venerdì 5 Settembre 2025
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Alluvioni in Congo, 30 morti

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Nel fine settimana, in Congo, le piogge torrenziali hanno causato inondazioni nella capitale Kinshasa, provocando la morte di circa 30 persone. La notizia arriva dal ministro della Salute provinciale, che ha informato l’agenzia di stampa Reuters che il bilancio è per ora provvisorio. Le piogge sono iniziate lo scorso venerdì e hanno causato danni ad abitazioni e infrastrutture. Il disastro arriva in un periodo particolarmente difficile per il Congo, alle prese con l’avanzata ribelle dell’M23, con cui il tavolo di trattative per un cessate il fuoco è ancora in fase di preparazione.

L’arte come cura: sempre più medici prescrivono visite gratuite ai musei

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visita museo

Sempre più medici prescrivono visite gratuite ai musei come parte di percorsi terapeutici per migliorare la salute mentale e il benessere psicofisico. La pratica, già diffusa in diverse città del mondo, si sta affermando come una risorsa efficace nella lotta contro lo stress e il disagio emotivo. L'idea ha preso piede a Montréal, in Canada, dove nel 2018 il Museo di Belle Arti ha lanciato uno dei primi programmi di "prescrizione museale", permettendo ai medici di offrire ingressi gratuiti ai pazienti. Il successo dell’iniziativa ha ispirato progetti simili in città come Montpellier, nel Massac...

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Migliaia di persone scendono in piazza in tutta la Spagna per il diritto alla casa

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BARCELLONA – Ancora una volta la rivoluzione delle chiavi scuote le strade di Barcellona. Ieri, 5 aprile, il Sindicat de Llogateres ha organizzato una manifestazione contro il caro affitti: alle 18, secondo le stime del sindacato più di centomila persone si sono riversate in Plaça Espanya, alle spalle delle Torres Venecianes, per esprimere il proprio dissenso contro l’inefficacia delle politiche adottate in merito alla crisi abitativa, tra le quali la nuova Ley de Vivienda, approvata nel corso di questa legislatura dal governo del Partido Socialista Obrero Español (PSOE) e Sumar. Sul palco collocato alla fine di Avinguda de la Reina Maria Cristina esponenti di collettivi e sindacati hanno espresso il proprio dissenso contro la gestione politica della crisi, incitando alla resistenza della classe lavoratrice.

«Siamo donne migranti e come collettivo siamo profondamente colpite da questa crisi» spiega una manifestante, senza nascondere la frustrazione di una situazione che sembra peggiorare precipitevolmente, «nel nostro caso non parliamo nemmeno di appartamenti, ma addirittura di stanze in case condivise». Nonostante siano passati pochi mesi dalla vittoria agrodolce della Casa Orsola, quando la resistenza popolare sventò lo sgombero di un inquilino da un appartamento destinato ad entrare nel mercato turistico, la «crisi de la vivienda» non accenna a smettere, divenendo, una delle principali preoccupazioni della società spagnola. 

Manifestanti a Barcellona.

La stessa capitale catalana sta mostrando gradualmente l’intenzione di abbandonare quelle misure che per anni l’hanno resa, quantomeno simbolicamente, il faro della resistenza contro la turistificazione. Il sindaco socialista Jaume Collboni, infatti, ha più volte messo in evidenza profonde contraddizioni ideologiche nella gestione della crisi abitativa e dei flussi turistici. La sua costante propaganda elettorale, caratterizzata dalla promessa di applicare politiche particolarmente aggressive verso il turismo, tra le quali si annovera il divieto alle licenze per gli appartamenti turistici dal 2028 (anno in cui il suo mandato sarà già volto al termine), si accosta al desiderio di foraggiare un turismo «di qualità», attirato dall’organizzazione di grandi eventi, come l’edizione della America’s Cup di vela del 2024, che farà largo a progetti incentrati sull’accoglienza del turismo di lusso e rivela di conseguenza il classismo dietro al termine «qualità».

