martedì 9 Dicembre 2025
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Sei ufficiali italiani andranno a processo per la strage di Cutro

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Un passaggio cruciale verso la verità sulla morte di decine di migranti è stato compiuto: il Giudice per l’udienza preliminare di Crotone ha rinviato a giudizio sei ufficiali – quattro della Guardia di finanza e due della Guardia costiera – per il naufragio del caicco “Summer Love” avvenuto il 26 febbraio 2023, al largo di Steccato di Cutro, in Calabria. Nell’affondamento persero la vita 94 persone, tra cui 35 minorenni. L’accusa formulata dalla Procura parla di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo, aggravati da gravi negligenze e da un mancato coordinamento tra le forze impegnate nel salvataggio, che avrebbero causato ritardi nelle operazioni di soccorso e nella mancata attivazione del Piano SAR (Search and Rescue) prevista per la drammatica notte in cui si consumò la tragedia.

Il processo di primo grado, che si aprirà il 14 gennaio prossimo a Crotone, dovrà stabilire le responsabilità individuali dei sei ufficiali per i quali la Procura ha chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio. Si tratta di Giuseppe Grillo (capoturno della sala operativa del Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia), Alberto Lippolis (comandante del ROAN), Antonino Lopresti (ufficiale in comando tattico), Nicolino Vardaro (comandante del Gruppo aeronavale di Taranto), Francesca Perfido (ufficiale di ispezione dell’IMRCC di Roma) e Nicola Nania (in servizio al V MRSC di Reggio Calabria). I magistrati hanno individuato una lunga serie di carenze, tra cui una «mancanza di coordinamento» e difetti nella comunicazione tra Guardia di finanza e Guardia costiera, con relativa violazione delle «regole di ingaggio» stabilite dal regolamento del 2005 e da un accordo tecnico operativo, configurando, secondo l’accusa, vere e proprie «gravi negligenze». La Summer Love aveva lasciato le coste turche con a bordo circa 180 persone, tra cui prevalentemente cittadini afghani e pachistani. La nave si è spezzata a circa 80 metri dalla costa, in condizioni di mare agitato (vento di forza 4-5), piombando in acqua in pochi istanti. Secondo quanto appurato dall’inchiesta, alcuni pescatori costieri furono i primi soccorritori, poiché né la Guardia costiera né la Guardia di finanza erano intervenuti in tempo utile.

La notizia del rinvio a giudizio ha suscitato reazioni contrastanti. Il vicepremier e ministro Matteo Salvini ha commentato sui suoi social network: «Una sola parola: vergogna. Processare sei militari, che ogni giorno rischiano la vita per salvare altre vite. Vergogna». Anche il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha espresso solidarietà, dicendosi convinto che i militari «dimostreranno la loro innocenza». Mentre le opposizioni auspicano che il processo stabilisca la verità giudiziaria su quanto accadde a Cutro quella notte, secondo l’avvocato Francesco Verri, che assiste le famiglie delle vittime, «se ciascuno avesse fatto il suo dovere, 94 fra donne e uomini, bambine e bambini sarebbero salvi: ora un processo stabilirà le responsabilità individuali. Ma è certo che lo Stato, quella sera, stette a guardare». Oltre al processo contro i membri delle forze dell’ordine, un secondo filone giudiziario ha visto già condannati quattro presunti scafisti, compreso l’autista meccanico Gun Ufuk. Condanne pesanti (tra gli 11 e i 20 anni), per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e naufragio colposo, confermate anche in Cassazione il 11 giugno.

A squarciare il velo di silenzio attorno alle presunte responsabilità statali dietro alla tragedia era già stata un’indagine di Lighthouse Reports, condotta con testate europee tra cui Domani e Le Monde nell’estate del 2023, che aveva accusato Italia e Frontex di gravi omissioni e tentativi di insabbiamento in merito alla strage di Cutro. Il rapporto aveva infatti rivelato che l’imbarcazione “Summer Love” sarebbe stata avvistata sei ore prima del naufragio da un aereo Frontex, che segnalò anche condizioni meteo avverse. Nonostante i segnali di pericolo (maltempo, sovraffollamento, mancanza di salvagenti), spiega l’inchiesta, né l’Italia né Frontex avviarono un’operazione di salvataggio. Il dossier ha accusato inoltre Frontex di aver nascosto testimonianze chiave e ridimensionato il numero di chiamate satellitari ricevute dai naufraghi.

