lunedì 17 Novembre 2025
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COP26, multinazionali e governi alla fiera del greenwashing

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Greenwashing, termine molto sentito in questi ultimi anni, coniato già negli anni ’70 e che vede i primi procedimenti penali nel 2013. Il termine indica una “strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne il reale impatto ambientale negativo”. Una maschera verde utilizzata per ripulirsi l’immagine, illudere i cittadini e continuare a fare i propri interessi.

La messa in pratica ha forme innumerevoli. La più utilizzata è basare la comunicazione su una singola caratteristica green ed ignorare l’intero impatto del prodotto, falsando per ecologici prodotti che non lo sono. Dai risultati in tribunale è emerso che si tratta della pratica più utilizzata (negli USA nel 73% dei casi analizzati, in Inghilterra fino al 98%). Molte altre sono tuttavia le tecniche: false certificazioni (usando parole o immagini per dare l’impressione che ci sia un certificato di parte terza, inesistente); pure e semplici menzogne (famoso il caso di Eni, multata per 5 milioni dall’Antitrust per la pubblicità di ENIdiesel+, nella quale veniva dichiarato falsamente che con il carburante in questione le emissioni gassose sarebbero state ridotte del 40%).

Il greenwashing ai danni dei popoli inermi

Queste le modalità dirette e più ovvie. Tuttavia esistono altri tipi di greenwashing, più sommersi, e di conseguenza meno identificabili, solitamente usate da governi ed, a sorpresa, proprio da enti che si occupano d’ambiente. Infatti il loro reale e visibile impegno nel campo permette di attuare pratiche altamente dannose per l’ecosistema, senza che siano identificate come tali. Un’inchiesta tenuta da Survival International, organizzazione no profit senza finanziamenti governativi che tutela i diritti degli indigeni e la preservazione dell’ecosistema, ha recentemente denunciato il WWF. Secondo la loro indagine la celebre organizzazione ambientalista avrebbe violato i diritti umani del popolo Baka istituendo una riserva naturale nel loro territorio, cacciandoli e mettendo in atto azioni di violenza.

Ma questa è solo la punta dell’iceberg. La nuova campagna su cui si sta concentrando la multinazionale dell’attivismo ambiente mira a fare pressioni legislative per essere autorizzati a dichiarare i territori indigeni riserva naturale. Sulla carta sembra tutto molto “green”, quello che viene omesso è l’intenzione di cacciare con la forza i popoli sui territori ed aprire le riserve al turismo. Inutile sottolineare come questo danneggerebbe fortemente quelle terre, le ultime al mondo rimaste incontaminate, un vero e proprio polmone di sopravvivenza per la razza umana. Accuse forti, basate su interviste agli indigeni, a cui il WWF ha risposto con un comunicato stampa, dicendo che avrebbe mostrato tutta la cronologia della vicenda per fare chiarezza. L’intoppo? Il link rimanda ad una pagina inesistente. Tutto ciò appare surreale, ed è un perfetto esempio di quanto sommerso il greenwashing possa essere.

Usare i giovani che si battono per il pianeta

Anche i vertici internazionali hanno usato magistralmente questa pratica, indicendo la Youth4Climate: Driving Ambition. L’evento è teso a dare ai giovani, pomposamente definiti i “capi di Stato del futuro”, la possibilità d’elaborare proposte concrete sulle questioni più urgenti che riguardano l’agenda climatica e sulle negoziazioni della COP26 di Glasgow. Quasi 400 giovani (due per Paese) provenienti dai Paesi membri dell’UNFCCC (Convenzione Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) hanno avuto momenti di dialogo coi ministri presenti alla Pre-COP26 a Milano, presentando quattro punti chiave per contrastare i cambiamenti climatici, in attesa di presentare le proposte definitive a Glasgow. Sebbene possa sembrare una svolta nel panorama politico odierno, così non è stato. L’intervento, seguitissimo a livello mediatico, è stata una vera e propria campagna pubblicitaria per riabilitare l’immagine dei governi mondiali e vestirli di “green”. Sei giovani delegati, ben consapevoli di tale facciata, sono stati espulsi dal MiCo per essersi presentati con cartelli e cori “basta greenwashing”. «Siamo stati mandati via dall’incontro con Draghi. Ora la sicurezza ci tiene fuori, ci hanno preso i passaporti e ci hanno schedati» scrive su Twitter l’irlandese Saoi Ó Chonchobhair».

