martedì 1 Luglio 2025
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L’Ecuador inserisce la tutela degli ecosistemi marini nella Costituzione

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La Corte costituzionale dell'Ecuador ha stabilito che gli ecosistemi marini costieri possiedono diritti legali che devono essere tutelati. Tra questi rientrano il «rispetto integrale della loro esistenza» e la salvaguardia dei loro cicli vitali, della struttura, delle funzioni e dei processi evolutivi. La sentenza impone al governo ecuadoriano l'obbligo di adottare misure adeguate per garantire la continuità di questi «processi vitali», il che potrebbe comportare restrizioni più rigide alle attività umane, come la pesca industriale, oltre a prevedere sanzioni per chi danneggia o distrugge tali...

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Abusi edilizi, 8 rinvii a giudizio per la Torre di Milano

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Otto persone, tra imprenditori, progettisti, tecnici, funzionari e dirigenti o ex dirigenti dello Sportello unico dell’Edilizia e della Direzione urbanistica del Comune di Milano, sono state rinviate a giudizio per abuso edilizio e lottizzazione abusiva nella realizzazione della Torre Milano, grattacielo residenziale di 24 piani in via Stresa. Lo ha deciso la gup di Milano accogliendo la richiesta della Procura. Secondo i pm, l’intervento era stato «qualificato come ristrutturazione edilizia, con totale demolizione e ricostruzione e recupero integrale della superficie lorda di pavimento preesistente», sebbene l’opera andasse «integralmente qualificata di “nuova costruzione”», ossia come un «organismo edilizio radicalmente nuovo», con regole sulle volumetrie diverse.

In tutta Italia il 79% dell’acqua pubblica è contaminata da PFAS

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In Italia, il 79% dell’acqua potabile è contaminato da PFAS, sostanze chimiche pericolose per la salute umana e per l’ambiente. È questo l’allarmante risultato dell’indagine indipendente “Acque senza veleni”, condotta dall’organizzazione ambientalista Greenpeace tra settembre e ottobre 2024, che ha portato alla creazione della prima mappa nazionale della contaminazione da PFAS. I numeri descrivono uno spaccato di proporzioni preoccupanti: dei 260 campioni raccolti in 235 città di tutte le regioni e province autonome, ben 206 contengono queste sostanze tossiche. Studi scientifici dimostrano che i PFAS – sostanze di sintesi utilizzate in molti processi industriali e prodotti di consumo – possono provocare danni al sistema endocrino, al fegato, alla tiroide, al sistema immunitario e alla fertilità. Alcuni PFAS, come il PFOA e il PFOS, sono stati classificati come cancerogeni o possibili cancerogeni.

Sulla base dei risultati dell’inchiesta, le molecole più diffuse sono risultate il PFOA (presente nel 47% dei campioni e classificato come cancerogeno), il composto a catena ultracorta TFA (40%) e il possibile cancerogeno PFOS (22%). La contaminazione interessa tutte le regioni italiane, con almeno tre campioni positivi per ognuna, eccezion fatta per la Valle d’Aosta, dove sono stati effettuati solo due prelievi, entrambi positivi. Particolarmente critiche risultano le situazioni in Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Liguria, Toscana e Sardegna, con valori elevati in grandi città come Milano, Torino e Cagliari, e in comuni più piccoli come Ferrara, Novara e Alghero. Tra le sostanze rilevate, il TFA merita un’attenzione speciale. Si tratta del PFAS più diffuso al mondo, persistente e indistruttibile, che non può essere eliminato attraverso i trattamenti di potabilizzazione tradizionali e, secondo recenti studi, può causare tossicità epatica e difetti alla nascita. Castellazzo Bormida (AL) ha registrato la concentrazione più elevata (539,4 nanogrammi per litro), seguito da Ferrara e Novara. La Sardegna, il Trentino Alto Adige e il Piemonte sono le regioni con la contaminazione da TFA più diffusa, rispettivamente con il 77%, 75% e 69% dei campioni positivi.

