martedì 25 Novembre 2025
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Sud Sudan: tra le ombre di Juba, la luce dei bambini

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Non credere ai giornali, fanno una pessima pubblicità al nostro Paese. Con un sorriso sornione, fa scivolare il mio passaporto nel vano sottostante al vetro divisorio che mi separa dall’operatore consolare. Il visto ingombra una pagina intera. Un rettangolo sul quale si staglia in stampatello: «Visto per visita ufficiale della Repubblica del Sud Sudan». Tra le mura dell’ambasciata del Sud Sudan a Nairobi, mi sento già il benvenuto nella nazione più giovane al mondo. Indipendente dal 2011, il Sud Sudan ha trascorso gran parte della sua breve esistenza in un conflitto costante. Ora, le ombre della guerra sembrano estendersi fino a Juba, la capitale, dove il capo dell’opposizione – nonché vice presidente – si trova agli arresti domiciliari. I politici parlano di un ritorno alla guerra civile, i media esortano la comunità internazionale a intercedere.

Ma i cittadini vivono senza curarsi dei titoli di giornale e degli annunci dei politicanti. C’è un senso di orgoglio tra i sudsudanesi nell’appartenere a una nazione nuova, indipendente, seppur imperfetta. Tutti sembrano condividere un sogno: elevare il Sud Sudan, renderlo prospero, equo e giusto. Il lavoro da fare è tanto. 

Nella Repubblica sudsudanese, oltre 2,8 milioni di bambini non frequentano la scuola: il 70% della popolazione infantile. E la crisi si estende oltre i confini nazionali. La diaspora sudsudanese consta di 2,4 milioni di profughi, che vivono soprattutto nei Paesi limitrofi. Centinaia di migliaia nel campo profughi di Kakuma – uno tra i più grandi al mondo. 

Mentre sistemo la valigia nel mio ufficio, Puol mi scruta con curiosità. Il mio viaggio è imminente. Abbiamo appena costituito un’organizzazione no profit nel Paese e ora è tempo di visitare il campo e attivare la missione: costruire la prima scuola di emergenza e riabilitazione gratuita per i bambini di Juba, la capitale. A Juba, l’istruzione è un lusso riservato a pochi: classi sovraffollate, infrastrutture precarie, bambini lavoratori, spose bambine – e prezzi alle stelle. Sì, perché la capitale soffre degli effetti collaterali dell’aiuto umanitario. Con oltre 20 miliardi di dollari di fondi allo sviluppo ricevuti nell’ultimo decennio, l’economia di Juba è stata permanentemente alterata. E così, quella del resto del Paese. Puol vuole dirmi qualcosa, ma sta ancora cercando le parole in inglese, lingua che ha scoperto pochi mesi fa, quando ha cominciato a far parte della nostra Scuola Internazionale a Nairobi. Lui fa parte dei figli dimenticati del Sud Sudan. È cresciuto nel campo profughi di Kakuma, in Kenya, dove ha trovato rifugio insieme alla madre. Scappare dal Sud Sudan, tuttavia, non ha permesso loro di evadere la miseria. Nel campo di Kakuma, Puol e la mamma hanno subìto sistematicamente abusi. 

Gli dico che di lì a poco sarei andato a Juba e i suoi grandi occhi neri brillano. Mi chiede se può venire con me. Ha pochi ricordi della sua terra natia e, nonostante tutto, il suo cuore arde per lo stesso Paese che lo ha costretto a fuggire. Parto. Dall’oblò dell’aereo in frenata d’atterraggio, una batteria di aerei leggeri si susseguono come tante diapositive. Ne conto 15, ma potrebbero essere di più. Portano due maiuscole dipinte sulla carrozzeria: “UN”, Nazioni Unite. Le poche macchine che solcano le arterie principali della città sono opulente e sufficientemente ingombranti da creare ingorghi e traffico nei sottili incroci e strette rotonde. Ci sono targhe di tutti i colori. Rosse, verdi, azzurre, bianche, ognuna esprime una solennità e un potere diverso. Nazioni Unite, ONG, governo, ambasciate. E divise di altrettanti colori. Militari, polizia, forze di sicurezza e caschi blu. Un senso di finzione permea la città.

