venerdì 21 Novembre 2025
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Riqualificare abbattendo gli alberi: il paradosso italiano alimentato anche dal PNRR

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In un’Italia sempre più colpita da eventi climatici estremi, il verde urbano rischia di diventare una delle vittime più paradossali dell’ambientalismo contemporaneo. Dai boschi alle città, da nord a sud, gli alberi vengono tagliati con motivazioni che spesso richiamano proprio la tutela dell’ambiente, come denunciato dalla giornalista ambientale Linda Maggiori. Un fenomeno per alcuni dilagante, alimentato anche dai fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), ma spesso anche travisato ed esagerato a causa di un’ignoranza diffusa sulle tematiche ecologiche.

Il PNRR, nato per rilanciare l’economia italiana in chiave sostenibile, è stato spesso utilizzato per finanziare progetti che comportano l’abbattimento di alberi maturi e funzionali. Succede a Torino, dove nel parco del Meisino un progetto da 11,5 milioni di euro prevede la costruzione di una cittadella dello sport e spazi per l’educazione ambientale, a costo di abbattere cinquanta grandi alberi. Il paradosso è evidente: «Si distrugge l’ambiente in nome dell’ambiente», denuncia l’agronomo Daniele Zanzi, che parla di una «pandemia bipartisan» di abbattimenti indiscriminati. E non si tratta di un caso isolato. Emblematico è anche l’episodio di Marina di Carrara, dove l’associazione ARCA (Assieme per la Rigenerazione e la Cura dell’Ambiente) ha denunciato l’abbattimento di un’intera pineta urbana nell’ambito del progetto di “riqualificazione” dell’area sportiva La Caravella, finanziato sempre con fondi PNRR. Secondo il comitato ARCA, il progetto somma tutte le criticità più tipiche del fenomeno nazionale: l’abbattimento in blocco di alberi adulti senza perizie strumentali, basandosi solo su generiche valutazioni di “senescenza”, la sostituzione non graduale, violando le linee guida ISPRA e regionali, e nuove costruzioni su aree verdi, mascherate come riduzione del cemento ma in realtà realizzate su suolo naturale. Inoltre, mancherebbe completamente un bilancio ecosistemico che quantifichi le perdite ambientali. I numeri, a detta dell’associazione sarebbero impietosi: ogni pino adulto abbattuto comporta la perdita di 2.236 kg di CO₂ già accumulata nel legno e 101 kg di CO₂ in meno sequestrati ogni anno, oltre a un calo di ossigeno, meno acqua regolata e minore capacità di rimozione di inquinanti atmosferici. Il comitato ha pertanto chiesto la sospensione degli abbattimenti, delle perizie indipendenti, un piano di sostituzione graduale solo per alberi irrecuperabili, l’accesso completo alla documentazione e la verifica della Corte dei Conti.

L’idea che si possa compensare l’abbattimento di un albero maturo piantandone uno giovane non sta in piedi. I grandi alberi maturi rimuovono infatti inquinanti atmosferici circa 70 volte più delle piante giovani e sequestrano circa 360 kg/anno di anidride carbonica rispetto ai soli 4-16 kg/anno dei piccoli alberi. Alla base degli abbattimenti vi è spesso poi una valutazione superficiale della stabilità degli alberi, affidata quasi esclusivamente al metodo VTA (Visual Tree Assessment), criticato per la sua soggettività. Nel frattempo, le normative esistono ma vengono spesso ignorate, come il decreto sui criteri ambientali minimi per il servizio di gestione del verde pubblico, che vieta le capitozzature e impone potature corrette, e la legge (157/1992) sulla tutela della fauna che protegge i nidi sugli alberi. Anche la Convenzione di Aarhus, che impone la partecipazione pubblica alle decisioni ambientali, viene sistematicamente disattesa. Senza contare che il contesto in cui avvengono questi abbattimenti è drammatico: l’Italia ha registrato 12.743 morti legate alle ondate di calore nel 2023 e oltre 59.000 a causa delle polveri sottili. In questo scenario, il ruolo degli alberi in città è cruciale per abbassare le temperature e migliorare la qualità dell’aria. In risposta a questo scenario, si stanno così moltiplicando le proteste dei cittadini. A Vicenza gli attivisti si sono arrampicati sugli alberi del bosco Lanerossi per impedirne l’abbattimento per i lavori della Tav. A Bologna, il Comitato Besta è riuscito a salvare il Parco Don Bosco da un progetto edilizio. A Gallarate, nel novembre 2024, è stato raso al suolo un intero bosco per costruire due scuole e un asilo, mentre in Salento si protesta contro la distruzione di un’area boschiva per ampliare un circuito automobilistico.