Bangladesh: protesta per l’aereo precipitato su una scuola

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Centinaia di studenti sono scesi in piazza a Dacca, capitale del Bangladesh, per chiedere spiegazioni sull’incidente aereo avvenuto di ieri, in cui un aereo dell’aeronautica militare si è schiantato su una scuola, uccidendo 31 persone di cui almeno 25 bambini. Gli studenti chiedono che vengano resi noti i nomi delle vittime e dei feriti, che l’aeronautica militare risarcisca le loro famiglie, e che vengano modificate le procedure di addestramento dei piloti dell’aeronautica. Il governo ha reso noto di stare collaborando con le autorità militari, scolastiche e ospedaliere per redigere un elenco delle vittime, e che l’aeronautica militare non potrà più usare aerei da addestramento per sorvolare aree popolate.

Le grandi aziende evadono di più, ma i controlli sono tutti sulle piccole imprese

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L’equazione fiscale italiana appare sempre più squilibrata: da un lato le grandi aziende e i grandi patrimoni sono responsabili di una consistente quota di evasione, dall’altro sono le piccole e medie imprese (PMI) ad essere sottoposte in maniera più pervasiva ai massicci controlli dall’Agenzia delle Entrate. Come attestato da un recente rapporto pubblicato dal Centro studi di Unimpresa, nel 2024, su 189.578 accertamenti ordinari avviati, ben 81.027 – ossia il 43% – riguardano le PMI, mentre solo 1.677 (0,9%) hanno interessato i grandi contribuenti. I quali, come dimostrano i dati acquisiti direttamente dai database dell’Agenzia delle Entrate, generano però un’evasione assai più significativa.

La frammentazione del quadro emerge chiaramente: le piccole imprese hanno subito 73.056 accertamenti (38,5% del totale), che hanno generato una maggiore imposta accertata di 5.115 milioni di euro, ovvero il 35,9% dei 14,2 miliardi complessivi. Le medie aziende sono state sottoposte a 7.971 ispezioni (4,2%), con un’imposta accertata di 3.983 milioni (28%). I grandi contribuenti hanno subito molti meno controlli – non si arriva nemmeno all’1% del totale –, ma l’imposta loro accertata è stata di 3.181 milioni (22,4%). Se si guarda al totale dell’attività ispettiva, i professionisti hanno subito 19.845 controlli (10,5%), con un’imposta di 329 milioni (2,3%), mentre per gli enti non commerciali i numeri si fermano a 3.292 accertamenti (1,7%), con un impatto di 163 milioni (1,1%). Una larga fetta – ossia 82.062 accertamenti (43,3%) – rientra nella categoria “accertamenti diversi”, generando 1.432 milioni (10%).

«I numeri confermano, ancora una volta, che le piccole e medie imprese italiane restano il bersaglio privilegiato del fisco. È l’ennesima dimostrazione di un accanimento selettivo e miope, che penalizza il tessuto produttivo più fragile e vitale del nostro Paese», ha affermato Marco Salustri, consigliere nazionale di Unimpresa. «Colpire le PMI è facile: sono più esposte, meno attrezzate sul piano legale e più vulnerabili sul fronte finanziario. Ma questa strategia non produce giustizia fiscale, né getta le basi per una riscossione più efficace. Anzi, genera sfiducia e alimenta un clima di ostilità verso le istituzioni». Da tempo, Unimpresa chiede una riforma equa e coraggiosa del sistema di accertamento, che veda al «criteri proporzionali, una maggiore attenzione ai grandi patrimoni e strumenti premiali per chi si mette in regola».

