Dopo anni di sforzi e interventi mirati, il Senegal ha eliminato il tracoma, malattia infettiva che può causare cecità, come problema di salute pubblica, diventando il nono della regione africana a ottenere tale riconoscimento. Il tracoma è causato dal batterio Chlamydia trachomatis, trasmesso principalmente attraverso superfici contaminate, feci o mosche che entrano in contatto con le secrezioni oculari di una persona infetta. Le sue cause principali sono legate a scarsa igiene, sovraffollamento nelle abitazioni e l'accesso limitato a acqua pulita e servizi igienici. Il tracoma ha afflitto il...
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La tempesta tropicale Wipha ha causato gravi inondazioni nella provincia vietnamita di Nghe An, provocando almeno tre morti e un disperso. Una vittima è stata travolta da una frana, un’altra dalla corrente. La tempesta, la prima di tale intensità a colpire il Vietnam quest’anno, ha aggravato le piogge monsoniche anche nelle Filippine dopo aver colpito Hong Kong e la Cina. Oltre 3.700 abitazioni sono state allagate e 459 danneggiate dai venti. Le immagini diffuse mostrano interi villaggi sommersi. Il Vietnam, esposto ai tifoni, è spesso colpito da disastri naturali durante la stagione delle piogge.
I legislatori della Knesset hanno approvato con 71 voti a favore e 13 voti contrari una mozione non vincolante per l’ordine del giorno a favore dell’annessione della Cisgiordania. La mozione, avanzata dal deputato del Sionismo Religioso Simcha Rothman, dal parlamentare del Likud Dan Illouz e dal parlamentare Yisrael Beytenu Oded Forer, descrive la Giudea, la Samaria e la Valle del Giordano come «parte inseparabile della patria storica del popolo ebraico» e chiede l’applicazione della sovranità israeliana a queste aree. La Cisgiordania è parte integrante di quello che dovrebbe essere lo Stato di Palestina secondo la legge internazionale e secondo la stessa risoluzione dell’ONU – all’epoca accettata da Israele – che nel 1948 decise di dividere in due Stati (Israele e Palestina) la Palestina storica.
«La Giudea, la Samaria e la Valle del Giordano sono una parte inseparabile di Eretz Israel [la Israele biblica che, nelle intenzioni sioniste, dovrebbe comprendere l’intera Palestina, ndr], la patria storica, culturale e spirituale del popolo ebraico. Centinaia e migliaia di anni prima della creazione dello Stato, gli antenati e i profeti della nazione hanno vissuto e agito in queste regioni e in esse sono state gettate le fondamenta della cultura e della fede ebraica. Città come Hebron, Sichem, Shilo e Beit El non sono solo siti storici, ma un’espressione vivente della continuità dell’esistenza ebraica nella terra» riporta il testo della mozione, che aggiunge che i fatti del 7 ottobre 2023 sarebbero la conferma di come la creazione di uno Stato palestinese costituirebbe una minaccia per Israele. «La sovranità in Eretz Israel è una parte inseparabile della realizzazione del sionismo e della visione nazionale del popolo ebraico che è tornato nella sua patria».
Pur se simbolica e non vincolante, la risoluzione è in perfetta linea con i tentativi sempre più pressanti di Israele di acquisire il controllo della Cisgiordania, mentre l’esercito avanza nella Striscia di Gaza. Il voto segue infatti di pochi giorni la notizia, ampiamente ignorata dai quotidiani occidentali, secondo la quale Israele avrebbe rilanciato il piano di insediamento E1, che prevede la costruzione di oltre 3.000 unità abitative tra Gerusalemme Est e Maale Adumim che spaccherebbero a metà la Cisgiordania. «Questa è la nostra terra, questa è la nostra casa» ha dichiarato Amir Ohana (Likud), presidente della Knesset, al termine della votazione della Knesset. «Nel 1967 l’occupazione non è iniziata, è finita. Questa è la verità storica, e l’unico modo per raggiungere una pace autentica è da [una posizione di] potere».
