martedì 1 Luglio 2025
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In Serbia le proteste popolari vanno avanti da ormai tre mesi

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Sono passati quasi tre mesi dal tragico crollo della pensilina della stazione ferroviaria di Novi Sad, che il 1° novembre 2024 ha causato 15 morti e due feriti gravi in Serbia. Quella vicenda, considerata il simbolo più tangibile della corruzione e dell’incuria che permeerebbero le istituzioni serbe, ha acceso la miccia di una protesta popolare senza precedenti. Da allora, il movimento studentesco e sociale serbo non si è fermato. Anche ieri, decine di migliaia di ragazzi sono scesi in piazza a Belgrado e in molte altre città del Paese contro il governo del presidente Aleksandar Vučić e del Partito Progressista Serbo (SNS), al potere dal 2012: gran parte delle strutture scolastiche della capitale sono rimaste chiuse, in quanto i sindacati degli insegnanti hanno appoggiato l’appello degli studenti a indire uno sciopero. La mobilitazione continua ad allargarsi, coinvolgendo sempre più categorie professionali e strati della popolazione.

Lunedì 20 gennaio, le lezioni avrebbero dovuto riprendere dopo le vacanze natalizie. In molte scuole, però, così non è stato: gli insegnanti hanno scioperato in solidarietà con gli studenti. A loro si sono uniti avvocati, medici, lavoratori dell’azienda statale dell’energia EPS, organizzazioni culturali e ONG. Migliaia di ragazzi si sono radunati ieri di fronte al palazzo principale del governo a Belgrado e sono rimasti in silenzio per 15 minuti per ricordare coloro che sono morti nel crollo della pensilina di Novi Sad. Decine di migliaia di persone si sono unite alla loro protesta, rimpinguando un enorme corteo che ha attraversato le strade della città. Oltre alla capitale, si sono tenute manifestazioni a Novi Sad, Nis, Zajecar, Valjevo, Sombor, Kraljevo, Pozega e in molti altri centri del Paese. Molte le attività commerciali hanno abbassato le serrande in segno di protesta, benché il governo abbia cercato di minimizzare la portata dell’evento. Nel frattempo, l’Ordine degli avvocati della Serbia ha votato all’unanimità la sospensione dei suoi lavori fino alla fine della settimana.

La più imponente manifestazione si è tenuta il 22 dicembre a Belgrado, con la partecipazione di oltre 29mila persone. Una protesta particolarmente significativa si è svolta il 17 gennaio sotto la sede della televisione pubblica RTS, accusata di avere spalmato la sua informazione sulla linea dell’esecutivo. I manifestanti, in silenzio fino all’inizio del telegiornale serale, hanno poi fatto il massimo rumore possibile con fischietti e tamburi, interrompendo simbolicamente la narrazione filogovernativa. Nel corso delle proteste, gli studenti hanno formando cordoni di sicurezza per proteggere gli edifici governativi durante le manifestazioni e smentendo le accuse di Vučić, che li ha definiti estremisti manipolati da potenze straniere. Contestualmente, la televisione pubblica e gran parte dell’universo mediatico ha dipinto i manifestanti come facinorosi al soldo di forze estere, mentre agenti di polizia e servizi segreti hanno convocato attivisti per interrogatori informali e sequestrato telefoni, spesso infettati con spyware. Episodi di violenza contro i manifestanti non sono mancati: il 22 novembre uno studente è stato investito e gravemente ferito da un automobilista durante un presidio.

Lo slogan “Avete le mani insanguinate” è diventato il simbolo del movimento, che richiama la responsabilità del governo non solo per il crollo di Novi Sad, ma anche per il clima di oppressione e manipolazione che domina il Paese. Le richieste dei manifestanti sono chiare e puntano a una profonda trasformazione delle istituzioni serbe. Tra queste, spiccano la pubblicazione completa della documentazione sui lavori di ristrutturazione della stazione di Novi Sad, la formulazione di accuse penali contro i responsabili del crollo, la fine delle repressioni contro i manifestanti e maggiori stanziamenti per il sistema universitario. I collettivi studenteschi chiedono inoltre le dimissioni del primo ministro Miloš Vučević e del sindaco di Novi Sad. Alcuni risultati sono stati ottenuti, tra cui la pubblicazione parziale dei documenti sulla stazione di Novi Sad e l’apertura di indagini su alcuni funzionari. Il clima, però, resta rovente, mentre si allarga lo scollamento tra le alte gerarchie del potere politico-mediatico e la popolazione.

