Riconoscimento facciale e sorveglianza di massa sono temi alquanto controversi, soprattutto perché nei fatti si sono dimostrati imperfetti e propensi al difetto. Fino a oggi l’Unione Europea aveva cercato di evitare una presa di posizione netta sulla questione, tuttavia mercoledì 6 ottobre il Parlamento Europeo ha compiuto un poderoso scatto in avanti, con i Ministri che hanno chiesto formalmente di proibire ogni forma di archivio biometrico, cosa che di fatto renderebbe inattuabili molte delle applicazioni poliziesche del facial recognition.
La risoluzione firmata, va detto, non è attualmente vincolante, tuttavia la direzione maggioritaria del Parlamento non potrà che incidere sulle negoziazioni prossime venture del cosiddetto AI Act, le quali dovrebbero infiammare la prima metà del 2022. La proposta in questione mira infatti a porre dei rigidi binari che vadano a limitare l’uso dell’identificazione biometrica in remoto – ovvero via telecamera di sorveglianza – negli spazi pubblici, consentendone l’applicazione solamente nei casi estremi quali gli attentati terroristici.
È immediatamente intuibile che la proposta della Commissione UE abbia intenzione di concedere ai Governi dei Paesi Membri degli spazi di manovra per svicolarsi da alcune costrizioni, tuttavia le recenti esternazioni dei legislatori europei danno a intendere che ci sia il desiderio di bloccare tutte le derive più tossiche e inquietanti: il business della sorveglianza, il credito sociale e la polizia predittiva.
Mentre l’Europa discute sul da farsi, infatti, controverse aziende quali ClearView AI hanno già colto l’occasione per entrare in contatto con le autorità comunitarie nella speranza di sedurle con i loro sistemi di sorveglianza di ultima generazione. Sistemi di sorveglianza che negli Stati Uniti si sono dimostrati incredibilmente propensi all’errore e che violano le leggi del GDPR, ma le cui possibilità hanno fatto gola alle Forze dell’Ordine, pronte in un battibaleno a collaudare gli strumenti in questione. La lista delle realtà pubbliche che hanno ceduto al “frutto proibito” sono molte e comprendono la Polizia di Stato italiana, almeno stando ai dati diffusi da un’inchiesta di BuzzFeed.
Difficile credere che le moratorie ventilate dai Parlamentari possano essere in grado di placare ogni forma di abuso nella gestione della sorveglianza biometrica – dopotutto subiamo ancora oggi gli abusi delle tecnologie tradizionali -, tuttavia il fatto che l’UE si dimostri coesa nel contrastare le derive peggiori del settore non può che regalare una boccata d’aria, soprattutto considerando l’atteggiamento autoritarista che alcune Amministrazioni stanno progressivamente adottando.
Migliaia di lavoratori non possono ottenere il Green Pass tramite la vaccinazione nonostante siano completamente vaccinati: sono quelli che, spesso perché residenti o domiciliati per lavoro in Russia, Asia, Africa o Sudamerica si sono sottoposti ad uno dei vaccini non approvati in Europa, principalmente al russo Sputnik V o al cinese Sinovac. Cittadini italiani che non potranno prendere parte alla vita sociale e lavorativa in Italia a meno di effettuare tamponi ripetuti da pagare 15 euro ogni volta. O, allo stesso modo, cittadini stranieri che lavorano buona parte dell’anno nel nostro Paese, principalmente in qualità di colf, badanti, lavoratori dei campi e del turismo.
Il governo italianoha affrontato la questione dei vaccinati all’estero, ma il problema è stato al momento risolto solo per alcuni di essi. In tal senso, una recente circolare del ministero della Salute ha riconosciuto alcuni vaccini «somministrati dalle autorità sanitarie nazionali estere» come «equivalenti a quelli effettuati nell’ambito del Piano strategico nazionale sui vaccini anti Covid» e dunque validi ai fini dell’emissione della certificazione verde. Tuttavia, tra i vaccini indicati appunto non compaiono il Sinovac e lo Sputnik V, motivo per cui la circolare ha determinato il perdurare del problema per i tanti lavoratori vaccinati con gli stessi.
