Oggi avrà luogo il nuovo scambio di ostaggi e prigionieri tra Hamas e Israele, che prevede il rientro di 200 detenuti palestinesi e 4 ostaggi israeliani. L’approvazione dello scambio da parte di Israele non è avvenuta senza frizioni, perché prevede la liberazione di quattro donne soldato, ma nelle mani di uno dei gruppi palestinesi dovrebbe esserci ancora una donna civile, che avrebbe dovuto essere liberata prima. Le quattro soldatesse sono tornate in Israele e, riferisce Al Jazeera, tre bus con 114 dei 200 prigionieri palestinesi stanno per raggiungere Ramallah. 70 dei prigionieri palestinesi verranno deportati in Tunisia, Algeria e Turchia, 121 stanno scontando l’ergastolo e 79 sentenze lunghe. Il più giovane ha 15 anni.
Aveva ragione Jung, la realtà non ci basta
Aveva ragione Carl Gustav Jung: ci sono pieghe irrazionali nella vita. Non tutto si spiega subito. Di conseguenza, non dobbiamo rifiutare quello che va contro le nostre teorie e aspettative: ci vuole tempo per capire, perché la sicurezza, la certezza, la tranquillità non portano da nessuna parte, impediscono le scoperte, occultano le novità. Tra stati psichici e avvenimenti esterni si formano relazioni di scambio: possono avvenire conferme e coincidenze non previste, possono presentarsi suggestioni inaspettate, lucidità rivelatrici, eventi inimmaginabili. In sostanza l’attesa rilassata ma vigile diventa alleata di quella speciale fisica delle sincronicità, di quelle coincidenze di pensiero e realtà, che ci possono stupire e inquietare. Ti accade, ad esempio, come se avessi chiamato in causa qualcosa o qualcuno senza averlo davvero fatto. E ti chiedi come è possibile, perché.
Esistono due forme del pensare, secondo Jung: la prima è il pensare indirizzato, che si esprime con il linguaggio e che è rivolto ad altri e si adatta ai contesti; la seconda opera invece spontaneamente con contenuti preesistenti ed è guidata da motivi inconsci: è il sognare o fantasticare. La prima imita la realtà e cerca di influire su di essa. La seconda invece «volge le spalle alla realtà», mette in libertà tendenze soggettive. Insomma, logos contro eros. Lo aveva sostenuto Aristotele, all’inizio della Metafisica: «Tutti gli uomini…amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità».
Il sogno, per esempio, ha la forza speciale di proporre banalità mescolate a rivelazioni, incontri con le circostanze di cui abbiamo già avuto esperienza ma anche con l’ignoto, in forma misteriosa, quasi mai chiara e razionale.
Un’altra forza speciale che va messa in campo, a mio parere, è rappresentata dal riconoscimento di avere torto: avere sbagliato reazioni, calcoli, valutazioni, decisioni. Ammetterlo è importante soprattutto nei confronti di noi stessi. Svela orizzonti, produce alternative, alleanze impreviste, conclusioni aperte. Rende il linguaggio, la comunicazione insufficienti: c’è bisogno di intuito, di fantasia, di forza simbolica per uscirne. Sempre che l’individuo non si nasconda, non fugga da sé, non voglia continuamente sottrarsi alle prove.
Una categoria di persone resta indenne da tutto questo: i politici. Tutti presi dal fatto di mostrare che gli avversari si sono sbagliati, tutti che si ritengono vociferanti dalla parte indiscutibilmente giusta, i politici rimangono estranei a una dote importante: quella della creatività, dell’inventiva, della novità di soluzioni possibili. Finché i politici non sapranno riconoscere i propri errori non potranno progettare nulla ma soltanto gestire con mille maschere il fluire del presente, riservando per il tempo futuro soltanto promesse o minacce, non soluzioni.
Io penso che il modo attuale di fare politica abbia annientato il valore creativo della politica, la sua forza immaginativa, la sua sensibilità, la sua apertura al cambiamento. Si prova un terribile senso di frustazione nell’ascoltare politici che non fanno trapelare sistemi di pensiero al di là dei fatti contingenti. Ma è ancora più grave che non facciano intravedere orizzonti di variazione, di potenzialità, di cambio di passo.
