domenica 2 Novembre 2025
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USA-Filippine: svoltasi la settima esercitazione dell’anno

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Le forze armate delle Filippine e degli Stati Uniti hanno condotto una nuova esercitazione congiunta nel Mar Cinese Meridionale, la settima dall’inizio dell’anno, con l’obiettivo di rafforzare l’interoperabilità tra le due marine. Le manovre si sono svolte al largo delle province di Occidental Mindoro e Zambales, in aree distanti dalle zone marittime contese con la Cina. Ad ogni modo, la crescente presenza militare di Pechino nel Mar Cinese Meridionale ha spinto il governo filippino ad approfondire la cooperazione con gli Stati Uniti.

In Francia i siti porno si oscurano per protesta contro le nuove leggi del governo

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A partire dal 4 giugno 2025, Aylo – il gruppo canadese proprietario di portali come PornHub e YouPorn – ha deciso di oscurare agli utenti francesi l’accesso ai suoi siti. La ragione risiede nella nuova legge entrata in vigore in Francia: dal 6 giugno infatti i siti a contenuto erotico sono obbligati a verificare l’età degli utenti tramite servizi terzi, così da impedire ai minori di accedere. Questo scontro riflette una crescente pressione da parte delle autorità pubbliche nei confronti dell’industria pornografica, una dinamica che solleva interrogativi sul futuro della privacy digitale e che potrebbe presto estendersi ad altre piattaforme online.

La legge, approvata a maggio 2024 e applicabile dal 6 giugno, non impone una modalità specifica per la verifica dell’età, ma chiede di appoggiarsi a terze parti che offrono soluzioni basate sull’uso della carta di credito, sul riconoscimento facciale via webcam o sul controllo diretto dei documenti d’identità. Queste tecniche, opportunamente gestite, dovrebbero garantirebbe un “doppio anonimato” tra sito, utente e verificatore, tutelando la privacy.

Aylo, da parte sua, ha scelto di non adeguarsi ai requisiti previsti, preferendo sospendere volontariamente i propri servizi in Francia piuttosto che rischiare un blocco imposto attraverso una sentenza di tribunale. La posta in gioco è significativa: la Francia rappresenta il secondo mercato mondiale per PornHub, superata solo dagli Stati Uniti. Secondo ARCOM – l’autorità francese per i media digitali – ogni mese circa 2,3 milioni di minori francesi accedono a contenuti pornografici, pari al 12% dell’utenza nazionale, una percentuale in costante aumento.

Va chiarito che Aylo non porta avanti una crociata ideologica, piuttosto non vuole rinunciare al traffico generato dagli utenti più giovani, né farsi carico dei costi e delle responsabilità che deriverebbero dalla gestione del processo di verifica. Pur dichiarandosi favorevole ai meccanismi di controllo dell’età, Aylo sostiene infatti che il compito dovrebbe ricadere su soggetti più strutturati, come Google, Apple o Microsoft, integrandolo direttamente nei sistemi operativi.

Molteplici studi segnalano che un’esposizione precoce e ripetuta alla pornografia può influenzare negativamente la salute mentale e la vita relazionale dei più giovani, un tema che richiede prima o poi risposte concrete. Tuttavia, l’organizzazione European Digital Rights (EDRi) ritiene che l’approccio basato sull’identificazione degli utenti è sproporzionato: non solo inefficace – perché facilmente aggirabile – ma anche potenzialmente pericoloso, poiché apre nuovi scenari di rischio legati alla raccolta e gestione di dati sensibili, inoltre potrebbe introdurre barriere discriminatorie verso chi non dispone dei documenti richiesti per accedere.

Il dibattito non si ferma ai confini francesi. Negli Stati Uniti, seguendo l’indirizzo tracciato dal manifesto conservatore Project 2025 della Heritage Foundation, diciannove Stati hanno approvato normative simili, imponendo il controllo dell’identità anagrafica per accedere ai siti per adulti. un genere di intervento che spesso ha come effetto collaterale un’impennata nell’uso di VPN, strumenti che consentono di mascherare la posizione geografica dei dispositivi. Anche in Europa il fronte si allarga: la Commissione Europea ha avviato un’indagine per valutare se le principali piattaforme pornografiche rispettino gli obblighi previsti dal Digital Services Act, ma nel frattempo diversi Stati membri stanno intervenendo in autonomia.