Nonostante la gravità del problema, i controlli sui PFAS nelle acque potabili italiane sono limitati o del tutto assenti in molte aree del Paese. Eppure, l’Italia ospita alcuni dei casi di contaminazione più gravi d’Europa, in particolare in Veneto e Piemonte. Già lo scorso giugno, peraltro, un rapporto di Greenpeace, dal titolo “La contaminazione da PFAS in Italia”, aveva registrato la presenza di PFAS nei corsi d’acqua di 16 Regioni italiane, tutte quelle in cui erano state effettuate rilevazioni. A partire dal 2026, entrerà in vigore la direttiva europea 2020/2184 che impone limiti normativi per i PFAS nelle acque potabili. Tuttavia, gli esperti avvertono che questi parametri sono già superati dalle più recenti evidenze scientifiche. Secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA), i limiti in via di adozione rischiano di essere inadeguati a proteggere la salute umana. Altri Paesi, come Danimarca, Paesi Bassi, Germania, Spagna, Svezia e alcune regioni del Belgio, hanno già adottato limiti più stringenti. Negli Stati Uniti, la regolamentazione è ancora più severa. I dati raccolti da Greenpeace mostrano che il 41% dei campioni italiani supera i limiti imposti in Danimarca, mentre il 22% non rispetterebbe le soglie statunitensi.

Una recente indagine chiamata “Forever Lobbying Project”, che ha coinvolto 18 esperti in 16 paesi e 46 giornalisti, ha attestato che i provvedimenti per limitare l’uso di PFAS sarebbero ostacolati dalle pressioni dei lobbisti dell’industria chimica e, anche se si fermasse improvvisamente la produzione, servirebbero comunque fino a 100 miliardi di euro l’anno per cancellarne gli effetti. Secondo l’indagine, che ha dettagliato costi, risultati di stress test e documenti interni del settore in un rapporto digitale, i lobbisti utilizzerebbero «tattiche di influenza» tipiche nel mondo aziendale di altri settori come i combustibili fossili o i pesticidi per diffondere argomenti «allarmistici, falsi, fuorvianti o potenzialmente disonesti». Inoltre, sono stati stimati gli impatti delle attività che coinvolgono tali sostanze ed i relativi costi per la bonifica ambientale – che superano i 100 miliardi di euro l’anno in Europa – e i costi sanitari, corrispondenti a circa 84 miliardi di euro.

[di Stefano Baudino]

Nelle Filippine migliaia di nativi stanno protestando per riavere le scuole indigene

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Nelle Filippine, in occasione del National Children’s Month, il mese dedicato ai diritti dell’infanzia, vari gruppi di attivisti dei diritti umani e dei diritti delle popolazioni indigene stanno protestando per chiedere al governo di Marcos Jr. di riaprire le scuole Lumad che erano state chiuse forzatamente nel 2019 dal suo predecessore, Rodrigo Duterte. Le varie organizzazioni sottolineano il ruolo di queste scuole nella salvaguardia della cultura indigena e nell’istruzione fornita ai giovani indigeni. La repressione delle popolazioni indigene delle Filippine, che condividono questo destino con molte altre popolazioni native nel mondo, ha luogo a causa del loro ruolo nella difesa dell’ambiente, che i grandi gruppi privati, locali ed stranieri, intendono invece sfruttare per il proprio profitto.

Save Our Schools Network, Bagong Alyansang Makabayan, ACT Teachers Party, United Church of Christ in the Philippines e Sandugo, gruppo in difesa delle minoranze indigene, sono alcune delle più importanti organizzazioni del Paese che stanno chiedendo a gran voce al Presidente Marcos Jr. di riaprire le scuole indigene chiuse forzatamente dall’ex Presidente Rodrigo Duterte. Nell’ottobre 2019, infatti, furono chiuse oltre 55 scuole Lumad per presunta non conformità alle linee guida del Dipartimento dell’Istruzione e per la diffusione di programmi contrari al governo. Quest’ultimo sosteneva che in queste scuole si insegnasse un’ideologia sovversiva «di sinistra». I militari entrarono con la forza nei campus e arrestarono insegnanti e studenti, nonostante non avessero un mandato per farlo. Inoltre, secondo l’iniziativa Save Our Schools Network, il Dipartimento dell’Istruzione aveva approvato i programmi all’inizio dell’anno scolastico. Da allora, le scuole sono rimaste chiuse, con un grave impatto sul diritto all’istruzione dei bambini indigeni.

