venerdì 5 Settembre 2025
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Strage di Firenze, archiviata l’inchiesta su Bellini: insorgono i familiari delle vittime

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Il gip di Firenze, su richiesta della Procura del capoluogo toscano, ha archiviato l’inchiesta a carico di Paolo Bellini – ex componente di Avanguardia Nazionale, già condannato in primo e secondo grado per la strage di Bologna – per l’attentato del 27 maggio 1993 in via dei Georgofili, in cui morirono 5 persone, tra cui due piccole bambine. Secondo il giudice, infatti, non vi sono abbastanza elementi per prevedere la condanna dell’indagato. Molti sono i punti di non ritorno della pronuncia: da un lato si attesta che non vi sono «riscontri circa i legami tra Bellini e la destra eversiva», ammessi però dallo stesso Bellini e attestati nelle sentenze bolognesi; dall’altro, è emerso che alle parti offese non è stata comunicata la richiesta di archiviazione avanzata dai pm, come previsto dalla legge. E i familiari delle vittime protestano veementemente, facendo sentire la loro voce.

L’archiviazione

«Le ragioni addotte dal pm nell’istanza sono pienamente condivisibili e da intendersi qui integralmente trascritte in merito alla insussistenza degli elementi soggettivi del reato ipotizzato», ha scritto il giudice nel decreto di archiviazione, depositato il 25 febbraio. Il gip afferma di aver dato seguito all’archiviazione avendo «preso atto della radicale divergenza tra quanto riferito da La Barbera e da Brusca rispetto a quanto detto dal Bellini». Secondo i due pentiti di Cosa Nostra, infatti, Bellini – che nel 1992 si infiltrò per conto dello Stato in Cosa Nostra in una sorta di “trattativa Stato-Mafia” ante-litteram – avrebbe detto a Nino Gioè, mafioso di Cosa Nostra e ponte tra mafia e servizi: “Cosa accadrebbe se sparisse la Torre di Pisa?”. Una frase che potrebbe costituire il preludio del piano stragista nel nord Italia. Bellini sostiene di non aver mai proferito quelle parole, attribuendole a Gioè. Quest’ultimo non può dire la sua, essendo morto in circostanze misteriose – il caso è stato liquidato come suicidio – nel carcere di Rebibbia nel 1993.

In particolare, ha destato molte perplessità il passaggio in cui il gip parla di una «assoluta mancanza di riscontri circa i legami tra Bellini e la destra eversiva». A sconfessare questa determinazione è infatti la stessa biografia di Bellini per come ricostruita nelle carte giudiziarie: egli fu infatti un giovane membro del MSI e poi di Avanguardia Nazionale, legatissimo al terrorista nero Stefano Delle Chiaie, coperto (secondo la Corte d’assise che lo ha condannato) dai servizi segreti dopo aver ucciso, nel 1975, il militante di Lotta Continua Alceste Campanile. «Paolo Bellini – si legge nelle motivazioni ammise di essere appartenente ad Avanguardia Nazionale e svelò i nominativi di altri appartenenti alla medesima organizzazione eversiva che avevano concorso con lui nell’ideazione e pianificazione dell’omicidio». Nella sentenza si legge inoltre che, dopo essere stato ammesso al programma di protezione su richiesta della DDA di Bologna nel 1999 – in seguito agli omicidi effettuati come killer di ‘ndrangheta –, Bellini «rilasciò molti interrogatori in cui confessò i crimini da lui commessi (tra cui diversi omicidi) e l’inserimento nella formazione eversiva di Avanguardia Nazionale a partire dagli anni ’70».

Bellini è stato inoltre condannato all’ergastolo, in primo grado e in appello, per aver partecipato alla strage di Bologna assieme agli ex NAR Francesca Mambro, Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini (già condannati in via definitiva come esecutori), nonché al capo della P2 Licio Gelli, all’uomo d’affari Umberto Ortolani, all’ex capo dell’ufficio Affari riservati del Viminale, Federico Umberto D’Amato, e al senatore missino Mario Tedeschi. Questi ultimi, ritenuti mandanti, finanziatori o organizzatori dell’attentato, sono tutti morti e perciò non più imputabili.

