venerdì 17 Ottobre 2025
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L’Europol fa un passo verso la sorveglianza massiva dei migranti

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Martedì 20 maggio, la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE) del Parlamento Europeo ha approvato l’ampliamento del mandato di Europol per rafforzare il contrasto al traffico di migranti e alla tratta di esseri umani. Diverse organizzazioni della società civile hanno espresso preoccupazione, sostenendo che l’enfasi sulla sicurezza e sul controllo delle frontiere possa compromettere il rispetto dei diritti umani e il principio di accoglienza, nonché portare a un futuro ancorato alla sorveglianza di massa.

Passata con 56 voti a favore, 10 contrari e 3 astensioni, la riforma si inserisce in un contesto politico derivante dall’instabilità amministrativa del 2023, ovvero in un’epoca in cui i partiti moderati e di sinistra hanno cercato di adottare una linea più rigida sulla migrazione in vista delle elezioni europee del 2024, nella disperata speranza di attrarre il sostegno del centrodestra.

La rivoluzione dell’agenzia europea di coordinamento poliziesco porterà alla creazione di un nuovo organismo dedicato, ovvero Centro europeo contro il traffico di migranti (ECAMS), che fungerà da hub operativo per coordinare le attività degli Stati membri, di Eurojust e di Frontex. Per sostenere questa espansione, l’Europol riceverà per il biennio 2025-2027 un finanziamento aggiuntivo di 50 milioni di euro e 50 nuovi membri dello staff. La riforma prevede anche un ampliamento delle capacità dell’Europol nella raccolta e analisi dei dati, inclusi quelli biometrici come impronte digitali e riconoscimento facciale. 

Gli Stati membri saranno tenuti a rafforzare le infrastrutture dedicate alla lotta contro la tratta di migranti o a crearne di dedicate e a condividere con l’Europol le informazioni raccolte alle frontiere, indipendentemente dal fatto che le persone siano sospettate o meno di alcun crimine. Inoltre, l’Europol potrà collaborare con paesi terzi, anche non democratici, per estendere la portata delle sue banche dati. Sono già in corso valutazioni per stabilire partenariati con paesi come Egitto, Giordania, Israele, Marocco, Tunisia e Turchia.

La riforma rischia di instaurare un sistema binario in cui i migranti godrebbero di diritti inferiori rispetto ai cittadini europei. Questo sacrificio, giustificato con la promessa di “salvare vite umane”, solleva dubbi persino all’interno della classe politica europea. Già nel 2023, Finlandia, Germania e Polonia avevano espresso perplessità riguardo alla proporzionalità dell’intervento e al potenziale superamento della sovranità nazionale da parte di Europol. Le preoccupazioni della società civile si concentrano anche sull’espansione dei poteri dell’agenzia, la quale ha mostrato nel tempo diversi lati oscuri. 

Nonostante la sua ultima riforma sia risalente solamente al 2022, l’Europol chiede costantemente maggiori competenze e minori controlli, lamentando di dover impiegare tempo e risorse per rendere conto delle proprie azioni. L’agenzia non è particolarmente immacolata neppure sul frangente della legalità: in passato ha violato le normative UE sulla gestione dei dati, conservando informazioni che non aveva il diritto di archiviare. Questa illegittimità è stata successivamente sanata tramite un emendamento retroattivo approvato in fretta e furia da un Consiglio Europeo ansioso di soddisfare le esigenze securitarie dell’agenzia.

Alla vigilia del voto, la campagna “Protect Not Surveil“, sostenuta da 120 organizzazioni e accompagnata da una significativa raccolta firme, ha chiesto il rigetto totale della riforma, definendola un “cavallo di Troia” destinato ad ampliare la sorveglianza di massa. La coalizione ha sottolineato che la proposta di riforma di Europol rappresenta un’espansione opaca dei poteri di sorveglianza, criminalizzando ulteriormente migranti e organizzazioni solidali, aumentando il rischio di discriminazioni da parte delle autorità.

La posizione del Parlamento sulla riforma sarà annunciata durante la riunione plenaria prevista per il 16-19 giugno. Se non saranno sollevate obiezioni, inizieranno i negoziati per l’attuazione della riforma.

In Spagna è stato ucciso un altro uomo che faceva parte della lista dei nemici dell’Ucraina

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Cinque colpi di pistola. Tre lo hanno colpito al corpo, quello mortale lo ha raggiunto alla nuca quando era già a terra. Una esecuzione in piena regola che sembra sgusciata da un film di spionaggio. La vittima è Andriy Portnov, stretto collaboratore dell’ex presidente ucraino filorusso Viktor Yanukovich, freddato il 21 maggio 2025 alle 9:15 del mattino a Pozuelo de Alarcón, un ricco sobborgo di Madrid davanti all’American School della città. L’uomo aveva appena accompagnato i suoi figli a scuola e stava risalendo sulla sua auto, quando è stato vittima dell’agguato. Gli assalitori, descritti come due o tre uomini, sono fuggiti in una vicina area boscosa. Non è ancora chiaro se l’omicidio abbia motivazioni politiche, personali o legate a un regolamento di conti, ma si tratta solo dell’ultima vittima di una lunga serie di morti sospette di ex alleati di Yanukovich. Il passato di Portnov e la sua presenza nella lista nera del sito ucraino Myrotvorets (dal 2015, con l’accusa di “traditore della patria”) suggeriscono un possibile collegamento con le tensioni geopolitiche tra Ucraina e Russia. L’ambasciatore russo Rodion Miroshnik ha ipotizzato che Portnov possedesse informazioni compromettenti sulle autorità ucraine, che Kiev avrebbe voluto nascondere.