Il greenwashing del governo Draghi

Una pratica, quella del greenwashing, della quale si sta rendendo protagonista anche il governo italiano, definito da Draghi al momento dell’insediamento come il “primo governo ambientalista” al punto da nominare anche un ministero alla Transizione Ecologica, formalmente incaricato di verificare che gli investimenti siano in linea con gli obiettivi climatici. Lo stesso ministero che, alla prova dei fatti, in sede europea si mette di traverso contro lo stop ai combustibili fossili, che difende l’utilizzo del glifosato nell’agricoltura e che ha approvato sette nuovi progetti di trivellazione.

[di Erica Innisi – attivista di Fridays For Future]

Origine Covid: Cina esaminerà campioni di sangue prelevati nel 2019 a Wuhan

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La Cina si sta preparando ad esaminare fino a 200 mila campioni di sangue prelevati nel 2019 a Wuhan. A riportarlo è la Cnn, che cita un funzionario cinese, secondo cui ciò farebbe parte di un’indagine sull’origine del Covid-19. Nello specifico, secondo l’emittente televisiva statunitense i campioni di sangue sono conservati nel centro ematologico di Wuhan e tale modus operandi era stato sollecitato lo scorso febbraio dagli esperti dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms).

Open di Mentana fiancheggerà la censura di Facebook in Italia

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La notizia è stata diffusa il 12 ottobre dalle agenzie di stampa: Facebook Inc. ha annunciato l’ingresso di Open all’interno della sua squadra di “collaboratori indipendenti per il fact-checking”. La testata giornalistica fondata da Enrico Mentana si occuperà di monitorare i post pubblicati su Instagram e Facebook e sancire se si tratta di contenuti veritieri o menzogne: “Ogni volta che un fact-checker valuta un contenuto come falso – si legge nel comunicato – Facebook riduce la sua distribuzione, in modo che meno persone possano vederlo, e avvisa chi lo ha già visto sulla non correttezza. Applica inoltre al contenuto un’etichetta di avvertimento che rimanda all’analisi fatta del fact-checker”.

Open entrerà in un team che comprende 80 fact-checker in tutto il mondo e sarà il secondo incaricato di monitorare i post in lingua italiana andando ad affiancare la testata Pagella Politica che collabora a questo fine con le piattaforme di Mark Zuckerberg già dal 2018.

Facebook e Instagram negli ultimi mesi stanno incrementando la rimozione dei contenuti. Da maggio scorso i social in questione censurano non solo i contenuti verificati come falsi ma anche tutti quelli che “esprimo esitazione sui vaccini”, a prescindere dal fatto che poggino su notizie vere o false. Inoltre, pochi giorni fa, un rapporto pubblicato da Human Right Watch, ha messo in luce come le piattaforme di Zuckerberg abbiano sistematicamente penalizzato o rimosso i post che sostengono la parte palestinese nell’eterno conflitto contro l’occupazione israeliana. Particolare che fa intendere come la logica censoria di Facebbok Inc. sottostia anche a direttive politiche precise. Principi evidentemente arbitrari che dimostrano come la scure censoria delle piattaforme sia ben lungi dall’essere un meccanismo lucido ed oggettivo, come testimoniato anche dalla censura subita da L’Indipendente per un articolo in realtà rivelatosi perfettamente corretto e vittima di un’errore di valutazione dei “fact-checker indipendenti”.

Open da ora parteciperà a questa attività inquisitoria. E lo farà con un curriculum che – dal punto di vista della verifica delle notizie – non si è nemmeno dimostrato specchiato come si pretenderebbe da una testata che si prenderà l’onere di giudicare la deontologia degli altri. Ad esempio, nelle ultime settimane, ha costantemente sottostimato contro ogni evidenza delle immagini la partecipazioni a due manifestazioni contro il green pass a Roma, certificando “diverse centinaia” di manifestanti di fronte a una piazza San Giovanni pressoché gremita.

 

USA, gli indigeni assediano Biden per chiedere lo stop ai progetti fossili

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Decine di indigeni si sono riuniti di fronte alla Casa Bianca, nella giornata di ieri, per chiedere a Biden e alla sua amministrazione di smettere di finanziare l’industria dei combustibili fossili e dichiarare la crisi climatica un’emergenza nazionale. La giornata di lunedì è stata la prima di cinque che avranno luogo questa settimana, durante le quali indigeni provenienti da tutto il Paese manifesteranno di fronte alla residenza presidenziale a Washington.

