ha annunciato il taglio di 3.000 posti di lavoro come parte di un vasto piano di riduzione dei costi dovuto alla crisi che sta affliggendo la compagnia, così come tutto il settore automobilistico europeo. Infatti, i licenziamenti arrivano mentre la casa automobilistica cerca di resuscitare il suo prezzo azionario e aumentare la domanda, ristrutturando parte della sua attività. La maggior parte dei tagli dovrebbe colpire i lavoratori svedesi e, nello specifico, i così detti “colletti bianchi” che lavorano negli uffici della casa automobilistica, i quali rappresenterebbe la maggior quota di dipendenti, anche più degli operai.

Il piano di ristrutturazione della casa automobilistica, che dal 2010 è di proprietà del conglomerato multinazionale cinese Geely Holding, le permetterà di risparmiare fino a 1,9 miliardi di euro. Parte integrante di questo piano è il licenziamento di 3000 lavoratori, un 40% dei quali è formato da “colletti bianchi”, ovvero coloro che lavorano nei vari uffici, specie nella comunicazione e nelle risorse umane. Volvo ha una forza lavoro globale che si aggira sulle 44.000 unità, di cui 29.000 in Europa. Nel primo trimestre, la compagnia ha registrato un utile operativo di 175 milioni di euro rispetto ai 433 milioni dello stesso periodo dell’anno precedente. Le azioni della casa automobilistica sono scese molto nell’ultimo periodo, con ribassamenti che sono arrivati anche al 10% prima di risalire, senza però riguadagnare il calo avuto. Per rialzare il suo valore, l’azienda ha anche messo a punto un piano di riacquisto delle proprie azioni. Tra le cause della crisi di Volvo c’è quindi il suo valore azionario in discesa, il calo delle vendite, il collasso del mercato dei veicoli elettrici sui cui Volvo aveva puntato tutto.

Il CEO di Volvo, Hakan Samuelsson, che è stato recentemente riportato in quel ruolo dopo aver diretto l’azienda per un decennio fino al 2022, ha fatto riferimento alla forte competizione nel mercato dell’auto elettrica, senza però citare la Cina – regina incontrastata in questo segmento della produzione automobilistica. Eppure Volvo intende diventare una casa automobilistica interamente elettrica. «Con cinque auto completamente elettriche (EV) già sul mercato e altri cinque modelli in fase di sviluppo, l’elettrificazione completa rimane un pilastro fondamentale della strategia di prodotto di Volvo Cars. Il suo obiettivo a lungo termine rimane quello di diventare un’azienda automobilistica completamente elettrica e mira anche a raggiungere zero emissioni nette di gas serra entro il 2040», è scritto sul sito della casa automobilistica.

L’incertezza del mercato europeo, già in forte crisi da un paio di anni in primis per la forte concorrenza cinese, è anche dovuta alle minacce tariffarie di Trump che ha proposto, e poi sospeso, una tariffa del 25% sull’importazione di veicoli all’interno degli Stati Uniti. «Abbiamo bisogno di tornare a una sorta di accordo commerciale con gli Stati Uniti. Altrimenti, questo sarà ovviamente molto difficile per il business negli Stati Uniti», ha detto Samuelsson. Per quanto concerne la crisi generale dell’auotomotive europeo, per cui l’UE ha deciso di rivedere in grossa parte gli obiettivi del Green Deal e della transizione ecologica, il CEO di Volvo ha detto: «L’industria automobilistica è nel bel mezzo di un periodo difficile. Per affrontare questo problema, dobbiamo migliorare la nostra generazione di flussi di cassa e ridurre strutturalmente i nostri costi».

La crisi è profonda e persino i grandi e prestigiosi marchi europei, come quelli tedeschi e così adesso Volvo, sono costretti a tagliare per cercare di rimanere al passo con la concorrenza spietata del mercato globale dei veicoli. Ovviamente i primi a rimetterci sono sempre i lavoratori.

Lo sfruttamento è di moda: le bugie di Dior, Armani, Valentino e altri marchi del lusso

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Dopo i casi dei mesi scorsi che hanno coinvolto Armani, Dior e Alviero Martini, questa volta sotto i riflettori è finito Valentino. Il Tribunale di Milano, nel corso di un’indagine sullo sfruttamento lavorativo nella filiera produttiva del marchio, ha disposto l’amministrazione giudiziaria per Valentino Bags Lab Srl, società controllata direttamente da Valentino Spa. Le accuse non sono di sfruttamento “diretto”, ma di omissione di controllo e “modelli organizzativi inadeguati”. Ignorando quanto accadeva nelle società subappaltatrici, senza effettuare i dovuti controlli e le necessarie verifiche delle condizioni di lavoro, la società si sarebbe resa complice. Quella di mettere la testa sotto la sabbia è d’altronde una strategia diffusa tra i marchi: per ridurre al massimo i costi e aumentare i profitti, si appaltano i lavori ad aziende che sfruttano la manodopera, poi, quando la vicenda viene a galla, la grande casa di turno afferma sistematicamente che non ne sapeva nulla e che non è colpa sua se il committente è uno sfruttatore. 