Va però anche detto che c’è verde urbano e verde urbano. Forse non è questo il caso, ma l’ambientalismo privo di basi scientifiche spesso accusa le amministrazioni comunali di “mattanze” di alberi senza però entrare nel merito di ciò che viene tagliato e di ciò che in sostituzione viene messo a dimora. In città, a causa dell’elevato livello di disturbo antropico, abbondano specie vegetali invasive che in termini di supporto alla biodiversità sono tutt’altro che funzionali. Tra queste, specie arboree quali robinia e ailanto, provenienti rispettivamente dal Nord America e dalla Cina, che nelle aree urbane originano comunità boschive a ridottissima diversità. Abbattere un bosco dominato da queste specie e sostituirlo con specie autoctone, anche se più giovani e meno numerose, è sicuramente un guadagno ambientale. Ad ogni modo, il Regolamento sul Ripristino della Natura approvato dall’Europa è chiaro: entro il 2030 non dovranno esserci perdite nette né di spazi verdi urbani né di copertura arborea. La strada intrapresa è giusta, ma l’importante è tenete a mente che non basta piantare “nuovo verde”: conta la copertura fornita dalle chiome, ovvero l’età e la dimensione degli alberi, e soprattutto la coerenza ecologica delle specie piantate secondo il principio “l’albero giusto al posto giusto”.

Come l’Italia ha perso la propria sovranità tecnologica nello spazio

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Lo Spazio sembra vivere una nuova età dell’oro e la cosiddetta New Space Economy viene considerata una fonte di grande sviluppo economico. Però, andando oltre la superficie mediatica, dobbiamo riconoscere che oggi il settore spaziale è sostanzialmente trainato dai miliardari della Silicon Valley, i quali entrano persino ai vertici della NASA – il cui nuovo capo, Jared Isaacman, è un imprenditore amico di Elon Musk e investitore di SpaceX – per plasmare le politiche spaziali statunitensi con impatti sulle collaborazioni internazionali tutti ancora da decifrare. 
In Europa si fa fatica a tenere ...

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Somalia, cade un elicottero ugandese

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Questa mattina, un elicottero militare della missione di pace dell’Unione Africana in Somalia è precipitato all’aeroporto della capitale Mogadiscio. Subito dopo l’incidente, avvenuto mentre l’elicottero stava atterrando, è scoppiato un incendio, che è stato spento nelle scorse ore. L’elicottero trasportava otto passeggeri, tre dei quali sono riusciti a salvarsi prima del divampare delle fiamme; ignota la sorte degli altri cinque passeggeri. Dopo l’incidente, è stato reso noto che l’elicottero era di proprietà dell’esercito ugandese.

Cisgiordania: Israele accelera la pulizia etnica autorizzando la distruzione di Masafer Yatta

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[Campi recintati e non più coltivabili dagli aitanti palestinesi di un villaggio di Masafer Yatta, con colonia di sfondo (credit Filippo Zingone)]

L’organizzazione palestinese I giovani di Sumud, che si batte per i diritti del suo popolo, ha lanciato un appello denunciando come Israele abbia autorizzato la demolizione dei 12 villaggi palestinesi di Masafer Yatta. La pulizia etnica in corso da decenni in questa parte della Cisgiordania rischia così di giungere a una svolta, che determinerà l’espulsione delle quasi 3000 persone che abitano questi villaggi.