A partire dagli anni ’80, le scuole Lumad, gestite da varie fondazioni, sono cresciute in tutta Mindanao, la seconda isola delle Filippine per grandezza, offrendo istruzione gratuita alla popolazione indigena. A complemento di materie convenzionali, come l’alfabetizzazione e la matematica, le loro lezioni si concentravano anche sul patrimonio locale e la protezione dell’ambiente. La repressione nei confronti delle popolazioni indigene è spesso legata allo sfruttamento ambientale contro cui questi popoli combattono: secondo l’International Coalition for Human Rights in the Philippines, quella contro i popoli indigeni è una «guerra progettata dagli Stati Uniti e finanziata dai contribuenti che sta togliendo la vita a persone innocenti nelle Filippine. Dall’inizio del mandato del presidente Aquino nel 2010, sia l’esercito del governo filippino che gli eserciti privati delle multinazionali e delle dinastie familiari più ricche hanno rapito, torturato e ucciso insegnanti di scuola, agricoltori e bambini indigeni. Hanno inoltre rubato la terra indigena, abbattuto le foreste, inquinato i sistemi idrici e fatto saltare in aria le montagne. Hanno persino occupato e bruciato scuole pluripremiate nelle comunità indigene, per impedire ai bambini e alle loro famiglie di imparare a vivere in modo sostenibile, sulla loro terra ancestrale e ricca di risorse». Una denuncia forte, che spiegherebbe quindi la decisione presa nel 2019 dal presidente Dutarte.

Il popolo Lumad di Mindanao è un esempio di come le ingiustizie ambientali colpiscono i gruppi indigeni e di come li costringono a rispondere. Questo gruppo ha sofferto in modo significativo a causa di problemi ambientali causati dall’agroindustria illegale e dalle operazioni minerarie illegali. In risposta, molti si sono uniti a organizzazioni volte a proteggere le loro terre ancestrali dalla distruzione. La loro continua resistenza anche di fronte a tali attacchi offre una certa speranza che i movimenti indigeni in tutto il mondo non vengano soffocati, ma sono anche la causa della continua repressione che subiscono.

[di Michele Manfrin]

Irlanda, si insedia il governo centrista di Martin

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Oggi, giovedì 22 gennaio, in Irlanda si è insediato il governo di Micheál Martin, leader del partito centrista Fianna Fáil. Martin doveva insediarsi ieri, ma la cerimonia è stata rimandata a causa delle proteste dell’opposizione del Sinn Féin, il partito nazionalista di sinistra, che contestava una serie di questioni procedurali che ridurranno il tempo per gli interventi parlamentari del partito. Fianna Fáil ha vinto le ultime elezioni, tenutesi lo scorso 28 novembre, ottenendo il 22% dei voti. Martin si è alleato con Fine Gael, il partito di centrodestra conservatore, e con alcuni deputati indipendenti.

In Italia il 63% della ricchezza è ereditaria e 71 persone possiedono più di 5,7 milioni di poveri

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La ricchezza in Italia non è mai stata così polarizzata. Nel 2024, i capitali complessivi dei miliardari italiani hanno infatti raggiunto i 272,5 miliardi di euro, facendo segnare un aumento di 61,1 miliardi in un solo anno, pari a 166 milioni di euro al giorno. Questo patrimonio è detenuto da appena 71 individui. È quanto emerge dall’ultimo rapporto di Oxfam, pubblicato in occasione del World Economic Forum di Davos, che ha evidenziato come la quota di ricchezza concentrata nelle mani del 10% più ricco sia salita dal 52,5% del 2010 al 59,7% del 2024, mentre il patrimonio del 50% più povero è sceso dall’8,3% al 7,4%. Secondo la ricerca, sono frutto di eredità quasi due terzi (63%) della ricchezza miliardaria, una percentuale significativamente superiore alla media globale del 36%.