Per questo, delle critiche al governo sono state mosse da parte della FNP, il sindacato dei pensionati e degli anziani della Cisl (Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori), il quale tramite un comunicato ha affermato: «Come faranno a continuare a lavorare le badanti e le colf provenienti dai Paesi europei dell’Est, che sono state vaccinate con lo Sputnik, il quale non è valido per ottenere il Green Pass in Italia?». «Queste persone – prosegue il sindacato – saranno costrette a fare il tampone rapido ogni due giorni a spese loro, a fronte di stipendi per niente importanti».
Detto ciò, il problema non riguarda di certo solo colf e badanti ma anche lavoratori del settore agricolo o dell’edilizia, oltre che alcune centinaia di studenti. A tal proposito, secondo quanto riportato dal quotidiano la Repubblica «gli esperti, anche al ministero, stimano che si tratti almeno di 100 o 150mila persone».
La questione dei vaccinati con vaccini come Sputnik o Sinovac ha dunque una notevole importanza, ed in Italia attualmente si sta valutando di risolvere la situazione conla vaccinazione eterologa. Una pratica già imposta ai cittadini di San Marino, pur in assenza di studi solidi sulla sicurezza della procedura. Il direttore generale della Prevenzione presso il ministero della Salute, Giovanni Rezza, ha ammesso: «Il Consiglio superiore di sanità aveva detto di considerare l’opportunità di una dose aggiuntiva eterologa a chi fosse stato vaccinato con vaccini come Sinovac o Sputnik, ma c’è bisogno del pronunciamento di una agenzia regolatoria. E la situazione è diversa per il Sinovac rispetto allo Sputnik, perché il primo è stato riconosciuto dall’Oms, mentre il secondo non ancora. Dunque ci sono dei problemi da risolvere anche di tipo regolatorio».
Insomma, al momento nessuna soluzione pare vicina. Intanto il 15 ottobre – giorno dell’introduzione del green pass sui luoghi di lavoro – si avvicina, e la possibilità che queste persone non possano ottenere il passaporto sanitario nonostante siano vaccinate si fa sempre più concreta.
E se il raggiungimento della sostenibilità nel settore agro-alimentare passasse per la valorizzazione del patrimonio naturale? È un po’ questo il principio che definisce le cosiddette Aree agricole ad alto valore naturalistico (AVN). Un concetto, già introdotto negli anni ‘90, che però ha preso forma solo col passare degli anni. Oggi, queste sono riconosciute come quelle aree in cui “l’agricoltura rappresenta l’uso del suolo principale e mantiene, o è associata, alla presenza di un elevato numero di specie e di habitat naturali”. A partire dal secolo scorso, infatti, si iniziò a comprendere il forte legame tra agricoltura e biodiversità. E soprattutto, si prese consapevolezza dei vantaggi offerti da una convivenza armoniosa tra pratiche agricole e conservazione della natura. Al contrario, è proprio quando le une escludono l’altra, o viceversa, che emergono i problemi. Basti pensare alla Rivoluzione Verde e la conseguente industrializzazione agricola. Trascurando le dinamiche ecologiche, si puntò tutto sulla meccanizzazione e la chimica. Nel breve termine la produttività, effettivamente, aumento di molto, ma la dipendenza da input energetici e nutritivi esterni e la semplificazione dell’ambiente naturale presto fecero comprendere i limiti di tale approccio. Tuttavia, quella che oggi chiamiamo agricoltura convenzionale è perlopiù intensiva e lontana quindi da ogni canone della sostenibilità. Fortunatamente però, la morfologia del territorio ha rappresentato e rappresenta ancora una barriera naturale al diffondersi di pratiche agricole ad alta intensità. Rilievi collinari e montuosi, rispetto a distese pianeggianti, infatti, ospitano inevitabilmente un’agricoltura diversa. Dove le macchine non riescono ad arrivare, la natura rimane incontattata. Ed è in questo contesto che si collocano e trovano spazio le AVN.