La criticità di tale sperequazione è ancora più evidente se si considerano i dati diramati lo scorso aprile dalla CGIA di Mestre, che ha raccolto le statistiche dell’Agenzia dell’Entrate, attraverso cui si conferma come il fenomeno dell’evasione sia concentrato nei grandi contribuenti, mentre piccoli imprenditori e lavoratori autonomi si trovano a rappresentare una quota marginale del debito fiscale. Come emerge dalla ricerca, negli ultimi 25 anni ben 1.279,8 miliardi di euro in tasse, contributi, imposte, bollette, multe e altri oneri non sono stati riscossi: una cifra che quasi potrebbe coprire metà del debito pubblico. Di questi importi, il 64,3% – ovvero 822,7 miliardi di euro – è imputabile alle società di capitali, tra cui Spa, Srl, consorzi e cooperative, mentre solo il 12,2% deriva dai piccoli imprenditori, artigiani, commercianti e liberi professionisti.

Ampliando lo sguardo sul continente europeo, si nota come l’Italia non sia affatto l’unico Paese in cui i grandi evasori concentrano i loro affari. Un rapporto dell’Ong Tax Justice Network ha infatti recentemente rivelato che l’Europa ospita molte delle giurisdizioni più permissive in tema di tassazione, rendendola un rifugio per grandi aziende, ricchi professionisti e organizzazioni criminali che vogliono evadere il fisco. Complessivamente, l’UE contribuisce infatti a un terzo delle perdite fiscali mondiali.

25 Paesi tra cui l’Italia chiedono a Israele di fermarsi a Gaza: Netanyahu rifiuta

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I ministri degli Esteri di 25 Paesi del cosiddetto “blocco Occidentale”, tra cui l’Italia, hanno rilasciato un comunicato per chiedere a Israele di fermare i massacri a Gaza. La dichiarazione chiede l’immediata apertura delle frontiere per garantire alla popolazione l’accesso agli aiuti umanitari e critica il sistema di distribuzione alimentare pensato da Israele, che dal suo avvio ha portato all’uccisione di oltre 900 palestinesi da parte dell’esercito dello Stato ebraico. L’appello (tardivo) giunge in un momento catastrofico per Gaza, travolta dalla carestia e invasa dai carri armati israeliani, che hanno raggiunto per la prima volta Deir al Balah e sfollato decine di migliaia di abitanti. Qualche ora dopo la sua pubblicazione, Israele ha risposto ai Paesi coinvolti, sostenendo che le loro parole sono «scollegate dalla realtà», mentre all’orizzonte non sembra ancora emergere alcuna intenzione di adottare misure concrete per fermare il genocidio.

L’appello per fermare la guerra a Gaza è stato firmato, oltre che dall’Italia, dai ministri degli Esteri di Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Giappone, Islanda, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Nuova Zelanda, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, e dal Commissario europeo per l’Uguaglianza e le Crisi. «La guerra a Gaza deve finire ora», si legge nella dichiarazione. I rappresentanti dei Paesi condannano il modello di distribuzione degli aiuti e il rifiuto da parte del governo israeliano di fornire assistenza umanitaria alla popolazione civile di Gaza. I ministri condannano il piano di creare una maxi-città umanitaria a Rafah (di cui abbiamo parlato in un articolo de L’Indipendente) e si oppongono a qualsiasi iniziativa volta a modificare il territorio o la demografia nei Territori Palestinesi Occupati, tra cui il piano di insediamento E1 per ampliare gli insediamenti tra Gerusalemme e Maale Adummim. Chiedono così la cessazione immediata delle aggressioni e l’apertura delle frontiere per fare entrare gli aiuti, rilanciando il piano arabo per Gaza. Qualche ora dopo la pubblicazione della dichiarazione, il ministero degli Esteri israeliano ha rilasciato un comunicato in cui condanna l’appello dei Paesi occidentali e attribuisce le responsabilità di quanto accade a Gaza ad Hamas.