«C’è stato un cambio di politica nel governo comunale, chiaramente in peggio» racconta un altro manifestante. «Costruiranno case che non saranno accessibili alla maggior parte della popolazione». Un altro dei progetti che sta caratterizzando il mandato del sindaco socialista è quello di abrogare la legge approvata dall’ex sindaca Ada Colau nel 2019, che impone alle aziende costruttrici di destinare il 30% degli edifici nuovi o totalmente ristrutturati ad abitazioni a canone protetto. Questa misura, che al momento permette a quasi quattromila appartamenti di essere esclusi dalla speculazione del prezzo di mercato, secondo le entità vicine agli interessi delle imprese di costruzione, di una buona parte della politica conservatrice e al momento anche del Partito Socialista Catalano è la causa principale della crisi abitativa. Di opinione differente sono i sindacati che lottano per la difesa del diritto all’abitare. Tra questi, lo stesso sindacato organizzatore della manifestazione, che ha stilato un programma di soluzioni in dieci punti, tra le quali si osserva la necessità di regolare i canoni d’affitto, riappropriarsi di tutte le case vuote o di quelle destinate al turismo e al mercato stagionale, per poter ampliare il parco di case pubbliche. Inoltre, si difende il diritto allo sciopero e all’organizzazione da parte degli inquilini, che, come nel caso di alcuni edifici protetti di proprietà di ImmoCaixa, ha portato allo sciopero e alla conseguente interruzione del versamento dei canoni d’affitto dei residenti. 

«Siamo decine di famiglie a tenere testa al più grande multiproprietario della Catalogna» racconta Águeda Amestoy, militante del collettivo Vaga de Lloguers contra la Caixa, facendo riferimento allo sciopero degli affitti, «non lottiamo solo per le nostre case, ma lottiamo per tutte le case della classe lavoratrice». Simultaneamente, sono state organizzate altre manifestazioni in trentanove città spagnole. Anche nella capitale Madrid, più di centomila persone si sono riversate tra le vie del centro, in un corteo condotto tra la stazione di Atocha fino a Plaza España. Dalle ore 12, i manifestanti che hanno risposto alla convocazione fatta dal Sindicato de Inquilinas hanno protestato contro il caro affitti, chiedendo a gran voce garanzie efficaci in difesa della vivienda digna (abitazione degna), diritto difeso dall’articolo 47 della Costituzione spagnola. Alle migliaia di manifestanti si sono aggiunte varie entità locali e nazionali, come la Plataforma de los Afectados por la Hipoteca (Piattaforma delle persone colpite dal mutuo), il Sindicato de bomberas y bomberos contra los desahucios (sindacato dei vigili e delle vigilesse del fuoco contro gli sgomberi) e l’Unitat contre il feixisme i el racisme (Unità contro il fascismo e il razzismo).

A pochi mesi dalla precedente manifestazione tenutasi nel novembre del 2024, appare evidente come questa crisi stia mettendo in evidenza la totale inefficacia delle politiche varate dal governo spagnolo in merito. La stessa Ley de vivienda, come menzionato pochi giorni prima della manifestazione dalla pagina web della Moncloa (il sito nel quale si riportano le comunicazioni del governo), permettono ai proprietari di ottenere fino al 90% di beneficio fiscale nel caso in cui abbassino di almeno un 5% i canoni d’affitto in quelle zone dove il prezzo di mercato sta crescendo sregolatamente. Il governo PSOE-Sumar dimostra ancora una volta di mettere in pratica una propaganda finalizzata da un lato a catturare il voto di quelle classi sociali dilaniate da questa crisi e dall’altro di continuare a curare gli interessi di fondi privati, speculatori e multiproprietari.

«Abbiamo chiaro che né il Governo, né gli imprenditori troveranno una soluzione per permetterci l’accesso alle case» spiega Marta Espriu, portavoce della Confederació Sindical d’Habitatge de Catalunya. «L’unica maniera che abbiamo per mettere fine a questo business è estromettere le case dal mercato, perché finché le case rimarranno un bene di mercato, non saranno mai un diritto universale».

Mentre l’estrema destra sottolinea la presunta criticità del fenomeno delle occupazioni, appoggiata da un comparto mediatico legato a interessi immobiliari, il governo di Pedro Sánchez prova a risolvere la crisi con decreti che dichiarano apertamente quanto continui ad essere conveniente la speculazione sulle abitazioni. Ancora una volta la politica istituzionale sottovaluta il rumore di una popolazione che si organizza per resistere. Sottovaluta il rumore delle chiavi.