L’inchiesta, infatti, ha messo in luce una filiera in cui aziende subappaltatrici erano gestite da imprenditori cinesi che impiegavano manodopera in condizioni ben oltre il limite dell’umanità: senza contratti, senza alcuna tutela, con turni lunghissimi e stipendi ben al di sotto del minimo legale, il tutto in ambienti privi delle più fondamentali norme di sicurezza.

Frammentare all’infinito la catena produttiva, fingendo di non sapere dove (e come) siano prodotti i propri capi o accessori, non è più credibile per una casa di moda con fatturati da oltre un miliardo e mezzo di euro, gestita da una holding (Qatar Mayhoola Investment). Ma, in generale, non è più ammissibile a nessun livello di questo sistema, ormai al collasso, chiamato Moda.

Facendo finta di non vedere, si è comunque complici. E questa cecità volontaria non sta portando a nulla di buono o costruttivo. Anzi. Le torri d’avorio stanno crollando sotto il loro stesso peso, mostrando a tutti il re. Nudo.

Un punto di non ritorno, iniziato negli sweatshop agli inizi del ’900, e che si sta perpetuando fino ai nostri giorni a tutti i livelli: il sistema moda, ormai, è un colabrodo. La filiera produttiva italiana è messa malissimo, con sempre più aziende costrette a ricorrere agli ammortizzatori sociali, quando non addirittura a chiudere; quelle che sopravvivono lo fanno costantemente strozzate dai loro committenti, che ancora non si vergognano di giocare al ribasso contrattando sui centesimi di euro mentre evadono il fisco. Subappalti opachi, controlli inesistenti, lavoratori invisibili. Storiche realtà, fiori all’occhiello di quello che una volta era l’orgoglio del Made in Italy, abbandonate e dimenticate da tutti, soprattutto da quella politica che dovrebbe impiegare risorse per risollevare il settore, ma che praticamente è assente. Il tutto mentre si punta il dito solo sul fast fashion, responsabile sì di danni ambientali e disuguaglianze sociali, ma come tutti gli altri.

Eppure, lo show deve andare avanti. E mentre sfilano le collezioni cruise in piazze improbabili (come quella di Santo Spirito, sottratta ai cittadini di Firenze e messa in vendita per un discutibile defilé di Gucci), la stampa di settore distrae con gossip sull’ennesimo giro di direttori creativi – anche questo un chiaro sintomo di marchi in crisi che non sanno più a chi appellarsi per rianimare le vendite – mentre le fondamenta tremano a colpi di inchieste, controlli, confessioni e testimonianze di chi non ne può più di questa ipocrisia diffusa. Ed è pronto a gridare al mondo che la moda, senza etica e senza giustizia, non può più andare avanti. Un sistema nuovo potrà rinascere, sì, ma solo sulle ceneri di quello precedente.

Milano: maschera de La Scala licenziata per avere urlato “Palestina libera”

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Una maschera del teatro milanese La Scala è stata licenziata per avere urlato “Palestina libera” e tentato di srotolare uno striscione prima di un concerto lo scorso 4 maggio. La notizia arriva dalla sigla sindacale CUB, che ha attaccato i vertici del teatro per la loro decisione. «Evidentemente per la direzione ha detto qualcosa da punire severamente», critica il sindacato. Il teatro non ha commentato l’accaduto, ma ha confermato la decisione di licenziare la lavoratrice. La donna, 24 anni, aveva scelto di manifestare il proprio supporto per la Palestina mentre faceva ingresso a teatro la premier Giorgia Meloni.

Carceri: sovraffollamento record, il 2024 è stato l’anno con più suicidi di sempre

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La situazione delle carceri italiane è sempre più drammatica: a fronte di una capienza reale di 46.700 posti, al 30 aprile 2025 i detenuti sono 62.445, con un tasso di sovraffollamento medio del 133%. Lo ha attestato il nuovo rapporto di Antigone dal titolo “Senza Respiro”, che ha chiarito come solo 36 istituti su 189 non siano sovraffollati, mentre in 58 il tasso superi il 150%. Il 2024 è stato l’anno peggiore di sempre per i suicidi in carcere, con 91 morti, mentre nei soli primi cinque mesi del 2025 se ne sono verificati 33. Anche le carceri minorili registrano criticità: 611 giovani detenuti, +54% in due anni. Il decreto Caivano ha favorito il trasferimento punitivo di neomaggiorenni negli istituti per adulti (189 casi nel 2024). Inoltre, Antigone denuncia gli effetti del decreto Sicurezza, che abolisce l’obbligo di rinviare la detenzione per madri con figli piccoli e introduce la possibilità di separarli.

