Questa mattina, un elicottero militare della missione di pace dell’Unione Africana in Somalia è precipitato all’aeroporto della capitale Mogadiscio. Subito dopo l’incidente, avvenuto mentre l’elicottero stava atterrando, è scoppiato un incendio, che è stato spento nelle scorse ore. L’elicottero trasportava otto passeggeri, tre dei quali sono riusciti a salvarsi prima del divampare delle fiamme; ignota la sorte degli altri cinque passeggeri. Dopo l’incidente, è stato reso noto che l’elicottero era di proprietà dell’esercito ugandese.
Cisgiordania: Israele accelera la pulizia etnica autorizzando la distruzione di Masafer Yatta

L’organizzazione palestinese I giovani di Sumud, che si batte per i diritti del suo popolo, ha lanciato un appello denunciando come Israele abbia autorizzato la demolizione dei 12 villaggi palestinesi di Masafer Yatta. La pulizia etnica in corso da decenni in questa parte della Cisgiordania rischia così di giungere a una svolta, che determinerà l’espulsione delle quasi 3000 persone che abitano questi villaggi.
«Il 18 giugno 2025, il Consiglio Superiore di Pianificazione di Israele ha emesso una direttiva per la Firing Zone 918 a tutti i suoi sottocomitati, autorizzando il rifiuto delle obiezioni alla demolizione e le procedure di pianificazione», riporta l’appello dei giovani di Sumud. «Questo avviso, che rimane non divulgato al pubblico, afferma che l’addestramento militare è ora richiesto in tutta la Firing Zone 918». Ciò implicherà il diniego di tutte le richieste di costruzione avanzate nell’area dai palestinesi, così come la dismissione di tutte le procedure legali aperte dalle comunità contro gli ordini di demolizione delle proprie case.
L’area di Masafer Yatta, come spiega a L’Indipendente M., attivista di ISM (International Solidarity Movement, il movimento internazionale che in Cisgiordania sta al fianco dei palestinesi nelle zone più a rischio di espulsioni e violenze), è stata proclamata Firing Zone 918 negli anni ‘80, dall’allora ministro nonché futuro primo ministro Ariel Sharon. Fu sua l’idea di rendere l’area un poligono militare per limitare «l’espansione dei residenti arabi di quelle colline». Lo stato ebraico da 40 anni usa la scusa delle esercitazioni militari per sgomberare e allontanare le comunità palestinesi che ci vivono, favorendo l’insediamento di coloni israeliani. «Ma con questo nuovo decreto militare stanno praticamente dando il via libera a demolire in massa Massafer Yatta», dichiara M.
Se prima il territorio era diviso in “wet zone” e “dry zone”, ossia in zone dove si svolgevano esercitazioni militari e altre dove i palestinesi potevano stare, ora tutto sarà considerato terreno di gioco dei militari israeliani. Di fatto, mandando via o rendendo impossibile la vita a chi vi abita, per costringerlo ad andarsene. «Questa mossa equivale alla pulizia etnica delle comunità indigene Masafer, tagliandole fuori dalle loro terre private, dalle zone di pascolo e dai mezzi di sostentamento di base,» denunciano ancora gli attivisti di Sumud. «Questo sta accadendo sotto la copertura della guerra con l’Iran, in palese disprezzo del giusto processo e dello stato di diritto. Lo Stato sta usando false affermazioni di “sicurezza” per giustificare la distruzione e lo sfollamento,» scrivono in un appello anche gli attivisti israeliani di The Village group, da anni presenti sul territorio.
Violenze all’ordine del giorno
Militari e coloni sono alleati nell’obbiettivo di allontanare le comunità palestinesi che da sempre vivono in quelle montagne. Gli attacchi dei coloni sono sistematici, e comprendono distruzione delle infrastrutture, furto di bestiame, violenze fisiche, minacce, incendi ai coltivi e ai mezzi di lavoro. Attacchi che sono addirittura aumentati dal 7 di ottobre, data la chiara politica del governo di Tel Aviv che spinge verso la colonizzazione totale della Cisgiordania e assicura tacitamente l’impunità a coloro che l’agiscono. Il braccio armato in divisa d’Israele, invece, si occupa delle demolizioni forzate delle abitazioni e di impedire che nuove case vengano costruite.