La dichiarazione dei ministri degli Esteri del blocco Occidentale è a dir poco tardiva e, come al solito, si limita alle parole. Le cose che i Paesi potrebbero fare per porre un reale freno a Israele sono diverse, e appena una settimana prima dell’appello l’UE ha bloccato la revisione dell’Accordo di Associazione con Israele, ponendo un veto di fatto alle sanzioni. Nel frattempo, a Gaza, la popolazione civile muore di fame, il rischio di carestia è sempre più imminente e le malattie dovute alla malnutrizione si diffondono. Il numero di pazienti ricoverati per problemi di malnutrizione nella clinica di Gaza City di Medici Senza Frontiere è quasi quadruplicato in meno di due mesi, e un terzo di tali pazienti è composto da bambini di età compresa tra i tre mesi e i due anni. Nel fine settimana sono morte almeno 20 persone a causa della carestia, mentre nella sola mattina di oggi, 22 luglio, è stato riportato il decesso di tre bambini di età compresa tra i 40 giorni e i 12 anni. Il numero totale di morti per fame è salito così ad almeno 90: tra questi, 80 bambini e 10 adulti.

Israele ha inoltre intensificato la campagna terrestre, lanciando un’invasione su nove blocchi situati nell’area sudoccidentale del Governatorato di Deir al Balah. Secondo le prime stime delle Nazioni Unite, la misura dovrebbe coinvolgere tra le 50.000 e le 80.000 persone, di cui 30.000 rifugiate in 57 campi per sfollati. Con quest’ultimo ordine, rimarca l’ONU, l’area di Gaza sottoposta a ordini di sfollamento o all’interno di zone militarizzate da Israele è salita all’87,8%, lasciando «2,1 milioni di civili stipati in un frammentato 12% della Striscia, dove i servizi essenziali sono crollati». La progressiva riduzione delle aree umanitarie rispecchia il piano Carri di Gedeone, lanciato da Israele lo scorso maggio, e viaggia in parallelo con l’iniziativa di creare un maxi-campo umanitario a Rafah dove rinchiudere i palestinesi nell’ottica di una successiva espulsione della popolazione dalla Striscia. Israele non ha cessato neanche le violenze: solo ieri ha ucciso almeno 60 palestinesi e preso d’assalto una sede dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Anzio, si ribalta peschereccio: un disperso

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Momenti di paura ad Anzio nella mattina di martedì 22 luglio: un peschereccio si è ribaltato a largo del porto a causa del mare agitato, e un pescatore risulta disperso. L’allarme è scattato poco dopo le 8. Sul posto sono intervenuti i sommozzatori dei vigili del fuoco, i carabinieri e la guardia costiera, impegnati nelle ricerche dell’uomo. Il figlio, che era con lui a bordo, è stato tratto in salvo, mentre si teme che il padre sia rimasto chiuso all’interno della cabina. Nelle ultime ore il mare mosso, causato dal forte vento, ha già messo in difficoltà diversi bagnanti nella zona, con vari salvataggi effettuati dai soccorritori.

Burger vegetali: quanto sono salutari? Facciamo chiarezza

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Basta solo scrivere o pronunciare l’aggettivo «vegetale» per suscitare in qualsiasi persona l’idea di cibo sano, fresco e sostenibile. In effetti in molti casi è proprio così: i cibi vegetali sono senz’altro dei buoni alimenti – nella loro versione naturale, non processata e non raffinata dall’industria alimentare. Ma sarebbe sbagliato pensare che la dicitura “vegetale” sia sempre sinonimo di “sano”: le patatine fritte del McDonald’s sono in teoria un cibo vegetale, ma contengono oltre 20 additivi chimici e sono fritte in un olio che è molto tossico. Persino lo zucchero bianco e le marmellate col 20% di frutta sono cibi perfettamente vegetali, ma è noto che di salutare al loro interno non vi è nulla.  

I burger vegetali sono alimenti che, negli ultimi anni, hanno visto una diffusione enorme sul mercato e su cui l’industria si è buttata a capofitto dopo aver fiutato il grande margine di profitto da generare. Questo è stato possibile anche grazie al diffondersi delle diete vegane o plant based, cioè quelle diete in cui la maggior parte degli apporti alimentari sono costituiti da cibi vegetali e il cibo animale viene relegato ad una piccolissima fetta o escluso completamente. Sebbene preparare un burger vegetale sia una cosa piuttosto semplice che richiede pochi minuti, sia in casa che in una fabbrica (per la versione industriale dell’alimento), ciò che ci propone l’industria – per la maggior parte dei casi – è invece tutt’altro che semplice e salutare. Vediamo nel dettaglio cosa sono i burger vegetali in commercio.