McLuhan, rispondendo a chi lo intervistava per Playboy (1969), sosteneva che bisogna «tracciare una mappa di nuove terre piuttosto che rilevare i vecchi punti di riferimento». Noi consumatori di comunicazione, infatti, rischiamo l’anestesia dalla consapevolezza di ciò che sta accadendo, indotta dai media, dai computer, dalla televisione. I media intensificano e amplificano i sensi e le loro funzioni ma nello stesso tempo li intorpidiscono, li privano di elasticità perché annullano e insieme esaltano il presente saturando con esso l’intero campo di attenzione.
Il soggetto sociale che ne è vittima ritiene che debba e possa avvenire soltanto quello che gli viene detto. Lo spettatore televisivo è convinto che i fatti riportati non facciano parte di ciò che è avvenuto ma soltanto si riferiscano a uno spazio lontano: il tempo è così annientato, lo spazio è collassato, è quasi soltanto digitale, non c’è causa ed effetto ma soltanto evento. La notizia quindi esaurisce il fatto, non lascia porte aperte, non lascia desideri, nemmeno quello elementare di sapere. Ogni delitto, ogni timore, ogni orrore sono una conferma del generale stato di cose, i fatti perdono i loro contorni reali.
Al soggetto passivo sembra che sia necessario soltanto ciò che il sistema, l’applicazione, l’uso dello strumento gli richiede: la percezione è ridotta al qui ed ora e l’errore è sempre e soltanto un guasto nella procedura, un intoppo che si deve poter superare.
Siamo diventati macchine esecutrici, dalle funzionalità preordinate e ripetitive, immersi in congegni che ci richiedono prestazioni, mai fantasie, mai deviazioni.
Un cambiamento radicale è ancora possibile? La distanza abissale dai centri decisionali non riguarda più soltanto i semplici cittadini; gli stessi politici e amministratori si conformano ad entità sovranazionali. E allora non capisci se il potere è questione di forza economico-finanziaria o di forza deterrente. Così la frustrazione di chi governa ma non ha niente in mano gli fa invocare orizzonti di guerra per riprendersi una centralità decisionale, visto che tutti gli aspetti economici sono in mano ad altri.
I potentati della ricchezza lasciano che i politici e i governanti frustrati giochino a Risiko ed escogitano l’impossibile affinché i cittadini si sentano estranei a quanto accade. Sempre più estranei sempre più manipolabili.
[di Gian Paolo Caprettini]
Anno giudiziario, in tutta Italia scoppia la protesta dei magistrati
Come annunciato, i magistrati stanno protestando oggi in tutta Italia contro le riforme della giustizia del governo Meloni, durante le cerimonie di inaugurazione dell’Anno giudiziario nelle Corti d’Appello. In varie città le toghe hanno lasciato l’aula quando a parlare era un rappresentante del governo. A Napoli, all’esterno di Castel Capuano, dove partecipa il ministro della Giustizia Carlo Nordio, i magistrati indossano la toga con una coccarda tricolore al petto e tengono in mano una copia della Costituzione, esponendo cartelli con frasi di Piero Calamandrei. Proteste molto partecipate anche a Roma, Bologna, Palermo e Torino, dove sono stati organizzati flash mob.
La ricchezza dei miliardari globali è cresciuta di duemila miliardi in un anno
Nel 2024 la ricchezza dei miliardari è cresciuta, in termini reali, di 2mila miliardi di dollari, pari a circa 5,7 miliardi di dollari al giorno, a un ritmo tre volte superiore rispetto all’anno precedente. È quanto emerge da un dettagliato rapporto pubblicato da Oxfam e intitolato “Takers, not Makers” (“Prenditori, non produttori”). Il documento evidenzia chiaramente come un ristretto gruppo di persone, definito “aristocrazia”, detenga una ricchezza sproporzionata rispetto al resto della popolazione mondiale. Questa ricchezza, in molti casi, è il risultato di eredità intergenerazionali, pratiche colonialiste o di un sistema basato su monopoli e distorsioni del mercato capitalista, piegato al loro volere grazie all’enorme potere economico e politico che esercitano. Nonostante i tassi di povertà complessivi siano diminuiti nel mondo, il numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà rimane invariato rispetto al 1990, rappresentando ancora il 44% della popolazione globale. Nel frattempo, l’1% delle persone più ricche possiede circa il 45% dell’intera ricchezza mondiale.