Molte famiglie sono costrette a vivere nelle grotte, come mostra anche il film-documentario No Other Land, vincitore quest’anno del premio Oscar, nel quale si racconta la realtà delle comunità palestinesi che vivono sulle montagne a sud di al-Khalil (Hebron). In poche immagini, il film descrive uno dei tanti esempi di violenza quotidiana nell’area: un soldato spara a un giovane ragazzo disarmato a cui avevano appena demolito la casa, rendendolo paralizzato dal collo in giù. Costretto a vivere in una grotta, data l’impossibilità di ricostruire nella zona “militare” per i palestinesi, muore a 26 anni dopo anni di sofferenze.
Con questa nuova direttiva, gli sgomberi e le demolizioni non faranno che aumentare. Inoltre, denuncia ancora M., «tutti gli outpost israeliani che sono stati creati dal 7 di ottobre – e che sono nelle stesse aree – nessuno li sta toccando e possono rimanere. Quindi, come al solito, la pratica è quella di mandare via la popolazione palestinese e favorire l’espansione delle colonie israeliane». M. racconta l’aumento delle violenze dell’ultimo periodo: «un paio di mesi fa hanno praticamente raso al suolo Khalet a-Dab’e, che è un villaggio proprio in mezzo all’area militare 918. Poi hanno cercato di demolire le tende nella quale si erano trasferiti i cittadini, che adesso vivono nelle cave e nelle grotte. I coloni hanno cercato di stabilire un avamposto, e andavano lì tutti i giorni… a Susya, un paio di mesi fa, l’esercito ha imposto una close military area (“un’area militare chiusa”) che durerà due anni, quando di solito questi sono ordini di 24 ore… anche lì i coloni hanno cercato di mettere un outpost di fronte a una delle case, che per ora è stato sgomberato, ma vanno quotidianamente ad attaccare le abitazioni, a distruggere le cisterne d’acqua, la rete elettrica, le varie infrastrutture. L’altro giorno hanno dato fuoco a una delle case a Susya. La situazione è terrificante. C’è veramente una forte spinta a mandare via le persone da Masafer Yatta».
Il movimento internazionale è oggi in difficoltà, data la forte repressione che anche gli attivisti stanno subendo nella zona. «Due attiviste di ISM sono state deportate poche settimane fa perché gli israeliani non vogliono che nessuno veda e nessuno parli di cosa succede», dice ancora M. «E pochi giorni fa anche due attivisti di Operazione Colomba sono stati detenuti. Chi è interessato a portare solidarietà ai palestinesi qui in Cisgiordania, è benvenuto. Servono volontari» conclude M.
Gli abitanti della zona hanno lanciato un appello internazionale per fermare le operazioni di demolizione e sfollamento. Chiedono attenzione, ma anche l’imposizione di sanzioni o altri meccanismi pertinenti che possano obbligare Israele a smettere di violare il diritto internazionale e fermare la pulizia etnica in Cisgiordania. E mentre a Gaza i massacri non si fermano, in Cisgiordania un’altra piccola Nackba continua. L’appello della popolazione di Masafer Yatta rischia di rimanere solo un altro grido che chiede giustizia lasciato cadere nel nulla.
Dopo 45 anni abbiamo la verità definitiva sulla Strage di Bologna
A 45 anni dalla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, costata la vita a 85 persone, la Corte di Cassazione ha chiuso il cerchio sulle responsabilità penali dell’eccidio, condannando definitivamente all’ergastolo Paolo Bellini, ex Avanguardia nazionale, come quinto esecutore materiale. Quest’ultimo è stato riconosciuto colpevole in concorso con gli ex NAR Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini, già condannati in via definitiva. Confermate anche le condanne per Piergiorgio Segatel (sei anni per depistaggio) e Domenico Catracchia (quattro anni per false informazioni al PM). Nel corso dei processi a Bellini e Cavallini, i giudici avevano già inquadrato come mandanti, finanziatori e organizzatori dell’attentato il numero uno della P2 Licio Gelli, il capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato, l’ex MSI Mario Tedeschi e il faccendiere Umberto Ortolani, tutti deceduti.