Le proteste sono parte del movimento People v Fossil Fuel Protests, organizzate dal gruppo Build Back Fossil Free. Si è trattato di un raduno pacifico, con i manifestanti che ballavano, cantavano e pregavano, ma la polizia ha comunque fatto ricorso agli LRAD, macchinari acustici utilizzati per la dispersione della folla.

La protesta ha avuto luogo nel giorno del Columbus’ Day, giorno che Biden ha appena formalmente riconosciuto anche come Indigenous’ People Day, rispondendo alla necessità di promuovere un pensiero decolonizzato e l’equità razziale .L’Indigenous Environmental Network  (IEN) ha però denunciato la mancata corrispondenza tra promesse e azioni del Presidente, lamentando il mancato impegno nel rispettare la sovranità indigena sui propri territori e non agendo rapidamente per mitigare gli effetti che i cambi climatici dovuti all’azione estrattiva dei combustibili fossili hanno sulle comunità indigene.

“Le proclamazioni non cancellano la sorveglianza della polizia sugli Indigeni che lottano per le nostre terre e acque, i pestaggi e le incarcerazioni di coloro che cercano di fermare gli oleodotti, la fatturazione idraulica, l’estrazione di gas naturali, uranio e altre industrie estrattive che devastano i nostri ecosistemi e i nostri corpi e violano i nostri diritti”, si legge nella proclamazione dell’IEN.

La presidenza Biden ha in effetti ignorato le proteste degli indigeni contro il potenziamento da 9 miliardi di dollari dell’oleodotto Enbrudge, che collega la città di Alberta (in Canada) con il Wisconsin. 900 persone sono stati arrestati nel corso delle proteste, come denunciato dall’IEN, ma non è servito a fermare la messa in funzione dell’oleodotto a partire dal primo di ottobre.

Il Washington Post riporta diverse testimonianze dell’impatto che i cambiamenti climatici hanno sulla vita delle popolazioni indigene, come quella di Siqiñiq Maupin, direttore esecutivo di Sovereign Iñupiat for a Living Arctic, il quale afferma che in Alaska ben 12 villaggi rurali devono essere ricollocati su territori più asciutti. L’Alaska è lo Stato con il maggior numero di rifugiati climatici negli Stati Uniti, afferma Maupin, che ha anche aggiunto come nel suo villaggio le persone abbiano iniziato a sviluppare rare forme di cancro e asma. Pur essendo schierate in prima persona per la tutela le proprie terre da trivellazioni e costruzione di oleodotti e per la conservazione della biodiversità, gli effetti dei cambiamenti climatici si fanno sentire in modo devastante per le popolazioni indigene.

Biden ha fatto alcuni passi avanti rispetto ai predecessori nell’impegno alla lotta contro la crisi climatica. Rientrare negli accordi di Parigi, impostare ambiziosi obiettivi di riduzione dei gas serra, cancellare la costruzione di alcuni oleodotti sono piccoli passi verso un obiettivo più verde. Moltissimi indigeni, tuttavia, stanno pagando a caro prezzo il ritardo e l’insufficienza delle azioni del governo.

[di Valeria Casolaro]

L’allarme dei presidenti di Regione: con il green pass nelle aziende scoppierà il caos

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Allo stato attuale delle cose, con il Green Pass che dal 15 ottobre diventerà obbligatorio nei luoghi di lavoro, molte aziende potrebbero trovarsi in difficoltà, dato che un numero di lavoratori stimato tra 3,5 e 4 milioni è privo di vaccino e dovrà ottenere il green pass con il tampone. A lanciare per primo l’allarme è stato il governatore del Veneto, Luca Zaia, che in un’intervista ha affermato: «Non avete idea del caos che scoppierà nelle aziende il 15 ottobre, perché non saremo in grado di offrire a tutti i non vaccinati un tampone ogni 48 ore. Gli imprenditori con cui parlo io sono preoccupatissimi».

Nonostante il Veneto abbia un’alta percentuale di persone vaccinate (l’83% degli over 12 ha fatto almeno la prima dose), Zaia ha ricordato che i non vaccinati nella regione sono 590mila nella fascia compresa tra i 18 e i 69 anni ed ha in tal senso affermato: «Poniamo che la metà di loro lavori. Ebbene, noi in Veneto facciamo circa 50mila tamponi al giorno per i positivi e i loro contatti stretti, più altri 11mila nelle farmacie. Sono 60mila test. Dunque non c’è la capacità di controllare tutti i non vaccinati ogni due giorni». Inoltre ha aggiunto: «Se il Veneto non è in grado di garantire la capacità di test non ce la faranno neanche le altre Regioni, temo».