Gaza, Israele ha ucciso 46 palestinesi nelle ultime 24 ore

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Non si fermano i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza. Soltanto nelle ultime 24 ore sono stati uccisi 46 palestinesi, tra cui diversi bambini. Le città più colpite sono state Gaza City, Khan Younis e Rafah. Da oltre un mese, Israele sta poi bloccando l’ingresso di cibo, carburante e medicinali all’interno della Striscia, esponendo la popolazione a gravi rischi, come denunciato anche dall’UNICEF nelle scorse ore. Nel frattempo, dopo l’ospitalità ricevuta in Ungheria in barba al diritto internazionale, il criminale di guerra Benjamin Netanyahu si sta dirigendo negli Stati Uniti, dove verrà accolto da Donald Trump.

 

 

Canada, effetto Trump: persi 33mila posti di lavoro

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A marzo il Canada ha fatto registrare il primo calo dell’occupazione in tre anni. L’incertezza proveniente dagli Stati Uniti in termini di nuove tariffe e dazi ha portato le imprese a bloccare le assunzioni e a tagliare il personale, per una perdita netta di 33mila posti di lavoro. Prima dell’effetto domino lanciato dal presidente USA Donald Trump, le previsioni parlavano di un incremento di 10mila unità nell’occupazione canadese.

 

 

Il video che prova come la strage di medici da parte di Israele sia stata deliberata

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Al contrario da quanto dichiarato in precedenza dall’esercito israeliano, i militari di Tel Aviv avrebbero deliberatamente aperto il fuoco su un convoglio umanitario composto da medici e vigili del fuoco regolarmente contrassegnati e con le luci di emergenza accese. A inchiodare le tesi diramate in precedenza dai portavoce israeliani – secondo cui i veicoli attaccati viaggiavano “in modo sospetto” e “a fari spenti” – è un video trovato sul cellulare di una delle vittime, le quali sono state sepolte dopo l’accaduto in una fossa comune a fine marzo. La registrazione, della durata di sette minuti e confermata dalla stampa americana, è stata presentata dalla Mezzaluna Rossa Palestinese in una conferenza stampa delle Nazioni Unite e mostra chiaramente come il convoglio sia stato attaccato deliberatamente nonostante stesse agendo in conformità alla regolamentazione, per l’ennesimo crimine di guerra israeliano compiuto in Palestina. Si tratta dell’attacco «più mortale a livello globale contro operatori umanitari appartenenti all’organizzazione dal 2017», ha commentato Dylan Winder, rappresentante della Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa presso le Nazioni Unite, definendo il tutto «un oltraggio».

La vicenda, dettagliata proprio dalla Mezzaluna Rossa Palestinese, risale al 23 marzo scorso. Mentre le forze israeliane avanzavano sulla città di Rafah, a sud di Gaza, prima dell’alba di domenica scorsa, un’ambulanza è partita per evacuare i civili feriti dai bombardamenti israeliani, ma il suo equipaggio è stato colpito lungo la strada. Diverse altre ambulanze e un camion dei pompieri, quindi, si sono diretti sul posto nelle ore successive per soccorrerli insieme ad un veicolo delle Nazioni Unite, arrivando a un totale di diciassette persone. Poi il silenzio.

Dopo ben cinque giorni di negoziato con l’esercito israeliano per concordare un passaggio sicuro per cercare le persone scomparse, la squadra di recupero ha trovato 15 morti – otto membri dell’equipaggio dell’ambulanza della Mezzaluna Rossa e paramedici, sei soccorritori della difesa civile e un dipendente delle Nazioni Unite -con la maggior parte dei loro corpi gettati in una fossa comune. Da lì, è partito un reciproco scambio di accuse: da una parte le organizzazioni umanitarie hanno accusato Israele di aver «ucciso operatori umanitari che non avrebbero mai dovuto essere attaccati», mentre dall’altra l’esercito di Tel Aviv, tramite il tenente colonnello e portavoce militare Nadav Shosani, ha riferito che «nove delle persone uccise erano militanti palestinesi» e che «le forze israeliane» non avrebbero «attaccato casualmente» un’ambulanza, ma che diversi veicoli «sono stati identificati mentre avanzavano in modo sospetto» senza fari o segnali di emergenza verso le truppe israeliane, costringendoli a sparare.