I familiari delle vittime

Contro l’archiviazione di Bellini è insorto il Coordinamento nazionale Associazioni e familiari di vittime delle stragi, in particolare per le modalità con cui è arrivata. «Le vittime sopravvissute delle stragi del 1993 e i loro familiari hanno appreso, da organi di informazione, che il GIP di Firenze il 25 febbraio scorso aveva emesso un decreto di archiviazione del procedimento a carico di Paolo Bellini, che era stato indagato per quelle stragi – hanno scritto i membri delle associazioni che riuniscono i familiari delle vittime degli attentati di mafia e terrorismo –. Eppure, la legge prevede che, per i delitti commessi con violenza alla persona (art. 408, comma 3° bis CPP), l’avviso della richiesta di archiviazione è in ogni caso notificato, a cura del Pubblico Ministero, alla persona offesa. La Procura di Firenze, invece, non ha provveduto ad avvisare le vittime e i loro familiari, obbligo imposto dalla legge, così cancellando perfino l’esistenza delle vittime delle stragi e negando la possibilità di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione». Un «cattivo costume» che, fanno notare i firmatari, è in uso anche alla Procura di Caltanissetta, che indaga sui presunti mandanti esterni delle stragi di Capaci e via D’Amelio.

Entrando nel merito del decreto, il Coordinamento scrive che «lascia interdetti e ci chiediamo come si possa parlare di “assoluta mancanza di riscontri circa i legami tra Bellini e la destra eversiva”, laddove invece proprio la inquietante presenza di Bellini, peraltro ampiamente accertata in atti giudiziari, costituisce una tragica costante che collega le stragi che hanno insanguinato il nostro Paese». Chiudendo il comunicato, i firmatari denunciano all’opinione pubblica «la gravità della situazione», riservandosi di attuare «ogni iniziativa finalizzata a interrompere la sistematica operazione di espulsione delle vittime dai procedimenti giudiziari e dal dibattito pubblico».

La Procura

In questo contesto si inserisce anche una situazione ingarbugliata tutta interna alla magistratura. A fine dicembre, infatti, il Consiglio di Stato ha annullato la nomina di Filippo Spiezia a procuratore capo di Firenze, in seguito ai ricorsi avanzati da altri due magistrati in cui si evidenziava come, al tempo della nomina (2023), Spiezia non avrebbe avuto i requisiti necessari per ottenere l’incarico. Pochi giorni prima della bocciatura, in una conferenza stampa, Spiezia – che aveva ottenuto la nomina grazie ai voti della corrente “conservatrice” della magistratura, MI, e dei laici scelti dai partiti di centro-destra e da Italia Viva di Matteo Renzi – aveva dichiarato: «le inchieste sulle stragi di mafia ancora aperte saranno chiuse nel 2025». Esse erano state aperte dal magistrato Luca Tescaroli, che dallo scorso anno è passato a dirigere la Procura di Prato.

L’annuncio di Spiezia aveva fatto scattare l’allarme: i familiari delle vittime della strage di Firenze avevano dichiarato di auspicare «non una chiusura» dell’inchiesta sui presunti mandanti esterni delle stragi – in cui sono ancora iscritti i nomi dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e l’ex ufficiale dei ROS Mario Mori – «ma la conclusione delle indagini con il rinvio a giudizio degli indagati, affidando al dibattimento la ricostruzione dei fatti e l’accertamento delle responsabilità». Eppure, prima di lasciare definitivamente il suo ufficio, Spiezia ha trovato il tempo per chiedere (e ottenere) l’archiviazione di Bellini.

Alla sbarra Anan Yaeesh: a L’Aquila si processa la resistenza palestinese

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«Non mi era mai accaduto che il diritto di difesa venisse così oltraggiato come è avvenuto in questo caso», dichiara l’avvocato Flavio Rossi Albertini, appena uscito dalla prima udienza del processo in Corte d’Assise che ha visto alla sbarra del Tribunale de L’Aquila Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh mercoledì pomeriggio. «Tra l’altro, un caso in cui tre palestinesi sono portati a giudizio per terrorismo, quando da 18 mesi si consuma un genocidio ai danni di quel popolo». Il processo si svolge in un tribunale italiano, ma a dirigerlo sembra vi sia Israele stesso. Anan, Ali e Mansour sono infatti accusati di associazione con finalità di terrorismo per aver – secondo le indagini e le accuse formulate dalle autorità israeliane – finanziato la Brigata Tulkarem, un gruppo di autodifesa armato attivo nella resistenza contro Israele nella Cisgiordania occupata dall’esercito sionista dal 1967.