Proprio per questo, Zaia chiede al governo di «consentire di fare i test fai da te – ossia i tamponi nasali, certificati e diffusi in tutto il mondo – nelle aziende, con la sorveglianza delle imprese». Essi, inoltre, «se acquistati in grandi stock possono costare dai 4 ai 7 euro», mentre per ciò che concerne la durata dei tamponi il governatore ha aggiunto che nella Conferenza dei presidenti delle Regioni era stato «proposto di consentire di fare i tamponi ogni 72 ore».

In pratica secondo il governatore del Veneto bisogna correre assolutamente ai ripari, onde evitare che centinaia di migliaia di lavoratori possano perdere il lavoro non per colpa loro, ma per l’impossibilità produttiva di sottoporsi al test anti Covid. Si tratta di preoccupazioni condivise anche da Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli Venezia Giulia e della Conferenza delle Regioni, il quale in un’intervista rilasciata al quotidiano La Stampa ha dichiarato che le criticità sopracitate le ha «segnalate nell’ultima riunione con il governo», che per evitare il caos nei luoghi di lavoro «deve intervenire tempestivamente e consentire così alle imprese di organizzarsi».

Inoltre, per quanto riguarda le ipotesi di allungare la durata del tampone e ridurne il prezzo ha affermato che «bisogna considerarle con attenzione» e che «in altri Paesi europei la validità del tampone è già di 72 ore», mentre in merito alla proposta di autorizzare le imprese ad effettuare i test nasali rapidi fatta da Zaia, Fedriga ha dichiarato: «È sicuramente da valutare, del resto sono test già acquistabili in farmacia. Se si sceglie di percorrere questa strada, però, bisogna fare presto, perché il 15 ottobre è arrivato e le aziende non possono organizzarsi dall’oggi al domani».

Detto ciò, questi sono solo alcuni dei problemi derivanti dalla scelta del governo, che ha esteso senza pensarci due volte il lasciapassare ai lavoratori e non ha fatto i conti con una moltitudine di criticità. Ad esempio, se la situazione non dovesse cambiare, dal 15 ottobre migliaia di persone non potranno lavorare se non sottoponendosi al tampone, nonostante si siano vaccinate.

Inoltre, delle difficoltà vi saranno anche per gli autotrasportatori: come affermato dal presidente di Fai Liguria (Federazione Autotrasportatori Italiani), Davide Falteri, una percentuale variabile (tra il 20 e il 30%) degli autisti – che vengono anche da paesi in cui non è previsto l’utilizzo del Green Pass – non ha il lasciapassare, e «fare un tampone ad un autista che guida un mezzo pesante prima che si rechi in un porto o in una piattaforma logistica è complicato, dato che egli non potrebbe, ad esempio, parcheggiare in mezzo alla strada e recarsi in farmacia». Dunque, bisogna «trovare soluzioni concrete». Le stesse soluzioni concrete che il governo, dato il poco tempo a disposizione, probabilmente il 15 ottobre non avrà ancora fornito.

[di Raffaele De Luca]

Tamponi gratuiti per i portuali: i lavoratori di Trieste rifiutano e confermano lo sciopero

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A partire dal 15 ottobre, data in cui il Green Pass diventerà obbligatorio nei luoghi di lavoro, i portuali non sottostaranno alle classiche condizioni previste per ottenere il lasciapassare: le imprese che operano nei porti, infatti, dovranno cercare di mettere a loro disposizione tamponi gratuiti. È quanto previsto da una recente circolare, firmata dal Capo di Gabinetto del Ministero dell’Interno ed inviata ai prefetti, che rappresenta una prima vittoria per i tanti lavoratori portuali che nell’ultimo periodo si sono opposti al lasciapassare sanitario.

Nello specifico all’interno della circolare, diffusa dal magazine Shipmag, si legge che «nel corso di una riunione di coordinamento interministeriale convocata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri» è stata condivisa l’esigenza di procedere ad un «immediato monitoraggio dei dipendenti sprovvisti della certificazione». In tal senso, la conclusione alla quale si è arrivati è la seguente: «in considerazione delle gravi ripercussioni economiche che potrebbero derivare dalla paventata situazione anche a carico delle stesse imprese operanti nel settore, si è raccomandato di sollecitare queste ultime affinché valutino di mettere a disposizione del personale sprovvisto di Green Pass test molecolari o antigenici rapidi gratuiti».