A partire dalla risoluzione 242 del 1967, la comunità internazionale ribadisce come l’occupazione israeliana dei territori palestinesi sia illegale e ha continuato fino a pochi mesi fa a chiedere il ritiro delle truppe dai Territori palestinesi (una risoluzione che l’Italia si è ben guardata dall’approvare). Dopo il voto israeliano, condanne sono giunte da varie parti del mondo, a cominciare dall’OIC (Organizzazione della Cooperazione Islamica, che rappresenta 56 Paesi tra Europa, Medio Oriente, Sudamerica, Africa e Asia), definendola «una palese violazione del diritto internazionale e un’infrazione diretta di diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite». L’ANSA cita inoltre una nota stampa nella quale la Commissione UE ricorda che «l’annessione è illegale secondo il diritto internazionale» e che qualsiasi passo in tale direzione sarebbe «una violazione del diritto internazionale».
OpenAI sostiene che una sua intelligenza artificiale abbia vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi Matematiche Internazionali (IMO), il più prestigioso concorso di calcoli matematici al mondo. Anche Google ritiene che la sua IA, DeepMind, abbia scalato le classifiche, arrivando in cima. Allo stesso tempo, cinque adolescenti possono vantare di aver battuto entrambe le Big Tech. Un unico fatto, molteplici letture che raccontano di un impressionante avanzamento tecnico che viene enfatizzato da un impianto di comunicazione fomentato ad arte.
Per comprendere il contesto, è necessario specificare che, a differenza delle più celebri competizioni sportive, le Olimpiadi Matematiche non prevedono un unico vincitore: la medaglia d’oro viene assegnata in base a una distribuzione percentuale dei punteggi. Per avere un parametro di misura, nell’ultima competizione, tenutasi in Australia, solo circa il 10% dei 641 partecipanti è riuscita a ottenere il punteggio prestabilito quest’anno per ottenere la medaglia d’oro. Raggiungere l’apice della classifica delle IMO è certamente un obiettivo di cui andare fieri, tuttavia questo traguardo non è totalmente esclusivo, sono previste molteplici medaglie d’oro.
DeepMind di Google figura tra questa manciata di vincitori. L’azienda ha iscritto al concorso una variante specializzata della sua intelligenza artificiale, Deep Think, la quale ha certificatamente ottenuto un punteggio di 35 su di un massimale di 42, risolvendo senza errori cinque dei sei problemi sottoposti ai partecipanti. I risultati, già di per sé interessanti, diventano ancora più stupefacenti se si considera che solamente l’anno scorso DeepMind era riuscita ad attestarsi al livello della medaglia d’argento, ma solamente ritagliandosi tempi di calcolo superiori ai due giorni. Questa volta lo strumento ha dimostrato prestazioni decisamente migliori e lo ha fatto rispettando il tempo limite della gara, quattro ore e mezza.
Con OpenAI, la situazione è decisamente più sfumata. L’azienda guidata da Sam Altman non ha effettivamente partecipato all’IMO, bensì ha analizzato privatamente i problemi sottoposti ai concorrenti e ha pubblicato le sue risposte attraverso i canali social. Le sue performance sono comparabili a quelle ottenute dall’IA concorrente: cinque problemi risolti su sei. L’intero processo non è però stato supervisionato dagli organizzatori delle Olimpiadi Matematiche, ma solo da tre ex-vincitori che sono stati reclutati direttamente da OpenAI per verificare gli esiti della gara. L’impresa sostiene di aver sfruttato per l’occasione un modello sperimentale che non verrà distribuito al pubblico per “molti mesi”, ma non essendoci occhi veramente indipendenti che possano testimoniare le dinamiche della faccenda, non resta che fidarsi di OpenAI, azienda nelle mani di un CEO che è stato accusato di essere un bugiardo seriale.
Google e OpenAI promuovono esplicitamente i propri successi, tuttavia evitano accuratamente di intavolare una narrazione che contrappone le abilità delle macchine a quelle degli esseri umani. Ancor più, tendono a sorvolare il fatto che cinque studenti under-20 siano riusciti a ottenere il punteggio perfetto dell’IMO, superando per risultato entrambi i giganti del tech. Come spesso capita per le evoluzioni tecniche che hanno risvolti politici o speculativi, gli avanzamenti concreti nel campo dei modelli di linguaggio sono stati messi da parte in favore di slogan notiziabili che riescono a catturare l’attenzione del pubblico e degli investitori.
