venerdì 14 Novembre 2025
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Diretta – Dopo le violazioni israeliane il cessate il fuoco sembra tenere – Netanyahu: “vittoria storica su Iran”

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Martedì 24 giugno. Dopo i bombardamenti americani sull’Iran, la risposta iraniana contro le basi militari USA in Medio Oriente (qui il nostro flusso di ieri) e dopo che nella notte di oggi Donald Trump ha annunciato il raggiungimento di un accordo per il cessate il fuoco. Oggi si misura la tenuta di un accordo che formalmente non è stato ufficialmente accettato da nessuna delle parti.


Il primo ministro israeliano Netanyahu ha dichiarato che quella ottenuta contro l’Iran è stata una “vittoria storica”, che “rimarrà per generazioni”. L’esercito israeliano ha inoltre dichiarato, in un post su X, che gli attacchi contro l’Iran hanno “fatto arretrare di anni il programma nucleare dell’Iran, e lo stesso vale per il suo programma missilistico”.


Mentre Teheran festeggia, continuano le aggressioni in Cisgiordania. A partire da stamattina, l’esercito israeliano ha effettuato un raid contro il villaggio di Al-Mazra’a Al-Gharbiya, nel Governatorato di Ramallah; sempre nel governatorato di Ramallah, sono state registrate operazioni di demolizione degli olivi della città di Turmus Aya. Israele ha inoltre continuato le operazioni di demolizione nel campo di Nur Shams, a Tulkarem, così come nel quartiere arabo Ras Khamis di Gerusalemme.

I maggiori episodi di violenza da parte di esercito e coloni, tuttavia, si sono concentrati a Jenin e Nablus. Nella prima, nel tardo pomeriggio, le IDF hanno lanciato un attacco con colpi di mortaio, mentre intanto hanno portato avanti le operazioni di demolizione. Nella seconda, invece, le IDF hanno attaccato il campo profughi di Askar al-Jadeed, e sgomberato un edificio di Luban e-Sharkiya, città situata qualche chilometro a sud di Nablus, per convertirlo in un avamposto militare.

Le ruspe israeliane entrano in un campo coltivabile a Ramallah.

Intanto, il popolo iraniano è sceso in piazza per celebrare quella che il Paese sta descrivendo come una vittoria contro gli Stati Uniti e Israele. I cittadini si sono riuniti a Piazza Enqelab, a Teheran, dove hanno intonato cori contro gli USA e Israele.


Parlando all’agenzia di stampa iraniana Mehr, il direttore dell’organizzazione per l’energia atomica iraniana, Mohammad Eslami, ha affermato che l’agenzia sta prendendo disposizioni per prevenire l’interruzione del programma nucleare del Paese, sottolineando che «l’Iran ha capacità e competenze che gli consentono di continuare a progredire nel settore nucleare senza interruzioni». L’annuncio di Eslami arriva dopo una dichiarazione del direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, Rafael Grossi, che si è congratulato con le parti per il raggiungimento di un cessate il fuoco, e ha affermato di volere riaprire i tavoli per parlare del programma nucleare iraniano con le autorità della Repubblica Islamica.


Dopo la momentanea de-escalation, il presidente degli Stati Uniti ha condiviso un post in cui dice alla Cina che può tornare a comprare il petrolio dall’Iran, a testimonianza della sua convinzione della tenuta del cessate il fuoco: «La Cina può ora continuare ad acquistare petrolio dall’Iran. Si spera che ne acquistino parecchio anche dagli Stati Uniti. È stato un onore riuscire a renderlo possibile!».


Dopo circa due ore dall’attacco al radar iraniano da parte di Israele, il cessate il fuoco sembra tenere. Mentre la tensione sembra scemare, il presidente Trump si è preso i meriti della temporanea buona riuscita della pacificazione tra le parti. In generale dopo una notte particolarmente violenta, gli attacchi di oggi sono diminuiti non appena raggiunto l’orario del cessate il fuoco annunciato da Trump. A parte l’attacco che Israele ha affermato di avere ricevuto e quello che successivamente ha lanciato, nessuna delle parti ha denunciato di essere stata bersagliata.


Il governo Netanyahu ha dichiarato di aver condotto un attacco contro un sistema radar iraniano a nord di Teheran. Secondo il governo israeliano l’attacco non sarebbe una violazione del cessate il fuoco, ma una legittima risposta alle violazioni iraniane. Dopo avere discusso con Trump, si legge in un comunicato del governo israeliano, Israele «si è astenuto da ulteriori attacchi».

L’attacco sarebbe stato fortemente ridotto, quasi di carattere dimostrativo. Non è chiaro – scrive il quotidiano Times of Israel – quanto esteso fosse inizialmente l’attacco pianificato da Israele.