In pratica, le imprese che operano nei porti dovranno chiedere ai propri lavoratori il Green Pass, ma possibilmente dovranno pagare i tamponi ai dipendenti privi di lasciapassare. Ciò evidentemente poiché i lavoratori privi di certificato verde avrebbero potuto compromettere l’operatività degli scali e mandare così in tilt un settore di fondamentale importanza, ossia quello dei trasporti. In tal senso la decisione del Viminale di emettere tale circolare è stata presa, con ogni probabilità, tenendo conto della presa di posizione dei lavoratori portuali, che ultimamente si sono schierati contro il lasciapassare sanitario.

Nello specifico, a far sentire la propria voce sono stati soprattutto i portuali di Trieste, che si sono mobilitati in maniera compatta, vaccinati e non, per esprimere il loro dissenso verso il Green Pass così come concepito, chiedendo quantomeno di rendere gratuiti i tamponi. Esso infatti è stato giudicato come una misura «non sanitaria», bensì «di discriminazione e di ricatto che impone a una parte notevole dei lavoratori di pagare per poter lavorare e che punta a dividere i lavoratori» Proprio per questo hanno deciso di protestare ad oltranza contro il certificato verde, rallentando «da subito le operazioni lavorative per segnalare concretamente il malcontento» e, nel caso, bloccandole il 15 ottobre «se dovesse entrare effettivamente in vigore l’obbligo di green pass per lavorare».

Per far sentire la loro voce, nell’ultimo periodo i portuali di Trieste sono anche scesi in piazza: il 2 ottobre, ad esempio, migliaia di persone tra cui i portuali hanno attraversato le vie del centro cittadino per protestare contro il Green Pass. Inoltre, nella giornata di ieri almeno diecimila persone hanno contestato tale misura, ed in testa al maxi corteo c’erano proprio i portuali. Anche in altre città però i portuali hanno condiviso la posizione di quelli di Trieste, come ad esempio a Genova, dove i lavoratori hanno manifestato gridando slogan quali «Trieste chiama, Genova risponde».

Si tratta dunque, come anticipato precedentemente, di una prima vittoria per i lavoratori portuali, ma non è detto che ciò basterà a far terminare la loro protesta. Proprio nella giornata di ieri, infatti, a Trieste una delegazione di lavoratori ha incontrato il Prefetto ribadendo la loro determinazione a lottare fino in fondo per il ritiro del Green Pass.

AGGIORNAMENTO: Il Coordinamento Lavoratori Portuali di Trieste ha rigettato l’offerta, ribadendo in un comunicato: “Noi come portuali ribadiamo con forza e vogliamo che sia chiaro il messaggio che nulla di tutto ciò farà si che noi scendiamo a patti fino a quando non sarà tolto l’obbligo del green pass per lavorare, non solo per i lavoratori del porto ma per tutte le categorie di lavoratori”.

[di Raffaele De Luca]

Ue annuncia un miliardo di euro in aiuti per Afghanistan

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La Commissione europea ha annunciato che saranno messi a disposizione un miliardo di euro in aiuti per il popolo afghano. In tal senso, la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha affermato tramite una nota che bisogna «fare tutto il possibile per scongiurare un grave collasso umanitario e socio-economico in Afghanistan» e che lo si deve «fare in fretta».

Fast fashion, la moda veloce corre troppo forte

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Qualche giorno fa gli attivisti di Extinction Rebellion, un movimento internazionale che chiama a raccolta soprattutto i più giovani, basato sulla nonviolenza e fondato in Inghilterra in risposta alla devastazione ecologica causata dalle attività umane, hanno preso d’assalto la passerella di Louis Vuitton. Lo scopo? Denunciare l’impatto che la moda sta avendo sui cambiamenti climatici. E quale miglior posto per farlo se non durante uno show della Fashion Week di Parigi. In pratica è andata così: mentre le modelle sfilavano qualcuno ha alzato un manifesto (lenzuolo) con la scritta “Consumo ecce...

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Grecia: scossa terremoto di magnitudo 6.3 a Creta

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In Grecia, sull’isola di Creta, questa mattina si è verificata una scossa di terremoto di magnitudo 6.3: a renderlo noto è stato l’ente di rilevazione greco. L’epicentro del sisma è stato registrato a largo delle coste meridionali dell’isola, precisamente 405 km a sud-est di Atene. Attualmente, però, fortunatamente non sono stati segnalati danni o feriti. Si tratta al momento di un resoconto differente, quindi, rispetto a quello della scossa di magnitudo 5.8 che lo scorso 27 settembre aveva colpito sempre l’isola di Creta: in quel caso, infatti, il terremoto aveva provocato un morto e dieci feriti.