Anan Yaeesh si trova in carcere dal 29 gennaio 2024, quando è stato arrestato per ordine di Israele, che ne ha richiesto l’estradizione. Nonostante lo zelante e immediato parere positivo del ministero della Giustizia, le evidenti prove raccolte da associazioni e gruppi a difesa dei diritti umani, che raccontano le torture nelle carceri israeliane, hanno permesso di bloccarne la deportazione. Poco dopo, la procura dell’Aquila ha aperto un fascicolo per terrorismo, chiedendo di nuovo il carcere sia per lui che per Ali e Mansour Doghmosh, due palestinesi anch’essi residenti in Abruzzo. Dopo sei mesi di detenzione, questi ultimi sono stati scarcerati, mentre Anan si trova tuttora in prigione. E la prima udienza, svoltasi ieri, sembra voler già imprimere un chiaro indirizzo politico al processo.

Il pm ha infatti reiterato la richiesta, già rigettata in fase di udienza preliminare, di acquisire 22 interrogatori inviati da Israele nei confronti di altrettanti giovani di Tulkarem arrestati, deportati nelle carceri israeliane e sottoposti prima ad interrogatori dello Shin Bet e poi della polizia giudiziaria, in assenza di qualsiasi garanzia difensiva. Il giudice ha ora deciso di accettare la domanda, acquisendo 15 dei 22 interrogatori, nonostante questi siano stati condotti in assenza di difensore e nonostante le informazioni che vi sono contenute siano state con tutta probabilità estorte con la violenza – come spesso accade nelle carceri di Tel Aviv, dove le torture e le violazioni dei diritti umani sono più che ben documentate.

«Ad avviso della difesa, l’acquisizione dei predetti verbali rappresenta una palese violazione dei principi giuridici su cui si fonda la civiltà giuridica del Paese di Verri e Beccaria e ci accomuna ai sistemi di stampo autoritario rappresentando uno strappo, un vulnus ai principi su cui si fonda il giusto processo» scrivono i tre avvocati difensori in un comunicato stampa sulla vicenda. Associazioni come Amnesty international e Human Rights Watch hanno costantemente ribadito come Israele «sottoponga a trattamenti crudeli e inumani ai danni dei detenuti in violazione del divieto di tortura» i prigionieri palestinesi nel corso degli interrogatori per ottenere confessioni. Tale «ricorso sistematico» alla violenza «è stato il motivo per cui la stessa Corte di Appello dell’Aquila aveva revocato la misura cautelare della custodia in carcere alla quale era sottoposto lo Yaeesh nell’ambito della procedura estradizionale ritenendolo non estradabile», scrivono ancora gli avvocati. Ma sembra che la Corte abruzzese se ne sia già dimenticata. Intanto, sono almeno 63 i detenuti deceduti nelle carceri israeliane dal 7 di ottobre, a causa delle torture o delle mancate cure. L’ultimo, Walid Ahmad, un ragazzo di 17 anni, dichiarato deceduto nel carcere di Megiddo pochi giorni fa dopo sei mesi di detenzione amministrativa.

«Circostanza ancora più grave e meritevole di denuncia politico-giudiziaria o giuridica» continua l’avvocato Rossi Albertini «è il fatto che noi avevamo inserito un’articolatissima lista di testimoni suddivisa sui 3 imputati, fatta di consulenti, professori universitari, Francesca Albanese [la relatrice speciale ONU per i Territori occupati Palestinesi, ndr], per descrivere quello che è effettivamente il contesto nel quale sarebbero maturati questi fatti». Ovvero per raccontare i motivi e spiegare il contesto di Tulkarem e perché esiste un gruppo armato contro Israele. «Tutti questi sono stati assolutamente esclusi. Allo stesso modo (e questo è forse ancora più grave) sono stati esclusi dal giudice molti testimoni che noi avevamo inserito, che erano invece stati presenti proprio nella città di Tulkarem come volontari internazionali, come cooperanti, residenti e che avrebbero potuto riferire sui fatti per cui è presente l’imputazione, sui fatti che vengono contestati». Solo tre testimoni, su 47 presentati, sono stati ammessi, e con la possibilità di testimoniare per uno solo degli imputati, negando così ogni possibilità di difesa agli altri due. Sui fatti compiuti in Cisgiordania, quindi, riferirà principalmente la Digos dell’Aquila, probabilmente la meno formata a parlare del complicato contesto di occupazione sessantennale che interessa quei territori. A questo si aggiungono le confessioni estorte dallo Shin Bet a 15 giovani di Tulkarem: insomma, un inizio di fuoco per quello che sembra voler essere un processo alla resistenza palestinese voluto da Israele.