La Russia ha riconosciuto i talebani dell’Afghanistan

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La Russia ha riconosciuto formalmente il governo talebano dell’Afghanistan. La decisione di Putin arriva su consiglio del ministro degli Esteri russo Lavrov, ed è volta a rilanciare i rapporti con Kabul. Lavrov ha infatti dichiarato che Mosca è intenzionata a rafforzare la cooperazione con l’Afghanistan in materia di sicurezza, antiterrorismo e lotta alla droga. Lavrov ha parlato anche di un consolidamento delle relazioni economiche con Kabul, specialmente nei campi dell’energia, dei trasporti, dell’agricoltura e delle infrastrutture. Con tale decisione, la Russia diventa il primo Paese a riconoscere formalmente il governo talebano, che tuttavia intrattiene rapporti diplomatici anche con Cina, Emirati Arabi Uniti, Uzbekistan e Pakistan.

Soldi a ricchi e difesa, pagano i lavoratori: la “grande e bellissima legge” di Trump

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«Con questa legge ho mantenuto tutte le promesse che avevo fatto». È quanto ha affermato ieri il presidente statunitense Donald Trump durante un comizio in Iowa sulla “One Big Beautiful Bill Act” (la “grande e bellissima legge”), approvata ieri in via definitiva dalla Camera controllata dai repubblicani. Nonostante le divergenze e le perplessità che circolavano tra i repubblicani, alla fine solo due dei 220 membri della Camera hanno votato contro, dopo una notte di stallo. Si tratta di una delle iniziative legislative più importanti del secondo mandato di Trump che si fonda su due pilastri: la riduzione della pressione fiscale e l’aumento della spesa per la sicurezza e la difesa delle frontiere. Un punto, quest’ultimo, su cui il presidente statunitense ha posto subito l’accento affermando che «metteremo fine all’invasione dei nostri confini», una tematica particolarmente sentita dal suo elettorato. Secondo i repubblicani, la legge ridurrà le tasse per gli americani in tutte le fasce di reddito e stimolerà la crescita economica, ma a smentirli è intervenuto subito il CBO (Congressional Budget Office), l’agenzia indipendente del Congresso degli Stati Uniti, secondo cui gli americani più ricchi trarrebbero i maggiori benefici dal disegno di legge, mentre le persone con redditi più bassi vedrebbero di fatto diminuire i propri redditi a causa dei tagli alla spesa pubblica e allo stato sociale. In altre parole, la legge si concretizzerebbe in un travaso di ricchezza verso le classi sociali più ricche e pagarne il prezzo più alto sarebbero solo i lavoratori e le classi sociali meno abbienti.

Nello specifico, secondo il CBO, la legge ridurrebbe le entrate fiscali di 4,5 trilioni di dollari in 10 anni e taglierebbe la spesa di 1,1 trilioni di dollari: a risentire dei tagli alla spesa sarebbe innanzitutto il Medicaid, il programma sanitario che copre 71 milioni di americani a basso reddito. La “grande e bellissima legge”, infatti, inasprirebbe i requisiti di iscrizione al programma e limiterebbe un meccanismo di finanziamento utilizzato dagli Stati per incrementare i pagamenti federali, lasciando quasi 12 milioni di persone senza assicurazione, secondo il CBO. Oltre ai tagli alla sicurezza sanitaria, la legge ridurrebbe anche i fondi relativi alla sicurezza alimentare e azzererebbe decine di incentivi per l’energia “verde”. Al contrario, invece, la legge stanzierebbe la cifra senza precedenti di 170 miliardi di dollari per il controllo dell’immigrazione, secondo un’analisi dell’American Immigration Council, un ente pro-immigrazione, e secondo un’analisi dell’agenzia di stampa Reuters.  Di questi 170 miliardi, 45 sarebbero spesi per la detenzione degli immigrati, aumentando così il numero di persone detenute dalle attuali 41.500 al giorno, in media, ad almeno 100.000, il numero più alto di sempre.

Oltre alla riduzione della pressione fiscale e l’aumento delle spese per la sicurezza interna, la legge estenderà, rendendo permanenti, i tagli fiscali del 2017, approvati durante il primo mandato del tycoon. Tra le nuove agevolazioni fiscali previste ci saranno quelli sulle mance, gli straordinari, gli anziani e i prestiti per le auto, tutte cose promesse da Trump durante la campagna elettorale. Inoltre, il provvedimento approvato al Congresso intende ridurre gli sprechi pubblici e innalzare il tetto del debito degli Stati Uniti. Proprio quest’ultimo punto ha suscitato preoccupazione per le finanze pubbliche, in quanto si teme che l’eccesso di debito possa limitare lo stimolo economico previsto dalla norma, creando un rischio di maggiori costi di indebitamento a lungo termine.