Cibi ricomposti con grande uso di additivi

Possiamo controllare tutti i supermercati di ogni catena, ma alla fine per il 99% dei prodotti chiamati burger vegetali l’offerta è sempre la stessa: cibi ultra-processati a base di materie prime di bassissima qualità, additivi e insaporitori vari, studiati ad arte per dare la massima sapidità e suscitare nel consumatore la falsa idea di cibo salutare e sostenibile per il pianeta. Una delle convinzioni più diffuse in noi consumatori, infatti, è proprio quella di contribuire alla riduzione di emissioni di CO₂ acquistando qualsiasi cosa che sia “vegetale” e limitando tutto ciò che è “derivato animale”. Tutto ciò purtroppo è falso. I burger dell’industria, dunque, non sono affatto un composto semplice di ceci, zucchine e carote (per fare un esempio che tutti possono preparare a casa e poi cuocere in forno o in padella), ma si caratterizzano per essere un ammasso di sostanze di dubbia qualità, unite e amalgamate tra loro da additivi e esaltatori di sapidità. In Italia, i burger vegetali più venduti e conosciuti (se non altro per ragioni storiche e di età anagrafica) sono quelli di una nota azienda che da sempre riveste la propria immagine e basa il marketing sulla contrapposizione tra vegetale e animale, e che usa il motto «no al colesterolo». Ma se il marketing è una cosa, la realtà nutrizionale e l’analisi delle materie prime di cui si compone un alimento sono tutt’altra, e dal confronto delle due cose possiamo ottenere molte informazioni utili per le nostre scelte di spesa. 

Come si può vedere dall’elenco degli ingredienti nella foto in alto, di cibo vegetale vero e proprio c’è poco o niente. I componenti sono estratti di sostanze vegetali o parti di alimenti (proteine di soia concentrate e reidratate, glutine di frumento) ricomposte e unite a additivi, zuccheri (destrosio, estratto di malto), amidi, sale e insaporitori vari (estratto di lievito, alginato di sodio, estratto di lievito essiccato). Il tutto additivato di oli raffinati industriali (non estratti a freddo) di pessima qualità, come olio di colza e olio di girasole.

Altri prodotti, del tutto sulla stessa lunghezza d’onda di quello appena mostrato, contengono persino dei conservanti, e sono pubblicizzati anch’essi in TV come prodotti naturali e sani. Da notare, infine, che tutti questi prodotti ultra-processati, ma “Veg”, ottengono punteggi elevati e giudizi di ottima qualità nutrizionale sulle applicazioni usate per fare la spesa da tante persone. Anche se la qualità nutrizionale abbiamo visto essere molto bassa. 

Esistono dei prodotti di qualità? 

Ma allora non si salva nessun prodotto vegetale tra i burger in vendita nei supermercati? In realtà qualcosa si salva: basta cercare con attenzione e leggere la lista degli ingredienti. Nella foto di seguito, vi mostriamo un esempio di burger vegetale da supermercato che può valere la pena di prendere in considerazione, se non si ha la possibilità di preparare in casa questi alimenti. Il prodotto che ho selezionato è biologico, a differenza degli altri esempi visti finora, ed è composto solamente da alimenti interi e vegetali: non ci sono additivi, conservanti, zuccheri o esaltatori di sapidità.

La lista ingredienti ci parla di miglio (un cereale senza glutine), piselli, carote, ceci, riso, sale, succo di limone, curry (mix di spezie). Una bella differenza con i prodotti mostrati in precedenza. Infine, è cotto al forno invece che fritto: questo significa che non è venuto a contatto con dei pessimi oli industriali da frittura e dunque preserva una maggiore qualità nutritiva. Ovviamente, se ci pensate, la stessa ricetta può essere replicata e preparata in casa con un semplice composto di tutti questi ingredienti, frullati e poi cotti a piacere in forno o padella. Con del buon olio extravergine, magari. 