A essere sotto processo, infatti, non sono solo tre uomini palestinesi, ma l’intera resistenza di un popolo. È un’idea a essere sotto accusa: difendersi dalla pulizia etnica portata avanti da Tel Aviv in Cisgiordania non è un atto di resistenza. È terrorismo. I palestinesi non hanno diritto all’autodeterminazione né all’autodifesa, nonostante il diritto Internazionale sancisca la piena “legalità” di agire, anche attraverso la lotta armata, per difendere la propria terra da un’occupazione straniera. Ma il diritto, come spesso accade, viene usato o dimenticato a seconda di chi è sotto accusa.

Corea del Sud, Corte Suprema destituisce presidente Yoon

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Il presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol è stato destituito dall’incarico per aver «violato» la Costituzione a dicembre, quando dichiarò la legge marziale. Lo ha stabilito la Corte costituzionale del Paese, confermando l’impeachment del capo dello Stato. Secondo i giudici, Yoon «non ha solo dichiarato la legge marziale, ma ha commesso atti che violano la Costituzione e la legge, tra cui la mobilitazione delle forze militari e di polizia per impedire all’Assemblea nazionale di esercitare la sua autorità». Si apre così la strada a nuove elezioni presidenziali, che si dovranno tenere entro 60 giorni.

Valle d’Aosta, assorbenti gratis nelle scuole superiori: è la prima regione in Italia

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La Valle d’Aosta è la prima regione italiana a introdurre la distribuzione gratuita di assorbenti igienici nelle scuole superiori. L’iniziativa, denominata “Tampon Box” (dall’ingelese “tampon”, “assorbente” e “box”, “scatola”), prevede l’installazione di distributori automatici in dieci istituti del territorio, garantendo alle studentesse un accesso libero ai prodotti per il ciclo mestruale. Il progetto, presentato ufficialmente questa settimana, potrebbe essere esteso in futuro anche alle scuole medie, come dichiarato dall’assessore regionale all’istruzione, Jean-Pierre Guichardaz.
La misura ...

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Strage di Piazza della Loggia, Toffaloni condannato a 30 anni

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Il tribunale dei minori di Brescia ha condannato in primo grado a trent’anni di carcere Marco Toffaloni, inquadrandolo come uno degli esecutori della strage di Piazza della Loggia del 28 maggio 1974. L’imputato, all’epoca non ancora 17enne e militante del gruppo neofascista Ordine Nuovo, non è mai stato presente durante il processo. La sua colpevolezza, secondo l’accusa, emerge con chiarezza da tre pilastri: le testimonianze, una fotografia che lo immortalerebbe sulla scena e la sentenza di appello bis che ha già portato a due ergastoli. Per la strage, che provocò otto morti e 102 feriti, sono stati condannati in via definitiva all’ergastolo Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte.

Dentro la nuova Siria, tra timore e speranze di rinascita

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Il 2025 è iniziato per me in Siria, circondata da bandiere, canti e tanta speranza per un Paese finalmente unito e libero. Neanche tre mesi dopo, l’equilibrio che lo tiene insieme è sempre più fragile. Raccontare questo Paese senza smarrirsi tra la propaganda delle diverse fazioni non è semplice: troppe voci, troppi interessi intrecciati, troppi fili invisibili che lo legano a giochi di potere. È quindi fondamentale partire dai fatti e, soprattutto, ascoltare il cuore pulsante della Siria: la voce del suo popolo.