Uno dei punti più critici del provvedimento, tuttavia, resta il potenziale trasferimento di ricchezza dai poveri verso i ricchi segnalato dal CBO: secondo l’ufficio di bilancio del Congresso, infatti, entro il 2033, il 10% delle famiglie con il reddito più basso vedrebbe le risorse finanziarie a loro disposizione diminuire del 4% ogni anno, mentre il 10% con il reddito più alto le vedrebbe aumentare del 2%. Secondo alcuni analisti, l’esenzione fiscale sulle mance avrebbe pochi vantaggi sui cittadini americani a basso reddito e coloro che ne trarranno beneficio potrebbero comunque vedere i guadagni controbilanciati dai tagli all’assistenza sanitaria e alimentare. Inoltre, le persone con redditi più bassi vedrebbero di fatto diminuire i propri redditi, poiché i tagli alla rete di sicurezza sociale supererebbero i tagli alle tasse. Nonostante ciò, l’idea di rendere esentasse le mance, e in generale la legge fiscale nel suo complesso, ha riscosso una grande approvazione tra l’elettorato trumpiano.

Il capo democratico della Camera, Hakeem Jeffries, in un discorso record di otto ore e 46 minuti ha invece affermato che «L’obiettivo di questa proposta di legge, la giustificazione per tutti i tagli che danneggeranno la gente comune americana, è quello di garantire massicce agevolazioni fiscali ai miliardari». Come prevedibile, le disposizioni fiscali di Trump hanno rinvigorito le divisioni presenti nella società americana, avvantaggiando però con ogni probabilità le classi ricche della popolazione, sebbene gli elettori del capo della Casa Bianca siano in gran parte cittadini della classe media e lavoratori.

L’Antitrust francese multa Shein per 40 milioni di euro

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L’autorità antitrust francese ha multato Shein per 40 milioni di euro per pratiche commerciali ingannevoli. Il marchio cinese di abbigliamento a basso costo avrebbe falsamente aumentato i prezzi prima di applicare sconti, facendo credere ai consumatori di ottenere offerte vantaggiose. L’indagine ha rivelato che l’11% degli sconti erano in realtà aumenti mascherati e il 57% non comportava alcuna reale riduzione. Shein è stata inoltre accusata di fornire informazioni fuorvianti sul proprio impatto ambientale, vantando una sostenibilità non dimostrata. A giugno, l’Organizzazione europea dei consumatori aveva già presentato un reclamo contro l’azienda.

In Italia il piano per la rete 5G annaspa tra le proteste: realizzato solo il 38%

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Tre anni dopo l’avvio del Piano Italia 5G, la promessa di una connessione ultraveloce per tutti si è scontrata con la realtà: a un anno dalla scadenza fissata dal PNRR, è stato completato solo il 38,63% delle aree da coprire. Nonostante l’ottimismo ostentato dal Dipartimento per la trasformazione digitale, il rischio concreto è di perdere quasi 350 milioni di euro di fondi europei. Nel frattempo, i cantieri si muovono al rallentatore tra contenziosi legali e un braccio di ferro tra Inwit, cui è stato affidato il progetto, e i Comuni sul canone d’affitto per le antenne. In molte regioni si diffondono progressivamente le proteste dei comitati e delle associazioni, con la Regione Toscana che, lo scorso autunno, ha commissionato una ricerca per attestare i possibili danni sulla salute degli impianti.

L’obiettivo del piano è portare il 5G in 1.385 aree bianche, ossia quelle zone rurali o montane che non interessano ai privati per la loro scarsa redditività. Il progetto, gestito da un consorzio guidato da Inwit (partecipata da fondi come Ardian, Vodafone, Kkr e Global Infrastructure Partners), prevede l’installazione di 900 torri. Al momento, 259 sono attive, mentre 402 risultano «in lavorazione». Tuttavia, solo una parte di queste è effettivamente prossima alla conclusione. Il Dipartimento guidato dal sottosegretario Alessio Butti sostiene che l’80% dei lavori sia stato “sostanzialmente” completato, includendo nel computo i siti in fase avanzata. Ma i numeri ufficiali raccontano tutt’altro. Ad aggravare la situazione è lo scontro tra Inwit e le amministrazioni locali, soprattutto sui costi di occupazione del suolo pubblico. In base a un emendamento al decreto n. 77/2021, il canone annuo per antenna è stato fissato a 800 euro, contro i 5-20 mila euro chiesti dai Comuni. Secondo i sindaci, questo ha causato una perdita secca di 400 milioni di euro per le casse pubbliche e favorito il colosso delle torri, che avrebbe risparmiato fino a 180 milioni l’anno. Il risultato? Centinaia di ricorsi e un conflitto legale diffuso che rallenta l’implementazione della rete.