«Il 18 giugno 2025, il Consiglio Superiore di Pianificazione di Israele ha emesso una direttiva per la Firing Zone 918 a tutti i suoi sottocomitati, autorizzando il rifiuto delle obiezioni alla demolizione e le procedure di pianificazione», riporta l’appello dei giovani di Sumud. «Questo avviso, che rimane non divulgato al pubblico, afferma che l’addestramento militare è ora richiesto in tutta la Firing Zone 918». Ciò implicherà il diniego di tutte le richieste di costruzione avanzate nell’area dai palestinesi, così come la dismissione di tutte le procedure legali aperte dalle comunità contro gli ordini di demolizione delle proprie case.

L’area di Masafer Yatta, come spiega a L’Indipendente M., attivista di ISM (International Solidarity Movement, il movimento internazionale che in Cisgiordania sta al fianco dei palestinesi nelle zone più a rischio di espulsioni e violenze), è stata proclamata Firing Zone 918 negli anni ‘80, dall’allora ministro nonché futuro primo ministro Ariel Sharon. Fu sua l’idea di rendere l’area un poligono militare per limitare «l’espansione dei residenti arabi di quelle colline». Lo stato ebraico da 40 anni usa la scusa delle esercitazioni militari per sgomberare e allontanare le comunità palestinesi che ci vivono, favorendo l’insediamento di coloni israeliani. «Ma con questo nuovo decreto militare stanno praticamente dando il via libera a demolire in massa Massafer Yatta», dichiara M.

Se prima il territorio era diviso in “wet zone” e “dry zone”, ossia in zone dove si svolgevano esercitazioni militari e altre dove i palestinesi potevano stare, ora tutto sarà considerato terreno di gioco dei militari israeliani. Di fatto, mandando via o rendendo impossibile la vita a chi vi abita, per costringerlo ad andarsene. «Questa mossa equivale alla pulizia etnica delle comunità indigene Masafer, tagliandole fuori dalle loro terre private, dalle zone di pascolo e dai mezzi di sostentamento di base,» denunciano ancora gli attivisti di Sumud. «Questo sta accadendo sotto la copertura della guerra con l’Iran, in palese disprezzo del giusto processo e dello stato di diritto. Lo Stato sta usando false affermazioni di “sicurezza” per giustificare la distruzione e lo sfollamento,» scrivono in un appello anche gli attivisti israeliani di The Village group, da anni presenti sul territorio.

Violenze all’ordine del giorno

Militari e coloni sono alleati nell’obbiettivo di allontanare le comunità palestinesi che da sempre vivono in quelle montagne. Gli attacchi dei coloni sono sistematici, e comprendono distruzione delle infrastrutture, furto di bestiame, violenze fisiche, minacce, incendi ai coltivi e ai mezzi di lavoro. Attacchi che sono addirittura aumentati dal 7 di ottobre, data la chiara politica del governo di Tel Aviv che spinge verso la colonizzazione totale della Cisgiordania e assicura tacitamente l’impunità a coloro che l’agiscono. Il braccio armato in divisa d’Israele, invece, si occupa delle demolizioni forzate delle abitazioni e di impedire che nuove case vengano costruite.

Molte famiglie sono costrette a vivere nelle grotte, come mostra anche il film-documentario No Other Land, vincitore quest’anno del premio Oscar, nel quale si racconta la realtà delle comunità palestinesi che vivono sulle montagne a sud di al-Khalil (Hebron). In poche immagini, il film descrive uno dei tanti esempi di violenza quotidiana nell’area: un soldato spara a un giovane ragazzo disarmato a cui avevano appena demolito la casa, rendendolo paralizzato dal collo in giù. Costretto a vivere in una grotta, data l’impossibilità di ricostruire nella zona “militare” per i palestinesi, muore a 26 anni dopo anni di sofferenze.