Questi trionfi, assolutamente degni di nota, sono in grado di evidenziare un avanzamento rapido delle IA, eppure restano ambigui i concreti scopi applicativi dei modelli, come questi siano stati addestrati, nonché la loro effettiva sostenibilità. In sostanza, non è chiaro se gli sviluppi maturati in questo contesto dalle imprese siano funzionali alla società o se i loro sforzi si siano concentrati esclusivamente sul dar vita a un’oculata stunt commerciale.
Non è stata la musica elettronica, che dosava con passione dalla sua consolle ormai da decenni, né sono stati gli schiamazzi ad accendere la miccia che ha bruciato la sua vita: Michele Noschese, 35 anni, meglio conosciuto come DJ Godzi, è stato infatti vittima di una fine violenta avvolta nel mistero, tra (presunte) allucinazioni, poliziotti, manette e botte.
Alle Baleari, l’alba di sabato 19 luglio sembrava portare una mattina come tante altre. Carrer Lausanne, a Roca Llisa, è un bel viale pieno di villette e appartamenti di lusso, appoggiati su una collina. Un quartiere residenziale sospeso a 300 metri dal mare. Sotto c’è Ibiza Town, che nella stagione estiva è un tempio per turisti e cercatori di emozioni, coi suoi baccanali di musica ed eccessi. Dall’altra parte, Santa Eulalia del Río. Ci sono sicuramente posti peggiori in cui vivere.
Noschese, originario di Napoli, viveva nell’arcipelago più gettonato dai pendolari delle discoteche da ormai 10 anni. Dopo la laurea in Economia e un passato nella Primavera del Napoli, avrebbe potuto diventare un calciatore professionista, ma alle offerte dalla Svizzera preferì la musica, la madre di tutte le passioni, trasformandola in un percorso e in un lavoro. Ha lavorato in giro per il mondo: Londra, Parigi, New York — nel giro lo conoscevano tutti. I DJ, quelli bravi e richiesti, in fondo sono un po’ come i calciatori: molto ricercati e spesso ben pagati.
D’altronde, per uno che vive di mixer, luci e note, ritrovarsi a Ibiza è come chiudere un cerchio: i sogni vanno assecondati, accompagnati — e Michele c’era sicuramente riuscito. Giuseppe Noschese, suo padre, è un medico e ha capito subito che c’era qualcosa che non andava nella notizia e nel racconto diquel figlio morto in modo così rapido e brutale. Ha parlato subito di bastonate, di poliziotti violenti. Ha detto che l’autopsia è stata eseguita in modo frettoloso e che la famiglia aveva subito mandato un proprio consulente da quelle parti.
Il padre di Michele Noschese, il dottor Giuseppe Noschese
I fatti sono sembrati fin da subito molto poco chiari. Nemmeno sugli orari c’era chiarezza, perché i media italiani hanno riportato la vicenda alla notte tra venerdì e sabato. Invece, la testimonianza che potrebbe cambiare tutto — quella di un amico di Michele che era a casa sua — racconta che tutto è successo nelle prime ore del mattino di sabato. Si chiama Raffaele Rocco, ed è un commerciante. Per lui, DJ Godzi era come un fratello, ha detto, e ha aggiunto che è disposto a raccontare tutto in tribunale. Ha dormito a casa di Michele fino alle 7, quando lo stesso Noschese gli ha chiesto di andare a comprare del cibo per gatti. In casa c’erano diverse persone, distribuite tra la casa e la piscina.
Per motivi che al momento nessuno conosce, Michele Noschese, poco dopo le 8, ha varcato la soglia della casa del vicino. Quello che è successo è stato raccontato come una diatriba lunga, protratta nel tempo. La figlia dell’anziano ha raccontato che Michele ha messo le mani addosso a suo padre, gli pestava un piede. Qualcuno ha anche parlato di un coltello, che però Raffaele ha negato di aver visto. Forse ci sono state delle minacce, forse sono volate parole grosse. Da qui a immaginare un finale come quello che c’è stato — con un cadavere, pochissime certezze e molti sospetti — ovviamente c’è un abisso.