In Italia, seguendo l’impronta del cosiddetto Decreto Caivano, lo scorso aprile l’AGCOM ha varato un nuovo regolamento che impone a PornHub e piattaforme affini l’adozione di sistemi per la verifica dell’età degli utenti. Nel frattempo, senza ancora disporre di evidenze solide sull’efficacia dell’identificazione nell’effettiva tutela dei più giovani, anche Francia, Grecia e Spagna stanno sollecitando soluzioni che costringano piattaforme come TikTok, Instagram e altri social a far rispettare con maggiore rigore le regole sull’accesso dei minori. Questo genere di indirizzo normativo rischia di tradursi in una progressiva estensione delle pratiche di controllo anagrafico, che – se applicata anche ai social network – potrebbe avere conseguenze rilevanti, coinvolgendo praticamente chiunque abbia mai creato un profilo online.

Mali, jihadisti attaccano altre due basi militari

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In Mali due basi militari sono state attaccate da miliziani islamisti, in un’escalation di violenze che starebbe rafforzando il controllo jihadista in alcune aree del Paese a suon di operazioni coordinate contro le forze governative. Gli assalti sono stati rivendicati da Jama’a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin (JNIM), gruppo affiliato ad Al Qaeda attivo nella regione del Sahel. Al momento non sono disponibili dati ufficiali sul numero delle vittime; secondo gli insorti, sarebbero centinaia i soldati uccisi.

USA: sanzioni a 4 giudici della CPI per “azioni illegittime” contro Washington e Israele

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Nonostante non siano un Paese membro della Corte Penale Internazionale e non ne riconoscano l’autorità, gli Stati Uniti hanno sanzionato quattro giudici della Corte a causa di quelle che hanno definito una «grave minaccia e politicizzazione», oltre che un «abuso di potere» da parte dell’istituzione. Le misure, ampiamente annunciate nei mesi scorsi, seguono la decisione della Corte di perseguire membri del governo israeliano per i crimini di guerra e contro l’umanità compiuti a Gaza e in Cisgiordania, oltre che alle indagini condotte contro i crimini di guerra americani in Afghanistan. La decisione, spiega il Dipartimento di Stato americano, punta a imporre «conseguenze tangibili e significative» a coloro che risulteranno direttamente coinvolti «nelle trasgressioni della CPI contro gli Stati Uniti e Israele».

Le sanzioni, in particolare, vanno a colpire Solomy Balungi Bossa, Luz del Carmen Ibanez Carranza, Reine Adelaide Sophie Alapini Gansou e Beti Hohler. Bossa e Ibanez Carranza, si legge nella nota, hanno autorizzato «l’indagine della CPI contro il personale statunitense in Afghanistan». Questa decisione, in particolare, arriva nonostante la CPI avesse sospeso le indagini contro gli USA. Gansou e Hohler, invece, sono i responsabili dei mandati di arresto contro l’ex ministro israeliano della Difesa Yoav Gallant e contro il primo ministro Benjamin Netanyahu. «A seguito delle azioni odierne relative alle sanzioni – riporta il Dipartimento – tutte le proprietà e gli interessi nelle proprietà delle persone sanzionate sopra descritte che si trovano negli Stati Uniti o sono in possesso o sotto il controllo di persone statunitensi sono bloccate e devono essere segnalate all’Office of Foreign Assets Control (OFAC) del Dipartimento del Tesoro. Inoltre, sono bloccati anche tutti gli individui o le entità che appartengono, direttamente o indirettamente, individualmente o complessivamente, per il 50% o più a una o più persone bloccate».

A gennaio, la Camera dei Rappresentanti USA aveva approvato in via definitiva un disegno di legge che prevede l’applicazione di sanzioni e misure restrittive contro i giudici della CPI. Il motivo scatenante era stata proprio la decisione della Corte di perseguire Netanyahu e Gallant, accusati di aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità in Palestina a partire dall’8 ottobre 2023. Tra questi vi sarebbero l’affamare la popolazione come strategia di guerra, il «causare intenzionalmente grandi sofferenze, o gravi lesioni al corpo o alla salute», l’«uccisione intenzionale» e gli «attacchi intenzionalmente diretti contro la popolazione civile», lo sterminio, la persecuzione e altri «atti inumani». Le accuse sono state accompagnate dall’emissione di mandati d’arresto internazionali che obbligano gli Stati membri della Corte ad arrestare Netanyahu e Gallant in caso mettano piede nel territorio di uno di essi.