In Italia, la questione delle antenne 5G è da tempo al centro dell’attenzione mediatica. Non sono infatti pochi i comuni che ostacolano la loro creazione, invitando alla prudenza e chiedendo maggiori evidenze scientifiche che rassicurino circa gli effetti sulla salute dei cittadini. A mobilitarsi contro la costruzione di antenne sono anche privati cittadini, come nel caso delle comunità del piccolo borgo di Cassol, in Veneto, o di Siderno, in Calabria, o come nel caso Fleximan del marzo 2024, che, sempre in Veneto, ha preso di mira proprio un antenna 5G. Nel frattempo, nel giugno dello stesso anno, il Senato ha approvato con voto di fiducia un emendamento al cosiddetto “Decreto Coesione”, destinato a cambiare le sorti del Piano “Italia 5G”. Nello specifico, il provvedimento stabilisce che «la localizzazione degli impianti nelle aree bianche oggetto dell’intervento è disposta anche in deroga ai regolamenti comunali di cui all’articolo 8, comma 6, della legge 22 febbraio 2001, n. 36». Consentendo dunque allo Stato centrale di passare sopra l’amministrazione locale in merito alla installazione delle antenne, anche quando i Comuni si oppongono.

Nel frattempo, lo scorso settembre, la Regione Toscana ha avviato un’indagine approfondita in merito agli effetti dei campi elettromagnetici prodotti dalle nuove antenne 5G. Il progetto, commissionato all’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpat) e all’Agenzia regionale di Sanità (Ars) della Toscana, prevede uno studio che esaminerà se e in quale misura tali impianti possano rappresentare un rischio per la salute, con particolare riguardo all’incidenza di malattie come i tumori. Il monitoraggio, che include misurazioni sul campo e l’acquisizione di nuova strumentazione, finanzia con 220 mila euro un’analisi in parte teorica e in parte pratica.

Disputa diplomatica USA-Colombia: richiamati gli ambasciatori

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Le relazioni USA-Colombia attraversano un momento delicato, con gli Stati Uniti che hanno richiamato il loro diplomatico John McNamara da Bogotá per «consultazioni urgenti» a causa di dichiarazioni considerate «infondate e riprovevoli» da parte del governo colombiano. In risposta, il presidente colombiano Gustavo Petro ha richiamato l’ambasciatore Daniel García-Peña per discutere dell’agenda bilaterale. La crisi si inserisce in un contesto di tensioni crescenti, alimentate anche dalle dimissioni della ministra degli Esteri colombiana Laura Sarabia, che aveva denunciato penalmente il suo ex cancelliere Álvaro Leyva per un presunto complotto contro di lui, emerso da un’inchiesta del quotidiano spagnolo El País.

 

 

Bugie di guerra e servilismo

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«Caro Donald, grazie per la tua azione decisiva in Iran, è stata davvero straordinaria… Riuscirai a ottenere qualcosa che NESSUN presidente americano è riuscito a fare in decenni. L’Europa pagherà in GRANDE misura, come dovrebbe, e sarà una tua vittoria». Questa sviolinata a Trump, con tanto di maiuscole per imitare lo stile sui social del capo, non è stata scritta da un bambino di otto anni affascinato dal presidente americano, ma dal segretario generale della NATO, Mark Rutte, che in teoria dovrebbe rappresentare gli interessi di tutti i Paesi dell’Alleanza Atlantica e che, come cittadino ed ex premier olandese, sarebbe pure un cittadino europeo. Non contento, davanti alle telecamere, all’ultimo vertice dell’Alleanza, Rutte ha chiamato «paparino» (daddy) l’uomo che aveva appena dato ordine di bombardare le basi nucleari iraniane facendosi beffe del diritto internazionale. 