ONU: almeno 363 morti nel Mediterraneo centrale da inizio anno

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Almeno 363 persone sono morte e 290 risultano disperse sulla rotta del Mediterraneo centrale dall’inizio dell’anno a sabato 19 luglio. Lo ha reso noto l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) in Libia all’interno del suo ultimo aggiornamento pubblicato sul social X. Nella medesima fase temporale, ha precisato nel comunicato l’agenzia dell’ONU, i migranti intercettati in mare e riportati in Libia sono stati in totale 12.643, di cui 10.943 uomini, 1.148 donne, 407 minori e 145 di cui non si sono potuti conoscere i dati di genere.

Bloccano la produzione e riottengono il lavoro: vittoria per gli operai di Forlì

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Ci sono voluti 17 giorni di presidio. Diciassette giorni accampati davanti ai cancelli della loro azienda, sdraiati sull’asfalto sotto il sole torrido di luglio per impedire ai camion di entrare e uscire dallo stabilimento, bloccando di fatto la produzione. La polizia è intervenuta più volte per tentare di sgomberarli, mandando alcuni di loro all’ospedale. Ma alla fine ce l’hanno fatta: i 40 lavoratori della Sofalegname di Forlì hanno riottenuto il proprio posto di lavoro.

Domenica è stato firmato in Prefettura l’accordo con l’azienda, che prevede il blocco dei licenziamenti per sei mesi, l’attivazione di un contratto di solidarietà e l’impegno della ditta a risanare e rilanciare il sito produttivo.

Tutto era cominciato con la decisione di Gruppo 8 – colosso della produzione di divani e leader nel distretto dell’imbottito forlivese – di interrompere la collaborazione con la Sofalegname, a cui aveva affidato lavorazioni in subappalto. Una scelta che ha di fatto cancellato in un colpo solo i posti di lavoro per i 40 operai, in larga parte pakistani, che avevano lasciato Prato per trasferirsi in Romagna proprio per lavorare nello stabilimento.

Erano abituati a turni massacranti: 12 ore al giorno, sei giorni a settimana, stipendi ben al di sotto del minimo sindacale e sistemazione notturna improvvisata nello stesso magazzino in cui lavoravano. A dicembre, dopo una settimana di sciopero al gelo, erano riusciti a ottenere condizioni più dignitose: turni da otto ore per cinque giorni, un contratto stabile e una sistemazione temporanea in albergo. Ma quella parentesi è durata poco. Appena ultimate le ultime consegne, l’azienda li ha licenziati in blocco.

Secondo quanto riferito da Sarah Caudiero, del sindacato Sudd Cobas, il 3 luglio la Sofalegname ha annunciato l’intenzione di smantellare lo stabilimento, aprendo contemporaneamente un percorso per delocalizzare la produzione in Cina. Di fronte a questa prospettiva, i lavoratori sono tornati a manifestare, questa volta sotto il sole cocente. Hanno allestito tende davanti alla sede madre, la Gruppo 8, bloccando l’ingresso ai mezzi pesanti. La produzione si è fermata, con un danno economico che l’avvocato dell’azienda, Massimiliano Pompignoli, ha stimato in oltre mezzo milione di euro. «Stanno tenendo in ostaggio la produzione», ha commentato.

Secondo il sindacato, la vicenda mostra chiaramente una dinamica ben nota: una società “vuota”, la Sofalegname, viene usata per assumere manodopera a basso costo in condizioni di sfruttamento. Quando, grazie alle proteste, quei lavoratori riescono a ottenere un contratto regolare, l’azienda chiude i battenti e sposta altrove la produzione. «Un copione già visto a Prato – ricorda Caudiero – dove gli operai dormivano nelle fabbriche fino al 2013, quando un incendio nella ditta Teresa Moda uccise otto persone nel sonno».

Anche in quel caso, come in quello della Sofalegname, le aziende coinvolte avevano legami con la Cina. La Gruppo 8, infatti, fa capo alla multinazionale HTL, con sede a Singapore. «Vogliono il marchio Made in Italy – conclude Caudiero – ma con le regole di altri Paesi. Quando capiscono che devono rispettare le leggi italiane, prendono e se ne vanno».