Secondo Trump, il cessate il fuoco è stato violato sia da Israele che dall’Iran. Lo ha dichiarato ai media statunitensi prima di partire per il vertice NATO nei Paesi Bassi. Il presidente degli Stati Uniti si è detto «insoddisfatto» dell’atteggiamento di entrambi i Paesi, ma soprattutto di Israele, precisando che Tel Aviv ha colpito Teheran subito dopo aver accettato l’accordo.

Successivamente, in un comunicato pubblicato sul suo social Truth, ha rincarato la dose, minacciando Israele: «Non lanciate quelle bombe. Se lo fate, è una violazione grave. Riportate a casa i vostri piloti, subito!». Poi, alle ore 13:28, ha aggiunto: «Israele non attaccherà l’Iran. Tutti gli aerei torneranno a casa, mentre faranno un saluto amichevole all’Iran. Nessuno sarà ferito, il cessate il fuoco è in vigore!».


Fonti mediche di Gaza, riportate da Al Jazeera, affermano che le forze israeliane hanno ucciso almeno 37 palestinesi nella Striscia dalle prime ore di questa mattina. Ventinove di questi sono stati uccisi in un attacco avvenuto nei pressi di un centro di distribuzione alimentare gestito dalla controversa agenzia statunitense Gaza Humanitarian Foundation (GHF).

Il direttore dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA), Philippe Lazzarini, è tornato ad attaccare con forza il sistema di aiuti predisposto a Gaza da Stati Uniti e Israele, definendolo «un abominio» e «una trappola mortale».

Da fine maggio, più di 450 persone sono state uccise e circa 3.500 ferite sotto il fuoco israeliano mentre cercavano aiuto, molte delle quali nei pressi dei siti della GHF.

Nel video seguente sono mostrati palestinesi di Gaza in fuga dagli spari dell’esercito israeliano contro i civili in fila per avere aiuti umanitari.


Secondo quanto riportato dalla tv pubblica iraniana il governo di Teheran ha negato con forza l’accusa israeliana di aver violato il cessate il fuoco. L’Iran nega di aver lanciato missili su Israele dopo la sua entrata in vigore.


Il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato di aver dato istruzioni all’esercito di «rispondere con forza alla violazione del cessate il fuoco da parte dell’Iran con attacchi intensi contro obiettivi del regime nel cuore di Teheran». Mentre il Ministro Delle Finanze, Bezalel Smotrich, tra i membri più estremisti dell’esecutivo sionista, ha promesso che «Teheran tremerà».


L’esercito israeliano ha dichiarato che due missili balistici sono stati lanciati dall’Iran verso il territorio israeliano dopo l’entrata in vigore della tregua. Nel nord di Israele e nella città di Haifa sono entrate in funzione le sirene antiaeree. I missili sarebbero stati intercettati dal sistema di difesa israeliano. La tregua già vacilla.


Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato un cessate il fuoco «completo e totale» tra Israele e Iran, che aprirebbe la strada alla conclusione definitiva di quella che ha ribattezzato «Guerra dei 12 giorni». La tregua è iniziata formalmente questa mattina. L’annuncio è stato dato in una serie di comunicati, dai toni insieme biblici e quasi surreali, pubblicati sul social network Truth. Nel primo Trump ha scritto «Congratulazioni mondo, ora è tempo di pace», nell’ultimo – dopo aver annunciato i dettagli della tregua – ha specificato che «Israele e l’Iran sono venuti da me, quasi simultaneamente, e mi hanno detto: “Pace!”». E che lui già sapeva «che era l’ora». Prima di promettere: «Entrambe le nazioni vedranno un futuro ricco di amore, pace e prosperità. Hanno tanto da guadagnare, eppure tanto da perdere se si allontanano dalla strada della giustizia e dalla verità. Il futuro per Israele e l’Iran è illimitato e pieno di grandi promesse. Dio vi benedica entrambi!»

Il ministro degli Esteri iraniano Araghchi ha smentito il raggiungimento di un accordo, ma ha affermato che l’Iran avrebbe rispettato la tregua se Israele avesse fatto lo stesso, riservandosi il diritto di rispondere agli attacchi. È esattamente quello che è successo: nella notte, Israele e Iran hanno continuato a scambiarsi attacchi, l’ultimo dei quali è giunto da Teheran attorno allo scoccare dell’ora stabilita. Non risulta insomma chiaro se la tregua annunciata da Trump terrà, ma le rispettive emittenti di Stato hanno riportato l’entrata in vigore del cessate il fuoco, e Israele ha annunciato di avere accettato la proposta di Trump.