La decisione era subito valsa accuse di antisemitismo contro la Corte e il suo procuratore, Karim Khan, con la Casa Bianca che aveva espresso solidarietà con Israele. Alcuni Stati (compresa l’Italia), si sono rifiutati apertamente di rispettare le decisioni della Corte, schierandosi con Washington. La posizione, tanto statunitense quanto italiana, ha una chiara valenza politica, dal momento che nessun capo di governo ha avuto da ridire nel momento in la CPI ha emesso mandati d’arresto internazionali per il presidente russo Vladimir Putin.

La Corte Penale Internazionale ha condannato la decisione statunitense, dichiarando che questa costituisce «un chiaro tentativo di minare l’indipendenza di un’istituzione giudiziaria internazionale che opera su mandato di 125 Stati parte di tutto il mondo». L’organo ha ribadito il pieno sostegno al proprio personale, riferendo che «continuerà imperterrita il suo lavoro».

In Guatemala è stato scoperto un complesso Maya di tremila anni fa

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Include santuari, piramidi e persino un inedito sistema di canali idraulici distribuiti tra tre siti finora poco conosciuti: è l’antico complesso Maya risalente a circa tremila anni fa, riportato alla luce in Guatemala da un team di ricercatori locali e archeologi slovacchi e dettagliato nel corso di una conferenza stampa tenuta recentemente dal Ministero della Cultura del Guatemala, secondo cui si tratterebbe di un ritrovamento potenzialmente capace di riscrivere alcuni capitoli della storia della civiltà precolombiana, in particolare dei suoi insediamenti più antichi. La scoperta, avvenuta grazie alle tecnologie moderne di scansione come LIDAR, presenta inoltre elementi architettonici e simbolici di rilievo che, uniti alla peculiarità delle strutture idrauliche rinvenute, suggeriscono che questi luoghi costituissero un centro rituale strategico e articolato, rimasto finora sconosciuto. «Qui si trova uno dei centri rituali più importanti della regione, con notevoli santuari, che aiutano a rivalutare la nostra comprensione della storia Maya», ha commentato il Ministero della Cultura.

La civiltà Maya nacque intorno al 2000 a.C. e si sviluppò soprattutto negli attuali territori di Guatemala e Messico meridionale, raggiungendo il suo apice tra il 400 e il 900 d.C. È nota per le sue imponenti costruzioni architettoniche, per un sofisticato sistema di scrittura e per le avanzate conoscenze in campo astronomico e matematico. Uaxactún, situato nella regione guatemalteca del Petén, è considerato uno dei siti archeologici chiave per la comprensione di questa civiltà. L’area in questione, invece, si trova a breve distanza da quest’ultimo sito, ma i tre insediamenti scoperti – Los Abuelos, Petnal e Cambrayal – risultavano finora sconosciuti e non segnalati nemmeno dalle precedenti esplorazioni. Per effettuare la scoperta, spiegano i ricercatori, è risultato fondamentale il lavoro del Progetto archeologico regionale di Uaxactún (PARU), condotto da un’équipe internazionale di archeologi guatemaltechi e slovacchi, con il supporto dell’Università Comenius di Bratislava. Il tutto grazie al supporto delle tecnologie avanzate – come la mappatura laser – che hanno permesso di identificare nuovi siti nascosti nella fitta giungla, migliorando in modo sostanziale la capacità di esplorazione e documentazione.

Per quanto riguarda l’insediamento di Los Abuelos, il nome deriva da due figure rocciose di aspetto umanoide che, secondo gli archeologi, rappresenterebbero una coppia di antenati. «Qui si trova uno dei centri rituali più importanti della regione», ha dichiarato il viceministro della cultura e dello sport del Guatemala, Luis Rodrigo Carrillo, aggiungendo che in zona si trovano santuari sacri e strutture cerimoniali che indicano l’importanza rituale dell’area e che il ritrovamento impone una rivalutazione della storia religiosa e politica della zona. A est di Los Abuelos, invece, gli archeologi hanno identificato Petnal – dove si erge una piramide alta 33 metri e che presenta sulla sommità due stanze ben conservate affrescate con simbolismi ancora in fase di studio – mentre più a nord, a Cambrayal, è stato infine rinvenuto un palazzo dotato di un sistema di canali d’acqua considerato “unico” dal ministero, che lo ritiene un indizio prezioso per comprendere le tecnologie idrauliche e la gestione delle risorse da parte dei Maya. Tutti e tre i siti, spiegano i funzionari, formano un “triangolo urbano” mai documentato prima, che testimonia l’esistenza di un assetto urbanistico articolato, probabilmente connesso al centro maggiore di Uaxactún. «Queste nuove scoperte archeologiche costituiscono una testimonianza della grandezza della cultura Maya, che oggi stiamo facendo conoscere al mondo intero», ha concluso il Ministero.