Nato a Lugansk, Andriy Portnov è stato una figura di spicco della politica ucraina, strettamente legato alla comunità filorussa e all’ex presidente Viktor Yanukovych, e aveva alle spalle una lunga carriera nella pubblica amministrazione e nel mondo accademico. Prima di lavorare con Yanukovich, Portnov è stato vicino a Yulia Tymoshenko e membro del parlamento ucraino negli anni 2000. Tra il 2011 e il 2014 è stato vicecapo dell’amministrazione presidenziale, supervisionando questioni giudiziarie. Era fuggito in Russia nel 2014, dove aveva ottenuto la cittadinanza e in Ucraina era stato accusato di vari reati, fra cui corruzione e tradimento (fu poi assolto da quest’ultima accusa). Nel 2018 ha diretto brevemente il canale filorusso NewsOne. Il fatto che si trovasse in Spagna era ignoto al pubblico.

Dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, la Spagna, che ospita una significativa diaspora ucraina e russa, è stata teatro di diversi crimini di alto profilo di carattere trasversale, su cui si è ipotizzata la matrice dei servizi segreti di Mosca e di Kiev. Nel 2022, lettere bomba sono state inviate a obiettivi istituzionali, tra cui l’ambasciata ucraina a Madrid. Nel febbraio 2024, Maksim Kuzminov, un pilota russo disertore è stato ucciso ad Alicante: gli investigatori non esclusero la vendetta russa.

Nel caso dell’omicidio di Portnov, una pista si sta concentrando sulla lista di proscrizione del sito ucraino Myrotvorets, noto per schedare “nemici dell’Ucraina”, dove compariva proprio il suo nome. Dopo la sua morte, accanto al suo profilo è apparsa la scritta “eliminato”. Lanciato nel dicembre 2014 da Heorhij Tuka, il sito è gestito dal Centro Myrotvorets (secondo alcune fonti, sarebbe affiliato al Servizio di Sicurezza dell’Ucraina), ed è noto per pubblicare dati personali (indirizzi, numeri di telefono, profili social) di individui considerati “nemici dell’Ucraina”, spesso associati a posizioni filorusse o separatiste, nell’ambito del conflitto in Donbass e dell’Operazione Speciale,  inclusi politici, giornalisti, artisti come Jorit o Roger Waters e persino minori come Faina Savenkova, una scrittrice del Donbass. Sulla lista nera sono presenti anche alcune personalità italiane, tra cui il noto giornalista Giulietto Chiesa, il fotoreporter Giorgio Bianchi, lo scrittore e giornalista Franco Fracassi e la regista di reportage di guerra Sara Reginella. La piattaforma è stata accusata da organizzazioni come l’ONU e Human Rights Watch di violare la privacy e incitare alla violenza e il Parlamento europeo ne ha chiesto la chiusura.

Andriy Portnov è stato uno stretto collaboratore dell’ex presidente ucraino filorusso Viktor Yanukovich

Oltre a Portnov, sono diversi i casi di omicidi di persone filorusse che erano inserite nella lista nera di Myrotvorets, come Oles Buzina (2015), giornalista e scrittore ucraino, assassinato a colpi di arma da fuoco il 16 aprile 2015, pochi giorni dopo che il suo indirizzo di casa era stato pubblicato sul sito di proscrizione. L’omicidio, collegato a gruppi nazionalisti estremisti, come Pravyj Sektor, fu definito dal presidente ucraino Petro Poroshenko come un “omicidio politico”. Il giorno prima dell’omicidio di Buzina, Oleg Kalashnikov, ex deputato del Partito delle Regioni, legato all’ex presidente filorusso Viktor Yanukovich, era stato freddato a colpi di arma da fuoco vicino alla sua casa a Kiev. Pochi giorni prima il suo indirizzo era stato pubblicato su Myrotvorets. Nello stesso giorno dell’omicidio di Kalashnikov, il 15 aprile 2025, Sergej Sukhobok, giornalista ucraino, titolare di un sito internet e di un piccolo giornale che sosteneva le ragioni dei ribelli del Donbass fu ucciso a Kiev da un commando.

Tra febbraio e aprile 2015, almeno otto politici e figure legate al Partito delle Regioni di Yanukovich, tutti con posizioni filorusse, sono stati trovati morti in circostanze sospette (spesso classificati come “suicidi” dai media ucraini). Tra questi ricordiamo: Olexandr Peklouchenko, ex governatore e membro del Partito delle Regioni, trovato morto a metà marzo 2015, ufficialmente per suicidio; Stanislav Melnik, ex deputato, trovato morto vicino a Kiev a fine febbraio 2015, anche questo classificato come suicidio; Mikhaïlo Tchetchetov, ex parlamentare, morto cadendo dal 17º piano di un palazzo a fine febbraio 2015, considerato un possibile omicidio mascherato da suicidio. Infine, va ricordato anche il caso di lya Kyva: l’ex deputato ucraino filorusso è stato ritrovato senza vita, nella neve, in una pozza di sangue in un parco fuori dal Velich Country Club, hotel di lusso a un’ora da Mosca. Un assassinio avvolto nel mistero, con indizi sulla responsabilità dei Servizi di Kiev e sul team di Vasyl Malyuk.