L’ultimo verdetto costituisce dunque una pietra miliare del percorso processuale sulla strage di Bologna, che ora, almeno per quanto concerne l’esecuzione materiale della strage, storicizza la colpevolezza di un quinto uomo. Nelle motivazioni della sentenza di appello i giudici avevano scritto che, dal quadro probatorio, è emersa «con assoluta certezza» la piena colpevolezza di Bellini «in ordine agli orrendi delitti a lui contestati». Bellini fu infatti ripreso il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna da un filmato amatoriale girato dal turista Harald Polzer, che ne ha attestato la presenza in loco pochi minuti dopo lo scoppio della bomba. Maurizia Bonini, ex moglie di Bellini, lo ha identificato come l’uomo ripreso dal filmato a camminare nell’area del binario 1 della stazione. Ulteriori testimonianze hanno poi indicato la presenza di Luciano Ugoletti, simpatizzante di estrema destra, «nelle immediate vicinanze della stazione subito prima dello scoppio della bomba», facendo emergere «la concreta possibilità» che Ugoletti avesse avuto come specifico compito quello di «sorvegliare l’auto del Bellini», parcheggiata nelle immediate vicinanze della stazione.
Il primo processo per la strage di Bologna iniziò nel 1987 e coinvolse oltre venti imputati, accusati di strage, banda armata, associazione sovversiva e calunnia aggravata. Tra loro figuravano esponenti dei NAR (Fioravanti, Mambro, Cavallini), di Avanguardia Nazionale (Delle Chiaie), della P2 (Gelli) e del SISMI (Musumeci, Belmonte, Pazienza). Dopo una complessa vicenda giudiziaria, la Cassazione confermò l’ergastolo per Fioravanti e Mambro come esecutori materiali dell’attentato. Gelli e Pazienza furono condannati a 10 anni per calunnia aggravata con finalità di terrorismo; Musumeci a 8 anni e 5 mesi e Belmonte a 7 anni e 11 mesi per aver eseguito i depistaggi. Tra il 1997 e il 2007 si svolse un secondo processo, che portò alla condanna a 30 anni dell’ex NAR Luigi Ciavardini, anche lui riconosciuto come esecutore materiale.
Nel 2017 si aprì un terzo processo a carico di Gilberto Cavallini, condannato all’ergastolo in via definitiva lo scorso gennaio per aver favorito gli altri attentatori fornendo loro rifugio, documenti falsi e un’auto. Proprio nella sentenza di appello di questo processo, i giudici hanno scritto che dietro alla strage di Bologna si sono «mossi in modo deviato, calunnioso e in spregio ai valori e alle istituzioni democratiche anche pubblici ufficiali che perseguivano proprie autonome strategie politiche, al di fuori di qualsiasi lecita investitura politico-istituzionale». Dai NAR, la sentenza ha infatti alzato la sua lente di ingrandimento sulla P2 di Licio Gelli e l’universo delle istituzioni deviate. «Può ritenersi che il Gelli – mettono nero su bianco i giudici – tramite i servizi da lui dipendenti e che a lui rispondevano, finanziò e attuò la strage, servendosi come esecutori di esponenti della destra eversiva (NAR, esponenti di Tp e per quanto da ultimo accertato dalla Corte d’Assise di Bologna, anche Avanguardia Nazionale)», trovando «terreno fertile in quei ragazzini che in quella fase avevano il convergente interesse, nella loro prospettiva ideologizzata, a disintegrare in radice le basi dello stato democratico». I depistaggi, chiariscono i giudici, vennero «posti in essere da appartenenti ai servizi (sia Sisde sia Sismi) tutti facenti parte della P2 o ad essa comunque collegati (Grassini, Santovito, Umberto D’Amato, Pazienza, Musumeci, Cioppa, Pompò, Belmonte), i quali tutti rispondevano direttamente o indirettamente a Gelli».