Con questa nuova direttiva, gli sgomberi e le demolizioni non faranno che aumentare. Inoltre, denuncia ancora M., «tutti gli outpost israeliani che sono stati creati dal 7 di ottobre – e che sono nelle stesse aree – nessuno li sta toccando e possono rimanere. Quindi, come al solito, la pratica è quella di mandare via la popolazione palestinese e favorire l’espansione delle colonie israeliane». M. racconta l’aumento delle violenze dell’ultimo periodo: «un paio di mesi fa hanno praticamente raso al suolo Khalet a-Dab’e, che è un villaggio proprio in mezzo all’area militare 918. Poi hanno cercato di demolire le tende nella quale si erano trasferiti i cittadini, che adesso vivono nelle cave e nelle grotte. I coloni hanno cercato di stabilire un avamposto, e andavano lì tutti i giorni… a Susya, un paio di mesi fa, l’esercito ha imposto una close military area (“un’area militare chiusa”) che durerà due anni, quando di solito questi sono ordini di 24 ore… anche lì i coloni hanno cercato di mettere un outpost di fronte a una delle case, che per ora è stato sgomberato, ma vanno quotidianamente ad attaccare le abitazioni, a distruggere le cisterne d’acqua, la rete elettrica, le varie infrastrutture. L’altro giorno hanno dato fuoco a una delle case a Susya. La situazione è terrificante. C’è veramente una forte spinta a mandare via le persone da Masafer Yatta».

Il movimento internazionale è oggi in difficoltà, data la forte repressione che anche gli attivisti stanno subendo nella zona. «Due attiviste di ISM sono state deportate poche settimane fa perché gli israeliani non vogliono che nessuno veda e nessuno parli di cosa succede», dice ancora M. «E pochi giorni fa anche due attivisti di Operazione Colomba sono stati detenuti. Chi è interessato a portare solidarietà ai palestinesi qui in Cisgiordania, è benvenuto. Servono volontari» conclude M.

Gli abitanti della zona hanno lanciato un appello internazionale per fermare le operazioni di demolizione e sfollamento. Chiedono attenzione, ma anche l’imposizione di sanzioni o altri meccanismi pertinenti che possano obbligare Israele a smettere di violare il diritto internazionale e fermare la pulizia etnica in Cisgiordania. E mentre a Gaza i massacri non si fermano, in Cisgiordania un’altra piccola Nackba continua. L’appello della popolazione di Masafer Yatta rischia di rimanere solo un altro grido che chiede giustizia lasciato cadere nel nulla.

TAV a Vicenza: si avvicinano gli sgomberi, cittadini in piazza

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Gli sgomberi per la costruzione della linea ad alta velocità a Vicenza sono sempre più imminenti, tanto che potrebbero iniziare già la prossima settimana: per tale motivo, i cittadini che ormai da più di un anno occupano il bosco Lanerossi hanno deciso di scendere in piazza per una fiaccolata e difendere la città. Intanto, l’associazione Italia Nostra ha presentato una diffida a Iricav Due, Rete Ferroviaria Italiana e Italferr, in cui chiede di «non iniziare i cantieri prima dell’espletamento della nuova Valutazione di impatto ambientale sul bacino di laminazione del torrente Onte, a Sovizzo». Il piano per l’alta velocità a Vicenza, dal valore di circa 1,82 miliardi di euro, rientra nel più ampio progetto della linea ad alta velocità/capacità Verona-Padova; la tratta vicentina prevede lavori su 6,2 chilometri all’interno della città, lungo i quali verrebbero abbattuti decine di edifici e intere aree verdi come il bosco Lanerossi.