L’impronta dei servizi segreti ucraini in questi omicidi fa da contraltare ad altrettanto misteriose morti tra oligarchi, scienziati (come Andrey Botikov, uno dei ricercatori che ha contribuito a creare il vaccino russo Sputnik), politici (Pavel Antov, parlamentare russo del partito Russia Unita, trovato morto dopo una caduta dal terzo piano di un hotel di Rayagada, nello Stato indiano dell’Odisha) e attivisti filo-ucraini. Ricordiamo tra tutti il caso di Boris Nemcov, politico russo di opposizione, già considerato ex delfino di Eltsin, noto per le sue critiche a Putin e per il suo supporto alla sovranità ucraina. Già membro della Duma regionale di Jaroslav, leader di un piccolo partito liberale, l’RPR-Parnas, venne assassinato a colpi di pistola vicino al Cremlino la sera del 27 febbraio 2015. Cinque ceceni furono condannati come esecutori materiali, ma il mandante non è mai stato identificato. Nell’ultima intervista che aveva rilasciato, Nemcov aveva accusato Putin di volerlo morto.

Romania, respinto il ricorso per annullare le elezioni

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La Corte Costituzionale della Romania ha respinto il ricorso presentato dal candidato di destra George Simion per annullare le elezioni presidenziali. La decisione è definitiva, ma non sono ancora note le motivazioni. Simion ha criticato la sentenza della Corte, accusandola di «proseguire il colpo di Stato respingendo il nostro appello». Il candidato aveva presentato ricorso martedì 20 maggio, dopo aver perso le elezioni della scorsa domenica. Simion, in particolare, accusa Francia e Moldavia di aver interferito nelle elezioni e sostiene che la tornata elettorale del 18 maggio dovrebbe essere annullata, come è stata annullata quella di dicembre per analoghe motivazioni.

Gli astronomi hanno individuato il più grande campo di galassie mai osservato

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Comprende quasi 1.700 gruppi di galassie tra cui molti mai osservati prima, copre un intervallo di tempo cosmico di oltre 12 miliardi di anni ed è stato immortalato in un’immagine ritenuta tra le migliori del mese dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA): è il nuovo catalogo ritenuto senza precedenti e ottenuto grazie all’uso del telescopio spaziale James Webb, il quale ha permesso a un team di ricercatori guidati dall’Università di Aalto di ottenere risultati molto rilevanti e dettagliati in uno studio sottoposto a revisione paritaria e appena pubblicato sulla rivista scientifica Astronomy and Astrophysics. Analizzando una regione di cielo già nota e ampiamente studiata, chiamata COSMOS Web, e utilizzando – oltre al telescopio – un particolare algoritmo innovativo, gli esperti hanno rilevato una quantità e diversità di gruppi galattici tali che, secondo gli autori, permetteranno di effettuare studi senza precedenti riguardo a l’evoluzione di tali ammassi nella storia dell’universo: «Con questo campione, possiamo studiare l’evoluzione delle galassie in gruppi negli ultimi 12 miliardi di anni di tempo cosmico. Siamo in grado di osservare effettivamente alcune delle prime galassie formatesi nell’universo», commentano i coautori.

Il telescopio spaziale James Webb è in funzione dal 2022 e, grazie alla sua sensibilità e risoluzione senza precedenti, consente agli astronomi di osservare oggetti molto lontani nello spazio e nel tempo. Quando guardiamo una galassia a miliardi di anni luce, infatti, la stiamo osservando com’era e come si presentava miliardi di anni fa. Questo principio, spiegano gli scienziati, ha permesso di ricostruire una sorta di archivio visivo dell’universo primordiale, dove le galassie erano più piccole, irregolari e attive nella formazione stellare. Per quanto riguarda la scoperta appena effettuata, i dati usati provengono dalla regione COSMOS Web, ora osservata anche da Webb. Per individuare con elevata precisione i gruppi di galassie, è stato utilizzato un algoritmo chiamato AMICO (Adaptive Matched Identifier of Clustered Objects), capace di identificare strutture spaziali attraverso la distribuzione delle galassie e la loro luminosità. Ne è risultato un catalogo vastissimo – il più vasto finora secondo gli autori – che spinge l’osservazione dei gruppi di galassie fino al cosiddetto redshift a z = 3.7, corrispondente a circa 12 miliardi di anni fa, ovvero ben oltre quanto fosse possibile in passato.

L’immagine di un gruppo di galassie, selezionata come Immagine del mese dell’ESA per aprile, risale a 6,6 miliardi di anni fa, a una distanza di 7,3 miliardi di anni luce, e rappresenta il nucleo del campione di grandi gruppi scoperto in questo progetto. Credit: ESA/Webb, NASA & CSA, G. Gozaliasl

Tutti risultati che, secondo il coautore a capo del team Ghassem Gozaliasl, sono fondamentali per comprendere la storia dell’universo perché “ospitano” materia oscura, gas caldo e buchi neri supermassicci, ovvero tutti elementi che influenzano il ciclo vitale delle galassie. «Le complesse interazioni tra queste componenti svolgono un ruolo cruciale nel plasmare i cicli vitali delle galassie e l’evoluzione dei gruppi stessi», spiega Gozaliasl, aggiungendo che tali ammassi non sono distribuiti in modo uniforme, ma si raggruppano in ambienti densi collegati da filamenti e pareti, formando la cosiddetta “rete cosmica”. Persino la nostra stessa galassia, infatti, la Via Lattea, fa parte di un piccolo gruppo chiamato Gruppo Locale, e le nuove osservazioni combinate con studi futuri, forse, potrebbero fornire nuove risposte alle domande riguardanti la storia dell’evoluzione dei corpi celesti a noi più noti. In tutti i casi, come descritto dagli autori, rimane il record di una scoperta definita mozzafiato e la speranza che possa dimostrarsi di estrema rilevanza per la comunità scientifica mondiale: «Quando osserviamo molto in profondità nell’universo, le galassie hanno forme più irregolari e stanno formando molte stelle. Più vicino a noi, la formazione stellare è ciò che chiamiamo ‘spenta’: le galassie hanno strutture più simmetriche, come le galassie ellittiche o a spirale. È davvero emozionante vedere le forme cambiare nel tempo cosmico. Possiamo iniziare a rispondere a tantissime domande su ciò che è accaduto nell’universo e su come si sono evolute le galassie», ha concluso Gozaliasl.