In foto: Giulia Cicoli, cofondatrice di Still I Rise

Il bilancio di 13 anni di guerra 

Prima del 2011, la popolazione siriana era composta da circa 22 milioni di persone. Oggi, oltre 14 milioni sono sfollati: 7,2 milioni internamente in Siria e più di 6 milioni all’estero. La guerra ha causato oltre 600.000 morti e ha lasciato più di un siriano su quattro con una disabilità. La Siria è oggi un Paese ferito, con villaggi e città svuotati, un paesaggio segnato dalla distruzione di oltre l’80% delle infrastrutture e dal peso di sanzioni che ne limitano le possibilità di ricostruzione.

In foto: la prigione di Sednaya, ribattezata come ”il mattatoio umano” [foto di Still I Rise]
In più di 13 anni di guerra, atrocità si sono susseguite per mano di molteplici attori, ma il bilancio più tragico ricade sulle spalle di Assad e dei suoi alleati. Secondo il Syrian Network for Human Rights, a loro è attribuito oltre il 90% delle uccisioni verificate di civili. Inoltre, il regime ha fatto sparire 130.000 persone; arresti e torture arbitrarie erano all’ordine del giorno e il sistema di governo altamente corrotto ha trasformato la Siria in un vero e proprio “narco-Stato”, lasciando il 90% della popolazione sotto la soglia di povertà.

Tre settimane dopo la caduta di Assad, ho varcato la soglia della famigerata prigione di Sednaya, un luogo di terrore ribattezzato il mattatoio umano. Lì, migliaia di persone si sono riversate nei giorni successivi all’8 dicembre, disperate nel tentativo di ritrovare i propri cari. La maggior parte di loro però non li ha trovati e ancora oggi, nessuno sa dove — o se —quei corpi siano stati sepolti. Abbiamo attraversato città e villaggi, raccogliendo storie di dolore che si ripetevano con inquietante regolarità. Ogni persona che abbiamo incontrato aveva almeno un caro scomparso, presunto morto. Nella Siria di Assad non sparivano infatti solo i dissidenti, ma anche persone comuni, scelte a caso dalla macchina del terrore.

A Darayya, un sobborgo di Damasco, abbiamo incontrato una donna malata di cancro che da oltre sette anni non ha più notizie di sua sorella e di sua nipote, portate via senza spiegazioni. Ogni tentativo di rintracciarle è stato vano. Fuori Idlib, un insegnante ci ha raccontato la storia di un amico che, un giorno, era semplicemente salito su un pullman per l’università di Aleppo. Un controllo a un checkpoint. Un arresto senza motivo. Non è mai stato trovato.

La fine del regime e l’incertezza del futuro

In un simile contesto, Ahmad Al Sharaa, il nuovo presidente ad interim della Siria, è identificato dalla maggior parte della popolazione come l’uomo che è riuscito a deporre Assad. I festeggiamenti che si sono svolti a dicembre, all’indomani della caduta del regime, non erano tanto volti a celebrare il nuovo governo, quanto piuttosto a esultare per la fine del regime e l’alba di una possibile Siria libera. Piuttosto, suscitano timore i legami passati di Al Sharaa con Al Qaeda e si teme per la sorte che toccherà alle minoranze, specialmente alla luce dei massacri avvenuti nelle ultime settimane sulla costa siriana. Al riguardo, tuttavia, Al Sharaa ha reagito in maniera molto diversa dal suo predecessore, definendo «inaccettabili» i massacri e istituendo una commissione d’inchiesta che (sostiene lui) porterà i responsabili in tribunale, anche se fanno parte del suo stesso governo. 

È ancora presto per dire se Al Sharaa sia davvero il leader capace di portare libertà e unità in Siria: ciò che è certo è che questo desidera la maggior parte dei siriani. E per dimostrare di volersi muovere in questa direzione, il governo ad interim ha recentemente siglato un accordo storico con le SDF, le forze a maggioranza curda che governano la parte Nord-Est del Paese, al fine di integrarle nell’amministrazione siriana e riconoscere loro gli stessi diritti. A prescindere dall’esito di tale accordo, una mossa simile sarebbe stata impensabile sotto la dinastia degli Assad. 