Eredità, clientelismo, corruzione e drenaggio di denaro pubblico
L’idea che la ricchezza estrema sia una ricompensa per un talento eccezionale è ampiamente diffusa e fortemente alimentata dalla narrazione prevalente, che spazia dai mass media alla cultura popolare. Questa percezione, tuttavia, non trova riscontro nella realtà dei fatti. Il rapporto di Oxfam sostiene che la ricchezza estrema della classe dei miliardari di oggi non sia in gran parte guadagnata, ma piuttosto ereditata o accumulata attraverso pratiche che somigliano a una vera e propria rapina, un fenomeno che non accenna ad arrestarsi. L’oligarchia mondiale si è consolidata grazie a un intreccio di eredità, clientelismo e potere monopolistico, che generano ricchezze spropositate. Inoltre, data la sua immensa influenza economica e politica, si potrebbe aggiungere che l’accumulo di tale ricchezza avviene anche tramite pratiche come l’insider trading, ovvero lo sfruttamento di informazioni privilegiate per trarre vantaggio sul mercato finanziario.
Nel 2023, la maggior parte dei nuovi miliardari si è arricchita tramite eredità piuttosto che attraverso l’imprenditorialità. Tutti i miliardari al mondo di età inferiore ai 30 anni hanno ereditato la loro fortuna. Nei prossimi tre decenni, oltre 1.000 miliardari attualmente in vita trasferiranno più di 5,2 mila miliardi di dollari ai loro eredi. Secondo Oxfam, il 36% della ricchezza dei miliardari deriva dall’eredità, che spesso è esente da tasse. L’analisi mostra che due terzi dei Paesi nel mondo non applicano alcuna tassazione sull’eredità per i discendenti diretti. Inoltre, metà dei miliardari vive in nazioni dove non esiste imposta di successione sul denaro che verrà trasferito ai figli. L’America Latina è la regione con il più alto volume di ricchezza ereditata al mondo. Questo fenomeno sta rapidamente creando una nuova aristocrazia globale, in cui la ricchezza estrema si trasmette di generazione in generazione, consolidando ulteriormente le disuguaglianze.
Il clientelismo e la corruzione sono altri due aspetti fondamentali che caratterizzano la fortuna di questa nuova aristocrazia. Non importa tanto il livello di competenza o conoscenza individuale, quanto piuttosto chi si conosce, su chi si può fare pressione, chi si può finanziare o corrompere. Gran parte della ricchezza estrema è infatti il risultato di legami clientelari tra i più ricchi e i governi. Questo fenomeno si manifesta frequentemente nell’intreccio tra pubblico e privato, dove le partnership pubblico-privato diventano uno strumento per drenare risorse pubbliche a vantaggio di interessi privati. Queste collaborazioni, spesso presentate come strategie per stimolare l’economia o migliorare i servizi, finiscono invece per rafforzare le disuguaglianze economiche e consolidare il potere di pochi.
Monopoli e colonialismo
I monopoli rafforzano la loro presa sulle industrie, permettendo ai miliardari di accumulare ricchezze senza precedenti. Il potere dei monopoli sta alimentando sia la crescita della ricchezza estrema sia l’aumento delle disuguaglianze a livello globale. Le società monopolistiche hanno la capacità di controllare i mercati, stabilire le regole, fissare i prezzi e definire i termini di scambio con altre aziende e con i lavoratori. Queste strategie non fanno altro che incrementare la ricchezza dei loro proprietari, i cosiddetti “aristocratici”, tra i quali figurano alcuni degli uomini più ricchi del pianeta. Un esempio emblematico è Jeff Bezos, con un patrimonio netto di 219,4 miliardi di dollari, che ha costruito il suo impero attraverso Amazon, azienda che rappresenta il 70% degli acquisti online in Germania, Francia, Regno Unito e Spagna. Un altro esempio è Aliko Dangote, con un patrimonio netto di 11 miliardi di dollari, l’uomo più ricco dell’Africa, che detiene un monopolio sul cemento in Nigeria e un notevole potere di mercato in tutto il continente africano. Secondo Oxfam, il 18% della ricchezza dei miliardari del mondo deriva direttamente dal potere di monopolio, che continua a consolidare le disparità economiche su scala globale.