Una volta tanto l’Italia è un paese guida
L’Italia, con oltre il 41% di territorio collinare, si fa custode indiscusso di queste aree, per le quali, proprio quando sembravano una realtà in via d’estinzione, l’interesse internazionale si è recentemente riacceso. In particolare, a livello europeo, grazie all’integrazione dei temi ambientali nella Politica Agricola Comune (PAC). Con tutte le contraddizioni del caso, le istituzioni mondiali hanno preso atto dell’importanza della biodiversità e degli ecosistemi naturali al fine di garantire equamente cibo sano per tutta la popolazione. Infatti, il sistema agricolo, a sua volta – e questo lo si è dimenticato per troppo a lungo – è esso stesso un ecosistema. Come tale, risponde alle dinamiche ecologiche e se isolato o semplificato allo stremo non potrà più assolvere alle sue funzioni. Da qui l’importanza delle AVN. Se coltivo pur mantenendo un certo grado di naturalità, è la stessa agricoltura a guadagnarci. Chiaro che sarebbe utopico pensare che l’intero Pianeta possa essere sfamato da tali realtà, ma che queste ispirino pratiche agricole su larga scala a minor impatto ambientale è possibile oltreché doveroso.
AVN: cosa sono? Quante sono?
Prima che servano da esempio, però, è necessario conoscerle approfonditamente. Quante sono? Come evolvono? Qual è lo stato in cui versano? Tentare di rispondere a questi quesiti, da quando è stata definita una metodologia comune, è proprio la direzione della comunità scientifica attiva sul tema. Nel 2010, la Rete Europea di Valutazione per lo sviluppo rurale per il calcolo degli indicatori di biodiversità associati all’agricoltura AVN ha stabilito tre approcci utili, innanzitutto, a stimarle quantitativamente. Da questi sono scaturite altrettante tipologie AVN: aree con un’elevata proporzione di vegetazione semi-naturale, come ad esempio pascoli naturali (tipo 1); aree con presenza di un mosaico composto da agricoltura a bassa intensità ed elementi naturali e strutturali, quali muretti a secco, nuclei di bosco o boscaglia, filari, piccoli corsi d’acqua (tipo 2); aree agricole che mantengono specie rare o un’elevata proporzione di popolazioni di specie di interesse conservazionistico a livello europeo, nazionale o regionale (tipo 3). Allo stato attuale, sulla base di questi criteri, la superficie agricola italiana è per il 51% potenzialmente AVN, di cui: 16% di tipo 1, 26% di tipo 2 e 9% di tipo 3.
Stima delle Aree agricole alto valore naturalistico in Europa (https://www.eea.europa.eu/data-and-maps/figures/estimated-high-nature-hnv-presence)
Un valore anche economico e culturale
La nostra Penisola, dicevamo, si conferma quindi territorio in prima linea nel rappresentare e, di conseguenza, tutelare, queste aree agricole. Per affinità socio-culturale, analogo discorso è però applicabile al resto d’Europa, specie alla zona mediterranea. Non a caso, sono proprio l’agricoltura tradizionale e il sapere culturale legato alla ruralità del luogo ad aver favorito l’affermarsi delle AVN. Caratteristiche che ancora oggi dominano i settori in cui queste aree persistono. Tuttavia, rispondere ai due restanti quesiti avanzati in precedenza porta inevitabilmente a sottolineare per queste una propensione all’abbandono e uno stato qualitativo non dei migliori. Un recente studio pubblicato su Land, al riguardo, ha cercato di valutare questa tendenza. I ricercatori afferenti ad università ed istituzioni della capitale spagnola, in particolare, hanno analizzato il legame tra perdita di AVN e fattori socio-economici.
«Nell’area di studio si evidenzia – scrivono gli scienziati – una significativa perdita di Aree agricole ad alto valore naturalistico legata all’interruzione della trasmissione del sapere ecologico e al declino degli usi e delle pratiche tradizionali. Ciò implica conseguenze negative per l’elevata diversità biologica che questi sistemi ospitano, nonché per l’identità culturale e socioeconomica delle popolazioni rurali presenti. La perdita di ruralità – spiegano – è principalmente legata al passaggio da un’economia basata sull’agricoltura a un’economia basata sui servizi e lo sviluppo urbano».