Tuttavia, ad inchiodare tali affermazioni è stato un video pubblicato a circa due settimane di distanza in una conferenza stampa delle Nazioni Unite dalla Mezzaluna Rossa Palestinese, il quale mostra che quanto accaduto sarebbe in realtà l’opposto: gli operatori umanitari erano facilmente riconoscibili e avevano le luci di emergenza accese quando sono stati attaccati all’improvviso dall’esercito israeliano, che ha sparato senza sosta per oltre 5 minuti consecutivi. La registrazione è stata confermata anche dal New York Times, che ha verificato la posizione e la tempistica del video confermandone l’autenticità con immagini satellitari. Nebal Farsakh, portavoce della Mezzaluna Rossa Palestinese, ha dichiarato che il paramedico che ha realizzato il video e che si sente pregare e chiedere aiuto per circa 7 minuti è stato ritrovato nella fossa comune con un proiettile in testa, aggiungendo che il suo nome non è stato ancora reso noto perché i parenti che vivono a Gaza sono preoccupati per le ritorsioni israeliane. «I loro corpi sono stati presi di mira da una distanza molto ravvicinata», ha dichiarato il dottor Younis Al-Khatib Khatib, presidente della Mezzaluna Rossa Palestinese, aggiungendo che Israele non ha fornito informazioni su dove si trovassero i medici scomparsi per giorni: «Sapevano esattamente dove si trovavano perché li hanno uccisi. I loro colleghi erano in agonia, le loro famiglie erano in agonia. Ci hanno tenuto per otto giorni al buio».

Dylan Winder ha affermato che a livello globale non accadeva nulla di simile dal 2017 e ciò, unito al fatto che il medico legale Ahmad Dhair esaminando i corpi ha dichiarato che quattro dei cinque operatori umanitari analizzati sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco multipli, tra cui ferite alla testa, al busto e alle articolazioni, rende tutt’altro che incerto ipotizzare che quanto accaduto possa rappresentare l’ennesimo crimine di guerra. Il diritto internazionale, infatti, come le Convenzioni di Ginevra e i Protocolli Aggiuntivi, stabilisce chiaramente che il personale medico «deve essere rispettato e protetto in ogni circostanza», in particolare se chiaramente identificabile attraverso abbigliamento adeguato e segnali distintivi come luci di emergenza.

Il video, così come le altre testimonianze raccolte negli anni, rivela il vero volto delle Forze di difesa israeliane (IDF) che nei giorni scorsi avevano dichiarato l’intenzione di voler avviare un’indagine sull’accaduto. Tuttavia, visti i precedenti, le aspettative non potevano essere particolarmente elevate.

[di Roberto Demaio]

USA, revocati i visti a cittadini Sud Sudan

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Va avanti la politica statunitense della revoca dei visti e delle conseguenti deportazioni. Dopo aver colpito più di trecento studenti stranieri che l’anno scorso avevano partecipato alle manifestazioni a favore della Palestina, il segretario di Stato Marco Rubio ha annunciato la revoca di tutti i visti concessi ai cittadini del Sud Sudan, accusando il Paese africano di avere rifiutato il rimpatrio dei propri cittadini soggetti a ordini di espulsione dagli Stati Uniti.

È stata confermata la condanna di 15 agenti per torture nel carcere di San Gimignano

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Una sentenza che segna una svolta in un momento delicato per il reato di tortura in Italia. La Corte d’Appello di Firenze ha messo il timbro sulle condanne per 15 agenti penitenziari accusati accusati di aver pestato brutalmente un detenuto tunisino nel carcere di San Gimignano (Siena) nel 2018. Torture, falso e minaccia aggravata i reati accertati. La pronuncia rafforza la tenuta del reato di tortura, introdotto nel nostro ordinamento nel 2017 e oggi al centro di proposte di modifica o cancellazione da parte delle forze di maggioranza.