Nei giorni più duri del presidio, la Regione Emilia-Romagna aveva proposto di fare da tramite per consentire ai lavoratori di accedere alla cassa integrazione. Ma l’offerta è stata rifiutata: gli operai non volevano accedere agli ammortizzatori sociali, bensì tornare al lavoro, a pieno titolo e con un contratto regolare. Una scelta di dignità e determinazione che ha guidato tutta la protesta.

La situazione è degenerata lunedì scorso, quando la polizia è intervenuta per impedire il blocco di un camion in uscita. I manifestanti, seduti a terra per chiudere il passaggio, sono stati sgomberati con la forza: tre lavoratori sono finiti in ospedale. Nei video diffusi dai sindacati si vedono agenti strattonare e spingere i manifestanti. «Il messaggio che passa è che le aziende possono fare tutto, e se qualcuno protesta, arriva la polizia a zittirlo», ha commentato Caudiero.

Ma nonostante la repressione, il presidio è continuato, coinvolgendo anche rappresentanti della Regione Emilia-Romagna e il senatore del Movimento 5 Stelle Marco Croatti che, dopo aver incontrato i manifestanti venerdì, aveva annunciato un’interrogazione parlamentare.

La firma dell’accordo è arrivato come un colpo di scena: appena il giorno prima la Sofalegname aveva diramato un comunicato dai toni minacciosi, nel quale dichiarava che, se i lavoratori non fossero rientrati «nei ranghi della legalità» interrompendo il presidio, si sarebbe proceduto con i licenziamenti di massa. Poche ore dopo, sono state accolte tutte le richieste fatte dagli operai e dal sindacato. L’accordo ha portato a un’intesa che allontana lo spettro della chiusura e apre una nuova fase. Nei prossimi giorni sarà convocato un tavolo tecnico permanente per definire il nuovo assetto organizzativo dello stabilimento.

 «Ci chiamavano irresponsabili per non aver accettato accordi che avrebbero solo sancito la fine dello stabilimento – hanno dichiarato i sindacalisti di Sudd Cobas – Ma abbiamo resistito. Questo accordo dimostra che un’alternativa era possibile fin dall’inizio. La nostra lotta è servita».

Siria: inizia l’evacuazione dei beduini da Suwayda

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Le squadre della protezione civile siriana hanno iniziato l’evacuazione delle famiglie beduine dalla città a maggioranza drusa Suwayda, che negli ultimi giorni era stata teatro di scontri tra milizie beduine e druse. Da quanto riporta l’agenzia di stampa statale Sana, le operazioni sono iniziate ieri, e hanno coinvolto 1.500 civili la maggior parte dei quali donne, bambini e anziani, appartenenti alle famiglie rimaste intrappolate a Suwayda. La popolazione è stata spostata in rifugi nella campagna di Daraa, governatorato a ovest di Suwayda. Le squadre hanno anche trasportato più di 10 feriti in ospedale per cure mediche urgenti.

Repubblica Democratica del Congo e ribelli del M23 firmano un fragile accordo per una tregua

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A Doha è stata firmata una dichiarazione di principi per porre fine ai combattimenti nel Congo orientale tra la Repubblica Democratica del Congo (RDC) e la milizia ribelle M23. Si tratta di un nuovo, fondamentale tassello nel tentativo di costruire un percorso di pace duraturo in una regione in guerra da oltre trent’anni. Questo accordo segue quello siglato lo scorso 27 giugno a Washington dai ministri degli Esteri di Ruanda e RDC e rappresenta un ulteriore passo avanti in un processo che punta al ristabilimento di una pace vera. L’intesa, denominata Dichiarazione di principi, prevede che entrambe le parti si astengano da attacchi armati, dalla «propaganda d’odio» e da «qualsiasi tentativo di conquistare con la forza nuove posizioni sul terreno». Il documento sottolinea inoltre l’impegno congiunto del governo di Kinshasa e della milizia M23 nel ripristinare il controllo statale «su tutti i territori della RDC».

Il contesto però resta estremamente complesso. Dall’inizio dell’anno, a seguito di una massiccia offensiva, la milizia M23 ha conquistato le principali città del Nord e Sud Kivu, Goma e Bukavu. Da febbraio, queste città sono sotto il controllo militare e amministrativo dell’Alleanza del Fiume Congo (AFC), una coalizione di gruppi armati dell’est del Paese guidata proprio dall’M23.