Anche la sentenza di secondo grado del processo Bellini si muove sulla medesima scia, attestando come il capo della P2 Licio Gelli sia «il consapevole finanziatore della strage di Bologna», circostanza che «spiega il movente dell’attività calunniosa e depistatoria da lui posta in essere, unitamente ad alti funzionari dello Stato, proprio in relazione alla strage di Bologna». La Corte ha sancito a chiare lettere che «i mandanti, gli organizzatori, i finanziatori ed alcuni degli esecutori materiali hanno agito con lo scopo di eversione dell’ordinamento democratico e di destabilizzazione delle istituzioni dello Stato». Tale verità è stata partorita per la prima volta nel 2020, quando la Procura generale di Bologna, nell’atto di conclusione delle indagini del processo appena terminato, aveva messo nero su bianco anche i nomi dei mandanti, finanziatori e organizzatori dell’attentato, oggi defunti. Licio Gelli e il suo braccio destro Umberto Ortolani sono stati indicati come i mandanti-finanziatori, mentre Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari riservati del Ministero degli Interni e lo storico direttore del giornale Il Borghese e senatore del MSI Mario Tedeschi, sono stati ritenuti mandanti-organizzatori.
Lucano è stato dichiarato decaduto
Il Tribunale di Locri ha dichiarato decaduto il sindaco Domenico Lucano, accogliendo la richiesta della prefettura di Reggio Calabria. La sentenza arriva in seguito alla condanna definitiva a 18 mesi per falso, emessa nell’ambito del processo Xenia sui presunti illeciti nella gestione dell’accoglienza delle persone migranti nella cittadina calabra. Lucano era stato assolto da tutte le altre accuse. Il sindaco ha annunciato che farà appello contro la decisione del Tribunale.
India, esplosione in fabbrica farmaceutica: almeno 39 morti
Si è attestato ad almeno 39 morti e 34 feriti il bilancio dell’esplosione e del successivo incendio in una fabbrica farmaceutica della Sigachi Industries, nello Stato indiano del Telangana. L’incidente, avvenuto lunedì, ha causato il crollo dell’intera struttura. I soccorritori sono ancora al lavoro per rimuovere le macerie e verificare la presenza di altri lavoratori intrappolati. Al momento dell’esplosione, all’interno si trovavano 108 persone. Le vittime saranno identificate con test del DNA. Le cause non sono state rese note, ma la produzione resterà sospesa per 90 giorni. Il governo ha annunciato un’indagine e compensi alle famiglie delle vittime.
Un’inchiesta dimostra che l’IDF ha sparato apposta sui palestinesi in fila per gli aiuti
«È un campo di sterminio». Sono queste le parole utilizzate da un soldato delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) per descrivere la attuale situazione a Gaza. La sua testimonianza è riportata, assieme a quella di molti altri militari, dal quotidiano israeliano Haaretz in una inchiesta in cui sostiene che «ai soldati dell’IDF è stato ordinato di sparare deliberatamente ai cittadini di Gaza disarmati in attesa di aiuti umanitari». Una pratica ormai consolidata e normalizzata, riportano le testimonianze, su cui nessuno, neppure gli ufficiali, sembrerebbe interrogarsi. La situazione sarebbe peggiorata notevolmente da quando la distribuzione degli aiuti è passata nelle mani della Gaza Humanitarian Foundation, i cui centri – quattro in tutta la Striscia – sono costantemente sorvegliati dai soldati israeliani. Dalla loro apertura, lo scorso 27 maggio Israele ha ucciso oltre 500 persone in fila per gli aiuti e ne ha ferite oltre 4.000.
Secondo le testimonianze raccolte da Haaretz, le IDF sparerebbero a chi arriva prima dell’orario di apertura dei centri per impedirgli di avvicinarsi, e dopo la loro chiusura per disperderli. Tale pratica, venduta ai soldati come se fosse un modo come un altro per mantenere l’ordine, verrebbe effettuata con ogni mezzo a disposizione: fucili, mortai, cannoni di carri armati, mitragliatrici, granate, cecchini. Diversi soldati riportano che i colpi di arma da fuoco e di artiglieria verrebbero scagliati direttamente verso i civili, anche se disarmati e a centinaia di metri di distanza. «Apriamo il fuoco la mattina presto se qualcuno cerca di mettersi in fila da poche centinaia di metri di distanza, e a volte lo attacchiamo da distanza ravvicinata», sostiene un soldato; «ma non c’è pericolo per le forze. Non c’è nemico, non ci sono armi». Il medesimo soldato afferma di non essere a conoscenza di nessun caso in cui dall’altra parte sia stato aperto il fuoco.