Questa mentalità economica deve la sua esistenza al colonialismo, che continua a produrre effetti tangibili nel presente nonostante sia un fenomeno storico risalente a secoli fa e apparentemente concluso con la decolonizzazione dei Paesi colonizzati. Oggi, la maggior parte dei miliardari risiede nei Paesi ricchi del Nord del mondo, che ospitano appena un quinto della popolazione globale. Come evidenziato nel rapporto, è difficile spiegare questa concentrazione di ricchezza senza considerare l’impatto persistente del colonialismo.
Il colonialismo è un fenomeno sia storico che moderno. Il colonialismo storico si riferisce al periodo di occupazione e dominio formale da parte delle potenze occidentali, principalmente europee, terminato in gran parte con le lotte di liberazione nazionale nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. Il colonialismo moderno, o neocolonialismo, descrive invece quei processi attuali che continuano a estrarre ricchezza dai Paesi del Sud del mondo verso quelli del Nord. Questo avviene attraverso meccanismi di controllo economico e coercizione che, pur non basandosi più sul dominio diretto, perpetuano gli impatti del colonialismo storico.
L’economia globale odierna è chiaramente strutturata in modo tale che la ricchezza fluisca dal Sud del mondo al Nord, e più precisamente dalle classi meno abbienti del Sud alle élite più ricche del Nord. Tuttavia, non tutte le persone nei Paesi ricchi beneficiano di questo sistema: la ricchezza è concentrata nelle mani di una piccola minoranza, e anche all’interno di queste nazioni la disuguaglianza continua a crescere in modo significativo, Italia inclusa.
Il mondo odierno, profondamente segnato dalla brutale storia coloniale, è ancora dilaniato da divisioni razziali e da un sistema economico che favorisce le élite a discapito della maggioranza. L’eredità di disuguaglianza forgiata attraverso il saccheggio e lo sfruttamento durante il colonialismo storico continua a plasmare le vite moderne, creando un sistema globale in cui la ricchezza viene sistematicamente estratta dal Sud del mondo per avvantaggiare una piccola élite nel Nord del mondo.
Multinazionali e colonialismo moderno
L’impresa multinazionale è una diretta eredità del colonialismo, discendente di istituzioni come la Compagnia delle Indie Orientali, che agiva come un’entità autonoma ed era responsabile di numerosi crimini coloniali. Oggi, le multinazionali, spesso in posizioni di monopolio o semi-monopolio, continuano a sfruttare i lavoratori del Sud del mondo per conto di ricchi azionisti prevalentemente basati nel Nord del mondo.
Le catene di fornitura globali e le industrie di trasformazione per l’esportazione rappresentano moderni sistemi coloniali di estrazione della ricchezza dal Sud al Nord. I lavoratori coinvolti in queste catene di fornitura affrontano spesso condizioni di lavoro precarie, privazione dei diritti di contrattazione collettiva e scarsa protezione sociale. In alcuni casi, si trovano in situazioni assimilabili alla schiavitù, simili a quelle del colonialismo storico. Come evidenziato da Oxfam, i salari nel Sud del mondo sono tra l’87% e il 95% inferiori rispetto a quelli del Nord del mondo per lavori con pari competenze.
Le grandi multinazionali dominano le catene di fornitura globali, beneficiando della manodopera a basso costo e della continua estrazione di risorse. Queste aziende catturano la stragrande maggioranza dei profitti, perpetuando dipendenza, sfruttamento e controllo attraverso strumenti economici.