Perdita di terreni agricoli AVN a causa dell’intensificazione dell’agricoltura (https://www.eea.europa.eu/data-and-maps/figures/loss-of-hnv-farmland-due-1)
Il principio fallace della produttività
Quel che si osserva quindi è una tendenza ad una netta separazione tra ciò che è ‘naturale’ e ciò che è ‘culturale’. La necessità compulsiva di recuperare la naturalità dell’ambiente senza condizioni è, paradossalmente, lo stesso errore di chi decenni fa diede il via all’agricoltura industriale. In un paesaggio rurale culturalmente articolato è infatti illogico seguire l’approccio della sola conversione al ‘selvaggio’, specie laddove la millenaria co-evoluzione tra ecosistemi agricoli e naturali ha dimostrato che la convivenza tra questi, in un’ottica di sostenibilità, è possibile. Di contro, favorire qui un rimboschimento incontrollato e l’abbandono delle aree agricole tradizionali, porta inevitabilmente alla perdita di paesaggi culturali, alla diminuzione dell’eterogeneità paesistica, ad impatti negativi sulla biodiversità e ad un aumento dei conflitti uomo-fauna selvatica.
Ciononostante, fa ben sperare che le recenti politiche comunitarie e internazionali sembrino propendere ora verso sistemi agro-alimentari che includano l’ambiente naturale. Seppur in una prospettiva ancora zoppicante e insufficiente. La salvaguardia delle AVN è da considerarsi quindi prioritaria al fine di conservare la diversità bioculturale senza intaccare la produttività agricola, soprattutto alla luce del fatto che gli ettari da esse occupate sono tutt’altro che trascurabili: solo in Europa se ne stimano oltre 74 milioni. Laddove queste non esistono è possibile crearle o quantomeno trarvi ispirazione. Che lo si voglia o meno, la via della coesistenza uomo-natura potrebbe essere l’unica possibile.
Scade oggi, nel quindicesimo anniversario dalla sua uccisione, il termine di prescrizione per l’omicidio della giornalista Anna Politkovskaja. A renderlo noto è Novaja Gazeta, il periodico per il quale lavorava la giornalista russa. La redazione comunica che intende chiedere la riapertura delle indagini, affinché sia fatta giustizia. Politkovskaja, giornalista indipendente che indagava e denunciava i crimini del governo russo, è stata uccisa il 7 ottobre del 2006 con quattro colpi di pistola nell’ascensore del proprio condominio. Sebbene gli esecutori materiali siano stati condannati, non sono mai stati identificati i mandanti dell’omicidio.
La Defense Advanced Research Projects Agency, meglio nota come DARPA, è la branca del Pentagono dedicata alla ricerca e sviluppo, un organo di cui non si parla mai abbastanza, ma i cui laboratori sfornano costantemente nuovi approcci alla tecnologia capaci di rivoluzionare il mondo. Se non ci credete, vi basti sapere che la DARPA ha avuto una parte di spicco nella creazione di internet.
Ebbene, proprio i tecnici di questa sezione si stanno lanciando a piene risorse nella progettazione di mezzi automatizzati e in plotoni di robot da spionaggio, una direzione che il Governo statunitense ritiene essenziale per contrastare gli sforzi avversari, lodando ogni sforzo in tal senso al pari di un “imperativo morale”. Non per nulla è notizia di questi giorni che nel mese di novembre Fort Campbell, Kentucky, ospiterà una dimostrazione del programma OFFensive Swarm-Enabled Tactics (OFFSET), programma che mira ad assicurarsi che un singolo operatore possa controllare fino a 250 droni, volanti e non.
A mettersi in mostra sarà una delle più grandi multinazionali produttrici di armi, la Northrop Grumman, la quale vuole portare all’attenzione della Difesa americana il suo “ecosistema di sciami” facilmente governabile attraverso un tablet: pochi colpi di stilo e centinaia di mezzi autonomi sono pronti a raggiungere il bersaglio insinuandosi persino in vicoli e pertugi.