I quattro centri GHF sono gestiti da personale statunitense e palestinese, sono sorvegliati dalle IDF, e rientrano in un confine di sicurezza delimitato che si estende per diverse centinaia di metri. Il perimetro di sicurezza delle IDF include carri armati, cecchini e mortai. I centri aprono una sola ora al giorno, generalmente la mattina, ma da quanto riportano le testimonianze di Haaretz tale orario verrebbe cambiato spesso senza notificare per tempo i civili. «Non so chi prenda le decisioni, ma diamo istruzioni alla popolazione e poi o non le seguiamo o le modifichiamo», ha affermato un ufficiale. In questo primo mese di funzionamento dei centri, riporta la testimonianza, è successo che le IDF cambiassero in itinere l’orario di apertura dei magazzini, spostandolo di pomeriggio, e che i civili palestinesi si presentassero all’entrata durante i soliti orari mattutini.
Le testimonianze di Haaretz descrivono la pratica di sparare ai civili in fila per gli aiuti come una prassi «normalizzata». La pratica sarebbe talmente tanto radicata da avere preso il nome di “Operazione Pesce Salato”, un richiamo, spiega Haaretz, al nome ebraico del gioco “Un, due, tre, stella”. Un riservista sostiene che «Gaza è diventato un posto con le sue regole», in cui «la perdita di vite umane non significa nulla»; un altro riservista riporta di un episodio in cui sarebbero stati uccisi otto adolescenti; un alto ufficiale ha riportato di un altro episodio in cui i soldati avrebbero ucciso 10 persone, per «un ordine proveniente dall’alto». La pratica, effettivamente, sembra incoraggiata dagli stessi comandanti: un ufficiale che lavora nel centro settentrionale riporta che il capitano in comando, il generale di brigata Yehuda Vach, ordinerebbe frequentemente di aprire il fuoco contro i palestinesi in attesa degli aiuti per disperderli; un alto ufficiale conferma l’esistenza di «un’ideologia sostenuta dai comandanti sul campo, che trasmettono alle truppe come piano operativo», mentre una fonte militare sostiene che anche i vertici militari «parlano di usare l’artiglieria su un incrocio pieno di civili come se fosse normale».
Dall’apertura dei centri GHF, Haaretz ha registrato 19 occasioni in cui è stato aperto il fuoco vicino ai magazzini. Di questi, sostiene il quotidiano, non tutti sono riconducibili all’esercito, ma visto che le IDF controllano il perimetro sembra difficile individuare responsabili diversi dallo stesso esercito israeliano o dalle milizie a esso collegate. Le testimonianze parlano infatti anche di casi in cui ad aprire il fuoco sarebbero state le milizie di Yasser Abu Shabab, che farebbero addirittura parte delle squadre di supervisori palestinesi attive nei centri. Secondo un ufficiale, le IDF continuerebbero a sostenere il gruppo di Abu Shabaab e altre fazioni. «Ci sono molti gruppi che si oppongono ad Hamas – Abu Shabaab si è spinto ben oltre», ha detto. «Controllano territori in cui Hamas non entra, e le IDF lo incoraggiano».
A incentivare la pratica sarebbe, infine, anche la speculazione edilizia. Un veterano riporta che a Gaza opererebbero diverse ditte appaltatrici, incaricate di demolire le abitazioni dei palestinesi. Per ogni edificio abbattuto, sostiene il veterano, gli appaltatori otterrebbero 5.000 shekel, l’equivalente di circa 1250 euro. «Stanno facendo una fortuna. Dal loro punto di vista, ogni momento in cui non demoliscono case è una perdita di denaro». Gli appaltatori opererebbero dove vogliono, lungo tutta la linea del fronte. Di conseguenza, ha aggiunto il veterano, la campagna di demolizione degli appaltatori li porterebbe, insieme alle loro squadre di sicurezza, vicino ai punti di distribuzione o lungo le rotte utilizzate dai camion degli aiuti. E così «scoppia una sparatoria e delle persone vengono uccise». Eppure, «queste sono zone in cui ai palestinesi è permesso stare», spiega il veterano: per le ditte appaltatrici, insomma, «per guadagnare 5.000 shekel è considerato accettabile uccidere persone che cercano solo cibo».