Nel 2022, uno studio condotto dall’Universitat Autonoma de Barcelona e pubblicato su Nature Communication ha cercato di quantificare il vantaggio derivante da questo scambio ineguale tra il Sud e il Nord del mondo tra il 1995 e il 2015. I risultati hanno rivelato che ben 242 mila miliardi di dollari sono stati trasferiti dal Sud al Nord del mondo in questo periodo. Questo costante depauperamento, radicato nei secoli di storia umana, costituisce la base su cui si fonda l’aristocrazia globale degli ultra-ricchi miliardari di oggi.
Educazione alla disuguaglianza
Come spiegato da Oxfam, nel 1820, il reddito del 10% più ricco del mondo era 18 volte superiore a quello del 50% più povero. Nel 2020, questa disparità è salita a 38 volte. L’attuale sistema educativo contribuisce a perpetuare l’eredità coloniale della disuguaglianza attraverso il predominio della conoscenza e delle lingue occidentali, oltre che le profonde disparità nei finanziamenti e nella ricerca a livello globale. L’influenza sproporzionata di poche istituzioni educative situate nel Nord del mondo ha plasmato le politiche economiche e sociali del Sud del mondo. Nel 2017, ad esempio, il 39% dei capi di stato a livello globale aveva studiato in università nel Regno Unito, negli Stati Uniti o in Francia.
Molto spesso, durante il periodo della decolonizzazione, l’indipendenza politica non è stata accompagnata dall’instaurazione dell’uguaglianza o della giustizia sociale. In molti Paesi, i governanti coloniali sono stati semplicemente sostituiti da élite nazionali, che hanno mantenuto sistemi economici e politici profondamente ineguali in cambio di un arricchimento personale smisurato rispetto al tenore di vita della popolazione. Inoltre, l’eredità coloniale, fatta di confini arbitrari e Stati fragili, ha contribuito a generare conflitti, guerre e instabilità persistenti.
Razzismo, odio e gerarchie sociali radicate continuano a influenzare le società moderne, manifestandosi anche nelle disparità salariali all’interno dei singoli Paesi, come negli Stati Uniti, in Australia e in Sudafrica. Durante il colonialismo storico, divisioni basate su casta, religione, genere, sessualità, lingua e geografia sono state sfruttate e aggravate con l’obiettivo di massimizzare i profitti e ostacolare ogni forma di opposizione unitaria.
Motori economici di estrazione come istituzioni globali, mercati finanziari e multinazionali, tutti plasmati dal colonialismo e dal predominio dei Paesi ricchi, continuano oggi a perpetuare schemi che favoriscono il trasferimento di ricchezza dal Sud al Nord del mondo. Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale (FMI) e Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite rappresentano ancora oggi simboli tangibili della disuguaglianza mondiale. I Paesi del G7 detengono infatti il 41% dei voti nel FMI e nella Banca Mondiale, nonostante rappresentino meno del 10% della popolazione globale. Inoltre, i leader della Banca Mondiale e del FMI sono nominati rispettivamente dagli Stati Uniti e dall’Europa.
Queste organizzazioni esercitano una significativa influenza nel modellare il sistema economico globale, insistendo sull’attuazione di politiche che spesso penalizzano i Paesi a basso e medio reddito. Il FMI, ad esempio, richiede ai Paesi debitori di dare priorità al rimborso dei debiti rispetto ad altre esigenze e promuove misure come la privatizzazione, la liberalizzazione del commercio e la riduzione della spesa pubblica come condizioni per l’accesso a nuovi prestiti.
Secondo il rapporto di Oxfam, tra il 1970 e il 2023, i governi del Sud del mondo hanno pagato 3,3 mila miliardi di dollari in interessi ai creditori del Nord del mondo. Inoltre, Oxfam stima che per ogni dollaro ricevuto dai Paesi poveri tramite il FMI, questi abbiano dovuto tagliare quattro dollari dai loro già magri bilanci pubblici.