Colombia, rilasciati i 57 soldati rapiti dai civili

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Il ministro della difesa colombiano, Pedro Sánchez, ha annunciato che i 57 soldati colombiani che erano stati rapiti lo scorso fine settimana sono stati rilasciati. Il rilascio è avvenuto in seguito a una operazione congiunta tra esercito e polizia nazionale. Secondo le ricostruzioni dell’esercito, i soldati erano stati rapiti da un gruppo di 200 civili per ordine del gruppo ribelle dello Stato Maggiore Centrale, maggiore gruppo dissidente delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC). I rapimenti si erano verificati nella zona sud-occidentale del Canyon Micay, nel dipartimento del Cauca, area centrale nel trasporto di cocaina verso i porti del Pacifico.

Meloni insiste sulle privatizzazioni: il 20% di Eni-Plenitude a un fondo americano

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Il colosso energetico italiano ENI ha annunciato ieri di aver firmato un accordo con il fondo statunitense Ares Management che prevede la cessione del 20% delle azioni di Plenitude, società di fornitura di gas e luce controllata al cento per cento da ENI, per un valore di circa due miliardi di euro. Il cane a sei zampe aveva già venduto il 10% della sua controllata, che fino al 2022 si chiamava Eni gas e luce, al fondo d’investimento svizzero Energy Infrastructure Partners (EIP). ENI – azienda controllata del ministero del Tesoro – rimane l’azionista di maggioranza con il 70% delle azioni della società, mentre Ares diventa il primo azionista di minoranza. La cessione rientra nella “strategia” di sviluppo del «modello satellitare» di ENI che ha l’obiettivo di valorizzare le attività collegate ai business della transizione energetica rendendo più indipendenti le cosiddette società satellite attraverso investimenti esterni. «L’accordo annunciato oggi conferma la grande attrattività del modello di business di Plenitude, una delle nostre società satellite costituita pochi anni fa per valorizzare al meglio una parte dei nostri asset a elevato potenziale, creare sempre più valore e contribuire ai nostri obiettivi di azzeramento netto delle emissioni Scope 3», ha commentato Francesco Gattei, responsabile della transizione e direttore finanziario di Eni.

Se da un lato, la società sottolinea l’attrattività delle sue controllate per il mercato e lo sviluppo del modello satellitare, dall’altro, la cessione di una percentuale di minoranza di Plenitude risulta in continuità con quella tendenza a privatizzare parti di società strategiche per la sicurezza nazionale che è proseguita e si è accentuata con il governo Meloni. Pur mantenendo, infatti, quote di maggioranza nelle compagnie chiave per l’indipendenza energetica e infrastrutturale italiana, l’esecutivo di centro-destra ha approvato e agevolato la privatizzazione di parti importanti di società anche tutelate dal cosiddetto Golden power (in italiano “poteri speciali”) a favore di compagnie straniere, in particolare fondi statunitensi. Il che non ha solo ripercussioni economiche, ma anche politiche e geopolitiche, considerata la cessione e la condivisione di dati sensibili e la possibilità di influenzare le decisioni delle compagnie stesse da parte di azionisti stranieri. Anche nell’ultima operazione effettuata da ENI è coinvolto uno dei principali fondi d’investimento statunitense al mondo: si tratta di un gruppo di fondi Alternative Credit, tutti affiliati del principale gestore globale di investimenti Ares Management Corporation. Inoltre, ad affiancare il colosso energetico italiano nel perfezionamento dell’operazione, oltre a Mediobanca, è intervenuta la potente banca statunitense Goldman Sachs, mentre Ares è stata supportata da Deutsche Bank, UniCredit, L&B Partners con lo studio Chiomenti per la parte legale. Ares Management, fondato nel 1997, vanta, nel suo complesso, 546 miliardi di dollari di asset in gestione (di cui circa 43 miliardi di dollari in capo al “braccio” Ares Alternative Credit).

L’operazione di ENI si inserisce in una traiettoria che il Cane a sei zampe e il governo italiano hanno intrapreso da tempo: quella di privatizzare gli asset strategici con il fine non solo di “ottimizzare” la struttura del capitale delle aziende, ma anche, in ultima analisi, di utilizzare i fondi ricavati per finanziare la spesa pubblica. ENI, il colosso energetico fondato da Enrico Mattei, è controllato per il 30% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, attraverso Cassa Depositi e Prestiti SpA (CDP SpA) ed è protetto da Golden power, lo strumento normativo che conferisce all’esecutivo la facoltà di porre condizioni o veti in caso di tentativo d’acquisto di una compagnia strategica italiana da parte di una società straniera. La presenza di questa tutela sugli asset strategici non ha impedito all’attuale governo di concedere l’autorizzazione per la vendita di azioni di minoranza: il 24 ottobre del 2024, ad esempio, Eni e il fondo statunitense KKR hanno firmato il contratto per l’ingresso di KKR nel 25% del capitale sociale di Enilive, una controllata di ENI che fornisce prodotti decarbonizzati. Pochi mesi dopo, a stretto giro, il Cane a sei zampe ha ceduto un altro pezzo della sua controllata che si occupa di mobilità sostenibile al medesimo fondo attraverso la vendita del 5% del capitale sociale della compagnia. Precedentemente, il governo Meloni, in continuità con il governo Draghi e con quasi tutti i governi precedenti, aveva autorizzato la vendita al fondo statunitense KKR  della rete primaria e secondaria delle telecomunicazioni di TIM, azienda coperta da Golden Power a partecipazione statale.