La notizia di una telefonata alla polizia per il volume troppo alto da casa Noschese, diffusa inizialmente, vacilla paurosamente. Può darsi che, invece, qualcuno abbia chiesto l’intervento delle forze dell’ordine per l’intrusione del DJ nella casa del vicino. Fatto sta che a interrompere bruscamente la quiete del quartiere, quel sabato mattina, è arrivata la polizia. E la Guardia Civil spagnola, si sa, non ha generalmente una fama propriamente “gandhiana”.
Lo raccontano, per esempio, i turisti italiani che l’hanno vista in azione sulla costa: i loro metodi sbrigativi sono ormai una vulgata molto diffusa. Gli agenti che passeggiano sulla costa iberica roteando manganelli tra la gente sono stati visti da molte persone. E d’altronde esistono da tempo le foto scattate nelle enclavi iberiche di Melilla e Ceuta, in Marocco, con persone aggrappate alle reti e agenti in mimetica nera che menano come fabbri coi manganelli.
Certo, non si può fare di tutta l’erba un fascio e bisogna verificare cosa sia realmente successo a Michele Noschese. Ma ciò che è accaduto nella casa del DJ Godzi è stato riassunto da Raffaele Rocco — al momento unico testimone oculare che si sia fatto avanti — in questo modo: i poliziotti intervenuti hanno ammanettato mani e piedi di Michele e lo hanno bastonato forsennatamente sul letto, tanto che Noschese faticava a respirare. «Lo tenevano fermo, e il ragazzo ha cominciato ad avere difficoltà nel respirare», ha raccontato Raffaele.
Quando gli agenti si sono accorti della sua presenza, non avendo forse immaginato che ci fosse un testimone, gli hanno intimato di andarsene immediatamente. Se fosse confermata, sarebbe una procedura quantomeno singolare per un intervento di ordine pubblico sfociato in tragedia. Di certo, Michele Noschese è stato condotto direttamente in obitorio da casa sua, invece che in ospedale, come ci si sarebbe aspettati. E la domanda se avesse già smesso di respirare al momento dell’uscita da casa aggrava sicuramente la posizione degli agenti, visto che non sarà facile avere una controprova.
Fino a qui, il racconto del testimone e la ricostruzione della famiglia di Noschese, che ha mandato alle Baleari l’avvocato Rosanna Alvaro, supportata dal collega spagnolo Jaime Rog, per cercare di fare chiarezza — e soprattutto salvare il salvabile dal punto di vista giudiziario, in una vicenda che si preannuncia molto dura e complicata. Tanto che il governo italiano, tramite il ministro Tajani, ha fatto sapere di seguire la vicenda da vicino.
La versione della Guardia Civil, naturalmente, è diametralmente opposta a queste — pur frammentarie — ricostruzioni. I poliziotti raccontano di aver trovato una persona sotto l’effetto di stupefacenti, in preda ad allucinazioni, insomma fuori di testa, e di aver cercato di riportarlo alla calma. Nel farlo, tuttavia, hanno ammesso di aver dovuto “fare di tutto” per rianimarlo: ma da cosa, di grazia?
Per coincidenza — anche se magari non sarà questo il caso — non possono non tornare alla memoria i verbali di polizia giudiziaria in cui agenti e uomini delle forze dell’ordine hanno raccontato di persone in preda a convulsioni, agitazione e crisi. In Italia è successo per Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, e la lista purtroppo è lunga. Fatto sta che, al momento, c’è un ragazzo di 35 anni morto per “arresto cardiaco”, come da nota ufficiale della Guardia Civil — ossia la causa di morte dell’intera umanità da sempre. Qualsiasi cosa succeda prima, si muore meccanicamente di quello. Sarebbe come dire che un aereo precipitato si è disintegrato perché ha toccato il suolo, senza spiegare il motivo della caduta.