Le reazioni delle organizzazioni internazionali sono state positive. L’Unione Africana (UA) e le Nazioni Unite hanno accolto con favore la firma della Dichiarazione. Bruno Lemarquis, Vice Rappresentante Speciale del Segretario Generale dell’ONU nella RDC, ha affermato: «Questa importante dichiarazione segna una svolta verso l’allentamento delle tensioni e la protezione dei civili gravemente colpiti dal conflitto». Sulla stessa linea Mahmoud Ali Youssouf, presidente dell’UA, ha definito l’intesa «una pietra miliare» verso la pace nella regione. Tuttavia, la solidità dell’accordo appare già fragile. I motivi sono diversi, a cominciare dal peso della storia. La Dichiarazione di principi arriva infatti al termine di un’avanzata durata tre anni da parte della milizia ribelle, che già nel 2012 aveva conquistato Goma per poi ritirarsi in seguito a un accordo che prevedeva la smobilitazione dei suoi uomini e il loro reinserimento nell’esercito regolare. Un’intesa che fallì e che segnò uno dei tanti episodi in cui accordi simili si sono rivelati inefficaci nel portare una pace duratura nell’est del paese.

Negli anni, i tentativi di dialogo tra Kinshasa e M23 si sono moltiplicati senza successo, fino a interrompersi del tutto, quando il governo congolese ha più volte rifiutato di sedersi al tavolo con rappresentanti militari dell’M23, considerati terroristi. Anche oggi, le divergenze tra le parti restano evidenti. A poche ore dalla firma dell’accordo, i rispettivi portavoce hanno rilasciato dichiarazioni contrastanti. Patrick Muyaya, portavoce del governo congolese, ha scritto su X che l’accordo «tiene conto delle linee rosse che abbiamo sempre difeso, in particolare il ritiro non negoziabile dell’AFC/M23 dalle parti occupate, seguito dallo spiegamento delle nostre istituzioni». Immediata la replica di Bertrand Bisimwa, portavoce dell’M23, che ha precisato: «L’accordo parla di un ripristino dell’autorità statale, ma non di un ritiro degli effettivi sul campo». Dunque, un accordo sì, ma non su tutto. Il calendario però impone ritmi serrati: entro l’8 agosto entrambe le parti dovranno presentare una proposta dettagliata da discutere, con l’obiettivo di arrivare a un’intesa definitiva entro il 18 agosto.

Il dialogo avviato a Doha non nasce dal nulla. Già a marzo, il Qatar aveva ospitato un primo incontro tra i presidenti di Ruanda e RDC, Paul Kagame e Felix Tshisekedi, il primo summit diretto dopo mesi di silenzio e tensioni. I colloqui iniziati dal paese arabo hanno portato all’accordo di Washington di giugno e ora alla Dichiarazione firmata sabato. Resta da capire se, come già fatto da Donald Trump, il ruolo di mediazione del Qatar possa essere legato a futuri accordi sull’estrazione e lo sfruttamento dei ricchissimi giacimenti minerari della RDC, anche se ufficialmente non se ne è ancora parlato.

La speranza è che questa tregua possa finalmente tradursi in una pace vera. In trent’anni di guerre, tutte motivate dal controllo delle immense risorse minerarie della regione, la popolazione civile ha vissuto un incubo fatto di massacri, stupri, sfollamenti e sfruttamento. Le stime parlano di un bilancio tragico: tra i 6 e gli 8 milioni di morti, oltre 7 milioni di sfollati interni e altri milioni rifugiati nei Paesi confinanti. Ma la strada verso la pace resta lunga. Nell’est della RDC non operano solo M23 e AFC: si contano più di 100 formazioni paramilitari, spesso in lotta tra loro e col governo per il controllo del territorio e delle sue risorse. In questo scenario, i congolesi fanno fatica a credere ancora in una pace possibile. Eppure, è proprio su questa speranza che si costruisce ogni tentativo, anche fragile, di porre fine a un conflitto che dura ormai da troppo tempo.