La fiaccolata contro la costruzione del tracciato della nuova ferrovia si è svolta nella serata di ieri, martedì 1 luglio, in piazza Castello, a Vicenza. La protesta precede di una settimana l’apertura dei cantieri a Vicenza ovest, che, secondo i cittadini, dovrebbero venire avviati tra l’8 e il 10 luglio. Da quanto sostengono i media locali, ai residenti che verrebbero sfrattati dovrebbero venire temporaneamente assegnate delle case dell’edilizia residenziale pubblica. «È ormai sotto gli occhi di tutte e tutti il disastro che porta con sé l’arrivo dei cantieri TAV in città», scrivono gli attivisti dei “Boschi che resistono”, occupati dal 3 maggio 2024. «Mano a mano che si procede nella progettazione esecutiva del lotto Ovest, emerge chiaramente quanto i comitati denunciano da anni: l’opera è insostenibile e inaccettabile». Gli attivisti hanno lanciato un appello ai cittadini per mobilitarsi ed evitare l’abbattimento di boschi ed edifici, almeno una trentina a Vicenza ovest; hanno inoltre organizzato un presidio permanente che inizierà il prossimo 5 luglio. Intanto, l’associazione Italia Nostra ha inviato una diffida formale in cui chiede di non iniziare i lavori fino al termine della nuova Valutazione VIA. «Dal sito istituzionale del Ministero non risulta che sia stato ancora concluso, con l’emissione del decreto del Direttore generale del MASE, il procedimento di rinnovazione della procedura di VIA», denuncia infatti l’associazione.

Il Progetto Av/Ac Verona-Padova 2° lotto “Attraversamento di Vicenza” prevede il raddoppio dei binari sulla linea Milano-Venezia, inclusi i tratti che attraversano il centro abitato della città veneta. Per la realizzazione del piano per l’alta velocità sono previste diverse demolizioni abitative, soprattutto nei quartieri di San Lazzaro, San Felice e Ferrovieri, tra i più popolosi di Vicenza, per un totale di circa 62.316 metri quadri di superficie. L’opera andrà a modificare 6,2 chilometri di tratto con annessi interventi all’intera viabilità nella parte ovest della città, fino alla stazione ferroviaria nel centro storico. Le proteste contro l’opera si sono intensificate da maggio dell’anno scorso, quando il bosco Lanerossi è stato occupato dai collettivi che si oppongono alla sua distruzione. Gli attivisti hanno organizzato performance, proiezioni, attività per bambini e momenti di condivisione collettiva, con l’obiettivo di fare luce sulle criticità del progetto e sull’impatto ambientale dell’opera.

Dopo 45 anni abbiamo la verità definitiva sulla Strage di Bologna

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A 45 anni dalla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, costata la vita a 85 persone, la Corte di Cassazione ha chiuso il cerchio sulle responsabilità penali dell’eccidio, condannando definitivamente all’ergastolo Paolo Bellini, ex Avanguardia nazionale, come quinto esecutore materiale. Quest’ultimo è stato riconosciuto colpevole in concorso con gli ex NAR Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini, già condannati in via definitiva. Confermate anche le condanne per Piergiorgio Segatel (sei anni per depistaggio) e Domenico Catracchia (quattro anni per false informazioni al PM). Nel corso dei processi a Bellini e Cavallini, i giudici avevano già inquadrato come mandanti, finanziatori e organizzatori dell’attentato il numero uno della P2 Licio Gelli, il capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato, l’ex MSI Mario Tedeschi e il faccendiere Umberto Ortolani, tutti deceduti.

L’ultimo verdetto costituisce dunque una pietra miliare del percorso processuale sulla strage di Bologna, che ora, almeno per quanto concerne l’esecuzione materiale della strage, storicizza la colpevolezza di un quinto uomo. Nelle motivazioni della sentenza di appello i giudici avevano scritto che, dal quadro probatorio, è emersa «con assoluta certezza» la piena colpevolezza di Bellini «in ordine agli orrendi delitti a lui contestati». Bellini fu infatti ripreso il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna da un filmato amatoriale girato dal turista Harald Polzer, che ne ha attestato la presenza in loco pochi minuti dopo lo scoppio della bomba. Maurizia Bonini, ex moglie di Bellini, lo ha identificato come l’uomo ripreso dal filmato a camminare nell’area del binario 1 della stazione. Ulteriori testimonianze hanno poi indicato la presenza di Luciano Ugoletti, simpatizzante di estrema destra, «nelle immediate vicinanze della stazione subito prima dello scoppio della bomba», facendo emergere «la concreta possibilità» che Ugoletti avesse avuto come specifico compito quello di «sorvegliare l’auto del Bellini», parcheggiata nelle immediate vicinanze della stazione.