Dopo essersi dichiarati contro le privatizzazioni durante l’opposizione e in campagna elettorale, il partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, e l’esecutivo hanno spiegato senza giri di parole che l’obiettivo è quello di ricavare 20 miliardi in tre anni dalla vendita di quote di società pubbliche. Meloni ha osservato che si tratta di un «lavoro che si può fare con serietà, senza compromettere il controllo pubblico». Intanto però le società strategiche italiane sono sempre più nell’orbita dei fondi finanziari statunitensi e la vendita di aziende chiave per la sicurezza nazionale a fondi e cordate straniere porta a termine quel progetto di privatizzazione degli asset pubblici, pilastro della dottrina neoliberista, volto a ridurre l’influenza dello Stato nell’economia a favore dei grandi investitori finanziari internazionali. Sebbene ENI mantenga la maggioranza in Plenitude, anche l’ultima operazione del colosso energetico italiano coinvolge un potente fondo statunitense e rientra in questa logica di ingerenza dei fondi privati in società chiave per la sicurezza e lo sviluppo nazionale.

Antitrust, multate Novamont ed Eni per abuso di posizione dominante

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L’Antitrust ha multato Novamont per 30,36 milioni di euro e Eni, che la controlla, per 1,7 milioni, per abuso di posizione dominante nel mercato dei sacchetti compostabili. Tra il 2018 e il 2023, Novamont ha detenuto quote rilevanti di mercato imponendo l’uso esclusivo del proprio materiale Mater-Bi a produttori e supermercati, ostacolando così la concorrenza. Questo sistema ha favorito un quasi monopolio, penalizzando lo sviluppo di alternative più sostenibili. Nel 2024 Novamont ha registrato 265 milioni di ricavi, mentre Eni ha ottenuto 6,4 miliardi di utili.

A Venezia si sta allargando la protesta contro il turismo di lusso

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Monta la protesta veneziana contro il matrimonio di lusso del magnate statunitense Jeff Bezos. L’evento si svolgerà dal 26 al 28 giugno, ma i dettagli della maxi-festa restano ancora poco chiari. Sin dal lancio dell’iniziativa, sui media generalisti e su quelli specializzati sono apparse diverse ipotesi sulla quantità di risorse mobilitate dal multimiliardario, che avrebbe organizzato concerti ed eventi esclusivi in tutta la città. Contro il matrimonio, i lagunari si sono riuniti in un comitato apposito, organizzando manifestazioni e flash mob e promettendo di boicottare l’evento: in piazza San Marco è comparso uno striscione con scritto «se puoi affittare Venezia per il tuo matrimonio, puoi pagare più tasse». La protesta contro il matrimonio del magnate si colloca all’interno di un movimento che da tempo reclama una città che torni ad essere pensata per i cittadini, opponendosi a quel modello che inquadra la laguna come una vetrina privatizzabile per masse di turisti e feste di super ricchi.

Il matrimonio di Jeff Bezos a Venezia è stato annunciato mesi fa, e ha sin da subito attirato l’attenzione dei media di tutto il mondo. Per quanto i giornali speculino da settimane su sede della cerimonia, eventi e budget della maxi-festa, i dettagli non sono noti. Alla festa parteciperanno oltre 200 invitati, la maggior parte nomi noti, che dovrebbero atterrare all’aeroporto Marco Polo tra oggi e domani, mercoledì 25 giugno. Per il matrimonio, Bezos avrebbe “affittato” l’intera isola di San Giorgio, cosa che, secondo informazioni verificate da L’Indipendente, comporterà la chiusura anticipata di alcuni spazi della Fondazione Cini, una delle sedi della festa. Pare inoltre che l’evento principale, che si sarebbe dovuto tenere alla Misericordia il 28 giugno, sarà spostata all’Arsenale. Nei giorni c’è chi ha scritto che Bezos avrebbe prenotato l’intera flotta di taxi acquatici (informazione poi smentita dall’amministrazione comunale) e le migliori suite degli alberghi di lusso, affittato interi spazi ed edifici, organizzato concerti ed eventi esclusivi, provato a portare in laguna uno dei suoi yacht privati, pianificato l’allestimento di buffet extra-lusso con posate placcate in oro, chiamato diverse agenzia di sicurezza. La sposa cambierà 27 abiti e la cifra di spesa stimata è di 30 milioni di euro.