Il report pubblicato da Oxfam attesta come, nel nostro Paese, il 10% più ricco delle famiglie italiane possedeva oltre otto volte la ricchezza della metà più povera della popolazione. Solo quattordici anni fa, questo rapporto era di 6,3: un divario già enorme, ma comunque inferiore a quello attuale. I risultati della ricerca evidenziano come la concentrazione della ricchezza sia particolarmente evidente tra i più abbienti: il 5% delle famiglie italiane detiene quasi la metà della ricchezza nazionale (47,7%), mentre lo 0,1% più ricco, tra il 1995 e il 2016, è riuscito a incrementare il proprio patrimonio del 70%. Mentre i miliardari accumulano fortune, 5,7 milioni di persone vivono in condizioni di povertà assoluta: una cifra che corrisponde a quasi il 10% della popolazione italiana. Nonostante un miglioramento del mercato del lavoro, questo dato è rimasto invariato rispetto al 2023. Le donne e i giovani continuano a soffrire di sottoccupazione e salari bassi, mentre le disparità tra Nord e Sud rimangono marcate. Inoltre, il salario medio annuale reale è rimasto invariato negli ultimi trent’anni, facendo dell’Italia uno dei Paesi con i peggiori dati salariali nell’Unione Europea.

Ciò che rende ancora più eloquente lo scenario delineato dal rapporto è la natura fortemente ereditaria della ricchezza in Italia: un dato che attesta come, più che altrove, il destino economico degli italiani sia determinato dalla famiglia in cui nascono, piuttosto che dal percorso professionale intrapreso nel corso della loro vita. «Larga parte della ricchezza estrema è difficilmente ascrivibile a meriti individuali, ma riconducibile ad eredità, sistemi di relazione clientelari e all’immenso potere di mercato esercitato da imprese che i super-ricchi controllano o dirigono – scrive Oxfam all’interno del rapporto -. Le disuguaglianze non sono né casuali né ineluttabili. Sono il risultato di scelte politiche che hanno prodotto negli ultimi decenni profondi mutamenti nella distribuzione di risorse, dotazioni, opportunità e potere tra i cittadini. Cambiare rotta è un imperativo categorico, sebbene l’attuale contesto politico renda il compito impervio».

All’interno del documento, Oxfam chiede interventi strutturali per contrastare l’escalation delle disuguaglianze. Tra le principali raccomandazioni, spiccano l’introduzione di un’imposta progressiva sui grandi patrimoni e un aumento della tassazione sulle successioni più consistenti, le quali, avendo «scarse giustificazioni di merito», contribuiscono a «divaricare le opportunità» e «riducono il dinamismo dell’economia». Inoltre, l’organizzazione sottolinea l’importanza di politiche volte a rafforzare la contrattazione collettiva e a introdurre un salario minimo legale, misure che potrebbero migliorare significativamente la qualità della vita dei lavoratori più vulnerabili. Infine, Oxfam invita ad abbandonare il progetto di autonomia regionale differenziata, definito “Spaccaitalia”, che rischia di acuire ulteriormente le disparità tra Nord e Sud nel settore pubblico e nei servizi essenziali.

[di Stefano Baudino]

Mali, Niger e Burkina Faso annunciano la creazione di una forza militare congiunta

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L’Alleanza degli Stati del Sahel (AES), confederazione formata da Niger, Burkina Faso e Mali, continua nel suo percorso di decolonizzazione, anche rispetto ai Paesi africani che sono parte della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS). In linea con l’accordo firmato nel luglio scorso, i tre Paesi intendono adesso avanzare di un passo nella lotta comune al terrorismo presente nella regione. Così, l’Alleanza ha deciso di istituire una propria forza militare congiunta, composta da 5.000 uomini, per combattere le minacce portate dalle insurrezioni islamiste delle organizzazioni legate ad Al Qaeda e all’ISIS che imperversano nella regione da un decennio.