In foto: Michele Noschese, 35 anni, meglio conosciuto come DJ Godzi
Gli avvocati della famiglia hanno fatto notare che l’autopsia — che esclude eventi traumatici o azioni violente sul corpo di Michele — è assai lacunosa. Da un primo esame sono state escluse lesioni riconducibili a percosse, ma solo con TAC, risonanze o altri esami più approfonditi si può davvero escludere un pestaggio come causa della morte del DJ Godzi. Inoltre — e soprattutto — l’autopsia è stata eseguita senza la presenza di un perito di parte, in poche parole senza che la famiglia fosse rappresentata. E si sa: le autopsie svolte frettolosamente non sono mai foriere di trasparenza. Disporre altri accertamenti autoptici — o semplicemente ottenerli, visto anche il problema della giurisdizione straniera — non sarà semplice. Il padre Giuseppe, che non a caso è medico, ha però incaricato subito un perito in loco, e questo potrebbe essere un elemento fondamentale nel proseguimento della vicenda.
In certi casi la tempestività dei familiari, pur colpiti dal lutto e dal dolore, si rivela una carta decisiva nell’accertamento dei fatti e della verità. Nel caso della morte di Stefano Cucchi, per esempio, se un addetto dell’obitorio non avesse scattato fotografie al cadavere martoriato del ragazzo, probabilmente l’esito giudiziario della vicenda sarebbe stato diverso. In ogni caso, Giuseppe Noschese ha presentato denuncia per omicidio volontario alle autorità spagnole. E la morte di Michele Noschese, fin dall’inizio, assomiglia a tanti altri casi in cui la strada per portare a galla verità e responsabilità si è rivelata molto amara, cupa e dolorosa.
In occasione di una visita del primo ministro indiano Narendra Modi in Regno Unito, Londra e Nuova Delhi hanno firmato un accordo di libero scambio volto a ridurre i dazi su beni di vario genere qual articoli del settore tessile, beni di consumo come il whisky e automobili. L’accordo arriva dopo tre anni di negoziati che sono stati portati avanti a rilento, e rilanciato due mesi fa, per fare fronte all’annuncio di dazi globali rilasciato dagli Stati uniti. L’accordo prevede anche un incremento degli scambi bilaterali col fine di raggiungere l’obiettivo 25,5 miliardi di sterline (circa 29,5 miliardi di euro) entro il 2040; esso entrerà in vigore dopo il processo di ratifica.
Lo scorso 3 aprile, durante un’audizione davanti alla Commissione per le Forze Armate del Senato degli Stati Uniti, il generale Michael Langley, comandante dell’US Africa Command (AFRICOM), ha identificato il capitano Ibrahim Traoré come un nemico degli interessi statunitensi. Secondo Langley, il leader della giunta militare attualmente al potere in Burkina Faso starebbe utilizzando le riserve auree nazionalizzate «per proteggere la sua giunta», invece di impiegarle nella lotta contro il terrorismo. Come la storia recente insegna, gli Stati Uniti tendono a osteggiare quei Paesi che scelgono di...
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Le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che le cause per danni climatici sono ammissibili in Italia, riconoscendo la legittimità dell’azione intentata da Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadini contro ENI, Cassa Depositi e Prestiti e Ministero dell’Economia e delle Finanze. I giudici italiani potranno ora valutare nel merito la responsabilità dell’azienda petrolifera per il suo impatto sul clima e l’ambiente. La sentenza, pubblicata il 21 luglio, chiarisce inoltre che i tribunali italiani possono pronunciarsi anche su emissioni prodotte all’estero da aziende italiane. Si tratta di una decisione senza precedenti, che allinea l’Italia alla giurisprudenza europea in materia di diritti umani e crisi climatica.
«Questa sentenza storica dice chiaramente che anche in Italia si può avere giustizia climatica – hanno commentano Greenpeace e ReCommon – nessuno, nemmeno un colosso come ENI, può più sottrarsi alle proprie responsabilità. I giudici – hanno aggiunto – potranno finalmente esaminare il merito della nostra causa: chi inquina e contribuisce alla crisi climatica deve rispondere delle proprie azioni». Il verdetto avrà infatti impatto su tutte le cause climatiche in corso o future in Italia, rafforzando la protezione dei diritti umani legati alla crisi climatica, già riconosciuti dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU). E in particolare potrà essere valutata la causa contro il Cane a sei zampe, Cassa Depositi e Prestiti e Ministero dell’Economia e delle Finanze avviata, dalle due organizzazioni ambientaliste insieme a una decina di cittadini, davanti al Tribunale di Roma. L’obiettivo dell’azione legale, denominata la “Giusta Causa”, è quello di imporre alla società il rispetto dell’Accordo di Parigi.