[di Stefano Baudino]

Congo: l’M23 è entrato a Goma

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I ribelli congolesi dell’M23 hanno annunciato di aver conquistato la città di Goma, capoluogo della provincia del Nord Kivu, nell’Est del Paese. L’annuncio arriva dopo giorni di intensi scontri tra i ribelli, sostenuti dal Ruanda, e le forze regolari, e dopo un assedio della città da parte dei primi che ha bloccato i voli e costretto migliaia di civili alla fuga. Secondo quanto comunica l’agenzia di stampa Reuters, anche parte del personale di MONUSCO, la missione ONU nel Paese, starebbe evacuando oltre il confine con il Ruanda.

Libano, esteso il cessate il fuoco fino al 18 febbraio

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L’accordo di cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele è stato prorogato fino al 18 febbraio. A dare la notizia è la Casa Bianca, dopo che Israele aveva annunciato che avrebbe mantenuto le truppe nel sud del Paese oltre la scadenza stabilita dagli accordi, fissata a ieri, domenica 26 gennaio. Ieri, riporta il ministero della Salute libanese, approfittando della scadenza del cessate il fuoco, le forze israeliane hanno ucciso 22 persone in 19 diverse località.

La sentenza su un ricercatore italiano riconosce il diritto all’obiezione di coscienza ecologica

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Il Tribunale del lavoro regionale di Kiel, in Germania, ha stabilito un importante risarcimento economico in favore del dottor Gianluca Grimalda, ricercatore italiano specializzato nello studio degli impatti sociali del cambiamento climatico, che era stato licenziato dall'Istituto per l'economia mondiale di Kiel (IfW) a seguito del suo rifiuto di prendere un aereo per tornare da una missione scientifica in Papua Nuova Guinea, scegliendo invece un viaggio via terra e mare per ridurre le emissioni. Il licenziamento era avvenuto nonostante Grimalda durante il lungo viaggio avesse continuato a lav...

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Baltico, danneggiato un cavo sottomarino

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Un cavo sottomarino in fibra ottica situato nel Mar Baltico tra la Lettonia e la Svezia è stato danneggiato. La marina lettone ha annunciato di aver inviato una motovedetta per ispezionare una nave sospettata di coinvolgimento; insieme a essa, risultano sotto indagine altre due navi. «Abbiamo stabilito che molto probabilmente si tratta di danni esterni e che sono significativi», ha detto ai giornalisti il ​​primo ministro lettone Evika Siliņa al termine di una riunione straordinaria del governo. Anche la Svezia ha dichiarato di essersi coordinata con la NATO e gli altri Paesi della regione del Mar Baltico per chiarire le circostanze.

Grecia: manifestazione per il disastro ferroviario del 2023

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Oggi, domenica 26 gennaio, decine di migliaia di cittadini greci si sono riuniti davanti al Parlamento ad Atene per chiedere giustizia per le 57 persone morte nel disastro ferroviario di Tempe del 2023. Nella capitale sono scoppiati piccoli scontri con la polizia, mentre si stavano svolgendo analoghe proteste a Salonicco e in altre 95 città del Paese. L’incidente ferroviario di Tempe, considerato il peggiore della storia ellenica, è avvenuto il 28 febbraio 2023, quando un treno passeggeri e un treno merci si sono scontrati frontalmente presso la valle di Tempe, in Tessaglia, nella Grecia centro-orientale, a pochi chilometri a nord della città di Larissa. L’indagine giudiziaria sullo scontro è ancora in corso.

Migranti, riprende il trasferimento in Albania

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Questa mattina, la nave della marina italiana Cassiopea è partita da Lampedusa per portare in Albania 49 migranti recentemente sbarcati in Italia. A dare la notizia è il Viminale, che ha aggiunto che «altri 53 migranti hanno presentato spontaneamente il proprio passaporto per evitare il trasferimento». I migranti dovrebbero arrivare in Albania martedì. Quello di oggi rappresenta il terzo tentativo da parte del governo di trasferire i migranti in Albania, dopo che i giudici hanno ordinato di fare rientrare in Italia i primi due gruppi di migranti inviati in Albania.