Nella regione del Sahel la violenza è all’ordine del giorno da ormai tempo, soprattutto a causa delle insurrezioni islamiste delle organizzazioni legate ad Al Qaeda e all’ISIS. Ora i tre Paesi dell’AES intendono affrontare la minaccia in maniera congiunta, proprio come delineato già nell’accordo del luglio scorso che li ha riuniti in una confederazione. Secondo il ministro della Difesa del Niger, Salifou Mody, la forza dell’Alleanza degli Stati del Sahel, dotata anche di risorse aeree, di intelligence e di coordinamento comune, inizierà presto le operazioni all’interno del territorio di tutte e tre le nazioni. «La forza unificata AES è quasi pronta, contando 5.000 persone. È solo questione di settimane prima che sia visibile sul terreno», ha detto Mody. «In questo spazio comune, le nostre forze saranno in grado di intervenire insieme», ha aggiunto il ministro nigerino. La sicurezza, insieme a sviluppo e coesione sociale, è uno dei tre pilastri della Dichiarazione di Niamey firmata nel luglio 2024, alla presenza dei tre capi di Stato, Abdourahamane Tiani del Niger, Assimi Goita Goita del Mali e Ibrahim Traoré del Burkina Faso.

I tre Paesi, tra il 2020 e il 2023, sono stati oggetto di colpi di Stato che hanno portato al potere giunte militari, le quali hanno interrotto i legami militari e diplomatici con gli alleati nella regione e con le potenze occidentali. L’iniziativa fa quindi seguito alla decisione dei tre Stati di recidere i legami con le potenze occidentali e con la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), la quale non ha ancora smesso di chiedere a Mali, Burkina Faso e Niger di ripensare la loro decisione, ripristinare un quadro democratico e fare ritorno all’interno dell’organizzazione. Ma i tre membri dell’AES sono del tutto convinti nel perseguire il loro destino secondo la loro visione geopolitica dell’area, lontano dalle influenze delle potenze occidentali, e accusano l’ECOWAS di essere in mano al potere straniero.

Che Mali, Burkina Faso e Niger intendano proseguire sulla propria strada della decolonizzazione e della riappropriazione della loro sovranità lo si capisce anche dalle varie decisioni che singolarmente hanno adottato negli ultimi mesi. L’ultima di queste è arrivata dal Mali, il quale ha deciso di sequestrare l’oro alle multinazionali straniere.

[di Michele Manfrin]

Il PD di Bologna ha donato tutti i circoli agli ex dirigenti e ora ne deve chiudere 40

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4 milioni di euro di debiti, più di 40 circoli da chiudere e un patrimonio che contava più di 100 immobili e diversi terreni, andato completamente in fumo: ceduto gratuitamente a una fondazione libera di farne ciò che vuole e che ora vuole battere cassa. Questo è l’incredibile guaio in cui si è infilato il Partito Democratico bolognese, che in questi giorni sta facendo i conti con la furia degli iscritti e dei gestori dei circoli, i quali, da un giorno all’altro, hanno scoperto che le loro sedi dovranno chiudere. Circoli che hanno fatto la storia del partito e di quelli che l’hanno preceduto, dai DS fino al vecchio PCI. Alcuni sono ex case del popolo costruite negli anni ’60 grazie alle donazioni degli iscritti e al lavoro dei militanti che, come in molti ricordano in questi giorni, prendevano addirittura le ferie per contribuire alla costruzione di edifici ritenuti un bene collettivo. Erano anni in cui, nella rossa Bologna, c’era un forte senso di appartenenza al partito, ora spazzato via dalle leggi di mercato e dalle scelte discutibili dei suoi dirigenti.