Harvard, tribunale sospende divieto di Trump a studenti stranieri

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Un tribunale federale statunitense ha bloccato il provvedimento dell’amministrazione Trump che escludeva i nuovi studenti stranieri dall’Università di Harvard. La giudice Allison Burroughs ha accolto il ricorso dell’ateneo, sostenendo che senza un intervento giudiziario urgente Harvard avrebbe subito un danno «immediato e irreparabile». Il blocco temporaneo sospende l’ordine esecutivo firmato da Trump, che prevedeva lo stop per sei mesi ai visti internazionali per motivi di sicurezza nazionale. L’università potrà quindi accogliere studenti stranieri fino al 16 giugno, data fissata per una nuova udienza.

Trump-Musk, è scontro aperto: tra accuse e insulti crollano le azioni di Tesla

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Negli Stati Uniti è esplosa una bomba. Non del tutto inaspettata però, ormai da più di una settimana se ne sentiva il ticchettio. Quella che per mesi era stata dipinta ironicamente come una “bromance” (una relazione romantica tra uomini) di interesse tra due delle figure più polarizzanti e influenti del panorama globale, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il magnate della tecnologia Elon Musk, è esplosa in una faida pubblica e virulenta. Un’escalation di accuse, insulti e minacce che, tra l’uscita di Musk dall’amministrazione e le critiche di quest’ultimo alla legge di bilancio, è rapidamente degenerata in uno scontro personale senza precedenti. Nel frattempo, le ripercussioni economiche per le due parti sono state immediate, con Trump che avrebbe perso almeno un miliardo di dollari e le azioni di Tesla crollate in borsa.

Fino a poco tempo fa, Elon Musk era considerato un alleato chiave di Donald Trump. Dopo quello che è stato classificato come tentato assassinio di Trump durante un comizio a Butler, in Pennsylvania, nel luglio 2024, Musk ha offerto al futuro presidente un sostegno incondizionato, spendendo milioni per la sua campagna elettorale e usando il suo megafono su X per amplificare i messaggi trumpiani. C’era persino chi lo vedeva come un possibile “amico e consigliere” all’interno della seconda amministrazione Trump, finendo poi per diventare il direttore del DOGE (Dipartimento di Efficienza Governativa), il revisore dei conti pubblici da tagliare e rimettere in ordine. I primi mesi di amministrazione del Dipartimento guidato da Musk sono stati un susseguirsi di azioni in grande stile e bombe mediatiche, più che concrete. Il punto di rottura, tuttavia, è arrivato con una prima critica di Musk a una vasta legge di spesa e riforme fiscali voluta da Trump. Il 28 maggio è poi arrivato l’annuncio di Musk di non essere più alla guida del DOGE. Che questo dipartimento avesse una sorta di “scadenza” era noto: il suo compito avrebbe dovuto infatti essere esaurito in un anno al massimo. Coincidenza, l’esperienza del DOGE, almeno quello guidato da Musk, finisce proprio al momento della critica alla politica di Trump.

Così, il 3 giugno, Musk alza i toni dello scontro e li porta al grande pubblico, definendo il Big Beautiful Bill del Presidente Trump una «montagna di porcherie disgustose» che avrebbe gonfiato il deficit federale, minando gli sforzi del suo ormai ex Dipartimento. La risposta di Trump arriva, il 5 giugno, dal suo profilo di Truth, il suo social network. Il presidente ha espresso la sua grande delusione per Musk, suggerendo che l’opposizione del CEO fosse legata a interessi personali, in particolare alla prevista rimozione di crediti d’imposta per i veicoli elettrici, misura che avrebbe colpito direttamente Tesla. Trump ha poi rincarato la dose dicendo di essere stato lui a chiedere a Musk di lasciare l’amministrazione, contraddicendo la narrazione di una partenza volontaria, spiegando che era diventato «stancante». Lo stesso Trump ha poi lanciato l’idea di cancellare i «lucrativi contratti governativi e i sussidi» per le aziende di Musk, tra cui Tesla e SpaceX, definendolo «il modo più semplice per risparmiare miliardi di dollari», facendo quindi allusione proprio al ruolo svolto fino a qualche giorno prima da Musk all’interno della sua amministrazione. Una chiara minaccia che dimostra come le lealtà nel mondo trumpiano siano effimere e strettamente legate al consenso e all’allineamento politico.