Banche, tasse e sistema finanziario globale
Le valute forti delle nazioni ricche conferiscono a questi Paesi e ai proprietari di asset finanziari al loro interno un enorme vantaggio economico. Nel primo trimestre del 2024, ad esempio, circa il 58,9% delle riserve valutarie globali detenute dalle banche centrali era in dollari statunitensi. Questo consente a queste nazioni di accedere a capitali a un costo estremamente basso, che vengono poi investiti in attività più redditizie nei Paesi del Sud del mondo. Questo squilibrio genera un flusso di quasi mille miliardi di dollari all’anno dal Sud al Nord del mondo, di cui circa 30 milioni di dollari all’ora finiscono nelle mani dell’1% più ricco delle nazioni ricche.
Oggi, Paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito continuano a ospitare i mercati e le istituzioni finanziarie più potenti del mondo, oltre alle principali agenzie di rating. Queste agenzie plasmano la percezione globale della stabilità finanziaria e del rischio, influenzando direttamente il costo dei prestiti per i Paesi, soprattutto quelli del Sud del mondo, che vengono invariabilmente collocati in fondo alla scala delle valutazioni.
L’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), un club esclusivo di nazioni ricche, continua a dominare la politica fiscale globale. Oltre il 70% di tutti gli abusi fiscali aziendali avviene attraverso i Paesi dell’OCSE, privando le nazioni del Sud del mondo di ingenti entrate fiscali. Inoltre, la maggior parte dei paradisi fiscali si trova all’interno dei Paesi ricchi o in piccolissimi Stati che dipendono esplicitamente da essi, perpetuando un sistema che favorisce la concentrazione della ricchezza e l’elusione fiscale.
[di Michele Manfrin]
Slovacchia, proteste antigovernative in tutto il Paese
Decine di migliaia di persone si sono radunate in diverse località della Slovacchia per protestare contro le politiche del primo ministro Robert Fico, considerate filo-russe. Le manifestazioni si sono tenute in 28 città distinte; solo a Bratislava, secondo gli organizzatori, erano presenti circa 60.000 persone. Le proteste proseguono da mesi ma stanno aumentando gradualmente di intensità; questa serie di manifestazioni durerà fino al 6 febbraio. L’opposizione accusa Fico di essere troppo vicino alla Russia e, sulla base di alcune sue dichiarazioni, teme che voglia abbandonare l’Unione Europea e la NATO. Fico, dal canto suo, sostiene che l’opposizione stia destabilizzando lo Stato e organizzando un golpe.
Il ministero dell’Ambiente ha presentato il ddl per il ritorno del nucleare
Il governo italiano ha avviato l’iter per il ritorno del nucleare civile. Il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica ha infatti inviato a Palazzo Chigi il testo di un ddl delega sul «nucleare sostenibile»: tra le proposte, ci sono l’adozione di tecnologie avanzate e piccoli reattori modulari (SMR), un piano nazionale per la neutralità carbonica entro il 2050 e la creazione di un’Autorità indipendente per la sicurezza nucleare. Nel provvedimento si prevedono la «predisposizione di una disciplina organica dell’intero ciclo di vita dell’energia nucleare» e la realizzazione di «un coordinamento e un dialogo costante con i gestori delle reti elettriche». La mossa del governo va dunque a disattendere risultati dei referendum del 1987 e 2011, con cui i cittadini si erano espressi per mettere fine all’energia atomica in Italia: l’esecutivo si giustifica però asserendo che il nucleare di oggi non sia comparabile con quello che gli italiani avevano rifiutato nelle consultazioni referendario, sottolineando che oggi si punta su tecnologie più avanzate, mentre le vecchie centrali saranno dismesse.
Il testo è già stato trasmesso alla Presidenza del Consiglio e sarà discusso nel prossimo Consiglio dei Ministri. Se approvato, il governo avrà 24 mesi di tempo per emanare i decreti attuativi necessari per disciplinare ogni aspetto della produzione di energia nucleare sostenibile sul territorio nazionale. Il disegno di legge individua quattro obiettivi fondamentali: garantire la sicurezza nazionale attraverso l’indipendenza energetica, riducendo la dipendenza da fornitori esteri e proteggendo il Paese dagli effetti delle crisi geopolitiche; raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, in linea con gli impegni del Green Deal europeo; assicurare continuità e stabilità nell’approvvigionamento energetico, in un contesto di domanda crescente; mantenere la competitività del sistema industriale e a contenere i costi per gli utenti finali. Si prevede inoltre la definitiva archiviazione degli impianti nucleari del passato, destinati alla dismissione, realizzando un “Piano Nazionale” per la produzione di energia nucleare sostenibile, con particolare attenzione ai piccoli reattori modulari (SMR).