L’abolizione delle sanzione sarebbe un aiuto concreto per la ricostruzione della Siria [Foto di Still I Rise]
Al di là dei problemi settari, spesso alimentati dai media da una parte e dall’altra per portare divisione, la sfida maggiore ora è l’estrema povertà del Paese. Sulla Siria gravano infatti ancora le sanzioni internazionali: nel momento in cui scriviamo non vi sono banche funzionanti nè circuiti di carte di credito attivi, è impossibile importare materiali e le aziende non possono commerciare con l’estero. Ogni tentativo del Paese di rialzarsi risulta, in un tale contesto, estremamente complesso da portare a termine. L’abolizione delle sanzioni, oltre a permettere la ripresa economica del Paese, aprirebbe le porte a esperti internazionali che potrebbero supportare il governo negli sforzi di sminamento, riforestazione, strutturazione del sistema giudiziario e dei diritti umani e intervenire in molti altri ambiti, nei quali i siriani stessi hanno chiesto supporto. 

La diaspora siriana: una risorsa per ricostruire

[Foto di Still I Rise]
Tutti i siriani con i quali ho parlato, tanto all’interno dei confini della Siria quanto all’esterno, condividono un desiderio profondo: ricostruire il proprio Paese senza interferenze estere. Molti dei 6 milioni di siriani all’estero sarebbero pronti a farlo in prima persona, ma sono bloccati dalla burocrazia dei Paesi che li hanno accolti dopo che hanno abbandonato le loro case distrutte e percorso lunghe e difficili rotte migratorie per poter ricominciare una nuova vita. Se fossero libere di muoversi liberamente tra la Siria e i Paesi in cui hanno trovato asilo, e se le sanzioni fossero finalmente revocate, queste persone potrebbero giocare un ruolo chiave nella ricostruzione, riportando nel proprio Paese abilità e competenze e creando legami economici con l’Occidente.

I dubbi su Al Sharaa restano e il rischio che la Siria ricada nel caos è reale. Eppure, dopo anni di guerra, esilio e distruzione, ai siriani dovrebbe essere finalmente concesso il diritto di ricostruire la propria terra. Se esiste una possibilità per una Siria finalmente libera e unita, allora il mondo dovrebbe farsi carico della responsabilità di non ostacolarla.

La Commissione Europea andrà in tribunale per aver prorogato l’utilizzo del glifosato nei campi

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È l’inizio di una battaglia legale che potrebbe segnare un punto di svolta nella gestione dei pesticidi in Europa. Il Collettivo di sostegno alle vittime dei pesticidi in Occidente, Foodwatch, France Parkinson e UFC-Que Choisir si sono unite all’azione intentata da Pesticide Action Network (PAN) Europe e dai suoi membri ClientEarth, Générations Futures, GLOBAL 2000, Pesticide Action Network Germany e Pesticide Action Network Netherlands dinanzi al Tribunale dell’Unione europea che contesta alla Commissione UE il rifiuto di riesaminare la sua decisione di rinnovare per altri dieci anni l’approvazione del glifosato. Quest’ultimo è l’erbicida più utilizzato al mondo, inquadrato dalla Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’OMS come potenzialmente cancerogeno nel 2015 e sospettato di essere correlato a malattie neurodegenerative come il Parkinson.

Le associazioni che hanno sottoscritto l’azione contro la Commissione Europea sostengono che la controversa decisione, emessa nel novembre 2023, violi il principio di precauzione, un caposaldo del diritto europeo che impone di mettere al primo posto la tutela della salute e dell’ambiente rispetto agli interessi economici. A supporto delle loro affermazioni, viene citato il Global Glyphosate Study, il più grande progetto di ricerca al mondo sugli effetti dell’erbicida, che ha evidenziato impatti significativi sul microbioma, sulla riproduzione, sull’interferenza endocrina, nonché un aumento dell’insorgenza di neoplasie e di effetti neurotossici. Risultati che rafforzano le preoccupazioni circa l’uso prolungato del glifosato già emerse dopo la classificazione data dall’OMS.

Nello specifico, le associazioni affermano che Bruxelles avrebbe ignorato gran parte degli studi scientifici indipendenti, privilegiando ricerche finanziate dall’industria agrochimica. Tale scelta, secondo loro, ha prodotto una valutazione incompleta, priva di adeguate analisi sugli effetti a lungo termine del glifosato sull’ambiente e sulla salute umana. Nonostante le richieste formali di riesame avanzate a gennaio 2024, la Commissione ha ribadito la propria decisione a luglio 2024, costringendo le associazioni a ricorrere al Tribunale dell’Unione Europea per ottenere l’annullamento del provvedimento. Se il tribunale accoglierà il ricorso, potrebbe invertire una politica che molti considerano un grave rischio per la salute pubblica e l’ambiente. La vicenda solleva questioni fondamentali sulla trasparenza delle decisioni regolatorie e sulla capacità delle istituzioni europee di bilanciare interessi economici e il benessere collettivo, in un momento storico in cui la sostenibilità ambientale è al centro del dibattito politico europeo.