Per cosa si vota ai referendum dell’8 e 9 giugno: i cinque quesiti spiegati

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Referendum sì, referendum no. Ma quale referendum? L’appuntamento dell’8 e 9 giugno, che chiama gli italiani a decidere in materia di lavoro e cittadinanza, sta passando in sordina, complice la linea dell’astensionismo sposata dal governo e il disinteresse di media pubblici e privati che ne parlano molto poco e praticamente mai allo scopo di rendere chiari ai cittadini i temi sui quali sono chiamati ad esprimersi. I cinque quesiti, per i quali si potrà votare domenica 8 giugno (dalle ore 7 alle 23) e lunedì 9 (dalle 7 alle 15) sono di tipo abrogativo: votando sì si sceglierà quindi di cancellare parte dei testi di legge interessati modificandone nei fatti i contenuti, mentre votando no si sceglierà di lasciare le cose come stanno. Per rendere valido l’esito referendario è necessario che si rechino alle urne metà degli aventi diritto al voto più uno. Di seguito i cinque referendum, con i dettagli per capire su cosa – effettivamente – si è chiamati a decidere.

Quesito 1 – Contratto di lavoro a tutele crescenti – Disciplina dei licenziamenti illegittimi

I referendum sul lavoro sono stati promossi dalla CGIL. Il primo quesito, che alle urne si presenterà su scheda verde, è tra i più complessi. Proporrà di abrogare la disciplina sui licenziamenti illegittimi del contratto a tutele crescenti del Jobs Act, introdotta dal governo Renzi. Secondo l’attuale legge, le persone assunte dopo il 7 marzo 2015 nelle imprese con più di 15 dipendenti non devono essere reintegrate dopo un licenziamento ritenuto illegittimo dal giudice del lavoro. Sono tanti i casi di illegittimità del licenziamento; i più gravi sono quelli intimati per ragioni discriminatorie, pervenuti tramite forma orale o di natura disciplinare ma con l’insussistenza del fatto materiale contestato – nei confronti dei quali anche l’attuale legge prevede il reintegro obbligatorio, oltre al risarcimento. Per tutti gli altri casi di illegittimità, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di un indennizzo economico compreso tra 6 e 36 mensilità di stipendio (proporzionali all’anzianità di servizio del dipendente, quindi al tempo trascorso in azienda, da qui l’espressione “contratto a tutele crescenti”), senza prevedere il reintegro obbligatorio. Se dovesse vincere il sì, si tornerebbe al sistema preesistente al Jobs Act di Matteo Renzi, disciplinato dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, così come modificato dalla legge Fornero del 2012. Rispetto a oggi, si amplierebbero i casi in cui il licenziamento illegittimo comporta il reintegro del lavoratore in azienda.

Va detto che sulla norma oggetto del primo quesito è intervenuta la Corte Costituzionale, stabilendo che il tempo passato in azienda non possa essere l’unico criterio per definire l’indennizzo. Nelle mani del giudice è così stata riposta la discrezionalità sul suo ammontare, fino al massimo previsto di 36 mensilità. L’abrogazione della disciplina eliminerebbe eventuali ripensamenti futuri della Consulta. Il ripristino della situazione ante 2015 modificherebbe anche il parametro di riferimento per il limite massimo di mensilità, che passerebbe da 36 a 24, come previsto dalla legge Fornero. Insomma, sulla bilancia si pesano le maggiori possibilità per un reintegro e il minor indennizzo nei casi di solo risarcimento economico. In generale, il fronte del sì viene costruito sulla volontà di ripristinare alcuni diritti sottratti ai lavoratori dal Jobs Act. Per contro, il mantenimento dello status quo gioverebbe alle imprese, che manterrebbero una maggiore discrezionalità in materia di licenziamenti e indennizzi.

Quesito 2 – Piccole imprese – Licenziamenti e relativa indennità

Il secondo quesito, presentato su scheda arancione, interviene sulle piccole imprese (con meno di 15 lavoratori), dove in caso di licenziamento illegittimo è prevista un’indennità economica di massimo sei mensilità. Se dovesse vincere il sì, tale limite verrebbe abrogato e l’entità dell’indennizzo andrebbe stabilita dal giudice di caso in caso, sulla base di una serie di criteri tra cui la gravità della violazione, l’età, la composizione familiare e la capacità economica dell’azienda, senza soglie minime o massime.

Votare sì comporta ripristinare maggiori tutele al lavoratore, optare per il no si traduce nella difesa delle imprese, che oggi, indipendentemente dalla capacità economica, possono essere obbligate al pagamento di un’indennità massima di sei mensilità. Ad ogni modo, il quesito non interviene sulle possibilità di reintegro nelle piccole imprese, la cui obbligatorietà non è prevista per tale tipologia di azienda.

Quesito 3 – Contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi

Il terzo quesito, che arriverà alle urne su scheda grigia, rimette al centro un’altra parte del Jobs Act, relativa ai contratti di lavoro a tempo determinato. Questa tipologia di prestazione disciplina oggi, in Italia, il lavoro di circa due milioni di persone. Attualmente, un contratto a tempo determinato può essere stipulato senza causale, cioè senza l’indicazione di un motivo specifico da parte del datore di lavoro, per una durata iniziale inferiore ai 12 mesi. Con la vittoria del sì, anche i contratti con una durata inferiore a un anno dovranno indicare la causale, in base alle regole previste dai contratti collettivi firmati dai sindacati (CCNL), con l’obiettivo dichiarato di diminuire i casi di ricorso ai contratti a termine a favore di quelli a tempo indeterminato. Tale obiettivo è sposato dai sostenitori del sì, mentre il fronte del no difende la flessibilità che l’attuale regime conferisce alle aziende.