I fatti risalgono all’11 ottobre 2018. Le videocamere di sorveglianza del carcere di San Gimignano ripresero gli agenti trascinare fuori dalla cella un giovane tunisino, detenuto per spaccio di droga, schiacciarlo a terra e colpirlo ripetutamente, prima di trascinarlo in un punto cieco, non coperto dall’impianto di videosorveglianza. Quelle immagini, mostrate in aula, sono state uno degli elementi principali dell’accusa, supportata da un fascicolo investigativo di oltre 4500 pagine. L’inchiesta da cui è scaturito il processo era emersa grazie alle segnalazioni delle educatrici della casa circondariale, le quali avevano raccolto le testimonianze di altri detenuti.

I giudici della seconda sezione, presieduta da Alessandro Nencini, hanno accolto in larga parte le richieste del procuratore generale Ettore Squillace Greco. Confermate le pene, comprese tra i 2 anni e 3 mesi e i 2 anni e 8 mesi, per dieci agenti che avevano scelto il rito abbreviato. Ridotte, invece, quelle di altri cinque imputati che avevano optato per il rito ordinario: da condanne di primo grado comprese tra i 5 anni e 10 mesi e i 6 anni e mezzo, si è scesi a pene tra i 3 anni e 8 mesi e i 4 anni e 2 mesi di reclusione. Al contempo, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici è stata sostituita con una sospensione di cinque anni, mentre sono state revocate l’interdizione legale e la sospensione della responsabilità genitoriale. Confermato, infine, il risarcimento da 80mila euro al detenuto vittima delle violenze, oltre a quelli disposti in favore del Garante nazionale dei detenuti – assistito dagli avvocati Michele Passione e Raffaella Tucci – e dell’associazione “L’altro diritto”.

«La Corte d’Appello ha confermato l’impostazione della Procura, pur intervenendo su alcune pene – ha spiegato l’avvocato Michele Passione, che rappresentava il Garante Nazionale dei Detenuti –. È una sentenza importante perché riafferma che il reato di tortura tutela la dignità dell’uomo e serve a prevenire nuovi abusi. Non rendersi conto della sua necessità significa non voler vedere che certi fenomeni accadono ancora». Gli agenti condannati erano presenti in aula, insieme ad alcuni familiari. All’uscita, non sono mancate reazioni di dissenso: una parente ha battuto le mani in direzione dell’aula, un altro ha sussurrato: «Questa non è giustizia». I legali degli imputati hanno già annunciato che presenteranno ricorso in Cassazione, dunque servirà ancora del tempo per avere la parola fine.

La vicenda rappresenta un tassello importante della storia giudiziaria del nostro Paese, dal momento che il procedimento è stato il primo in Italia in cui – accanto a lesioni, minaccia e falso ideologico – si è contestato il reato autonomo di tortura a componenti delle forze dell’ordine. Una fattispecie su cui, però, sin dalla sua creazione si concentrano le critiche di un largo pezzo di maggioranza. Che infatti, una volta al governo, non ha perso tempo per presentare progetti di legge in cui si intende intervenire in maniera dirompente sulla materia. In particolare, FDI ha proposto l’abrogazione del reato di tortura attraverso l’eliminazione degli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale che lo delineano, mantenendo soltanto una nuova aggravante comune. Nel dicembre del 2023, il Consiglio d’Europa è intervenuto per bacchettare l’esecutivo italiano, invitandolo «caldamente» a «garantire che qualsiasi eventuale modifica al reato di tortura sia conforme ai requisiti della Convenzione europea dei diritti umani e alla giurisprudenza della Cedu».

Roma, manifestazione contro il riarmo: “80.000 in piazza”

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È iniziata alle ore 13:00 di oggi, sabato 5 aprile, la manifestazione “No al riarmo” promossa dal Movimento 5 Stelle, ed è giunta fino ai Fori Imperiali con numerosi interventi dal palco. Tra gli slogan “no al piano di riarmo Ue” e invece investimenti per la sanità pubblica che, secondo i pentastellati “rischia il collasso”. «Numeri inaspettati, oltre ogni più rosea aspettativa. Oltre 80.000 persone già in piazza», dichiarano gli organizzatori, che manifestano anche insieme ad Alleanza Verdi-Sinistra e anche una delegazione del Partito Democratico. Assenti invece i partiti Italia viva e Azione: «La piazza di oggi è fatta da coloro che sostengono le ragioni di Putin», ha commentato Carlo Calenda.