Malgrado le innumerevoli speculazioni dei media, tutte le informazioni sulla celebrazione sono riservate, e si sa davvero poco del matrimonio. Quello che è certo è che in un modo o nell’altro sarà coinvolta l’intera città, tanto che sarebbe in programma la chiusura di alcune strade e di parte dei canali. È proprio contro questo che i cittadini protestano: «Contro l’arroganza degli oligarchi e dei loro lacchè», e contro quel sempre più pervasivo «modello di gestione della città come una vetrina svuotata di abitanti». I lagunari hanno messo in piedi il comitato No Space for Bezos, a cui hanno aderito realtà variegate che spaziano dai gruppi locali come il comitato No Grandi Navi, ai movimenti ambientalisti come Extinction Rebellion. Il comitato ha organizzato diverse proteste, l’ultima delle quali si terrà in varie aree della città proprio sabato 28 giugno per boicottare i festeggiamenti. Gli attivisti rivendicano una città con maggiori spazi dedicati ai cittadini, contro la logica di turistificazione che la affligge da anni.

Le proteste dei cittadini, insomma, non si limitano a contestare la presenza di un ultraricco in città, ma si oppongono all’intero sistema di svendita degli spazi urbani promosso in prima battuta dall’amministrazione comunale. «Il fatto», ci dice un attivista locale che ha preferito rimanere anonimo, «è che se qualcuno affitta un’intera città è perché qualcun altro la mette in vendita; è naturale che Bezos, o chi per lui, compri Venezia per qualche giorno, se qualcuno glielo permette». La relegazione degli spazi pubblici – e privati – a luoghi di intrattenimento per miliardari, la messa a vigilanza di un’intera città, l’interruzione dei servizi, la chiusura delle strade, dei canali, delle biblioteche, delle mostre, «sono cose che non dovrebbero accadere da nessuna parte, ma non è questo il punto». Il punto è che «c’è un sistema che promuove» la messa in vetrina dii questi spazi, a scapito dei cittadini, innescando così un «inarrestabile» circolo vizioso. «Più spazio viene dato al turista, più ne viene tolto al cittadino», sottolinea infatti l’attivista; e a sua volta, «più spazio viene tolto al cittadino, più ne viene dato al turista». Destinando tutte le risorse al turismo, insomma, «il tessuto sociale viene gradualmente eroso».

La maxi-festa di Bezos, in questo, è solo il più eclatante dei casi che hanno interessato Venezia nell’ultimo periodo: già ad aprile dell’anno scorso, un’attivista di Assemblea Sociale per la Casa criticava su L’Indipendente l’introduzione del ticket d’accesso, sottolineando come esso non facesse altro che accelerare il processo di trasformazione degli spazi urbani in un sostanziale «parco giochi» per turisti. A settembre, è poi scoppiato il caso degli studenti cacciati dalle abitazioni a loro riservate per fare spazio ai turisti, che gli stessi universitari ci hanno confermato essere una pratica sistematica. A novembre, siamo tornati sulla questione, evidenziando come il turismo di massa stia annientando la città di Venezia. Per quanto possa apparire diametralmente opposto, il caso di Bezos non è davvero differente a questi altri: «Turismo di lusso e overtourism sono la stessa cosa; cambia la forma, ma resta invariata la sostanza». Il meccanismo speculativo che c’è dietro, infatti, rimane sempre lo stesso: quello di «svendere completamente la città e togliere spazio alla vita locale».

USA, Corte Suprema: ok a espulsione migranti in Paesi terzi

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La Corte Suprema ha accolto la richiesta d’urgenza del presidente Donald Trump di riprendere le espulsioni dei migranti verso Paesi terzi, come il Sud Sudan, anche con un preavviso minimo. La decisione sospende un’ordinanza del giudice Brian Murphy, che aveva giudicato incostituzionali le espulsioni senza avviso e possibilità di contestazione, in particolare in caso di rischio di tortura. I tre giudici progressisti della Corte hanno dissentito. Il caso passerà ora in appello. Intanto, gruppi legali rappresentano migranti anonimi che denunciano la violazione del diritto al giusto processo da parte dell’amministrazione.