Quesito 4 – Responsabilità per infortuni sul lavoro

Il quarto quesito, presentato su scheda rosa, interviene su uno dei nervi scoperti del lavoro in Italia: la sicurezza. Nel nostro Paese ogni anno muoiono sul lavoro più di mille persone, a cui si aggiungono centinaia di migliaia di infortuni di varia entità. Il quarto quesito, relativo alla catena committente-appaltatore-subappaltatore, intende aumentare la responsabilità dell’imprenditore committente, che è colui che ordina la prestazione lavorativa, in casi di infortuni e di malattie professionali del lavoratore. Ad oggi, in base al principio della responsabilità solidale, possono risponderne sia il committente sia l’appaltatore e gli eventuali subappaltatori, fatta eccezione per i danni causati da rischi specifici dell’attività eseguite da questi ultimi due soggetti. I rischi specifici possono consistere, ad esempio, nell’esposizione a rumori o ad agenti chimici oppure nella movimentazione manuale dei carichi. Se dovesse vincere il sì verrebbe meno questa eccezione e il committente sarebbe sempre responsabile solidale con appaltatore e subappaltatore. «Cambiamo le leggi che favoriscono il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche. Abrogare le norme in essere ed estendere la responsabilità dell’imprenditore committente significa garantire maggiore sicurezza sul lavoro», ha dichiarato la CGIL.

I sostenitori del sì puntano ad aumentare la responsabilità degli imprenditori in caso di ricorsi ad appalti e subappalti, spingendoli verso controlli e verifiche più dettagliate. L’obiettivo è di ridurre incidenti e morti sul lavoro. Secondo il fronte del no, invece, la disciplina vigente è corretta, ritenendo giusto l’attuale grado di responsabilità in capo al committente, che scarica parte dei rischi lungo la catena del lavoro.

Quesito 5 – Cittadinanza italiana

Chiude l’appuntamento referendario il quesito sulla cittadinanza italiana (scheda gialla). Ad oggi i cittadini extracomunitari immigrati in Italia devono risiedere consecutivamente nella nazione per un periodo minimo di dieci anni prima di poter avviare le pratiche per l’ottenimento della cittadinanza, periodo abbassato a cinque anni per coloro ai quali è stato riconosciuto lo status di apolide o di rifugiato, e a quattro anni per gli immigrati che hanno la cittadinanza di un altro paese UE. In caso di vittoria del sì si tornerebbe alle regole esistenti prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 91 del 5 febbraio 1992, abbassando i termini a cinque anni per gli immigrati extracomunitari e lasciandoli invariati per rifugiati e immigrati da Paesi parte dell’Unione Europea.

Niente cambierebbe invece rispetto alle altre condizioni accessorie che sono richieste per poter ottenere la cittadinanza, che rimarrebbero in vigore. Tra queste: la conoscenza della lingua italiana, l’obbligo di dimostrare di avere un reddito giudicato congruo, il rispetto degli obblighi tributari e l’assenza di cause ostative collegate alla sicurezza della Repubblica.

Secondo i fautori del sì, questo quesito non è un corpo estraneo al tema del lavoro trattato nei precedenti quattro. Le difficoltà di accesso alla cittadinanza, infatti, si prestano bene allo sfruttamento sul posto di lavoro e al caporalato. Inoltre, affermano, che negli oltre trent’anni trascorsi dal 1992 ha preso piede la concezione di cittadinanza come sentimento e condivisione di pratiche, piuttosto che come appartenenza fondata su una discendenza di sangue.

Posizioni dei partiti e questioni aperte

La maggioranza al governo ha invitato i suoi elettori all’astensione, così da non far raggiungere il quorum ed evitare il cambiamento di uno status quo difeso dalla rappresentanze degli imprenditori ma non da quelle dei lavoratori. Le opposizioni si sono invece divise. A favore di tutti e cinque i referendum c’è soltanto l’Alleanza Verdi-Sinistra Italiana. Formalmente ci sarebbe anche il Partito Democratico, ma va segnalata una spaccatura interna tra la linea dei cinque sì sposata dalla segretaria Elly Schlein e una corrente minoritaria che ha invece annunciato il parere favorevole a due dei cinque quesiti, su sicurezza e cittadinanza, proprio come +Europa. Sulla cittadinanza è d’accordo anche Italia Viva, nel suo unico sì ai referendum dell’8 e 9 giugno: i quesiti sui contratti a tutele crescenti e sulla reintroduzione delle causali nei contratti a tempo determinato sono stati bocciati dal partito di Renzi, che conferma dunque quanto fatto al governo col Jobs Act. Italia Viva ha poi lasciato libertà di voto ai propri elettori sui restanti quesiti: responsabilità in caso di incidenti sul lavoro e licenziamenti nelle piccole imprese. La libertà di voto il Movimento 5 Stelle l’ha indicata per il referendum sulla cittadinanza, mentre ha sposato in modo convinto i quesiti sul lavoro. Azione ha optato invece per una posizione quasi speculare, annunciando il voto favorevole al quesito sulla cittadinanza e quello contrario alle quattro richieste riguardanti il lavoro.

Al di là dei partiti, i referendum dell’8 e 9 giugno stanno mobilitando ampi settori della società civile. I sostenitori dei sì, oltre a convincere indecisi e controparte, devono fare i conti con un’immagine al momento compromessa del referendum, alla luce della disapplicazione operata dalla classe politica verso alcuni suoi esiti, tra cui la vittoria del sì alla consultazione sull’acqua pubblica, risalente al 2011.