La Commissione Europea, nel novembre del 2023, ha stabilito che nel continente sarà consentito utilizzare il glifosato per altri 10 anni «sulla base di valutazioni complete della sicurezza condotte dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) e dall’Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa)» assieme «agli Stati membri». Sebbene il glifosato sia stato indicato come potenzialmente cancerogeno dalla stessa Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’OMS, diverse multinazionali europee della chimica con importanti interessi commerciali nei confronti dell’erbicida avevano avanzato richiesta di proroga. E, nonostante la Commissione abbia messo nero su bianco che l’impiego del glifosato verrà subordinato «ad alcune nuove condizioni e restrizioni», hanno ottenuto il loro obiettivo.

Negli Stati Uniti, sempre più di frequente i tribunali stanno condannando il colosso della chimica Bayer a risarcire coloro che si sono ammalati a causa dell’esposizione al glifosato. Nell’ottobre del 2024, l’azienda è stata condannata da una giuria di Philadelphia a risarcire 78 milioni di dollari a un uomo della Pennsylvania che ha affermato di aver sviluppato un cancro a causa dell’uso prolungato di Roundup, erbicida a base di glifosato prodotto dalla multinazionale tedesca. Prima ancora, nel novembre 2023, la multinazionale è stata colpita da una sentenza in cui si è data ragione a tre delle migliaia di agricoltori che hanno intentato un’azione legale in questo senso. I giudici hanno infatti deciso che la Bayer dovrà risarcire per oltre 1,5 miliardi di dollari i coltivatori, che hanno dichiarato di essersi ammalati di cancro a causa dell’uso del Roundup. Bayer ha risolto nel 2020 la maggior parte delle cause pendenti sul diserbante, versando per vie extra-giudiziarie quasi 11 miliardi di dollari.

USA: la procura federale chiede la pena di morte per Luigi Mangione

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Il procuratore generale USA, Pam Bondi, ha ordinato ai procuratori federali di chiedere la pena di morte per Luigi Mangione, accusato dell’omicidio del CEO di UnitedHealthcare, Brian Thompson. La decisione segue un ordine esecutivo di Trump che impone la pena capitale per reati gravi. Mangione è stato incriminato a livello federale il 19 dicembre 2024 e il crimine è stato classificato come “violenza politica”. La condanna a morte sarebbe possibile in caso di verdetto unanime della giuria. Mangione, che ha rivendicato l’omicidio, è al centro di un vasto movimento di solidarietà popolare per aver agito per condannare le pratiche con le quali le assicurazioni sanitarie mandano sul lastrico i cittadini americani.

Era l’alba del 4 dicembre 2024 quando Brian Thompson, appena uscito dal suo hotel di lusso a Manhattan, veniva raggiunto da tre colpi di pistola. L’assassino, con il volto coperto, si dileguava rapidamente, facendo perdere le sue tracce. Tuttavia, la fitta rete di telecamere di New York ha permesso agli investigatori di risalire alla sua identità. Dopo un breve periodo di latitanza, Luigi Mangione è stato arrestato il 9 dicembre in un McDonald’s di Altoona, Pennsylvania, grazie alla segnalazione di un dipendente che lo aveva riconosciuto dalle immagini diffuse dalla polizia. Al momento dell’arresto, il giovane era in possesso di una pistola stampata in 3D, un silenziatore, documenti falsi e un manifesto in cui attaccava le compagnie assicurative private, definite «parassiti». Mangione ha dichiarato di aver agito per vendicare le sofferenze di chi non può permettersi cure adeguate negli Stati Uniti, Paese con il sistema sanitario più costoso al mondo ma al 42° posto per aspettativa di vita.