Perché una simile dimostrazione è rilevante? Nel marzo 2022 il contratto tra l’azienda e la DARPA giungerà al suo termine, dettaglio che va a suggerire che la prova prossima ventura sia pensata espressamente per impressionare l’esercito in vista di una futura collaborazione. Lo sciame di droni in questione non sarà magari particolarmente sofisticato, ma potrebbe scendere in campo nel giro di appena un semestre.
Per ora, lo strumento è pensato esclusivamente per la ricognizione, ma la consulente tecnica dell’azienda, Erin Cherry, non ha mancato di sottolineare che «non ci sono limiti» alle possibilità del sistema OFFSET e la ditta sta facendo il possibile per predisporre l’infrastruttura per integrare la realtà aumentata e algoritmi che siano capaci di gestire velivoli autonomi di grandi dimensioni.
Parallelamente, la DARPA si sta portando avanti il No Manning Required Ship un programma che, come si evince dal nome, è dedicato a creare navi capaci di esplorare i mari senza che a bordo vi sia alcun essere umano. In questo caso la progettazione è ancora ai primi passi – si sta ancora discutendo il design -, tuttavia l’idea è quella di permettere ai comandanti di «essere ovunque nello stesso momento», il tutto senza rischiare le vite degli uomini a stelle e strisce.
Mentre l’UE discute del quanto sia deontologico abusare di intelligenze artificiali e automatismi ai fini della sorveglianza, insomma, gli USA si omologano immediatamente agli autoritarismi che tanto dicono di disprezzare, accelerando la corsa alle armi piuttosto che offrire alternative democratiche.
Almeno 20 persone sono rimaste uccise e circa 300 ferite a causa del terremoto di magnitudo 5.7 nel Belucistan, a sud del Pakistan. L’epicentro si trova a circa 20 km di profondità, a 100 km dal capoluogo Quetta. La scossa è stata registrata nelle prime ore del mattino, mentre molte delle vittime dormivano. I soccorritori affermano che molte delle vittime sono bambini. Molti edifici sono stati danneggiati e almeno 100 abitazioni sono crollate, lasciando centinaia di persone senza casa. Il Pakistan è soggetto a fenomeni sismici anche di grande intensità, in quanto si trova al di sopra di due placche tettoniche che collidono frequentemente.
Zhang Zhan, una delle prime giornaliste ad essersi recate nella città di Wuhan per documentare lo svolgersi della pandemia, è ancora in carcere in grave condizioni di salute. Una coalizione di 45 ONG attive nella difesa dei diritti umani (tra le quali Amnesty e Reporters Sans Frontières) ha redatto una lettera per sollecitare il presidente cinese Xi-Jinping a concederne il rilascio insieme al decadimento delle accuse.
L’accusa ufficiale contro Zhang Zhan, per la quale è stata condannata a quattro anni di carcere, è di “aver provocato discussioni e problemi“. Si tratta di un’accusa infondata e vaga che, come riporta l’International Federation of Journalists, “spesso viene rivolta dalle autorità contro gli elementi critici del Partito Comunista Cinese”. Zhan si era recata a Wuhan, epicentro della pandemia, già nel febbraio 2020: qui aveva realizzato brevi video dove documentava lo svolgersi dei fatti nella città allora blindata. La sua iniziativa aveva infastidito il governo il quale, nel tentativo di mantenere un’unica narrativa ufficiale della gestione della pandemia, l’aveva fatta arrestare nel maggio 2020.
Le accuse contro di lei erano di diffondere falsa informazione attraverso i social media, nonché di trarne beneficio rilasciando anche interviste a media internazionali. Al processo Zhan si è dichiarata non colpevole ma il 28 dicembre è arrivata la condanna definitiva, dopo un processo durato appena tre ore. “La sua unica colpa è di aver dato voce all’angoscia delle famiglie delle prime vittime del Covid-19, che le autorità avevano attribuito a una ‘polmonite misteriosa’” scrive sul proprio sito Amnesty International.
Dal suo primo arresto nel maggio 2020 Zhan ha iniziato uno sciopero della fame, per protestare contro le infondate accuse rivolte nei suoi confronti. Il sistema carcerario ha proceduto con l’alimentazione forzata tramite cannula nasale, ma la salute fisica di Zhan è andata deteriorandosi sempre più. Nell’agosto 2021, in seguito a un peggioramento critico delle condizioni di salute, è stata ospedalizzata per 11 giorni e poi riportata in carcere. La sua famiglia, recatasi a visitarla in ragione delle precarie condizioni di salute, ha diffuso su alcune pagine social cinesi messaggi di profonda preoccupazione.