Un’indagine conferma la censura social sui contenuti in favore della lotta palestinese

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“Facebook (e le piattaforme appartenenti alla stessa azienda) ha rimosso e soppresso ingiustamente i contenuti social dei palestinesi e dei loro sostenitori, inclusi quelli riguardanti gli abusi dei diritti umani compiuti in Israele e Palestina durante le ostilità del maggio 2021”. È quanto riportato da Human Rights Watch (HRW), secondo cui la piattaforma online ha rimosso ingiustamente e senza criterio i contenuti postati da decine di attivisti palestinesi (e non solo) in merito alle violenze commesse da Israele.

Deborah Brown, ricercatrice senior sui diritti digitali e sostenitrice di Human Rights Watch, dice che “la censura di Facebook minaccia di limitare una piattaforma fondamentale per la diffusione delle informazioni e l’impegno su questi problemi”.

Di fatto, nonostante Facebook abbia riconosciuto in parte i propri errori e tentato di correggerne alcuni (ripristinando, ad esempio, dei post eliminati o degli utenti bloccati), il risultato finale risulta essere insufficiente. Prima di tutto perché l’azienda non è in grado di fornire una spiegazione alle restrizioni attuate, né di fornire dati certi su quanto grande poi sia stata effettivamente la portata della censura.

Per fare alcuni esempi. Instagram ha rimosso una fotografia di un edificio a cui faceva seguito una didascalia con su scritto: “Questa è una foto dell’edificio della mia famiglia prima che fosse colpito dai missili israeliani sabato 15 maggio 2021”. In più la società ha anche impedito il repost (una ripubblicazione) di una vignetta politica ideata con lo scopo di far capire che i palestinesi sono oppressi e non combattono una guerra di religione con Israele.

Episodi che appartengono a un’escalation di violenza che si è riversata in alcune parti di Israele e nei Territori Palestinesi Occupati (OPT) a partire dallo scorso maggio. Periodo durante il quale molti palestinesi sono stati costretti a lasciare le loro case, manifestazioni pacifiche sono state soffocate nella violenza, molti luoghi di culto sono stati sfregiati, e una pioggia di missili ha ucciso indistintamente civili e militari. Una repressione giunta proprio quando, invece, c’era l’urgenza di comunicare, in tutti i modi possibili.

Pare che questi post siano stati rimossi perché contenenti “incitamento all’odio o simboli (che incitano all’odio)”, secondo Instagram. Il fatto che alcuni di essi, poi, siano stati ripristinati in seguito a segnalazioni e lamentele, dimostra però che qualcosa non funziona a dovere nei meccanismi di rilevamento dei social. E che spesso finiscano per prendere un grosso abbaglio. Abbaglio che in questo caso danneggia migliaia di persone: sopprimere dei contenuti impedisce di fatto che questi circolino. E rimetterli online dopo settimane non ha la stessa forza comunicativa che avrebbe avuto postarli nel momento giusto.

Secondo Human Rights Watch, oltre a rimuovere i contenuti in base alle proprie politiche, Facebook spesso si affida al volere dei governi. Il governo israeliano ha portato avanti una campagna molto aggressiva in favore della rimozione dei contenuti (a lui poco convenienti) dai social media. Stando a quanto sostenuto dall’ONG, l’Unità informatica israeliana, con sede all’interno dell’Ufficio del Procuratore di Stato, chiede a piattaforme come Facebook di rimuovere “volontariamente” i contenuti. In che senso? Invece di passare attraverso l’iter legale che prevede la presentazione di un’ingiunzione del tribunale (basata sul diritto penale israeliano) per eliminare i contenuti online, la Cyber ​​Unit fa appello direttamente alle piattaforme.

Motivo per cui la HRW ha consigliato a Facebook di commissionare un’indagine indipendente proprio sulla moderazione dei contenuti, ponendo particolare attenzione su quelli riguardanti il conflitto in questione. Tuttavia, dal momento che non è chiaro in che modo le moderazioni social vengano fatte e su quali criteri si basino, non è possibile stabilire con certezza quante segnalazioni provengano degli utenti, quante direttamente dai governi e quanto siano frutto di calcoli algoritmici.

Basandoci sui fatti reali, è pur vero, però, che l’America si è sempre schierata dalla parte di Israele e non sorprenderebbe che le politiche aziendali del paese facessero lo stesso.

[di Gloria Ferrari]