Il primo processo per la strage di Bologna iniziò nel 1987 e coinvolse oltre venti imputati, accusati di strage, banda armata, associazione sovversiva e calunnia aggravata. Tra loro figuravano esponenti dei NAR (Fioravanti, Mambro, Cavallini), di Avanguardia Nazionale (Delle Chiaie), della P2 (Gelli) e del SISMI (Musumeci, Belmonte, Pazienza). Dopo una complessa vicenda giudiziaria, la Cassazione confermò l’ergastolo per Fioravanti e Mambro come esecutori materiali dell’attentato. Gelli e Pazienza furono condannati a 10 anni per calunnia aggravata con finalità di terrorismo; Musumeci a 8 anni e 5 mesi e Belmonte a 7 anni e 11 mesi per aver eseguito i depistaggi. Tra il 1997 e il 2007 si svolse un secondo processo, che portò alla condanna a 30 anni dell’ex NAR Luigi Ciavardini, anche lui riconosciuto come esecutore materiale.

Nel 2017 si aprì un terzo processo a carico di Gilberto Cavallini, condannato all’ergastolo in via definitiva lo scorso gennaio per aver favorito gli altri attentatori fornendo loro rifugio, documenti falsi e un’auto. Proprio nella sentenza di appello di questo processo, i giudici hanno scritto che dietro alla strage di Bologna si sono «mossi in modo deviato, calunnioso e in spregio ai valori e alle istituzioni democratiche anche pubblici ufficiali che perseguivano proprie autonome strategie politiche, al di fuori di qualsiasi lecita investitura politico-istituzionale». Dai NAR, la sentenza ha infatti alzato la sua lente di ingrandimento sulla P2 di Licio Gelli e l’universo delle istituzioni deviate. «Può ritenersi che il Gelli – mettono nero su bianco i giudici – tramite i servizi da lui dipendenti e che a lui rispondevano, finanziò e attuò la strage, servendosi come esecutori di esponenti della destra eversiva (NAR, esponenti di Tp e per quanto da ultimo accertato dalla Corte d’Assise di Bologna, anche Avanguardia Nazionale)», trovando «terreno fertile in quei ragazzini che in quella fase avevano il convergente interesse, nella loro prospettiva ideologizzata, a disintegrare in radice le basi dello stato democratico». I depistaggi, chiariscono i giudici, vennero «posti in essere da appartenenti ai servizi (sia Sisde sia Sismi) tutti facenti parte della P2 o ad essa comunque collegati (Grassini, Santovito, Umberto D’Amato, Pazienza, Musumeci, Cioppa, Pompò, Belmonte), i quali tutti rispondevano direttamente o indirettamente a Gelli».

Anche la sentenza di secondo grado del processo Bellini si muove sulla medesima scia, attestando come il capo della P2 Licio Gelli sia «il consapevole finanziatore della strage di Bologna», circostanza che «spiega il movente dell’attività calunniosa e depistatoria da lui posta in essere, unitamente ad alti funzionari dello Stato, proprio in relazione alla strage di Bologna». La Corte ha sancito a chiare lettere che «i mandanti, gli organizzatori, i finanziatori ed alcuni degli esecutori materiali hanno agito con lo scopo di eversione dell’ordinamento democratico e di destabilizzazione delle istituzioni dello Stato». Tale verità è stata partorita per la prima volta nel 2020, quando la Procura generale di Bologna, nell’atto di conclusione delle indagini del processo appena terminato, aveva messo nero su bianco anche i nomi dei mandanti, finanziatori e organizzatori dell’attentato, oggi defunti. Licio Gelli e il suo braccio destro Umberto Ortolani sono stati indicati come i mandanti-finanziatori, mentre Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari riservati del Ministero degli Interni e lo storico direttore del giornale Il Borghese e senatore del MSI Mario Tedeschi, sono stati ritenuti mandanti-organizzatori.