I decreti legislativi che seguiranno il ddl dovranno disciplinare vari aspetti, tra cui la localizzazione, costruzione e gestione delle nuove centrali, lo smaltimento delle scorie e il riordino delle competenze in materia. Nonostante le ambizioni del governo, il ritorno al nucleare presenta sfide significative. La tecnologia dei piccoli reattori modulari è infatti ancora in fase sperimentale e immaginarne la diffusione entro i primi anni del prossimo decennio appare decisamente ottimistico. Inoltre, il tema dei costi resta cruciale: finora, le centrali nucleari sono state realizzate solo grazie a ingenti finanziamenti pubblici. Sarà fondamentale dimostrare la sostenibilità economica di queste soluzioni. Altro nodo critico è la gestione delle scorie. Il nostro Paese non ha infatti ancora individuato un deposito nazionale per i rifiuti radioattivi, nonostante decenni di tentativi.
C’è poi un’altra questione di peso, rappresentata dai risultati dei referendum con cui gli italiani, in due diverse occasioni, hanno in passato bocciato l’energia nucleare. Nel 1987, vinse con percentuali tra il 71% e l’80% il “sì” al referendum che chiedeva l’abolizione dell’intervento statale ove un Comune non avesse concesso un sito per l’apertura di una centrale nucleare nel suo territorio, l’abrogazione per gli enti locali dei contributi pubblici per la presenza nel loro territorio di centrali nucleari e l’esclusione della possibilità per l’Enel di partecipare alla costruzione di centrali nucleari all’estero. Poi, nel 2009, il governo Berlusconi annunciò l’intenzione di rilanciare il nucleare: due anni dopo andò in scena un referendum che riguardava l’abrogazione delle norme che consentivano la realizzazione di nuove centrali nucleari in Italia: con un’affluenza del 54,8%, gli italiani votarono “sì” nel 94% dei casi, annullando di fatto i piani dell’esecutivo. Oggi, però, il tema torna in pista, e il governo sembra aver già trovato l’escamotage per uscire dall’impasse. «Il nucleare sostenibile oggi rappresenta una delle fonti energetiche più sicure e pulite – si legge nella relazione illustrativa del ddl –. Esso non è dunque tecnologicamente comparabile con quello al quale, anche a seguito di referendum, il Paese aveva rinunciato». Secondo il Mase, ciò rende legittimo «intervenire sulla materia senza alcun rischio che i precedenti referendari possano costituire un ostacolo normativo all’intervento del legislatore». La partita, dunque, è ora più aperta che mai.
[di Stefano Baudino]
Congo, offensiva ribelli: ucciso governatore militare
Le Big Tech sono sempre più colluse con l’esercito israeliano
La sorveglianza e la guerra rappresentano attività altamente redditizie, e l’industria tecnologica sembra esserne pienamente consapevole, sebbene preferisca spesso non pubblicizzare troppo i legami che intrattiene con governi ed eserciti. Di tanto in tanto, però, emergono rivelazioni che svelano uno scorcio di ciò che avviene dietro le quinte. Questa volta sotto i riflettori sono finite Microsoft e Google: documenti trapelati rivelano il rapporto sempre più stretto tra le Big Tech e le forze armate israeliane, un legame che si è intensificato rapidamente dopo il 7 ottobre 2023, in concomitanza con l’attacco mosso nei territori palestinesi.
Già nell’agosto del 2024, la testata investigativa israelo-palestinese +972 aveva denunciato come Amazon, Microsoft e Google fossero impegnate in una vera e propria competizione per rispondere alla crescente domanda israeliana di spazi di archiviazione cloud, servizi che si rivelano fondamentali per supportare gli strumenti d’intelligenza artificiale e gestire le immense quantità di dati raccolti tramite operazioni di sorveglianza. Ora, l’entità giornalistica indipendente Drop Site ha fornito in tal senso dettagli più concreti. Analizzando contratti stipulati dal governo israeliano con Microsoft, il gruppo ha evidenziato come l’escalation del conflitto abbia portato a un aumento significativo della richiesta di servizi cloud offerti dalla piattaforma Azure.