Da spazio degradato a presidio di resistenza sociale: gli Orti Urbani di Livorno
La storia degli Orti Urbani di Livorno è una storia di presidio sociale, ambientale e culturale contro la speculazione edilizia e la cementificazione. Gli Orti Urbani sono una realtà di autogestione, di resistenza cittadina collettiva per la sostenibilità e la tutela del territorio, rappresentando un esempio concreto di restituzione di uno spazio degradato alla cittadinanza, con una forte attenzione alla trasparenza, all’inclusione e alla sostenibilità ambientale. A Livorno, come in tutta Italia, sono numerosi gli spazi e i terreni, sia pubblici che privati, lasciati in stato di abbandono da anni, alcuni comprendenti scheletri di edifici in cemento mai finiti. Gli Orti Urbani di Livorno si estendono su un’area di 6 ettari compresa tra via Goito, via dell’Ambrogiana, via dell’Erbuccia, via Corazzi e via da Verrazzano, in pieno centro cittadino, vicino al mare. Quest’area, che fino al 1973 era adibita a uso agricolo, è stata tramutata in area per servizi. Da quel giorno a oggi, la proprietà è passata nelle mani di ben 5 cooperative edili. Nessuno dei progetti presentati all’amministrazione comunale – impianti sportivi, centri commerciali, palazzi abitativi, strade e parcheggi – è mai partito. Di fatto, l’ultimo e unico uso per cui questo terreno è stato utilizzato è la coltivazione.
Da spazio abbandonato a realtà collettiva

Per 35 anni, un terreno situato in pieno centro a Livorno, storicamente adibito a coltivazioni e sottratto alla cittadinanza per realizzare opere mai avviate, è stato lasciato in completo stato di abbandono. Così, nel 2011, il Comitato Precari e Disoccupati di Livorno e i militanti della Ex caserma occupata decisero di ripulire l’ultima grande area verde del centro cittadino, ormai diventata una giungla di rovi e una discarica a cielo aperto, a non molta distanza dal mare e dalla famosa Terrazza Mascagni. La bonifica ha incluso la rimozione di rifiuti di ogni tipo, anche pericolosi – come l’amianto. Una volta che l’area è stata ripulita e che si sono formati i vari collettivi per la sua conservazione, è nata la diatriba con il Comune di Livorno. Quest’ultimo, quasi sfruttando il lavoro svolto da questi cittadini (e forse per impedire anche che prendessero piede iniziative dal basso, oltre a voler fare cassa), decise infatti di autorizzare la costruzione di opere nell’area. In questo modo il proprietario del terreno, che all’epoca era la Cooperativa Lavoratori delle Costruzioni (CLC), si trovò tra le mani un’area che acquisì un grande valore immobiliare, valutata tra i 3 e i 4 milioni di euro. Così partirono i nuovi piani di urbanizzazione e cementificazione. Il progetto, rimasto sostanzialmente invariato da allora, prevedeva, e prevede, la costruzione sul 20% dei 6 ettari di superficie totale dell’area. L’apertura del cantiere avrebbe però portato a chiudere tutta l’area, non solo la parte su cui si sarebbe edificato. E la storia rimane la medesima anche oggi.