Il Parlamento iraniano approva il partenariato strategico con la Russia

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Il Parlamento iraniano ha ratificato un accordo di partenariato strategico della durata di vent’anni con la Russia, segnando un ulteriore rafforzamento dei legami tra i due Paesi. Lìo hanno riferito i media statali iraniani. L’intesa, firmata il 17 gennaio dai presidenti Vladimir Putin e Masoud Pezeshkian, punta a consolidare la cooperazione bilaterale, con un focus particolare sulla collaborazione in ambito militare e tecnico-difensivo. Il Parlamento russo aveva già approvato il testo dell’accordo lo scorso aprile. Sebbene il patto non preveda una clausola di difesa reciproca, stabilisce che Mosca e Teheran lavoreranno insieme per affrontare minacce militari comuni, rafforzeranno la cooperazione tecnico-militare e parteciperanno a esercitazioni congiunte.

L’UE approva “Safe”: fino a 150 miliardi in prestiti per il riarmo

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Gli ambasciatori dell’Unione Europea hanno dato il via libera al fondo SAFE da 150 miliardi, uno dei due punti fondamentali del piano di riarmo avanzato da Ursula von der Leyen. L’approvazione del Comitato dei rappresentanti permanenti, noto come Coreper, è arrivata ieri, e apre la strada all’approvazione definitiva da parte del Consiglio dell’Unione Europea, che è composto dai ministri degli Stati membri competenti per materia. Il fondo SAFE prevede la raccolta di una somma fino a 150 miliardi di euro sui mercati, che sarebbero erogati sotto forma di prestiti diretti agli Stati che ne farebbero richiesta e contempla l’avvio di procedure d’appalto comuni e semplificate.

L’obiettivo principale del SAFE è sostenere appalti congiunti tra gli Stati membri, incentivando la cooperazione industriale nel settore della difesa. I prestiti saranno erogati agli Stati che ne faranno richiesta sulla base di piani nazionali. L’ok definitivo al regolamento è atteso per il 27 maggio, quando i ministri dei Ventisette dovrebbero adottare formalmente il testo. Una volta pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’UE, il provvedimento entrerà immediatamente in vigore. Il piano SAFE si articola in due categorie principali di spese ammissibili: la prima riguarda munizioni, missili, sistemi di artiglieria e capacità di combattimento terrestre, inclusi droni e sistemi anti-drone; la seconda comprende difesa aerea e missilistica, capacità navali, trasporto aereo strategico, sistemi spaziali e tecnologie basate sull’intelligenza artificiale.

Uno dei punti più delicati della trattativa ha riguardato i criteri di ammissibilità dei progetti, in particolare la questione del cosiddetto Buy European. Il compromesso raggiunto prevede che almeno il 65% del valore di ogni progetto finanziato debba provenire da aziende del settore della difesa situate nell’UE, in Ucraina o in un Paese dello Spazio economico europeo o dell’Associazione europea di libero scambio. La quota di componenti provenienti da Paesi terzi non potrà superare il 35%, a meno che non si tratti di subappalti inferiori al 15% del valore complessivo. In questo quadro, l’Unione ha aperto anche alla partecipazione di Paesi terzi selezionati, tra cui l’Ucraina e il Regno Unito. Un accordo bilaterale siglato con Londra consente ora alle imprese britanniche di accedere agli appalti di difesa europea, segnando un “reset” nelle relazioni tra Bruxelles e Downing Street, come lo ha definito il premier britannico Keir Starmer.

L’accordo sul fondo SAFE è stato trovato nella cornice dei lavori sul piano ReArm, che lo scorso marzo ha ottenuto il via libera del Consiglio Europeo e il sostegno della maggioranza dell’Europarlamento. Oltre all’istituzione del fondo da 150 miliardi di euro destinato a fornire prestiti agli Stati UE per finanziare progetti nel settore della difesa, esso prevede che i Paesi membri possano incrementare in modo significativo la spesa militare senza essere soggetti ai vincoli imposti dal Patto di stabilità e crescita, consentendo di generare fino a 650 miliardi di euro di investimenti nei prossimi quattro anni. Inoltre, il piano apre alla possibilità di utilizzare il bilancio dell’Unione Europea per stimolare investimenti militari, puntando altresì a coinvolgere il settore privato nella produzione e nello sviluppo di tecnologie per la difesa. Nelle settimane successive, otto sigle pacifiste hanno lanciato l’appello “Stop ReArm Europe”, denunciando che il piano di riarmo europeo «andrà solo a beneficio dei produttori di armi in Europa, negli Stati Uniti e altrove».

Bolivia: Morales escluso dalle prossime presidenziali

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Il periodo di registrazione per i candidati alle elezioni presidenziali della Bolivia, previste per agosto, è ufficialmente scaduto, segnando la fine del tentativo dell’ex presidente Evo Morales di correre per un quarto mandato. L’ufficiale esclusione di Morales dalle elezioni arriva dopo una decisione della Corte Costituzionale, che la scorsa settimana aveva ribadito il limite di due mandati presidenziali consecutivi, escludendo di fatto l’ex presidente dalla corsa. Morales, che ha guidato il Paese dal 2006 al 2019 come primo presidente indigeno della Bolivia, ha contestato l’esclusione. I suoi sostenitori hanno organizzato proteste e blocchi stradali in diverse aree del Paese.