Elon Musk, noto per la sua propensione allo scontro, specie sui social, non si è sottratto alla battaglia, replicando che Trump «non avrebbe potuto vincere» le elezioni senza il suo supporto. Musk è addirittura arrivato a insinuare riguardo a legami tra Trump e il defunto Jeffrey Epstein, motivo per cui le rivelazioni promesse sul caso non sarebbero arrivate. Infine, ha anche lanciato un sondaggio intitolato «È giunto il momento di creare un nuovo partito politico in America che rappresenti davvero l’80% della popolazione media?», facendo credere nella sua volontà di lanciare la sfida politica.

Uno scontro così aggressivo rivela una rottura profonda che va oltre le semplici divergenze politiche, toccando corde profonde di ego e potere, che a entrambe di certo non mancano. Le conseguenze di questa faida pubblica si sono fatte sentire immediatamente sul mercato. Le azioni di Tesla, già sotto pressione da tempo, anche per il sostegno politico a Trump, hanno registrato un crollo significativo bruciando circa 150 miliardi di dollari di valore azionario. Ieri hanno toccato il picco di -19% e oggi, al momento in cui scriviamo, stanno continuando a scendere. Ma, come riporta Axios, anche le attività di Trump hanno avuto una flessione significativa, costando più di 1 miliardo al presidente. Insomma, per entrambi una grana economica, prima che politica. In queste ore si vocifera di una possibile chiamata pacificatoria che avverrà nelle prossime ore.

Lo scontro pubblico tra Trump e Musk è un caso emblematico di come le intersezioni tra politica di alto livello, potere economico ed ego possano produrre dinamiche esplosive. L’alleanza iniziale era fondata su una convergenza di interessi e ideologie: Trump, pro-business e anti-regolamentazione, e Musk, innovatore eccentrico e critico del “deep state” e delle narrative mainstream. Entrambi amano il controllo diretto, la provocazione e l’uso spregiudicato dei social media per influenzare l’opinione pubblica. Tuttavia, il dissidio sulla legge di spesa rivela una frattura fondamentale: per Trump, la lealtà è un valore supremo e le critiche a una sua iniziativa legislativa vengono percepite come un tradimento personale. Questo scontro, dunque, non è solo una lite tra due ego smisurati, ma una cartina di tornasole delle complessità che emergono quando il capitale privato, con le sue logiche di mercato e innovazione, si scontra con il potere politico, con le sue logiche di controllo e fedeltà. La domanda ora è se questo scontro avrà ripercussioni durature sulla politica americana, sull’agenda di Trump e sulle fortune delle imprese di Musk, o se si tratta solo di un’altra tempesta in un bicchiere d’acqua nel tumultuoso panorama contemporaneo.

Gaza: fondazione USA sospende di nuovo distribuzione aiuti umanitari

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Dopo la prima sospensione dello scorso mercoledì 4 giugno, la Gaza Humanitarian Foundation (GHF), l’ONG americana incaricata di distribuire gli aiuti umanitari a Gaza e fortemente criticata dall’ONU e da altre agenzie internazionali, ha nuovamente fermato questa mattina le attività nella Striscia. «State lontani dai punti di distribuzione per la vostra sicurezza», ha riferito la fondazione, che non specifica quando le attività ricominceranno. Sono decine i palestinesi uccisi e centinaia quelli feriti dall’esercito israeliano nei giorni scorsi, mentre cercavano di ricevere gli aiuti umanitari nei punti di distribuzione della GHF.