Lucano è stato dichiarato decaduto

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Il Tribunale di Locri ha dichiarato decaduto il sindaco Domenico Lucano, accogliendo la richiesta della prefettura di Reggio Calabria. La sentenza arriva in seguito alla condanna definitiva a 18 mesi per falso, emessa nell’ambito del processo Xenia sui presunti illeciti nella gestione dell’accoglienza delle persone migranti nella cittadina calabra. Lucano era stato assolto da tutte le altre accuse. Il sindaco ha annunciato che farà appello contro la decisione del Tribunale.

Sesto Fiorentino: stop alla vendita di prodotti israeliani nelle farmacie comunali

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A partire dal 1 luglio, le farmacie comunali di Sesto Fiorentino non venderanno più prodotti israeliani, inclusi farmaci, parafarmaci, attrezzature mediche e preparati cosmetici provenienti da aziende israeliane. Questa decisione, storica per la città, segna il primo caso di boicottaggio economico attuato in Italia con queste modalità. La delibera approvata dal Comune sancisce anche la fine di ogni forma di collaborazione istituzionale tra l’Amministrazione comunale e i rappresentanti del governo israeliano o le istituzioni ad esso collegate, fino a quando non verrà ripristinato il rispetto de...

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India, esplosione in fabbrica farmaceutica: almeno 39 morti

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Si è attestato ad almeno 39 morti e 34 feriti il bilancio dell’esplosione e del successivo incendio in una fabbrica farmaceutica della Sigachi Industries, nello Stato indiano del Telangana. L’incidente, avvenuto lunedì, ha causato il crollo dell’intera struttura. I soccorritori sono ancora al lavoro per rimuovere le macerie e verificare la presenza di altri lavoratori intrappolati. Al momento dell’esplosione, all’interno si trovavano 108 persone. Le vittime saranno identificate con test del DNA. Le cause non sono state rese note, ma la produzione resterà sospesa per 90 giorni. Il governo ha annunciato un’indagine e compensi alle famiglie delle vittime.

Un’inchiesta dimostra che l’IDF ha sparato apposta sui palestinesi in fila per gli aiuti

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«È un campo di sterminio». Sono queste le parole utilizzate da un soldato delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) per descrivere la attuale situazione a Gaza. La sua testimonianza è riportata, assieme a quella di molti altri militari, dal quotidiano israeliano Haaretz in una inchiesta in cui sostiene che «ai soldati dell’IDF è stato ordinato di sparare deliberatamente ai cittadini di Gaza disarmati in attesa di aiuti umanitari». Una pratica ormai consolidata e normalizzata, riportano le testimonianze, su cui nessuno, neppure gli ufficiali, sembrerebbe interrogarsi. La situazione sarebbe peggiorata notevolmente da quando la distribuzione degli aiuti è passata nelle mani della Gaza Humanitarian Foundation, i cui centri – quattro in tutta la Striscia – sono costantemente sorvegliati dai soldati israeliani. Dalla loro apertura, lo scorso 27 maggio Israele ha ucciso oltre 500 persone in fila per gli aiuti e ne ha ferite oltre 4.000.

Secondo le testimonianze raccolte da Haaretz, le IDF sparerebbero a chi arriva prima dell’orario di apertura dei centri per impedirgli di avvicinarsi, e dopo la loro chiusura per disperderli. Tale pratica, venduta ai soldati come se fosse un modo come un altro per mantenere l’ordine, verrebbe effettuata con ogni mezzo a disposizione: fucili, mortai, cannoni di carri armati, mitragliatrici, granate, cecchini. Diversi soldati riportano che i colpi di arma da fuoco e di artiglieria verrebbero scagliati direttamente verso i civili, anche se disarmati e a centinaia di metri di distanza. «Apriamo il fuoco la mattina presto se qualcuno cerca di mettersi in fila da poche centinaia di metri di distanza, e a volte lo attacchiamo da distanza ravvicinata», sostiene un soldato; «ma non c’è pericolo per le forze. Non c’è nemico, non ci sono armi». Il medesimo soldato afferma di non essere a conoscenza di nessun caso in cui dall’altra parte sia stato aperto il fuoco.