La decisione di Pam Bondi di chiedere la pena di morte per il giovane è coerente con la politica di Trump, che ha ripristinato la pena capitale per i reati più gravi dopo una moratoria federale durata dal 2021. «L’omicidio di Brian Thompson è stato un assassinio premeditato e a sangue freddo che ha scioccato l’America», ha dichiarato Bondi. Tuttavia, la pena capitale non è automatica: spetterà alla giuria di Manhattan decidere l’eventuale condanna. Mangione sta affrontando per lo stesso fatto due processi separati: a quello federale se ne aggiunge infatti un altro dello Stato di New York, dove l’imputato rischia una condanna all’ergastolo ostativo, essendo stata la pena di morte abolita nel 2007. Negli Stati Uniti, a differenza che nel nostro Paese, la medesima azione criminale può essere infatti perseguita contemporaneamente da due distinte autorità.

Luigi Mangione, noto per il suo passato brillante, ha sempre frequentato scuole prestigiose: si è diplomato da primo della classe alla Gilman School e ha poi conseguito laurea e master in informatica all’Università della Pennsylvania. Cresciuto nel comfort di una famiglia benestante, ha avuto un percorso accademico e professionale invidiabile. Tuttavia, la sua vita ha subito un drastico cambiamento quando, a seguito di un intervento chirurgico fallito per una spondilolistesi, il giovane ha attraversato una crisi personale che lo ha portato a isolarsi e a nutrire un profondo risentimento verso il sistema capitalistico. Nei suoi scritti, Mangione ha espresso ostilità verso le mutue private, definendole «mafiosi diventati troppo potenti» e accusandole di sfruttare il Paese per accumulare profitti a discapito della salute dei cittadini.

L’assassinio di Thompson ha avuto un forte impatto mediatico, dividendo l’opinione pubblica. Molti lo considerano un atto di terrorismo politico, mentre altri lo vedono come una forma estrema di protesta contro le speculazioni della sanità privata. La popolarità di Mangione ha superato i confini nazionali: una campagna di raccolta fondi per le sue spese legali ha raggiunto 775mila dollari. Sin dai primi istanti dopo la cattura di Luigi Mangione, l’assassino dell’amministratore delegato di UnitedHealthCare, dal web è emerso un ingente moto di solidarietà nei confronti del ragazzo. In rete hanno iniziato a circolare meme, battute, commenti di vicinanza e pagine dedicate al giovane informatico. C’è chi è arrivato a scrivere canzoni sulle sue azioni e chi ha disegnato magliette raffiguranti l’attimo che precede l’omicidio, stampato sotto le stesse parole incise sui proiettili che hanno colpito Brian Thompson. Non appena il nome di Mangione è uscito sui giornali del Paese, la popolarità del ragazzo è schizzata alle stelle. I suoi profili social hanno guadagnato centinaia di migliaia di follower e sui maggiori canali è esploso l’hashtag (una parola o frase preceduta dal simbolo del cancelletto, utilizzata per categorizzare e rendere facilmente ricercabili i contenuti) di tendenza #FreeLuigi.

Afta: l’Austria chiude confini in Slovacchia e Ungheria

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L’Austria chiuderà due valichi di frontiera al confine con la Slovacchia e ventuno al confine con l’Ungheria. La notizia arriva dal ministero dell’Interno austriaco, che ha avvisato che le frontiere saranno chiuse a partire da sabato. Il ministro ha spiegato che la decisione di chiudere le frontiere si configura come un tentativo di impedire l’accesso dell’afta nel Paese. L’afta epizootica è una malattia altamente contagiosa che colpisce ruminanti e suini. Sebbene non costituisca un pericolo per l’uomo, risulta particolarmente pericolosa per gli animali. Negli ultimi giorni, l’Ungheria è stata colpita da un’epidemia che ha costretto il Paese ad abbattere oltre 3.000 bovini.

Le catastrofi nucleari sfiorate nei mari italiani

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Una delle peggiori catastrofi nucleari che ha rischiato l’Italia, infinitamente peggio delle scorie velenose arrivate in silenzio da Chernobyl, è rimasta a bagnomaria per qualche giorno nel blu dipinto di blu del Mare Nostrum, prima di spostarsi altrove, a migliaia di miglia marine, dove è poi diventata un giallo internazionale che non è ancora arrivato all’ultima pagina. Correva il 1968, c’era la Guerra Fredda, il Muro di Berlino se ne stava lì, possente e minaccioso. Nel cuore dello Ionio, Taranto era già uno dei porti italiani abilitati al transito e all’attracco di unità navali a propulsio...

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