La Cina si configura come il Paese che detiene più giornalisti al mondo in prigione, almeno 122 secondo quanto riportato da Reporters Sans Frontières (ne abbiamo parlato anche qui). Di questi almeno dieci, insieme a Zhang Zhan, rischiano la morte. Tra di loro vi sono il reporter investigativo Huang Qi, vincitore del RSF World Press Freedom, l’editore svedese Gui Minhai e il giornalista ugiuro Ilham Tohti. Nel gennaio 2021 ha perso la vita a causa dei maltrattamenti in prigione Kunchok Jinpa, fonte importante per l’informazione sugli avvenimenti in Tibet. Liu Xiaobo, Nobel per la Pace nel 2010, e Yang Tongyang, blogger dissidente, sono entrambe morti nel 2017 in carcere, per cancro non trattato. La Cina si colloca 177ma su 180 Paesi nell’RSF World Press Freedom Index 2021, l’indice di calcolo della libertà di stampa (nel quale l’Italia occupa il quarantunesimo posto).
L’OMS ha dato il via libera al primo vaccino contro la malaria mai realizzato, che potrà salvare la vita a centinaia di migliaia di bambini nelle zone dell’Africa subsahariana. Il vaccino, creato dall’azienda farmaceutica GSK, agirà contro la variante P. falciparum, la più diffusa in Africa oltre che la più mortale. Con più di 260 000 vittime ogni anno, la malaria è tutt’oggi una delle cause primarie di mortalità tra i bambini dell’Africa subsahariana. Alcuni studi hanno mostrato che la somministrazione del vaccino potrebbe prevenire il contagio di 4.3 milioni di bambini sotto i cinque anni e 22 000 morti all’anno.
Il governo colombiano guidato da Iván Duque continua a incentivare le fumigazioni aeree con il glifosato per distruggere i raccolti di coca e portare avanti una forte campagna contro la droga.
Già a marzo scorso, però, più di 180 studiosi appartenenti a università statunitensi, colombiane e di altri paesi avevano scritto a Biden, (sostenitore della ripresa delle fumigazioni in Colombia, come il suo predecessore Trump) ricordando come l’uso del glifosato risultasse inefficace, costoso e devastante per la salute delle persone, le comunità agricole e gli ecosistemi (e inefficace a contrastare un’economia fortemente basata e radicata sulla produzione di coca).
Prima ancora, nel 2015, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) aveva definito l’erbicida glifosato come “probabilmente cancerogeno per l’uomo”. Non era della stessa opinione, invece, l’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti, che smentiva la pericolosità dell’erbicida.
Partiamo dal presupposto che la Colombia è il più grande produttore mondiale di cocaina, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC). Dato che dovrebbe spingere l’amministrazione a capire che, per condurre una battaglia solida e sicura contro gli stupefacenti, servirebbe un altrettanto solida strategia, in grado di fornire un’alternativa concreta a chi, con la coltivazione di coca, sfama una famiglia intera.
Parliamo di quegli agricoltori che utilizzano le piantagioni di coca come mezzo di sussistenza e che da un po’ di anni temono per la propria condizione economica, di salute e per un potenziale aumento della violenza nelle loro regioni, già piegate dalle bande criminali.
Le stesse bande che stanno invadendo grosse aree protette, esenti dall’utilizzo del glifosato, per trovare nuovi terreni coltivabili. Soprattutto dopo aver appreso da diversi studi scientifici che le fumigazioni con glifosato contaminano le riserve idriche rurali, danneggiano il suolo fertile e distruggono intere fasce di colture diverse dalla coca: insomma, rendono i campi sterili e inutilizzabili.