Per capire come sia stato possibile, bisogna fare un salto indietro di quasi 20 anni. Al 2007, l’anno della nascita del Partito Democratico, figlio della fusione tra i Democratici di Sinistra e la Margherita, uniti dalla grande visione politica che avrebbe poi dato a Walter Veltroni la spinta necessaria per maturare la clamorosa sconfitta delle elezioni del 2008. «Un matrimonio senza patrimonio», si disse all’epoca. I DS, infatti, prima di unirsi alla Margherita, si spogliarono di ogni bene, cedendo tutto a delle Fondazioni create ad hoc in tutta Italia su indicazione dell’allora tesoriere nazionale, Ugo Sposetti. A Bologna nacque così Fondazione Duemila, alla quale venne affidato gratuitamente l’intero patrimonio immobiliare. Una cassaforte in piena regola, con centinaia di fabbricati e terreni appartenuti prima al PCI e poi alla Quercia. A controllarla, un consiglio di amministrazione i cui componenti sono stati nominati a vita, con totale libertà di azione e senza alcun tipo di controllo da parte del vecchio partito. Presidente, dal giorno della sua fondazione, Mauro Roda, ex dirigente del PCI e poi dei DS. Il valore del patrimonio immobiliare della Fondazione, e della sua controllata, Immobiliare Porta Castello, è stimato in mezzo miliardo di euro, tutto in immobili e terreni.

L’intera vicenda è ben riassunta nel sito della stessa Fondazione: «Fondazione Duemila nasce nel luglio 2006; qualche mese dopo riceve in donazione il patrimonio storico e immobiliare dei Democratici di Sinistra con l’impegno della sua valorizzazione per salvaguardare un pezzo importante della storia della Sinistra italiana, promuovendo attività volte allo studio, alla ricerca, alla formazione e all’innovazione della politica». Negli anni, tuttavia, «l’impegno della valorizzazione» sembra essersi indirizzato sempre più verso il carattere economico del patrimonio, come quando, nel 2022, ha venduto la Casa del Popolo in via Dozza e al suo posto è stato costruito il parcheggio di un centro commerciale.

Fino ad ora gli 87 circoli del Partito Democratico hanno pagato una sorta di affitto “convenzionato” alla Fondazione. «È lo stesso meccanismo di quando si affitta un appartamento a un figlio o a un nipote – ha spiegato il tesoriere del PD, Massimo Fina – C’è un canone, ma spesso i tempi si allungano, il prezzo è calmierato e nessuna delle due parti se ne preoccupa». Ora, però, la Fondazione ha deciso che il tempo è finito e che il PD deve saldare i debiti (4 milioni di euro) oltre che cominciare a pagare regolarmente gli affitti (che nel frattempo verranno aumentati del 10%). Risultato: il partito sarà costretto a un taglio spietato e degli 87 circoli ne dovranno rimanere 40. Il piano di rientro del debito è stato messo nero su bianco con la Fondazione il 9 gennaio e approvato ufficialmente nel corso della direzione provinciale del PD del 20 gennaio. Presenti, tra gli altri, il tesoriere Fina, la segretaria Federica Mazzoni, il sindaco Lepore e l’ex sindaco Virginio Merola. Tutti d’accordo su un’unica cosa: i debiti vanno pagati e i circoli vanno chiusi.

Resta ora la grana di doverlo spiegare agli iscritti. Da qui fino al 30 aprile verranno organizzati incontri con i responsabili dei circoli per decidere quali dovranno chiudere definitivamente i battenti. Tra questi anche alcune sedi storiche, come il circolo Passepartout, la Casa Rossa, il circolo Arci di via Brecht o il circolo Galvani, dove era iscritto anche Romano Prodi e dove, ironia della sorte, mosse i primi passi l’attuale segretaria Elly Schlein.