È uscito il terzo numero del mensile de L’Indipendente

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L’Indipendente torna questo mese con il terzo numero del nuovo mensile: 80 pagine di contenuti esclusivi in una rivista rilegata da leggere e conservare. Inchieste che svelano i lati oscuri del potere e dell’industria, guide per un consumo critico, reportage e approfondimenti per comprendere il mondo che ci circonda. L’inchiesta di copertina di questo numero rappresenta perfettamente quel tipo di inchieste che su L’Indipendente possiamo fare a differenza di altri media, grazie al fatto di non ospitare alcuna pubblicità e quindi non essendo influenzabili da alcun potere economico: un dettagliato lavoro che denuncia come la multinazionale Solvay, colosso della chimica, riempia di sostanze tossiche i terreni e le acque dei territori vicini ai suoi stabilimenti in Toscana e Piemonte, costituendo un grave pericolo per la sicurezza dei cittadini nel complice disinteresse delle autorità italiane.

Il mensile de L’Indipendente ha come sottotitolo i tre pilastri che ne definiscono la cifra giornalistica: inchieste, consumo critico, beni comuni. Ogni parola è stata scelta con cura, racchiudendo ciò che vogliamo fare e che, a differenza di altri media, possiamo fare, perché non abbiamo padroni, padrini o sponsor da compiacere.

Questi tre punti cardinali rappresentano il nostro impegno per il giornalismo che crediamo necessario: inchieste (per svelare i lati nascosti della politica e dell’economia), consumo critico (per vivere meglio, certo, ma anche per promuovere scelte consapevoli capaci di colpire gli interessi privilegiati) e beni comuni (perché la nostra missione è quella di leggere la realtà nell’interesse dei cittadini e non delle élite oligarchiche che controllano i media dominanti). Al suo interno ci saranno poi, naturalmente, approfondimenti sull’attualità e sui temi che caratterizzano da sempre la nostra agenda: esteri, geopolitica, ambiente, diritti sociali.

Questi sono solamente alcuni degli argomenti che potrete ritrovare nel nuovo numero:

  • Solvay, la fabbrica dei veleni: Scarichi a mare, patologie sospette, PFAS nell’acqua potabile. Una multinazionale belga minaccia ambiente e cittadini italiani, ma nessuno fa niente…
  • Le multinazionali all’assalto dell’Ucraina: Una ricchezza ben più vasta delle terre rare di cui tanto si parla, quella dei terreni agricoli, sta diventando incetta di multinazionali e fondi speculativi.
  • La verità sul latte a lunga conservazione: Molti pensano che tra latte UHT e fresco non vi siano differenze, e d’altra parte decenni di pubblicità ci hanno portato a crederlo. Ma è davvero così?
  • La macchina della propaganda europea: La Commissione UE usa i fondi comunitari per sostenere progetti di propaganda appaltati a ONG e centri studi. Una macchina costosa, opaca e pericolosa per la democrazia…
  • Val di Non, un data center nella montagna: Nasce in trentino un enorme centro dati incastonato in una montagna. Azienda e amministratori giurano che è tutto apposto, ma i dettagli sono quanto mai oscuri.
  • Il boicottaggio lascia nuda la nazionale israeliana: Adidas, Puma, l’italiana Erreà e Reebok: il boicottaggio per la Palestina sta impedendo alla nazionale di calcio israeliana trovare un’azienda disposta a produrne le magliette.

La nuova rivista de L’Indipendente è acquistabile (in formato cartaceo o digitale) sul nostro shop online, ed è disponibile anche tramite il nuovo abbonamento esclusivo alla rivista, con il quale potreste ricevere la versione cartacea a casa ogni mese per un anno al prezzo di 90 euro, spese di spedizione incluse. Per riceverlo basta consultare la pagina: lindipendente.online/abbonamenti.