Ma Duque, con il sostegno americano, sembra determinato a portare avanti la sua personale guerra alla droga. Secondo le Nazioni Unite, il presidente avrebbe ridotto le colture destinate alla coca da 154.000 ettari nel 2019 a 143.000 ettari nel 2020. E il prossimo obiettivo è dimezzarle entro dal fine del 2023. Servendosi, in particolare, della fumigazione aerea, reputata dal governo più efficace: in questo modo potrebbero essere distrutti ogni giorno da 400 a 600 ettari di coca. Estensioni di terreno molto più ampie rispetto ai 170 ettari che si riuscirebbero ad eliminare manualmente.
Non è sbagliato portare avanti una campagna anti droga (seppur con metodi discutibili). È sbagliato, invece, pensare che combattere la coca in Colombia in questo modo significhi semplicemente tagliare le gambe ai grossi fornitori, alle multinazionali e alle bande di criminali. O meglio, non è solo così.
Molti agricoltori locali, impoveriti dagli ultimi accadimenti, affermano che la coca è l’unico modo per guadagnarsi da vivere, perché costerebbe di più coltivare e trasportare qualsiasi altro raccolto nelle città vicine. E non aiutano i lunghi ritardi burocratici: i finanziamenti voluti dal governo per l’istituzione di programmi alternativi alle colture di coca e l’eradicazione volontaria della coca impiegano anni ad arrivare. Come ribadiscono i gruppi in sostegno dei diritti umani ad Al-Jazeera, “tali sforzi saranno inutili se gli agricoltori nelle parti remote del paese non riceveranno un sostegno istituzionale a lungo termine dopo decenni di conflitto”.
L’aceto di mele è utilizzato da secoli come rimedio popolare per vari disturbi di salute. Si ottiene miscelando delle mele tritate con acqua e zucchero, e poi lasciando il composto a fermentare e macerare. Da questa fermentazione, una parte finale del prodotto sarà composta da una sostanza chiamata acido acetico.
Nonostante sia un alimento acidulo e dal sapore piuttosto classico, al contrario di prodotti più gustosi come l’aceto balsamico, l’aceto di mele è diventato incredibilmente popolare negli ultimi decenni, per il fatto che il suo utilizzo è stato messo in relazione con molti effetti positivi di salute, dall’eliminare le doppie punte dei capelli lunghi al trattamento dell’artrite fino all’aiuto nell’obesità e nel dimagrimento. Questi però sono più che altro gli aspetti messi in rilievo dalle mode pubblicitarie e dai trend salutistici basati sulla mitizzazione di cibi e sostanze, che vengono sfruttati a livello di marketing e profitto dalle aziende alimentari.
I reali benefici dell’aceto di mele
Ma quale, fra tutti questi claim pubblicitari (la parola inglese Claim significa “slogan, proclama”), semmai ne volessimo scegliere uno valido, è davvero accurato e supera lo scrutinio della prova scientifica? Ebbene, proprio di recente un programma televisivo della BBC inglese, chiamato Trust me, I am a doctor (“Fidati, sono un medico”) si è occupato di indagare la validità scientifica dei vari claim attribuiti all’aceto di mele. Il programma è condotto da due medici britannici, Michael Mosley e James Brown.
I due medici hanno indagato dapprima il claim che sembra godere di maggiore popolarità, ovvero quello secondo cui bere due cucchiai di aceto di mele, diluiti in acqua, prima dei pasti, possa contribuire a un maggiore controllo dell’assorbimento di zuccheri nel sangue, facendo dunque salire meno il valore della glicemia dopo il pasto. Per verificare l’attendibilità di questa affermazione, i due medici hanno reclutato un gruppo di volontari sani e hanno fatto loro mangiare due bagel al mattino dopo il digiuno notturno (il bagel è un panino a forma di ciambella col buco). Il livello della glicemia nel sangue è stato misurato sia prima che dopo l’assunzione dei panini, e come ci si aspettava, dopo l’assunzione vi è stato un rapido e copioso aumento della glicemia nel sangue dei partecipanti.
Il giorno successivo, i due medici hanno fatto mangiare nuovamente i due bagel ai partecipanti, ma stavolta gli hanno chiesto di bere prima due cucchiai di aceto di mele diluiti in un piccolo bicchiere d’acqua. Nei giorni successivi hanno ripetuto l’esperimento ma somministrando dell’aceto di malto anzichè l’aceto di mele.