Nel 2016, quando ormai gli Orti Urbani erano una realtà collettiva affermata che aveva spezzato la lunga storia di abbandono e degrado, la CLC provò a utilizzare la forza e inviò gli operai con le ruspe sul posto, recintando la zona per iniziare i lavori. Una volta arrivati, gli operai trovarono i membri dei vari collettivi intenti a piantare alberi proprio lungo la recinzione, frapponendosi in maniera pacifica tra la zona verde e le ruspe. Il tentativo della CLC fallì: gli operai, infatti, non vollero forzare la situazione e si astennero dal proseguire ogni azione di fronte a persone pacifiche che si opponevano a quelle grandi macchine con la piantumazione di alberi. Vari sono i cittadini, anche molto anziani, come il novantenne Franco, che hanno ricevuto una denuncia per quell’azione pacifica contro le ruspe. Nel 2023 furono tutti assolti. Mentre scriviamo, si attende la discussione in Consiglio comunale della petizione firmata da 1200 cittadini che chiedono che non si costruisca e che si ritorni all’uso agricolo dell’area, così da non permettere cementificazione e speculazione edilizia. La petizione è stata sottoscritta per opporsi alla prima asta pubblica per la vendita dell’area, presso il Tribunale di Livorno, per una base d’asta di quasi 2 milioni di euro.
Uno spazio restituito alla città e ai cittadini
I collettivi che formano gli Orti Urbani hanno sempre rifiutato i tavoli di concertazione con l’amministrazione comunale, rifiutando in toto i progetti di cementificazione da essa proposti. L’aumento di porzioni di terreno coperte da cemento, infatti, è legata in maniera diretta a problematiche quali le ondate di calore e l’incapacità del suolo di ricevere e trattenere acqua, con i conseguenti allagamenti in caso di piogge intense. Proprio a Livorno, negli ultimi anni, si sono verificate diverse alluvioni che hanno causato molti morti tra la popolazione, ma i piani dell’amministrazione comunale non sono cambiati.
Gli orti rappresentano uno spazio vissuto quotidianamente, aperto e senza barriere, che offre attività culturali, sociali e di aggregazione, coinvolgendo anche scuole e famiglie. L’area è attraversata da bambini che la usano come percorso sicuro da casa a scuola, evitando le trafficate strade livornesi e, soprattutto d’estate, ospita molte persone, tra cui mamme con figli che giocano e persone anziane che si riparano dal forte calore all’ombra degli alberi, conversando e fuggendo dalla solitudine casalinga.

Nell’area degli Orti Urbani ci sono circa 100 particelle, ciascuna assegnata a una o più persone. Il collettivo funziona tramite assemblea, dove tutte le decisioni vengono prese collettivamente, anche da chi non possiede un orto – che può partecipare a condizione di condividere i valori del progetto. Il collettivo ha come scopo principale la restituzione e la gestione condivisa del grande spazio verde, mantenendo attività aperte e collettive come il cinema gratuito, cene popolari e il mercato contadino con prodotti a chilometro zero, promuovendo autosufficienza, sostenibilità e riduzione degli imballaggi, oltre a incentivare l’uso di contenitori riutilizzabili.
Le attività degli Orti Urbani
Fin dall’inizio e ancora oggi, gli orti vengono assegnati in appezzamenti di circa 5 metri per 5. Ogni persona o gruppo deve prendersi cura del proprio pezzo di terreno, mantenendolo pulito e in ordine. Non è obbligatorio coltivare ma è fondamentale la manutenzione e la cura. Le assegnazioni degli orti avvengono tramite una pagina dedicata, seguendo l’ordine cronologico delle richieste, per evitare favoritismi o raccomandazioni. In caso di abbandono, le particelle vengono riassegnate secondo questa procedura trasparente. Gli orti sono irrigati con acqua di una sorgente naturale che passa sotto l’area. La cementificazione metterebbe a rischio questa preziosa risorsa.

Non tutti i 6 ettari sono stati parcellizzati ma, in virtù dei princìpi che hanno spinto all’occupazione del terreno, sono stati mantenuti anche grandi spazi comuni. Tra questi c’è l’area ristoro dove vengono organizzate feste, cene di autofinanziamento ed eventi culturali e dove vengono svolte le assemblee nelle quali viene decisa ogni cosa in maniera collettiva e democratica. Vi sono poi il cinema estivo (gratuito), spazi per praticare sport, il mercato contadino autogestito e molto altro. Questi spazi favoriscono la socialità e l’aggregazione intergenerazionale, tutto in maniera autogestita e volontaria.