Meloni incatena l’Italia ai diktat della NATO: “Rispetteremo il 5% del PIL alla difesa”

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Mentre in Europa crescono le voci contrarie, con il governo slovacco che si è affiancato a quello spagnolo nel rifiutare il vertiginoso aumento delle spese militare al 5% del Prodotto interno lordo come richiesto dagli Stati Uniti e dalla NATO, la premier italiana Giorgia Meloni dà ancora una volta prova di obbedienza alle direttive di Washington. Quelli richiesti sono «impegni importanti e necessari che l’Italia rispetterà», ha detto davanti ieri, lunedì 23 giugno, al Parlamento. Per giustificarlo ha citato con un mezzo secolo di ritardo la leader liberista del Regno Unito degli anni 1980 Margareth Thatcher: «Non dimentichiamoci mai che il nostro stile di vita, i nostri valori, non saranno assicurati da quanto sono giuste le nostre cause ma da quanto è forte la nostra difesa». Una frase in cui riecheggia la retorica militarista della pace da ottenere attraverso la forza, potenzialmente in grado di giustificare spese militari senza fine.

Nel suo discorso, Meloni ha rivendicato il raggiungimento da parte del suo governo del 2% del PIL in spese per la difesa richiesto dalla NATO nel 2014, «rispettando così la parola data dall’Italia a livello internazionale». La premier ha poi confermato un completo allineamento anche sui nuovi impegni: «Attualmente la proposta presentata prende atto della valutazione aggiornata che la NATO fa delle minacce e dei rischi per l’Europa, dei conseguenti piani di Difesa, della possibile riduzione del contributo in termini di forze e capacità da parte degli Stati Uniti», il che «si traduce in un impegno per tutti i membri dell’Alleanza ad arrivare al 3,5% del PIL in spese di difesa e al 1,5% in spese di sicurezza – ha detto Meloni -. Sono impegni importanti, certo, sono impegni necessari, che finché questo Governo sarà in carica, l’Italia rispetterà restando un membro di prim’ordine della NATO». Le parole di Meloni sono arrivate mentre ancora non era stata annunciata la tregua tra Israele e Iran. Anzi, la premier non aveva nemmeno escluso l’idea di concedere le basi italiane agli Stati Uniti, seppur precisando che, nel caso, avrebbe dovuto prima avere luogo un passaggio parlamentare.

I numeri recentemente forniti dall’osservatorio Milex chiariscono le vere dimensioni dell’impegno finanziario: oggi l’Italia spende complessivamente circa 45 miliardi di euro tra difesa e sicurezza (pari al 2% del PIL), mentre per raggiungere il 5% nel 2035 la spesa annuale salirebbe a circa 145 miliardi, ovvero un incremento netto di 100 miliardi rispetto ad oggi, con aumenti medi di 10 miliardi all’anno nel decennio 2025–2035. Se si confrontano i due scenari in termini cumulativi, per la spesa decennale fino al 2035 servirebbero quasi 1 000 miliardi con l’obiettivo del 5%, contro poco più di 500 miliardi mantenendo il 2% con una crescita fisiologica: la differenza è dunque superiore a 400 miliardi in dieci anni, pari in media a 40 miliardi in più ogni anno. Un balzo di spesa per difesa e sicurezza di queste dimensioni non potrà che impattare enormemente sulla spesa sociale. Ogni miliardo “dirottato” verso la difesa è infatti un miliardo tolto a welfare, politiche attive per il lavoro e sostegni alle fasce più deboli, ma anche a sanità, istruzione, infrastrutture, cultura e ricerca.

L’Iran ha attaccato le basi USA in Medio Oriente

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Lunedì 23 giugno. Dopo che, domenica 22 giugno, gli Stati Uniti sono entrati in guerra contro l’Iran a fianco di Israele (qui il nostro flusso di ieri), continuano gli attacchi di Tel Aviv contro Teheran. Prosegue la nostra diretta del conflitto.


Diversi ufficiali statunitensi starebbero rivelando in condizioni di anonimato ai media del Paese che l’Iran avebbe informato in anticipo gli USA degli attacchi. La notizia è uscita da fonti diversificate su CNN, e sul New York Times, che riportano che Washington non avrebbe intenzione di rispondere a Teheran. La stessa CNN riporta che l’inviato speciale USA per i Medio Oriente, Steve Witkoff, sarebbe tornato in contatto con le autorità iraniane dopo l’attacco di ieri. L’agenzia di stampa Reuters, intanto, riporta di un funzionario iraniano che avrebbe affermato che il Paese sarebbe pronto a sedersi al tavolo dei negoziati, ma senza accettare una pace imposte dall’alto.


I Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Kuwait, Bahrein, Oman) hanno condannato l’attacco iraniano sulle basi militari statunitensi nel Golfo Persico. L’annuncio arriva dal segretario del gruppo, Jasem Mohamed Albudaiwi, e segue una analoga dichiarazione di condanna rilasciata dal Qatar. Doha, di preciso, ha affermato che si riserva il diritto di rispondere agli attacchi iraniani. L’Arabia Saudita ha annunciato che sarebbe pronta a fornire sostegno al Qatar in caso di risposta.