200 prigionieri palestinesi liberati, Israele cerca di impedire i festeggiamenti

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RAMALLAH, PALESTINA OCCUPATA – Sono duecento i prigionieri palestinesi rilasciati nel pomeriggio di ieri, 25 gennaio, in cambio delle quattro soldatesse arrestate da Hamas il 7 ottobre scorso in una delle basi militari che sorvegliavano la frontiera con Gaza. Sedici dei detenuti politici palestinesi liberati sono stati trasferiti all’ospedale europeo di Khan Younis (Gaza), mentre 114 sono arrivati a bordo di due pullman al Ramallah Entertainment Complex. Gli ex-prigionieri scesi dai bus indossano ancora la tuta grigia delle carceri israeliane, molti portano cicatrici visibili sul volto e sulla nuca. Tutti appaiono fragili e magri. Alcuni mostrano evidenti difficoltà a camminare, e numerosi indossano guanti di plastica blu, probabilmente a causa di un’infezione da scabbia, malattia utilizzata come metodo di tortura nelle prigioni di Tel Aviv. Nelle “democratiche” carceri israeliane appaiono aver subito condizioni detentive peggiori di quelle riservate da Hamas alle soldatesse israeliane liberate poche ore prima. Ad aspettarli c’erano centinaia di persone, tra parenti, amici e cittadini desiderosi di esprimere solidarietà. Tra loro c’è R., che sta aspettando il rilascio di suo cugino. «Sono troppo felice, grazie Gaza – dice a L’Indipendente – mio cugino sta venendo rilasciato dopo sette anni di prigione. Ne avrebbe dovuti fare 17», afferma. Non riesce a trattenere la gioia e ha quasi le lacrime agli occhi. «Hanno impedito ai suoi genitori di venire, li hanno bloccati a Beita. Ma noi siamo qua». «Grazie Gaza – ripete – grazie per quello che ha fatto per tutti noi».

C’è felicità, euforia, la folla spinge impazzita quando i bus appaiono all’orizzonte, scortati dai militari palestinesi. Molti avevano ergastoli sulle spalle, con decenni davanti da passare in galera. Il più giovane ha 16 anni. Dei duecento palestinesi liberati 70 non passeranno di qua, sono quelli maggiormente importanti dal punto di vista politico, in quanto leader della resistenza. A loro è stato imposto l’esilio e sono stati direttamente deportati in Egitto senza poter riabbracciare le famiglie. Ancora non è chiaro quale sarà la loro destinazione finale, ma probabilmente potranno vivere in Egitto, Qatar, Turchia o Algeria. Tra gli esiliati c’è Mohammed al-Tous, il “decano” dei prigionieri della Cisgiordania occupata, arrestato nel 1985 e rilasciato oggi dopo 39 anni di prigione. Zakaria Zubeidi, invece, leader molto amato delle Brigate di resistenza del campo rifugiati di Jenin – oggi al sesto giorno di violento assedio da parte delle IDF – protagonista della Seconda intifada oltre che di una spettacolare fuga dalle prigioni israeliane pochi anni fa, non è ancora stato rilasciato.

Una folla gremita ha accolto gli ex-prigionieri tra cori e slogan, sventolando bandiere palestinesi, di Fatah (il partito di Abu Mazen, al governo dell’Autorità Palestinese), del Fronte Popolare (FPLP) e del Fronte Democratico (FDPL). Tuttavia, a differenza della settimana scorsa, erano poche le bandiere di Hamas. Infatti, se alla liberazione delle 90 donne e minorenni palestinesi, avvenuta sabato 18, le bandiere verdi dominavano la scena, ieri l’ANP di Abbas ha voluto dimostrare di avere il controllo sull’evento, facendo sì che i simboli di Hamas non fossero ben accetti.

Mentre a Tel Aviv migliaia di israeliani si sono potuti riunire per accogliere le soldatesse rilasciate, l’esercito israeliano ha cercato di impedire le manifestazioni di gioia dei palestinesi in onore dei propri detenuti politici. Secondo quanto riferito da diversi cittadini palestinesi, militari dell’IDF e dello Shin Bet hanno telefonato alle famiglie dei detenuti e hanno visitato le loro case, mettendoli in guardia da celebrazioni pubbliche. Una fonte militare afferma che le truppe hanno sgomberato un tendone nel villaggio di al-Mughayyir, che doveva essere usato per festeggiare il rilascio di uno dei prigionieri, e che dopo un corteo tenutosi a Kafr ‘Aqab – Gerusalemme Est – le truppe di Tel Aviv sono arrivate per disperdere l’assembramento e hanno invaso la casa del prigioniero appena rilasciato. Nelle prossime settimane dovrebbero venire lentamente rilasciati tra i 1000 e i 2000 prigionieri palestinesi, in cambio dei restanti ostaggi israeliani.