All’uscita della direzione, la solita girandola di commenti: c’è chi, come il tesoriere Fina, ha assicurato che «Tutti i debiti verranno pagati», chi, come il sindaco, ha cercato di calmare gli animi pronosticando che «Le sedi chiuse non saranno tante», e chi, come l’ex sindaco Merola, se l’è presa con il «mancato finanziamento pubblico ai partiti, che cede la politica in mano ai ricchi come Trump e Musk».

Nessun mea culpa, nessuna ammissione di responsabilità, nessuna parola di scuse rivolta agli iscritti, che non sono mai stati coinvolti in alcuna decisione, tanto che hanno scoperto dai giornali della tagliola che pendeva sulle loro teste. D’altronde si parla di cose accadute 20 anni fa. Ora è il momento di «aprire una fase nuova», come si legge nel comunicato diffuso al termine dell’incontro. Insomma: i vecchi dirigenti hanno avuto, i militanti hanno dato. Scurdammoce ’o passato.

[di Fulvio Zappatore]

Caso Almasri, la Corte Penale Internazionale chiede spiegazioni all’Italia

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Dopo che l’Italia ha prima arrestato e poi rilasciato Osama Almasry Njeem, oggetto di un ordine di arresto emanato il 18 gennaio dalla Corte Penale Internazionale (CPI), quest’ultima ha chiesto all’Italia di fornire spiegazioni in merito. Almasri, responsabile delle strutture carcerarie in Libia, è sospettato di crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi nel Paese nordafricano dal 2015. La decisione delle autorità italiane di rilasciarlo è stata presa «senza preavviso o consultazione con la Corte», denuncia la CPI, che sta ancora cercando «una verifica da parte delle autorità sui passi che sarebbero stati compiuti». Oggi il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi risponderà al question time in Parlamento sulla vicenda.

Dentro l’assedio di Jenin

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JENIN, CISGIORDANIA OCCUPATA – Al secondo giorno di assedio israeliano, la città è deserta. Le strade sono vuote, le case e i negozi serrati. Jenin sembra una città fantasma. I soli rumori che rompono questo silenzio assordante sono quelli della guerra: il costante ronzio dei tre droni che sorvolano incessantemente la città, assieme al fischio di proiettili ed esplosioni più rade che arrivano dal campo profughi, ormai sotto assedio in corso da quasi due giorni. L’Operazione Muro di Ferro ha già mietuto 12 vittime, quasi tutti civili uccisi dai cecchini israeliani nelle prime ore dell’incursione. Come Ahmed Shayeb Obeidi, ucciso mentre tornava a casa in macchina con sua moglie e i tre figli. Un video diventato virale mostra i suoi ultimi istanti di vita. Un altro video mostra un anziano che cammina mentre due proiettili lo mancano di pochi centimetri. Dall’inizio dell’operazione, i militari hanno voluto terrorizzare la popolazione per costringerla a chiudersi in casa, sparando contro i passanti, e spingere gli abitanti del campo profughi ad abbandonarlo. Ieri, infatti, i soldati hanno chiamato i residenti del campo attraverso altoparlanti per convincerli ad abbandonare le proprie case, annunciando anche un coprifuoco totale del campo profughi fino a lunedì 27 gennaio.

«Non si era mai visto un intervento così massiccio», dichiara F., una giornalista di Jenin a LIndipendente. «Di solito si contano 3-4 bulldozer, più jeep e furgoni militari. Oggi sono almeno 8». Davanti a noi, la schiera di mezzi corazzati fa impressione. Alcune jeep hanno mitra telecomandati montati sul tetto e le punte metalliche con cui aprono l’asfalto sono ben visibili sul retro dei D9. I militari sembrano divertirsi a disturbare il lavoro di noi giornalisti riuniti a documentarne le azioni, minacciandoci con le pale dei bulldozer con cui si avvicinano ripetutamente.