Chi con freddezza, chi con ironia, il grosso dei media ha riportato la notizia come se fosse una nota di colore su cui fare gossip. Non c’è da stupirsi. Sono gli stessi che hanno propagato senza alcuno spunto critico tre clamorose bugie di guerra. Prima hanno assecondato l’ennesimo crimine israeliano, facendo passare i bombardamenti sull’Iran come “legittima difesa”. Poi hanno ripetuto l’idea che il regime di Teheran fosse prossimo ad avere l’arma nucleare, nonostante la smentita diretta dell’Agenzia atomica dell’ONU. Infine hanno ribadito senza alcuno spunto di riflessione la teoria occidentale secondo cui l’atomica in mano a Teheran sarebbe il più grande pericolo per la pace, omettendo di scrivere che i bombardamenti “difensivi” venivano dall’unico Paese del Medio Oriente che le armi atomiche le ha per davvero (Israele) e dall’unico Paese che nella sua storia l’atomica l’ha anche usata, radendo al suolo Hiroshima e Nagasaki (gli USA). 

La verità è che i media dominanti, in quanto organi di propaganda del potere politico, non sono altro che uno specchio delle miserie della politica europea. La guerra in Medio Oriente e le imbarazzanti dichiarazioni di Rutte hanno avuto almeno il merito di aver reso palese quanto appariva chiaro da tempo: la classe politica europea è talmente abituata al ruolo di governatore coloniale per conto di Washington da aver perso del tutto la capacità di immaginare un futuro libero dagli ordini americani. E, tra tutti, i più servili sono proprio quei governi i cui leader, con sprezzo del ridicolo, continuano a definirsi “patrioti” o “sovranisti”. Come quello italiano, con la Meloni che non solo non ha detto una parola contro l’attacco all’Iran – come d’altra parte non è riuscita a dirla in un anno e mezzo sul genocidio in Palestina – ma che ha obbedito senza batter ciglio all’aumento delle spese militari al 5% del PIL ordinato da Trump, assecondando l’accusa che dà agli europei degli ingrati che usufruiscono a scrocco della difesa americana.

L’ultima enorme bugia del leader americano, che nessun media e nessun governo europeo smaschera occupandosi di spiegare ai cittadini una verità scomoda: il motivo per cui gli USA pagano da decenni spese militari enormi coprendo gran parte del bilancio della NATO è perché questa serve direttamente gli interessi imperiali a stelle e strisce e perché le decine di basi americane in Europa non servono solo contro fantomatici aggressioni russe, ma sono lo strumento attraverso il quale, dal lontano 1945, gli USA hanno trasformato le nazioni europee in Stati a sovranità limitata, con tanto di organizzazioni paramilitari pronte a effettuare colpi di Stato se i governi nazionali avessero alzato troppo la testa (chi volesse saperne di più cerchi informazioni sulla “Organizzazione Gladio”, operativa per oltre 30 anni in Italia). Le azioni e le richieste fuori controllo dell’amministrazione americana potrebbero essere l’occasione per dire a Trump «Non smantelleremo quello che rimane dello Stato sociale per pagare i tuoi soldati. Non ci serve la tua protezione, riporta pure i marines a casa e libera il nostro territorio dalle 120 strutture militari americane che occupano l’Italia da ormai ottant’anni». Ma ovviamente nessun politico avrà il coraggio di dirlo. Servirebbero leader anziché amministratori coloniali, e all’orizzonte non se ne vedono.

Roma, esplosione e incendio in pompa di benzina: almeno 21 feriti

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Una violenta esplosione seguita da un incendio si è verificata in una pompa di benzina a Roma, in via dei Gordiani, zona Villa De Sanctis. L’incidente, avvenuto intorno alle 8, sarebbe stato causato dal distacco di una pompa mentre una cisterna riforniva un impianto Gpl. Almeno 21 i feriti, tra cui un vigile del fuoco, un sanitario e otto poliziotti. Nessuno, a quanto si apprende, sarebbe in gravi condizioni. Il boato è stato avvertito in diversi quartieri della Capitale. L’esplosione ha causato danni a edifici vicini e a un deposito giudiziario. Dieci squadre dei vigili del fuoco sono ancora al lavoro per spegnere le fiamme.