Il risultato? L’aceto di mele, ma non l’aceto di malto, ha dimostrato di avere un grande impatto sui livelli di glicemia dei partecipanti, riducendo del 36% i livelli di glucosio nel sangue, dopo 90 minuti dal pasto, rispetto al pasto con i bagel senza aceto di mele. Questo effetto, è dovuto molto probabilmente all’acido acetico, il quale ha la facoltà di bloccare la scomposizione degli amidi (gli amidi dei panini) in zuccheri più semplici (glucosio). Ciò significa che assumere dell’acido acetico prima di un pasto ricco di carboidrati a base di farinacei, porterà come risultato a un minore assorbimento di zuccheri nel sangue. I due medici si aspettavano che anche l’aceto di malto svolgesse tale funzione ipoglicemizzante, ma nel loro piccolo esperimento ciò non si è verificato.
L’azione benefica sul colesterolo
Un secondo esperimento condotto dai due ricercatori, ha mirato a verificare altri supposti benefici dell’aceto di mele a favore della perdita di peso, della riduzione del colesterolo e della riduzione dei livelli di infiammazione (riduzione di sintomi che potrebbe apportare benefici e un miglioramento in patologie infiammatorie quali l’artrite reumatoide e l’eczema). A tale scopo sono stati reclutati 30 volontari sani, divisi in 3 gruppi. Al primo gruppo è stato chiesto di assumere 2 cucchiai di aceto di mele diluiti in 200 ml di acqua tutti i giorni prima di pranzo e cena. Al secondo gruppo, è stato chiesto di fare la stessa cosa ma con l’aceto di malto, e infine al terzo gruppo è stato dato un placebo consistente in una bevanda di acqua colorata.
Il risultato? Nessuno dei partecipanti ha perso peso. Sul fronte dell’infiammazione, sono stati misurati i valori della proteina C reattiva (PCR), un marker importante dell’infiammazione. Nessun cambiamento rilevante nemmeno in questo caso, sebbene in alcuni partecipanti che avevano assunto l’aceto di mele vi sia stato un lieve calo nel valore della PCR.
Tuttavia, nel test finale di misurazione dei lipidi nel sangue (colesterolo e trigliceridi), il dottor Brown ha rivelato che chi aveva assunto l’aceto di mele aveva ridotto il valore del colesterolo del 13% e per quanto riguarda i trigliceridi la riduzione era stata ancora più importante e ampia, mentre sia nel gruppo dell’aceto di malto che del placebo nessuna riduzione di colesterolo e trigliceridi si era verificata. Il dottor Brown ha affermato che la riduzione del colesterolo di una simile entità è stata davvero importante, perché potrebbe significare ridurre la probabilità di avere un infarto.
Dunque, l’aceto di mele non aiuterà probabilmente nessuno a dimagrire, ma potrebbe rivelarsi un validissimo aiuto naturale per le persone che hanno problemi di glicemia alta o di elevati livelli di colesterolo. Provate ad assumere questa bevanda, magari diluita in acqua prima dei pasti, e verificare gli andamenti della vostra glicemia.
Come scegliere e assumere l’aceto di mele
E’ importante che l’aceto non sia pastorizzato perché la pastorizzazione eliminerebbe la carica di batteri probiotici benefici per il nostro intestino, contenuti nell’aceto di mele. Si usa per condimento delle insalate, delle patate e dei secondi piatti, oppure si assume diluendo in un bicchiere di acqua 2 cucchiai di aceto. L’ideale è bere i 2 cucchiai diluiti in acqua appena prima di iniziare ogni pasto principale (il pranzo e la cena). La diluizione in acqua serve a mitigare la forte acidità dell’aceto a contatto con lo stomaco, che potrebbe dare problemi di bruciore o fastidi, specialmente in persone molto sensibili agli alimenti e alle bevande acide. Per scegliere un prodotto non pastorizzato, dovete leggere con attenzione l’etichetta e acquistare la bottiglia che riporta la dicitura “non pastorizzato” (vedi foto prodotto qui sotto).
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