La gente ha paura: sono almeno 600 le persone che hanno abbandonato il campo, mentre i bulldozer israeliani hanno distrutto altre strade dentro la città e nel perimetro del campo profughi già devastato. L’area infatti è quasi «inabitabile», ha dichiarato Roland Friedrich, direttore di UNRWA. A causa delle ripetute operazioni di sabotaggio delle infrastrutture e di un assedio che ormai dura quasi ininterrottamente da inizio dicembre, quasi 2000 famiglie sono state sfollate in un mese e mezzo. Anche il sistema elettrico è stato nuovamente attaccato e una parte del campo si trova senza luce. Numerosi gli arresti: a pochi giorni dal rilascio dei 90 prigionieri, molti dei quali minorenni, sembra che Tel Aviv voglia riempire velocemente i posti appena lasciati vacanti. Oltre giovani uomini, anche alcune madri e parenti di martiri delle Brigate Jenin sono state arrestate dai militari d’Israele e pare che anche la polizia dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) si stia impegnando in una campagna di detenzioni. Alcuni video mostrano membri dell’Autorità Palestinese inseguire fuori dall’ospedale Al-Razi giovani forse appartenenti alle forze di resistenza, i cui gruppi denunciano tentativi di arresto – con conseguenti scontri – anche all’interno dell’ospedale da parte di poliziotti palestinesi in borghese. Nei pressi della struttura un ragazzino è stato ferito gravemente da un proiettile in testa: secondo Quds News, è stato sparato da soldati dell’ANP.

«Stiamo ricevendo molte chiamate dall’interno del campo», dichiara A. M., alla guida di una delle molte ambulanze che continuano a sfrecciarci davanti. «Molte famiglie. Ma non è possibile andare dentro il campo profughi, non possiamo raggiungerli». Gli ospedali di Al-Amal e l’ospedale governativo di Jenin sono al di là della linea invisibile che non possiamo attraversare, stretti nell’assedio israeliano. Varie jeep militari sono stazionate in mezzo alla strada e bloccano anche le ambulanze, costringendole a fermarsi e ad aprire le porte per effettuare controlli. Ma non possono comunque andare molto più in là, a causa delle strade distrutte e degli impedimenti dei militari. Gli stessi ospedali sono diventati una prigione per centinaia di persone che si sono ritrovate bloccate al loro interno quando è iniziato l’attacco. «La situazione dentro l’ospedale è molto pesante», dice una donna appena uscita dall’istituto con il marito malato. «Siamo rimasti bloccati più di 24 ore, senza cibo, nemmeno il pane… ci sono molti pazienti dentro la struttura, qualcuno è riuscito a uscire, molti sono ancora lì,» dice. Il primo giorno, forse dopo che anche tre dottori e due infermiere erano state ferite dai cecchini, in pochi hanno osato uscire per strada. Nel pomeriggio di ieri, invece, l’esercito ha detto alle persone di evacuare la struttura e in molti hanno iniziato a tornare a casa. Sono comunque numerosi i pazienti che hanno bisogno di cure che sono obbligati a restare. «Non c’è sicurezza dentro l’ospedale», dichiara il dottor Al Daqa, il figlio in braccio, mentre si allontana dalla struttura. «I bulldozer, l’esercito ci ha circondato. I cecchini sparavano intorno a noi… Non c’è sicurezza per trattare i pazienti. Alcuni di noi devono lasciare la struttura e altri stanno cercando di entrarci per continuare a seguire i pazienti».

Dopo aver ripetutamente bombardato una casa e assediato almeno un’altra, nella notte violenti scontri sono scoppiati anche a Burquin, ad ovest di Jenin, in una operazione guidata dallo Shin Bet che ha portato alla morte di due altri palestinesi, portando a 12 il numero totale delle vittime. Scontri anche nel villaggio di Fahma. La campagna di arresti e violenze infatti non è limitata al campo profughi della città, ma – secondo le dichiarazioni dei ministri di Tel Aviv – il campo di Jenin non è che l’inizio di una operazione su vasta scala che coinvolgerà tutta il Nord della Cisgiordania.

[testo e immagini di Moira Amargi, inviata in Palestina]