I quattro centri GHF sono gestiti da personale statunitense e palestinese, sono sorvegliati dalle IDF, e rientrano in un confine di sicurezza delimitato che si estende per diverse centinaia di metri. Il perimetro di sicurezza delle IDF include carri armati, cecchini e mortai. I centri aprono una sola ora al giorno, generalmente la mattina, ma da quanto riportano le testimonianze di Haaretz tale orario verrebbe cambiato spesso senza notificare per tempo i civili. «Non so chi prenda le decisioni, ma diamo istruzioni alla popolazione e poi o non le seguiamo o le modifichiamo», ha affermato un ufficiale. In questo primo mese di funzionamento dei centri, riporta la testimonianza, è successo che le IDF cambiassero in itinere l’orario di apertura dei magazzini, spostandolo di pomeriggio, e che i civili palestinesi si presentassero all’entrata durante i soliti orari mattutini.

Le testimonianze di Haaretz descrivono la pratica di sparare ai civili in fila per gli aiuti come una prassi «normalizzata». La pratica sarebbe talmente tanto radicata da avere preso il nome di “Operazione Pesce Salato”, un richiamo, spiega Haaretz, al nome ebraico del gioco “Un, due, tre, stella”. Un riservista sostiene che «Gaza è diventato un posto con le sue regole», in cui «la perdita di vite umane non significa nulla»; un altro riservista riporta di un episodio in cui sarebbero stati uccisi otto adolescenti; un alto ufficiale ha riportato di un altro episodio in cui i soldati avrebbero ucciso 10 persone, per «un ordine proveniente dall’alto». La pratica, effettivamente, sembra incoraggiata dagli stessi comandanti: un ufficiale che lavora nel centro settentrionale riporta che il capitano in comando, il generale di brigata Yehuda Vach, ordinerebbe frequentemente di aprire il fuoco contro i palestinesi in attesa degli aiuti per disperderli; un alto ufficiale conferma l’esistenza di «un’ideologia sostenuta dai comandanti sul campo, che trasmettono alle truppe come piano operativo», mentre una fonte militare sostiene che anche i vertici militari «parlano di usare l’artiglieria su un incrocio pieno di civili come se fosse normale».

Dall’apertura dei centri GHF, Haaretz ha registrato 19 occasioni in cui è stato aperto il fuoco vicino ai magazzini. Di questi, sostiene il quotidiano, non tutti sono riconducibili all’esercito, ma visto che le IDF controllano il perimetro sembra difficile individuare responsabili diversi dallo stesso esercito israeliano o dalle milizie a esso collegate. Le testimonianze parlano infatti anche di casi in cui ad aprire il fuoco sarebbero state le milizie di Yasser Abu Shabab, che farebbero addirittura parte delle squadre di supervisori palestinesi attive nei centri. Secondo un ufficiale, le IDF continuerebbero a sostenere il gruppo di Abu Shabaab e altre fazioni. «Ci sono molti gruppi che si oppongono ad Hamas – Abu Shabaab si è spinto ben oltre», ha detto. «Controllano territori in cui Hamas non entra, e le IDF lo incoraggiano».

A incentivare la pratica sarebbe, infine, anche la speculazione edilizia. Un veterano riporta che a Gaza opererebbero diverse ditte appaltatrici, incaricate di demolire le abitazioni dei palestinesi. Per ogni edificio abbattuto, sostiene il veterano, gli appaltatori otterrebbero 5.000 shekel, l’equivalente di circa 1250 euro. «Stanno facendo una fortuna. Dal loro punto di vista, ogni momento in cui non demoliscono case è una perdita di denaro». Gli appaltatori opererebbero dove vogliono, lungo tutta la linea del fronte. Di conseguenza, ha aggiunto il veterano, la campagna di demolizione degli appaltatori li porterebbe, insieme alle loro squadre di sicurezza, vicino ai punti di distribuzione o lungo le rotte utilizzate dai camion degli aiuti. E così «scoppia una sparatoria e delle persone vengono uccise». Eppure, «queste sono zone in cui ai palestinesi è permesso stare», spiega il veterano: per le ditte appaltatrici, insomma, «per guadagnare 5.000 shekel è considerato accettabile uccidere persone che cercano solo cibo».