[testo e foto di Moira Amargi – corrispondente dalla Palestina]

Sudan, attaccato un ospedale nel Darfur Settentrionale: 70 morti

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Più di settanta persone sono morte e altre decine sono rimaste ferite a seguito di un attacco aereo nella regione sudanese del Darfur Settentrionale. A dare la notizia è il capo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha lanciato un appello perché cessino gli attacchi contro operatori e strutture sanitarie nel Paese. Il governatore del Darfur, Mini Minnawi, ha attribuito la responsabilità dell’attacco alle Forze di Supporto Rapido. Dal 15 aprile 2023, il Sudan è teatro di violenti scontri tra l’esercito regolare e il movimento paramilitare delle Forze di Supporto Rapido; il conflitto ha causato milioni di sfollati e decine di migliaia di morti.

In Repubblica Democratica del Congo i ribelli sono ormai alle porte della capitale

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Sempre di più vicino lo scontro tra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo. La milizia ribelle M23, sostenuta dal Ruanda, è riuscita negli ultimi 10 giorni a circondare la capitale regionale del Nord Kivu, Goma. Con la morte, avvenuta ieri, del governatore militare del Nord Kivu, l’M23 sta preparando l’assalto alla città dove vivono più di due milioni di persone. La comunità internazionale si dice preoccupata per il peggiorare delle condizioni umanitarie della popolazione civile e riporta che dall’inizio dell’anno sono state sfollate 400.000 persone.

La settimana scorsa con roboanti dichiarazioni il portavoce dell’esercito della Repubblica Democratica del Congo, Guillaume Ndjike Kaiko, affermava che «I ribelli dell’M23 sono stati fermati dalle Forze armate della RDC e sono stati respinti quasi ovunque». Una dichiarazione che sembrava presagire una nuova fase della devastante guerra nelle ricche regioni orientali della Rdc, ma così non è stato. All’inizio di questa settimana infatti la milizia ribelle M23 sostenuta, secondo diverse indagini di Nazioni Unite, Stati Uniti e Congo, dal Ruanda ha sferrato una pesante offensiva riconquistando diverse posizioni perse nelle regioni ricche di minerali del  Nord e Sud Kivu, arrivando a una ventina di chilometri dalla capitale del Nord Kivu, Goma. La città è un polo regionale per il commercio affacciata sul lago Kivu e il suo aeroporto è fondamentale per il trasposto degli aiuti umanitari. Nei lunghi anni di instabilità della regione, Goma è stata rifugio per milioni di persone in fuga dalle violenze. Oggi conta due milioni di abitanti molti dei quali vivono negli enormi campi profughi alla sua periferia. Il governatore provinciale del Sud Kivu, Jean-Jacques Purusi, ha confermato martedì la perdita di Minova, città chiave sulla rotta di approvvigionamento per Goma, aggiungendo che i ribelli hanno catturato anche le città minerarie di Lumbishi, Numbi e Shanje, come riporta Al-jazeera

Mercoledì sono iniziati gli scontri anche a Sake, fondamentale città  nel Nord Kivu, portando l’M23 a poco più di di 20 chilometri dalla capitale regionale. La battaglia per la conquista di Sake sembrerebbe continuare e ancora non ci sono notizie certe su chi abbia il pieno controllo della città. É di ieri la notizia dell’uccisione del governatore del Nord Kivu, il generale Peter Chirimwani, al comando del governo provinciale dal 2023 quando la regione è stata posta sotto legge marziale. Il generale pare che giovedì abbia fatto visita ai soldati sulla linea del fronte dove è stato ferito per poi morire ieri in un ospedale di Kinshasa dove era stato trasferito d’urgenza. La missione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite in Congo, MONUSCO, ha affermato che la sua artiglieria pesante ha fatto fuoco contro le posizioni dell’M23 a Sake nelle ultime 48 ore e ha riposizionato le sue forze in punti strategici per rafforzare il suo dispiegamento a Goma e nei dintorni. 

Con l’avvicinarsi della battaglia, negli ultimi 10 giorni, almeno 180.000 persone sono scappate da Goma, fuggitivi che si aggiungono ai più 230.000 sfollati registrati dall’inizio del nuovo anno dalle Nazioni Unite. Il panico è esploso tra la popolazione quando si sono iniziati a sentire i colpi di artiglieria sempre più vicini e si sono visti arrivare centinaia di civili feriti che, arrivati dai villaggi vicini, sono stati portati all’ospedale centrale della città. 