Nel frattempo, le sirene di allarme hanno iniziato a suonare nei centri iraniani di Tabriz (nell’area nord-occidentale del Paese), Esfahan (ieri colpita dagli USA), Karaj (a circa 40 chilometri da Teheran) e Teheran. L’attacco è stato lanciato attorno alle 19:45, ma gli aggiornamenti disponibili sono ancora ridotti. Nella capitale, Israele ha lanciato un attacco sui quartieri di Ekbatan (a ovest) e di Narmark (a nordest), e sono state udite due esplosioni nel centro della città.


Anche Iraq e Kuwait hanno annunciato la chiusura del proprio spazio aereo, mentre in Bahrein ha dato ai propri cittadini il via libera per uscire dai propri rifugi. Nel frattempo, sembra che i segnali GPS nell’area del golfo siano tornati a funzionare. In questo momento, dal sito di monitoraggio Flight Radar, sembrerebbe che alcuni degli aerei in volo nei Paesi che hanno chiuso il proprio spazio aereo stiano venendo dirottati altrove.

Un’immagine scattata sul sito di monitoraggio Flight Radar alle 20:04.

Alla notizia di un imminente attacco, il Bahrein ha chiuso il proprio spazio aereo, mentre sembra che gli USA si starebbero preparando all’arrivo dei missili iraniani. Da quanto riportano alcuni media, i jet statunitensi sarebbero decollati dall’Arabia Saudita.


In seguito all’annuncio del possibile attacco iraniano in Bahrein, le sirene di allarme avrebbero iniziato a suonare nel Paese. Secondo media indipendenti, le autorità avrebbero inoltre invitato ai cittadini e alle persone presenti sul posto di trovare rifugio immediatamente.


In seguito alla conferma dell’attacco missilistico da parte dell’Iran anche gli Emirati Arabi Uniti, come il Qatar, hanno annunciato la chiusura del proprio spazio aereo.


Il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica ha confermato gli attacchi presso le basi statunitensi in Qatar e in Iraq, e sostiene di avere colpito con un missile la base qatariota di Al Udeid. Alcuni media indipendenti rilevano che vicino alla struttura si sarebbe sollevato del fumo. Ancora nessuna conferma degli attacchi alle basi in Bahrein e Kuwait.

Un video dell’attacco iraniano in Qatar condiviso dall’agenzia di stampa iraniana Tasnim.

È stato segnalato un primo lancio di missili iraniani in Medio Oriente. L’agenzia di stampa Reuters riporta di esplosioni a Doha in Qatar, dove l’Iran ha lanciato 6 missili. Secondo quanto riportano i media, sarebbero stati tutti intercettati. In Iraq l’Iran ha preso di mira la base militare di Al Asad, attaccandola con un missile. Anche questo missile sarebbe stato intercettato.


Nelle ultime ore diversi segnali indicherebbero che l’Iran stia preparando un attacco contro la base statunitense di Al Udeid in Qatar. Nella regione si sono verificate interruzioni ai segnali di GPS, e i media segnalano presunti spostamenti dei lanciamissili iraniani nella regione. In risposta, il Qatar ha chiuso momentaneamente lo spazio aereo, dirottando i voli in Arabia Saudita, e ha invitato i cittadini a rimanere al sicuro. Francia, Regno Unito e Stati Uniti hanno inviato aerei nel Golfo Persico, e alcune squadriglie di aerei statunitensi sono state viste occupare lo spazio aereo saudita.


I media israeliani hanno riferito di almeno 4 siti colpiti da missili iraniani nel Paese, ma non è ancora chiaro dove e cosa sia stato danneggiato. Le sirene israeliane hanno suonato per almeno mezz’ora, l’allarme più lungo lanciato dal’inizio del conflitto. Il Times of Israel riferisce che almeno uno dei missili iraniani ha colpito una “infrastruttura strategica” nel sud di Israele, provocando interruzioni di corrente nelle aree vicine.


Per “eccesso di cautela”, l’ambasciata USA in Qatar ha invitato i cittadini statunitensi a mettersi al riparo “fino a nuovo ordine”. Il messaggio è stato inviato via mail a tutti gli americani che si trovano nello Stato del Golfo, dove si trova la base di Al Udeid. Questa, dove si trovano circa 10 mila soldati USA, funge infatti da quartier generale avanzato del Comando Centrale degli Stati Uniti (CENTCOM).