A partire da ottobre 2023, i costi di supporto e consulenza richiesti dai militari israeliani hanno raggiunto la somma di 10 milioni di dollari, mentre ulteriori 30 milioni sono stati vagliati in sostegno delle spese del 2024. Tra giugno 2023 e aprile 2024, l’utilizzo dei server messi a disposizione da Microsoft è cresciuto del 155%, un incremento significativo che suggerisce il ricorso intensivo a strumenti di intelligenza artificiale. Per soddisfare le imponenti esigenze israeliane, la Big Tech ha dovuto spingersi oltre ai soli server locali, attingendo anche alle infrastrutture europee. Attualmente, il Ministero della Difesa figura tra i 500 migliori clienti della società, tuttavia l’analisi delle dinamiche dei flussi di finanziamenti vengono rese più complesse dal fatto che le diverse entità militari possano siglare contratti in autonomia, utilizzando i rispettivi budget interni.
The Washington Post, dal canto suo, ha ottenuto documenti interni che rivelano maggiori informazioni sui rapporti intrattenuti da Google con le forze armate di Tel Aviv. Anche in questo caso, la domanda di servizi cloud ha registrato un’impennata in concomitanza con l’avvio delle operazioni punitive. Il Ministero della Difesa ha richiesto un accesso ampliato ai servizi di intelligenza artificiale offerti dalla Big Tech, mostrando particolare interesse per Vertex, una piattaforma di sviluppo IA che consente ai clienti di caricare e analizzare i propri dati. Documenti risalenti a novembre 2024 rivelano inoltre l’intenzione delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) di utilizzare il Gemini AI sviluppato da Google per creare assistenti virtuali in grado utili a elaborare in maniera più efficiente documenti e contenuti audio. Scambi di email interni suggeriscono che Google abbia assecondato con decisione le richieste israeliane, temendo che eventuali rallentamenti potessero convincere il Governo di Tel Aviv a rivolgersi ai servizi della concorrente Amazon Web Services.
Le recenti rivelazioni non chiariscono un punto cruciale: come vengano effettivamente impiegati i servizi di cloud e intelligenza artificiale. Questi potrebbero, ipoteticamente, essere utilizzati per scopi amministrativi, contribuendo ad alleggerire il carico burocratico, oppure per altre finalità tecniche non direttamente collegate agli sforzi bellici. Tuttavia, la scarsa trasparenza dimostrata dalle Big Tech, unita all’aumento del flusso di dati in concomitanza con le operazioni militari, non può che sollevare legittimi dubbi. Google, ad esempio, ha sempre assicurato che il servizio Nimbus fornito a Israele non venga usato per “carichi di lavoro altamente sensibili, classificati o militari rilevanti per le armi o i servizi di intelligence”. Eppure, questa posizione è stata di fatto smentita dal Direttore generale della Direzione nazionale per la sicurezza informatica del governo israeliano, Gaby Portnoy, il quale ha ammesso con una certa leggerezza che tale tecnologia ha permesso di “far capitare cose fenomenali durante i combattimenti”.
[di Walter Ferri]
Nord di Gaza, Israele distrugge unico impianto di dissalazione dell’acqua
L’Autorità idrica palestinese ha reso noto che i soldati israeliani hanno distrutto l’unico impianto di dissalazione che rifornisce di acqua la zona settentrionale di Gaza. In una nota dell’Autorità citata dall’agenzia di stampa Wafa si legge che le forze di occupazione israeliane «hanno completamente demolito alcuni dei componenti chiave dell’impianto», tra cui «cinque pozzi di approvvigionamento di acqua di mare, la condotta di aspirazione dell’impianto, due generatori di corrente, una pompa, una condotta di ritorno dell’acqua» e «recinzioni esterne e pompe di mandata». L’impianto forniva acqua pulita anche ai quartieri settentrionali e occidentali di Gaza City.