Nel maggio 2023, Cassa Depositi e Prestiti e Ministero dell’Economia e delle Finanze erano stati presi in causa – ha ricordato Greenpeace in una nota – in qualità di azionisti che esercitano un’influenza dominante su ENI. Il colosso fossile italiano era stato invece direttamente accusato “per i danni subiti e futuri derivanti dai cambiamenti climatici a cui ha significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendone pienamente consapevole”. In risposta, ENI e le due istituzioni si erano appellati ritenendo che nel nostro Paese una causa climatica non fosse procedibile. I ricorrenti, di conseguenza, si erano opposti e il recente verdetto delle Sezioni Unite della Cassazione gli ha dato ragione. Il responso della Suprema Corte sancisce senza ombra di dubbio che i giudici italiani si possono pronunciare sui danni derivanti dal cambiamento climatico sulla scorta tanto della normativa nazionale, quanto delle normative sovranazionali e che, dunque, le cause climatiche nel nostro Paese sono lecite e ammissibili anche in termini di condanna delle aziende fossili a limitare i volumi delle emissioni climalteranti in atmosfera. La Cassazione ribadisce anche che un contenzioso climatico come quello intentato da Greenpeace e ReCommon non è affatto un’invasione nelle competenze politiche del legislatore o delle aziende. La tutela dei diritti umani fondamentali di cittadini minacciati dall’emergenza climatica è superiore a ogni altra prerogativa e da oggi sarà possibile avere giustizia climatica anche nei tribunali italiani. Inoltre le Sezioni Unite chiariscono che i giudici italiani sono competenti anche in relazione alle emissioni climalteranti emesse dalle società di ENI presenti in Stati esteri, sia perché i danni sono stati provocati anche in Italia, sia perché le decisioni strategiche sono state assunte dalla società capogruppo che ha sede in Italia.
A questo punto il giudice a cui è stato assegnato il contenzioso climatico lanciato nel 2023 dovrà quindi entrare nel merito dei danni che ENI ha contribuito ad arrecare agli attori ricorrenti. «Grazie alla presente azione e alla decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite l’Italia si allinea agli altri paesi più evoluti in cui il clima e i diritti umani trovano una tutela giurisdizionale. Chiediamo che la giustizia faccia il suo corso, come già avviene nei più avanzati ordinamenti giuridici europei», ha concluso Greenpeace. La pronuncia si inserisce nel quadro delle più importanti decisioni giudiziarie europee ed internazionali e va nella stessa direzione sentenza della CEDU a favore delle “Anziane svizzere per il clima”, che avevano citato lo Stato svizzero per la sua inadempienza nella lotta ai cambiamenti climatici. Una sentenza che ha stabilito un importante precedente per il riconoscimento del diritto alla giustizia in casi di lesione dei diritti umani fondamentali legati all’emergenza ecologica in corso. Nel complesso, cause simili come quella che metterà ENI alla sbarra vanno avanti da tempo in diversi paesi del mondo. Tra le altre, quella che nel 2021 ha portato Parigi a “riparare al mancato rispetto degli impegni sul taglio della CO2” o quella che ha prima condannato e poi assolto Shell in fatto di obblighi nel taglio dei gas serra.
Una corte d’appello federale degli Stati Uniti ha dichiarato incostituzionale l’ordine esecutivo di Donald Trump che limitava la cittadinanza automatica per diritto di nascita, bloccandone l’applicazione a livello nazionale. È la prima volta che una corte d’appello valuta la legalità del provvedimento dopo che, a giugno, la Corte Suprema aveva ristretto la possibilità dei tribunali di emettere ingiunzioni universali, pur lasciando alcune eccezioni. Proprio una di queste eccezioni ha consentito a un giudice del New Hampshire di sospendere nuovamente l’ordinanza. La causa era stata presentata da quattro Stati a guida democratica.