Poco, male e senza darle voce: come i media italiani parlano dell’Africa

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Appena 590 articoli pubblicati in un anno sui principali quotidiani italiani, in oltre due casi su tre solo quando si trattava di notizie che servivano a parlare di questioni italiane, come gli arrivi dei migranti o il piano Mattei. Nel resto casi, quelli in cui si parla di Africa per dare effettivamente notizie relative a fatti che accadono nel continente, ci sono due regole: gli articoli riguardano sempre guerre o terrorismo e a parlare non ci sono mai analisti o protagonisti africani. La media peggiora ulteriormente quando si passa alla TV: nei talk show e nei programmi di approfondimento televisivo si fornisce in media una notizia proveniente dall’Africa ogni 70 ore di trasmissione. Questa la fotografia dell’informazione in Italia sul continente africano scattata dal rapporto Africa mediata promosso da Amref Italia e a cura dell’Osservatorio di Pavia.

Per quanto riguarda la carta stampata sono stati presi a campione sei fra i principali quotidiani: Il Giornale, Avvenire, Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano, La Repubblica e La Stampa. Sono stati considerati tutti gli articoli sull’Africa e sui diversi Paesi africani, classificati come Africa “là”, e quelli che fanno riferimento alla migrazione africana, a eventi in cui sono coinvolte persone africane o afrodiscendenti, classificati come Africa “qui”. In linea generale nel dossier si vede una diminuzione drastica dell’attenzione mediatica verso il continente africano, con il passaggio da 1.171 notizie pubblicate nel 2023 alle 590 del 2024, con un calo del 50%. Andando nel particolare il report mostra come sui giornali analizzati la maggioranza delle notizie, il 77%, riguardano l’Africa in relazione al contesto italiano, concentrandosi prevalentemente sul tema migratorio. Il 23 % delle notizie sono invece riferite al contesto africano, con il focus principale sui conflitti e il terrorismo. Sulle prime pagine dei giornali complessivamente il primo tema connesso all’Africa è quello delle migrazioni, un articolo su due affronta questo tema.

Passando alla rappresentazione del continente africano sui media televisivi sono stati presi in esame i notiziari di prima serata di sette reti: Rai 1, 2 e 3, Mediaset e La7, insieme a due canali di all-news SkyTg24 e Rainews. Il report mostra come la situazione non differisca dalla carta stampata, mostrando la progressiva riduzione delle notizie in contesto africano e un aumento di quelle riguardanti l’Africa “qui” che coprono il 73,4% dell’agenda sull’Africa. I temi maggiormente trattati anche in questo caso vedono le migrazioni al primo posto, con il 34,3% delle notizie. Subito dietro al tema migratorio, con il 29,2 %, troviamo la cronaca: notizie di reati o atti criminali con protagoniste persone africane. A seguire con il 26,6% si trovano i temi politici come il Piano Mattei, la questione della cittadinanza e i vertici tra la Premier Meloni e i Capi di Stato africani. Quindi in tutti e tre i casi le tematiche africane “qui” vengono presentate o in tono emergenziale, migrazioni e cronaca, o in tono paternalistico con il Piano Mattei: «aiutiamoli a casa loro».  Per quanto riguarda invece le notizie dell’Africa “là” la tematica maggiormente toccata è quella di guerre e terrorismo, che occupa il 37% della copertura mediatica, ma che raggiunge il 66% nelle emittenti all-news. Nei programmi televisivi di informazione e infotainment, su 61.320 ore di programmazione analizzate, i riferimenti all’Africa sono solo 869, quindi in media una notizia ogni 70 ore di programmazione. Anche in questo caso come nelle due analisi precedenti i temi dell’Africa “qui” sono maggioritari occupando l’81% dello spazio concesso al continente. 

Una novità di questa sesta edizione di Africa Mediata è la rilevazione della presenza di voci africane nei programmi televisivi. Infatti siamo abituati a farci spiegare da esperti italiani ed europei come le cose funzionano in un continente a cui non apparteniamo, non dando mai, o molto poco, la possibilità di parlare ai diretti interessati. Una dinamica che si inserisce nel solito filone paternalistico se non smaccatamente coloniale per il quale: se bisogna parlare di cose serie non possono farlo i “selvaggi” ma noi uomini “civilizzati”. Il report mette in mostra come su 587 puntate analizzate di 16 programmi ci siano state 5.098 apparizioni di ospiti di varia nazionalità, ma solo l’1,2% riconducibili a persone africane o afrodiscendenti. I temi maggiormente trattati con ospiti africani accentuano lo scontro e la diversità che si muove sempre sulla falsa riga di “selvaggi” e “civilizzati” e quindi con il 32,2% si attesta al primo posto il tema della condizione femminile nell’Islam, seguito da infibulazione, criminalità e immigrazione. 

Di Africa, insomma, sui media si parla molto poco e molto male, agganciandosi sempre a stereotipi come quello di un continente che viene raccontato solo come vittima (del terrorismo, della fame, delle guerre) e mai come protagonista. Eppure stiamo parlando di un continente che ha un interscambio commerciale con l’Italia da 56,6 miliardi, con la bilancia commerciale che vede 38 miliardi di importazioni da paesi africani e 19,6 miliardi di esportazioni. E si tratta di un continente da cui si stanno muovendo moltissime cose a livello politico, tra nazionalizzazioni, lotta ai resti del colonialismo, e protagonismo a livello internazionale come nel caso del Sudafrica che, praticamente da solo, è riuscito a portare Israele davanti alla Corte di giustizia internazionale con l’accusa di genocidio. Questioni delle quali su L’Indipendente continueremo a parlare.