«Stiamo scappando, ma non sappiamo dove stiamo andando perché ovunque le bombe ci seguono» ha raccontato ad Ap David Kasereka mentre saliva in sella a una vecchia moto con in braccio un bambino di 3 anni. A causa dei duri scontri e bombardamenti che stanno avvenendo alla periferia della città, molti civili hanno deciso di rifugiarsi nel centro della capitale regionale, «I pesanti bombardamenti hanno costretto le famiglie di almeno nove insediamenti di sfollati nella periferia di Goma a fuggire in città per cercare sicurezza e riparo» ha affermato ieri Matthew Saltmarsh, portavoce dell’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). 

A causa dello scontro tra Repubblica Democratica del Congo e del Ruanda dall’inizio dell’anno sono state sfollate 400.000 persone

«La popolazione di Goma ha sofferto molto, come altri congolesi», ha detto un portavoce dell’M23, Lawrence Kanyuka,  giovedì su X. «L’M23 è in viaggio per liberarli e devono prepararsi ad accogliere questa liberazione». Parole che però non trovano riscontro nei racconti dei civili in fuga dalle città conquistate, che parlano di stupri uccisioni sommarie e arruolamento nella milizia di giovani e giovanissimi. 

L’M23 è uno dei più di 100 gruppi armati che si contendo il controllo delle miniere e delle vie commerciali nel Congo orientale. Nata il 23 marzo del 2009, l’M23 è formata da soldati di etnia tutsi che iniziarono la prima avanzata verso Goma, per poi conquistarla e tenerla per qualche settimana, nel 2012. Rimasta dormiente per un decennio, nel 2022 la milizia ha ricominciato a minacciare le regioni orientali della Rdc, riuscendo, negli ultimi 10 giorni, a conquistare più territorio di quanto non avesse fatto negli ultimi due anni e mezzo. Secondo indagini indipendenti delle Nazioni Unite e non solo, la milizia è sostenuta logisticamente e numericamente dal Ruanda. Kigali ha sempre negato queste accuse anche se ha ammesso la presenza di truppe e postazioni missilistiche ruandesi sul suolo congolese. La motivazione del dispiegamento di questi effettivi è sempre stata la difesa dei confini del Ruanda soprattutto dalle milizie hutu che dopo essersi macchiate del genocidio ruandese sono fuggite in Congo. 

Ormai però è chiaro il sostegno all’M23 che ha come missione quella di  prendere il controllo delle maggiori città e miniere della regione, per poi contrabbandare i minerali in Ruanda. «Gli studi hanno da tempo evidenziato il contrabbando di risorse dal Congo al Ruanda», ha affermato Ladd Serwat, analista senior per l’Africa presso l’Armed Conflict Location & Event Data Project. «I funzionari congolesi accusano sempre più il Ruanda di volere il controllo sulle risorse della regione e di voler annettere parti del Congo». Nei territori sotto il suo controllo l’M23 implementa il proprio sistema fiscale, gestisce un governo locale e controlla le risorse naturali.

Milizie dell’M23

La tensione e gli scontri non sono mai stati così gravi come lo sono ora, e la paura che le cose possano degenerare in una vera e propria guerra regionale non è poi così improbabile. Mercoledì infatti il portavoce del governo di Kinshasa, Patrick Muyaya, ha dichiarato a France24 che la guerra con il Ruanda «è un’opzione da considerare». Un’eventualità che inasprirebbe la già gravissima crisi umanitaria che vede più di 7 milioni di sfollati interni e centinaia di migliaia di morti che si aggiungono ai milioni di morti che il Congo orientale ha collezionato dalla fine della trentennale dittatura di Mobutu Sese Seko nel 1998. Anche il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, giovedì sera ha condannato duramente la rinnovata offensiva dell’M23, affermando che «questa offensiva ha un impatto devastante sulla popolazione civile e ha aumentato il rischio di una guerra regionale più ampia». Per lunedì è stata convocata una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza dell’Onu per affrontare la crisi congolese. Chiesta da Kinshasa e sostenuta dalla Francia la convocazione della riunione ha lasciato spazio a delle critiche da parte del governo congolese che per voce del suo ministro degli Esteri, Thérèse Kayikwamba Wagner, ha criticato l’inattività del Consiglio di Sicurezza dell’ONU affermando che «questa crisi è soprattutto il risultato dell’inazione del Consiglio, nonostante l’internazionalizzazione del conflitto e le prove evidenti della presenza ruandese sul suolo congolese». 

[di Filippo Zingone]