Molfetta, appalti in cambio di voti: arrestato sindaco Minervini

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Il sindaco di Molfetta, Tommaso Minervini, è stato ristretto agli arresti domiciliari nell’ambito di un’inchiesta della Guardia di Finanza su presunte irregolarità negli appalti in cambio di voti. Stessa misura per la dirigente comunale Lidia De Leonardis. Disposte anche interdizioni per due dirigenti comunali, il divieto di dimora per un ex luogotenente della Guardia di Finanza e restrizioni per un imprenditore portuale. Le accuse, che ruotano attorno alla gestione del nuovo porto commerciale di Molfetta, comprendono corruzione, turbativa d’asta, peculato e falso. Minervini, secondo la ricostruzione dei magistrati, avrebbe promesso la gestione trentennale delle banchine in cambio di sostegno elettorale.

Dalla Francia all’Italia: i portuali boicottano l’invio di armi a Israele

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Un container con 14 tonnellate di componenti per mitragliatrici destinate all’esercito israeliano è stato bloccato nel porto francese di Marsiglia grazie all’azione dei portuali della CGT, che hanno rifiutato di caricarlo sulla nave cargo Contship Era della compagnia israeliana ZIM. I lavoratori lo hanno definito come atto di dissenso «contro il genocidio in corso orchestrato dal governo israeliano». Il boicottaggio è stato promosso anche dai membri del Collettivo autonomo lavoratori del porto di Genova, dove il cargo attraccherà domani. Questi ultimi, plaudendo ai colleghi francesi, hanno annunciato che sorveglieranno la nave – che nei giorni successivi arriverà a Salerno, per poi salpare verso Haifa – per assicurarsi che sia effettivamente vuota.

La protesta è iniziata a Marsiglia, quando il sindacato CGT ha scoperto che il carico conteneva 19 pallet di maillons, componenti metallici prodotti dall’azienda Eurolinks e utilizzati per collegare le munizioni nei fucili mitragliatori. Il media investigativo Disclose ha rivelato negli scorsi giorni che questi materiali sarebbero destinati a Israel Military Industries, una controllata di Elbit Systems, azienda chiave del comparto militare israeliano. Il governo francese sostiene che il carico non sia destinato direttamente all’esercito israeliano, ma per produzioni da riesportare. A ogni modo, i portuali hanno deciso di bloccarlo: «Il porto di Marsiglia non deve alimentare l’esercito israeliano», hanno affermato. L’azione ha ricevuto il plauso della sinistra francese: «Gloria ai dockers di Marsiglia-Fos», ha scritto il deputato Manuel Bompard, mentre Jean-Luc Mélenchon ha chiesto un «embargo immediato sulle armi del genocidio».

Ora la Contship Era è attesa a Genova, dove i portuali dell’USB e del Collettivo autonomo lavoratori portuali (CALP) avevano annunciato per la giornata di oggi un presidio a Ponte Etiopia per impedire l’attracco. Ieri sono però usciti con un comunicato in cui hanno elogiato i portuali di Marsiglia e spostato la mobilitazione a domani: «Primo grande risultato della lotta dei portuali francesi in coordinamento con i nostri: la nave della morte, la Contship Era, è ferma a Marsiglia e NON è stata caricata delle sue 14 tonnellate di nastri per mitragliatrici – si legge nella nota –. Il presidio di domani delle 15 al Varco Etiopia del Porto di Genova è spostato al sabato mattina per verificare che, qualora arrivasse a Genova, sia effettivamente vuota». I portuali hanno inoltre indetto per domani alle 18 una conferenza stampa al Music For Peace, a pochi passi dal Varco Etiopia. «Boicottare la guerra si può. Al fianco del popolo Palestinese», scrivono chiudendo il comunicato.

Già nel novembre del 2023, poco dopo l’inizio dei massacri a Gaza, il Collettivo autonomo dei lavoratori portuali aveva lanciato una mobilitazione per bloccare il varco di San Benigno, uno dei punti chiave della viabilità genovese, al fine di protestare contro il transito di armamenti dal porto del capoluogo ligure. La mobilitazione era proseguita nel giugno dello scorso anno, quando i portuali avevano organizzato un presidio non autorizzato in sostegno della Palestinabloccato i varchi portuali della città. Iniziative che si collocano in un generale movimento di protesta dal basso contro il traffico marittimo di armi, che in Italia – come in Europa – ha portato a muoversi tanto i lavoratori del settore, quanto le comunità cittadine. I portuali genovesi non sono nuovi a questo tipo di azioni: già in passato avevano bloccato carichi di armi diretti in Arabia Saudita per la guerra in Yemen, ricevendo anche un riconoscimento da papa Francesco.