La ricerca conferma che il numero di suicidi verificatisi dietro le sbarre nel 2024 è il più alto dal 2002, anno di inizio del monitoraggio. Una tendenza mortale che pare inarrestabile, se stiamo alle cifre dei primi mesi del 2025. 62 di questi suicidi sono avvenuti nei primi sei mesi di detenzione, di cui 11 nella prima settimana, fase in cui il detenuto è spesso lasciato solo in reparti fatiscenti e chiusi. Il tasso di suicidi è passato a 14,8 casi ogni 10mila detenuti, il valore più alto mai osservato, 25 volte superiore a quello della popolazione esterna. Allarme rosso anche per il totale dei decessi: 246 morti in detenzione nel 2024, tra suicidi e altre cause, un primato negativo per l’intero sistema penitenziario italiano. Per quanto concerne il sovraffollamento, sono ben 58 le strutture carcerarie che viaggiano oltre il 150% di occupazione. Tra le più critiche, ci sono Milano San Vittore (220%), Foggia (212%) e Lucca (205%)

Su un totale di 95 istituti esaminati da Antigone, 47 si trovano in aree extraurbane e 48 in contesti urbani. Tra questi ultimi, soltanto 8 sono stati costruiti recentemente, mentre 19 risalgono a prima del 1.900. In 30 strutture sono state riscontrate celle dove non erano garantiti i 3 metri quadrati calpestabili per persona. In 12 istituti mancava il riscaldamento nelle celle e in 43 non era disponibile l’acqua calda. In 53 strutture le celle erano prive di doccia, e in 4 casi il wc non era collocato in un ambiente separato. Quanto agli spazi comuni, in 40 istituti, sebbene presenti biblioteche, queste non erano fruibili come spazi condivisi. In 4 strutture mancavano aree riservate alla scuola, tra cui 2 case di reclusione. In 20 non esistevano spazi per attività lavorative, in 12 non vi erano aree per la socialità all’interno delle sezioni detentive e in 24 mancavano cortili per il passeggio distinti per ciascuna sezione.

Un allarme serio si registra in riferimento alle strutture penali per minori, che secondo il rapporto sono «a un passo dall’implosione». Al 30 aprile 2025 i giovani ristretti erano 611 (di cui 27 ragazze), contro i 381 del 2022 e i 587 di fine 2024, con un aumento del 54% in due anni. Il Decreto Caivano ha aggravato la crisi, trasferendo 189 ultra-diciottenni negli istituti per adulti – l’80% in più rispetto al 2022 – interrompendo i percorsi rieducativi. Ben 9 IPM su 17 superano la capienza (alcuni quasi al 200%): il Beccaria di Milano e l’IPM di Quartucciu a Cagliari toccano il 150%, Firenze il 147%. I giovani detenuti stranieri, per quasi l’80% provenienti dal Nord Africa, quasi sempre minori stranieri non accompagnati – costituiscono il 49,9% del totale delle presenze. I minorenni detenuti sono il 62,1%. Il 65% dei ragazzi in carcere sono in custodia cautelare, una percentuale che sale all’81,4% se consideriamo i soli detenuti minorenni. Anche nelle carceri minorili il sovraffollamento e la deprivazione umana favoriscono il ricorso massiccio a benzodiazepine e antipsicotici: a Torino nel 2024 è aumentato del 64% rispetto al 2022, a Nisida l’incremento è del 352% in tre anni, a Pontremoli di oltre il 1.000%.

Antigone punta inoltre il dito contro il “Decreto Sicurezza” che proprio ieri ha ottenuto il via libera della Camera ed è ora all’esame del Senato. «Il cosiddetto decreto legge sicurezza emanato dal governo ad aprile ha cancellato l’obbligo del rinvio dell’esecuzione della pena per donne incinte o con prole inferiore a un anno di età, che da oggi potranno dunque entrare in carcere aumentando il numero di bambini dietro le sbarre – mette nero su bianco l’Associazione -. Si introduce inoltre per la prima volta la possibilità che il bambino venga sottratto alla madre: il decreto prevede che la donna sottoposta alla custodia cautelare in un Icam possa venire trasferita in chiave punitiva in un carcere ordinario senza suo fi glio quando la sua condotta non è considerata adeguata». «Sorprende – si legge ancora nel documento – che la rubrica dell’articolo parli di “condotte pericolose realizzate da detenuti in istituti a custodia attenuata per detenute madri”, declinando al maschile il sostantivo quando gli Icam ospitano solo donne».