Israele circonda gli ultimi ospedali di Gaza e spara contro i diplomatici europei

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Sullo sfondo della nuova operazione militare Carri di Gedeone, il Governatorato di Nord Gaza sta venendo preso di mira con sempre maggiore intensità. Da giorni, infatti, gli ultimi due ospedali operativi nel nord risultano circondati dalle forze israeliane: si tratta dell’ospedale indonesiano di Beit Lahiya e dell’ospedale di Al Awda di Jabaliya, ormai incapaci di ospitare nuovi pazienti a causa dei continui attacchi. Un terzo centro, l’ospedale Kamal Adwan, sempre situato a Beit Lahiya, è stato costretto a chiudere a causa della presenza di truppe israeliane e droni militari nelle immediate vicinanze. Nel frattempo, a Jenin, in Cisgiordania, le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro una delegazione di diplomatici di Paesi arabi ed europei durante una visita promossa dall’autorità palestinese al campo profughi. Non sono stati registrati feriti, ma l’incidente è stato condannato da parte di numerosi Paesi.

La situazione degli ospedali nella Striscia di Gaza si aggrava ogni giorno di più. L’assedio all’ospedale indonesiano è stato lanciato nella sera di domenica 18 maggio, mentre dentro la struttura si trovavano ancora 55 persone. Oltre all’incursione terrestre, l’esercito israeliano ha preso di mira l’ospedale con colpi di artiglieria. Durante l’assedio, il cancello e il cortile dell’ospedale sono stati distrutti, e l’elettricità è stata interrotta; parte dei pazienti dell’ospedale, poco meno di 50, sono stati trasferiti presso l’ospedale di Kamal Adwan. Lo stesso giorno, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno accerchiato e colpito l’ospedale di Al Awda con colpi di artiglieria e di quadricotteri. Da quanto riporta il ministero della Sanità, nella sola notte tra domenica e lunedì sono stati lanciati almeno 10 attacchi aerei nei pressi della struttura, in seguito a cui ampie aree dell’ospedale sono state distrutte.

Martedì, mentre continuavano gli assedi e le operazioni di demolizione in entrambi gli ospedali, le IDF hanno guardato anche all’ospedale di Kamal Adwan, colpendolo con droni, colpi di artiglieria e fucilate. Accerchiati dalle truppe israeliane, i 18 medici all’interno della struttura sono stati costretti a evacuare a bordo delle ambulanze, che sono state bersagliate dal fuoco israeliano. I pazienti arrivati pochi giorni prima dall’ospedale indonesiano sono così stati trasferiti nuovamente, questa volta verso l’ospedale di Al Awda. Ieri, mentre l’aviazione continuava a prendere di mira generatori elettrici e serbatoi di carburante, è arrivato l’annuncio ufficiale della dismissione degli ospedali di Kamal Adwan e indonesiano – che risulta ancora sotto assedio. Nel frattempo, è continuato anche l’assedio dell’ospedale di Al Awda, che si è fatto man mano sempre più stringente: ieri i colpi di artiglieria hanno raggiunto il terzo piano della struttura, mentre oggi i veicoli pesanti hanno preso di mira il cortile, il reparto di chirurgia e il magazzino con dentro i medicinali.

Con gli attacchi e gli assedi ai maggiori ospedali del nord, sembra che in questo momento il Governatorato di Nord Gaza sia sprovvisto di strutture sanitarie aperte a ospitare nuovi pazienti; incerta, invece, la situazione degli ospedali da campo. In generale, il Governatorato di Nord Gaza, e nello specifico Beit Lahiya, è una delle aree più prese di mira dalla nuova operazione Carri di Gedeone, annunciata lo scorso venerdì e lanciata domenica. L’altro Governatorato su cui si sta concentrando l’operazione è quello di Khan Younis, a sud, dove gli ospedali stanno subendo analoghi attacchi. Gli assedi alle strutture di Nord Gaza, infatti, si sono svolti in parallelo agli intensi attacchi sull’ospedale da campo kuwaitiano e l’ospedale europeo di Khan Younis, a oggi fuori servizio.

Mentre nella Striscia gli attacchi continuano a intensificarsi, le aggressioni si aggravano anche in Cisgiordania. Oggi l’assedio alla città di Jenin è entrato nel 122esimo giorno consecutivo. In tutto il campo, proseguono le operazioni militari, gli arresti, le evacuazioni, i disboscamenti e le demolizioni: in totale, almeno 600 case sono state completamente demolite e la maggior parte delle altre ha subito danni parziali. Israele ha scavato e costruito circa 15 strade all’interno del campo, la cui superficie è inferiore a mezzo chilometro quadrato, e ha completamente distrutto le infrastrutture del campo, oltre ad aver spazzato via il 60% delle infrastrutture della città. Da quanto denunciano i palestinesi, insomma, lo scopo israeliano sarebbe quello di cambiare la conformazione della città nell’ottica di una parziale annessione.

Ieri, inoltre, l’Autorità Palestinese aveva organizzato una visita diplomatica con rappresentanti di una trentina di Paesi, tra cui l’Italia, per fare toccare con mano la criticità della situazione in cui si trova Jenin. Durante la visita, le IDF hanno sparato colpi di artiglieria come avvertimento, fermando il convoglio. Tra interviste in radio e post sui social, l’esercito ha rilasciato almeno due versioni diverse sostenendo prima che i diplomatici stessero deviando dal percorso prestabilito, poi che i militari non sapessero che il gruppo era formato da diplomatici. L’azione dei soldati israeliani ha scatenato una ondata di condanna globale: il ministro degli Esteri Tajani ha convocato l’ambasciatore israeliano per chiedere spiegazioni, mentre Spagna, Francia e l’Alta Rappresentante per gli affari esteri dell’UE Kaja Kallas hanno criticato la condotta israeliana.