Russia-Ucraina, attacchi incrociati nella notte con missili e droni

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Il conflitto tra Mosca e Kiev prosegue con un nuovo attacco russo a Kiev, colpita nella notte da missili balistici e droni, e con raid effettuati dalle forze ucraine in alcune regioni russe. Le esplosioni hanno interessato almeno 13 zone della capitale ucraina, causando 14 feriti, di cui 12 ricoverati, e danni alle infrastrutture ferroviarie. In risposta, droni ucraini hanno colpito la regione russa di Rostov, dove è morta una persona, e la regione di Mosca, dove due uomini sono rimasti feriti. Colpita una stazione elettrica, con interruzioni di corrente. Oltre 50mila persone sono rimaste senza elettricità nel distretto di Sergyev-Posad della capitale russa.

Il debito pubblico italiano continua ad aumentare ed è sempre più in mano a fondi stranieri

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Nonostante i propositi e gli annunci del governo Meloni circa la volontà di aumentare la quota del debito pubblico nelle mani degli investitori italiani, in particolare famiglie e imprese, dagli ultimi dati della Banca d’Italia emerge un quadro contrario alle aspettative e agli annunci fatti dall’esecutivo di centro-destra. Dall’ultimo rapporto di Palazzo Koch dal titolo “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”, infatti, risulta che la percentuale di debito nelle mani dei fondi stranieri è salita a marzo dal 31,9 al 32,4% del totale, mentre quella detenuta dagli altri residenti (principalmente famiglie e imprese non finanziarie) è lievemente diminuita al 14,3 per cento (dal 14,4 per cento). Anche la quota di debito in mano alla stessa Banca d’Italia ha continuato a diminuire, scendendo ad aprile al 20,2%, dal 20,5% del mese precedente. I dati smentiscono la dichiarazione di Giorgia Meloni risalente al 28 aprile 2024, secondo cui «Il debito sta tornando nelle mani degli italiani grazie al successo dei Btp Valore». Allo stesso tempo si registra anche un aumento del debito delle pubbliche amministrazioni, in aumento di 30,1 miliardi rispetto al mese precedente, raggiungendo la cifra di 3.063,5 miliardi.

Tuttavia, al contrario di quanto propugnato a reti unificate dalla narrazione dominante neoliberista, il problema del debito non è un problema in termini assoluti, ma è da mettere in relazione a due elementi fondamentali: il suo valore in rapporto al PIL (prodotto interno lordo) e la composizione del debito per detentori. A questo si aggiunge un altro elemento importante che è la spesa per interessi che ogni anno una nazione paga sull’emissione dei titoli e che può incidere significativamente sul debito complessivo. La composizione del debito per detentori è un aspetto particolarmente rilevante, in quanto l’elevata percentuale di debito nelle mani del mercato e di fondi stranieri rende il debito vulnerabile: i titoli, infatti, possono essere repentinamente liquidati, creando forti pressioni ribassiste sui prezzi e innescando di conseguenza un rialzo dei rendimenti, per via della relazione inversa tra prezzi e rendimenti che caratterizza le obbligazioni. Ciò significa anche che chi detiene il debito pubblico di una nazione, in questo caso quello italiano, può arrivare piuttosto facilmente ad influenzare le scelte politiche utilizzando strumentalmente la leva del debito, minacciando ad esempio di vendere repentinamente i titoli di Stato. Ecco perché detenere internamente il debito è un’opzione più sicura e sovrana che non dipendere in tutto o in parte dai mercati e dagli investitori internazionali.

Secondo le ultime rilevazioni, la percentuale di debito detenuta dai non residenti, ossia singoli investitori e istituti finanziari che non hanno la residenza in Italia, a marzo era pari al 32,4% del totale ed è in aumento da marzo 2023, quando è stato toccato il valore minimo degli ultimi anni (26,1 per cento), ma resta ancora lontana dal picco registrato a ottobre 2009 (41,3 per cento). Se più del 32% del debito è nelle mani dei non residenti, sarebbe sbagliato pensare che il restante 70% sia nelle mani di famiglie e imprese italiane: secondo gli ultimi dati, infatti, 20,2% del debito è detenuto da Banca d’Italia, mentre il 20,4% da altre banche centrali o banche e il 12,4% da altre istituzioni finanziarie, come la Cassa depositi e prestiti. Solo il rimanente 14,4% è detenuto dagli “altri residenti”, una categoria dove rientrano principalmente le famiglie e i singoli investitori italiani.  Il Rapporto sul debito pubblico 2023 del Ministero di Economia e Finanza (MEF) analizza, inoltre, le principali tipologie di investitori relative ai BTP (Buoni del Tesoro Poliennali), titoli di debito a medio-lungo termine. In particolare, per quanto riguarda i BTP con scadenza ventennale, la quota sottoscritta dalle banche è stata la più rilevante (39%), seguita da quella dei fondi d’investimento (24,7%), risultata in diminuzione rispetto all’anno precedente. Banche centrali e istituzioni governative hanno, invece, contribuito all’acquisto dei titoli ventennali con una quota del 24,2%, seguite dai Fondi pensione e assicurazioni (6,3%) e dai fondi speculativi (5,8%).