Israele ha lanciato un massiccio bombardamento sull’Iran, che va ormai avanti da oltre un’ora. La città più colpita è la capitale Teheran, dove Israele ha preso di mira obiettivi civili e militari. In un’area della campagna della capitale, lo Stato ebraico ha preso di mira una sede dei pasdaran, le cui condizioni sono ancora ignote; in generale, sono state colpite diverse basi delle IRGC (Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica), su cui tuttavia non abbiamo alcun aggiornamento. Attaccata anche una delle linee di alimentazione elettrica nel distretto di Evin, nel nord di Teheran, dove si è verificato un blackout. Sempre a Evin, Israele ha preso di mira l’omonimo carcere, noto per detenere prigionieri politici, giornalisti, attivisti e cittadini stranieri. Israele ha inoltre bombardato un edificio della emittente di Stato IRIB, uno della mezzaluna rossa iraniana, e uno dell’Università Shahid Beheshti. Ignoti i danni a tali edifici.

Dopo avere colpito Teheran, lo Stato ebraico ha preso di mira lo stabilimento di Fordo, principale bersaglio del bombardamento statunitense di ieri, 22 giugno. L’agenzia di stampa semi-ufficiale iraniana Tasnim, ha affermato che gli attacchi di ieri avrebbero provocato danni ridotti e che anche quelli israeliani non dovrebbero mettere in pericolo la struttura e i cittadini; malgrado ciò, il bombardamento è ancora in corso e non è davvero noto quali saranno le entità dei danni. Israele ha bombardato anche una strada di accesso al sito.

Colonne di fumo si alzano da Teheran.

L’Iran sta lanciando una ondata di missili verso tutto lo Stato di Israele, dove le campane d’allarme suonano da circa un’ora. Nel frattempo iniziano ad arrivare i primi aggiornamenti: nell’area meridionale del Paese, i missili sono riusciti a impattare ad Ashdod, dove tuttavia non è chiaro cosa sia stato stato preso di mira; secondo alcuni dovrebbe essere stata colpita una centrale elettrica. Sempre nel sud, colpita una centrale elettrica ad Ascalona, dove si è è stato segnalato un blackout. I bombardamenti iraniani si sono abbattuti anche sulla capitale Tel Aviv, dove almeno un missile è riuscito a superare le difese israeliane. Nel distretto settentrionale di Israele, almeno due missili sono riusciti a colpire Haifa, mentre uno dovrebbe essersi abbattuto a Safad. Colpita, infine, un’area nel Negev.

L’impatto ad Ashdod.

In un post sul suo social network Truth, il presidente degli Stati Uniti ha adattato il proprio motto “Make America Great Again” all’Iran («Make Iran Great Again»), e iniziato a invocare un ipotetico cambio di regime: «Non è politicamente corretto usare il termine “cambio di regime”, ma se l’attuale regime iraniano non è in grado di rendere l’Iran di nuovo grande, perché non dovrebbe esserci un cambio di regime? MIGA!». La dichiarazione di Trump va contro quanto dichiarato dal proprio vicepresidente JD Vance e dal Segretario di Stato Marco Rubio nella giornata di ieri.


L’esercito israeliano ha dichiarato, in un post apparso sul proprio account X in ebraico, di aver condotto attacchi contro 6 aeroporti nell’Iran centrale, occidentale ed orientale, attraverso aerei pilotati a distanza che hanno distrutto in tutto 15 mezzi da combattimento iraniani. Negli attacchi sarebbero stati distrutti “vie di fuga, bunker sotterranei, un aereo da rifornimeno e aerei F-14, F-5 e AH-1”.

Sudan, attacco in un ospedale: almeno 40 morti

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Nel fine settimana, in Sudan, è avvenuto un attacco a un ospedale, in seguito a cui sono state uccise almeno 40 persone. La notizia è stata data oggi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che tuttavia non ha individuato il responsabile dell’aggressione. L’attacco è avvenuto presso l’ospedale Al Mujlad, nel Kordofan Occidentale, area vicino alla linea del fronte tra l’esercito regolare e i ribelli delle Forze di Supporto Rapido. In seguito all’annuncio, il direttore dell’ospedale ha condannato le aggressioni alle strutture sanitarie chiedendo ad entrambe le forze di cessarle immediatamente; neanche il medico ha identificato l’autore degli attacchi.

Thailandia: chiuso il confine con la Cambogia

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L’esercito thailandese ha chiuso i valichi di frontiera con la Cambogia a quasi tutti i viaggiatori, compresi turisti e commercianti. La chiusura dei confini è stata motivata con motivi di sicurezza, e arriva in un momento di tensione tra i due Paesi del Sud-est asiatico. Il deterioramento dei rapporti è scattato dopo lo scoppio di ridotti scontri armati in una zona di confine, che alla fine di maggio hanno causato la morte di un soldato cambogiano. I Paesi hanno poi adottato misure di ritorsione l’uno contro l’altro, come per esempio la sospensione di tutte le importazioni di carburante e gas dalla Thailandia annunciata dalla Cambogia.