Vernice rossa, catene, fumogeni e striscioni contro le implicazioni dell’industria bellica nel genocidio in atto a Gaza. Nella mattinata di ieri, mercoledì 23 luglio, un gruppo di attivisti della campagna “Palestina Libera” – movimento che si batte per i diritti del popolo palestinese – ha messo in atto una forte azione dimostrativa presso la sede della Divisione Elicotteri di Leonardo di Sesto Calende, in provincia di Varese. Tre attivisti si sono legati con delle catene a terra per evitare il passaggio di mezzi, mentre altri due sono saliti sul tetto di uno degli edifici del complesso ricoprendo di vernice rossa l’insegna dell’azienda. L’azione ha immediatamente richiamato sul posto le forze dell’ordine, che hanno identificato gli autori delle azioni dimostrative e li hanno accompagnati in Questura a Varese.
Attivisti in azione alla sede Leonardo di Sesto Calende
Il gruppo di dimostranti, la cui azione intende denunciare il coinvolgimento dell’azienda e del governo italiano nei massacri in corso a Gaza, fa parte della branca italiana del collettivo internazionale Palestine Action. Dopo aver scavalcato la recinzione perimetrale, due attivisti sono riusciti a raggiungere il tetto dell’edificio, utilizzando vernice rossa sull’insegna della nota azienda bellica, tramutandola in un’accusa esplicita: “Leonardo produce genocidio”. Simultaneamente, sono stati accesi due fumogeni rossi come simbolo del sangue del popolo palestinese. Nel frattempo, altre tre persone si sono incatenate all’ingresso dello stabilimento, mentre venivano issate una bandiera palestinese, una irlandese e uno striscione con la scritta “Palestina libera”. Il vicesindaco di Sesto Calende, Giorgio Circosta, ha commentato l’episodio affermando che «le cause dei conflitti non possono essere ricercate in aziende come Leonardo ma nella rinnovata aggressività degli Stati», criticando i metodi del blitz ma riconoscendo la legittimità della causa. Ha poi ringraziato le forze dell’ordine per aver gestito la situazione «in modo professionale».
«È inaccettabile sostenere un governo criminale che sta commettendo un massacro e una pulizia etnica davanti agli occhi del mondo solo perché economicamente conveniente – si legge in un comunicato diffuso dal gruppo di attivisti -. Gli italiani non vogliono essere complici di questo genocidio. Siamo qui oggi per ricordare alla Leonardo che la Costituzione Italiana ripudia la guerra e noi non lasceremo che non la rispettino. Israele è sotto processo per atti di genocidio, il suo primo ministro Benjamin Netanyahu è un ricercato internazionale per crimini di guerra, su di lui pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale. La Leonardo fa affari con queste persone, traendo profitto dal genocidio dei palestinesi». La protesta si inserisce in un più ampio ciclo di mobilitazioni contro il coinvolgimento dell’industria militare italiana nei rifornimenti bellici a Israele. Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite curato dalla relatrice speciale Francesca Albanese, la Leonardo SPA — controllata dallo Stato italiano — è tra le aziende che più hanno tratto profitto dalla guerra a Gaza, registrando bilanci record nel 2023 e nel 2024.
Nel frattempo, a Gaza aumentano esponenzialmente le vittime per la carestia. Nella sola giornata di ieri, il ministero della Sanità della Striscia ha riportato la morte per fame di 10 persone, che hanno portato il totale di decessi per malnutrizione e carestia a 111. A questi si aggiungono gli oltre 1.000 palestinesi uccisi mentre cercavano di ottenere del cibo, colpiti dai proiettili israeliani. Per denunciare la precarietà delle condizioni dei palestinesi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha detto che i palestinesi stanno morendo a causa di una «carestia di massa causata dall’uomo», e oltre 100 ONG hanno rilasciato un comunicato congiunto in cui avvertono del sempre più imminente rischio di «carestia di massa». Negli ultimi giorni, a quasi 22 mesi dall’inizio degli attacchi, i ministri degli Esteri di 25 Paesi del cosiddetto “blocco Occidentale”, tra cui l’Italia, hanno rilasciatoun comunicato per chiedere a Israele di fermare i massacri a Gaza. Qualche ora dopo la sua pubblicazione, Israele ha risposto ai Paesi coinvolti, sostenendo che le loro parole sono «scollegate dalla realtà».
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