La questione di chi possiede il debito pubblico influenza anche quella relativa agli interessi sul debito: la forte dipendenza dai fondi d’investimento e da banche estere, infatti, aumenta il rischio di rifinanziamento perché, senza un prestatore di ultima istanza, ossia una banca centrale che garantisce i titoli, gli investitori richiedono rendimenti più elevati per investire nel nostro debito sovrano, con conseguenze negative per i conti pubblici. Non a caso, la vera e propria esplosione del debito italiano si registra a partire dal 1981, in seguito al cosiddetto divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia deciso dall’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia: un evento che ha provocato l’impennata del debito poiché la banca centrale non garantiva più i titoli, determinando quindi un aumento dei tassi d’interesse. A partire da allora, l’aumento del debito è stato determinato proprio dall’interesse più alto preteso dagli investitori: si stima, infatti, che la spesa per interessi sia raddoppiata tra il 1981 e il 1984, passando dal 4% all’8% del PIL. Secondo Eurostat nel 2022, ultimo anno in cui sono disponibili i dati, l’Italia è stato il Paese che ha pagato più interessi sul proprio debito pubblico in percentuale del prodotto interno lordo all’interno dell’Unione europea: il 4,4 per cento, davanti a Ungheria (3 per cento), Grecia (2,7 per cento) e Spagna (2,4 per cento). La spesa media in interessi sul debito dei 27 Paesi Ue è invece molto più bassa, pari all’1,7 per cento.

Il dato sull’aumento degli investitori esteri nel debito pubblico italiano offre l’occasione per ricordare che l’attuale debito pubblico non è dovuto alla spesa eccessiva, secondo il mantra dominante per cui vivremmo “al di sopra delle nostre possibilità”, bensì all’enorme massa di interessi passivi pagati alle banche e agli investitori privati. A riprova di ciò vi è il fatto che il nostro Paese risulta tra i più virtuosi a livello europeo, e non solo, per quanto riguarda l’avanzo primario: negli ultimi 30 anni, infatti, ha sempre speso meno del totale delle entrate, al netto degli interessi sul debito. Si tratta di un dato confermato anche dall’FMI che ha una sezione dedicata agli avanzi primari registrati in rapporto al Pil per 115 Paesi del mondo dal 1990 a oggi: stilando una classifica, è emerso che l’Italia si posiziona all’undicesimo posto con un avanzo primario medio annuo dell’1,75% rispetto al PIL.

Quello del debito pubblico, dunque, è un tema che riguarda innanzitutto la sovranità economica e monetaria, senza la quale non è possibile avere alcuna sovranità nemmeno in ambito geopolitico, energetico e nelle relazioni internazionali. L’Italia, prima con il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia, poi con l’ingresso nello SME e successivamente con l’adesione al sistema dell’euro ha rinunciato alla sua sovranità economico-monetaria, diventando dipendente dai mercati finanziari. Il che ha accresciuto ulteriormente il potere dei fondi speculativi e d’investimento come Blackrock, Vanguard e State Street che muovono cifre pari o superiori a quelli del PIL di intere nazioni europee. Un risultato ottenuto proprio grazie alla sottomissione dello Stato alle forze economico-finanziarie. Nel settembre 2024, l’amministratore delegato di Blackrock, Larry Fink, è stato accolto a Palazzo Chigi da Giorgia Meloni per scambiare «un approfondito scambio di vedute su possibili investimenti del fondo USA in Italia». Secondo lo storico Alessandro Volpi, la Meloni potrebbe aver chiesto a Fink «di comprare una parte del debito italiano magari avendo una corsia privilegiata per ulteriori future privatizzazioni». Dunque, non solo il debito pubblico in mani italiane non è aumentato, ma la Penisola risulta sempre più nell’orbita dei mercati finanziari e dei grandi fondi internazionali – soprattutto statunitensi – da molti definiti i veri «padroni del mondo».