Gli Stati Uniti hanno annunciato l’approvazione di una vendita di armi dal valore di 1,33 miliardi di dollari alla Polonia. Nello specifico, il pacchetto prevede la vendita di 400 missili aria-aria a medio raggio con la relativa apparecchiatura di supporto. Esso è pensato per «migliorare la capacità della Polonia di affrontare le minacce attuali e future» e per rafforzare «il contributo polacco ai requisiti della NATO». La vendita arriva sullo sfondo di un generale aumento delle spese militari da parte della Polonia, che ha annunciato che l’anno prossimo prevede di raggiungere la soglia di spesa destinata alla difesa del 5% del PIL.
A 50 anni dalla guerra, il Vietnam paga ancora le conseguenze delle armi chimiche USA
Si è celebrato ieri in Vietnam il cinquantesimo anniversario della fine della guerra del Vietnam, una delle guerre più lunghe e cruente del Novecento, in cui persero la vita circa tre milioni di vietnamiti e 60.000 soldati americani e i cui effetti si ripercuotono ancora oggi, a causa dell’utilizzo di armi chimiche. Combattuto tra il Vietnam del Nord, guidato dal regime comunista, e il Vietnam del Sud, Stato filoccidentale sostenuto prima dai francesi e poi dagli USA, il conflitto – durato dal 1955 al 1975 – è finito con la sconfitta delle forze filoccidentali guidate dagli americani e portò alla riunificazione del Paese il 30 aprile del 1975, in quella che il capo comunista dello Stato del sud-est asiatico, To Lam, ha definito ieri una «vittoria della fede» e della «giustizia sulla tirannia». Tuttavia, a ben cinquant’anni di distanza dalla fine della guerra, i vietnamiti pagano ancora le conseguenze del coinvolgimento statunitense nel conflitto, sia a causa delle migliaia di ordigni inesplosi, sia per via della contaminazione ambientale provocata dalle armi chimiche sganciate dall’esercito americano su quasi tutto il Paese. Secondo le stime del governo vietnamita, gli ordigni inesplosi hanno ucciso circa 40.000 persone dal 1975, mentre quasi cinque milioni di persone sono state esposte a composti tossici e decine di migliaia sono state uccise.
Oggi l’anniversario commemora la riunificazione del Paese, avvenuta il 30 aprile del 1975, quando il Vietnam del Nord conquistò Saigon, l’allora capitale del Vietnam del Sud, in seguito ribattezzata Ho Chi Minh City, dal nome del fondatore del movimento Viet Minh, movimento di resistenza al colonialismo francese in Indocina nato nel 1941. In onore dello storico evento, si è tenuta una grande parata a Ho Chi Minh City: «il Vietnam è uno, il popolo vietnamita è uno. I fiumi possono prosciugarsi, le montagne possono erodersi, ma questa verità non cambierà mai», ha dichiarato il segretario del Partito Comunista e capo del Paese. Contro ogni previsione, il Vietnam del Nord riuscì a resistere alla potenza di fuoco dispiegata dall’esercito americano: per impedire la riunificazione del Paese da parte dei comunisti del Nord, infatti, Washington impiegò un’enorme quantità di forze terrestri, aeree e navali, ma i Viet Cong, sostenuti dalla popolazione del Sud e dal supporto sovietico e cinese, alla fine ebbero la meglio. Una vittoria e una riunificazione ottenute però a un prezzo altissimo in termini di violenza e di sangue, le cui conseguenze vengono scontate ancora oggi dalla popolazione vietnamita. Nonostante dal 1925 il Protocollo di Ginevra vieti l’utilizzo di armi chimiche, infatti, gli Stati Uniti utilizzarono nel Paese del sud est asiatico due tipi di queste armi: le bombe al napalm e l’agente arancio.

Le armi chimiche sono prodotti chimico-tossici che, vaporizzati su persone, ambiente e animali, sono in grado di causare la morte, una temporanea incapacità fisica o danni permanenti. Sono oggi considerate armi di distruzione di massa e sono bandite dal diritto internazionale in virtù della Convenzione sulle armi chimiche. Secondo fonti ufficiali americane, tra il 1961 e il 1971, gli Stati Uniti sganciarono sul Vietnam più di 70 milioni di litri di agente arancio, nell’ambito di un progetto militare chiamato Operazione Ranch Hand. Questo tipo di sostanza è tra le più pericolose tra quelle che vengono impiegate nelle armi chimiche, in quanto non solo causa danni immediati, ma ha effetti anche sulle generazioni successive. Resta, infatti, nell’ambiente per molto tempo, infiltrandosi in fiumi, stagni e continuando a impattare sull’ecosistema anche per un secolo: contaminando la produzione agricola e gli animali entra nel cibo e crea danni all’organismo umano. Non a caso, l’agente arancio, che deriva il suo nome dal colore dei barili in cui era contenuto, è stato associato all’alta incidenza di aborti spontanei, cancro, problemi cognitivi e dello sviluppo anche fino alla quarta generazione successiva a quella effettivamente esposta. Durante la guerra era stato impiegato per distruggere le piantagioni nemiche e la vegetazione dove si nascondevano i Viet Cong. Similmente, il napalm era usato per dare fuoco alle foreste dove si nascondevano i guerriglieri del Vietnam del Nord: ciò che lo rende particolarmente letale è la sua consistenza di gel appiccicoso che aderisce bene all’obiettivo su cui è sganciato raggiungendo temperature molto elevate.
Sebbene dopo la guerra gli Stati Uniti finanziarono diverse operazioni di bonifica, vaste aree del Vietnam sono ancora contaminate. Gli USA che spesso accusano – per demonizzarli agli occhi dell’opinione pubblica occidentale – Stati rivali per l’utilizzo di armi chimiche, sono in realtà tra i primi ad avere fatto un uso massiccio e indiscriminato di queste armi. Nel contesto della guerra in Siria, ad esempio, Washington non ha esitato a accusare strumentalmente l’ex regime di Bashal al-Assad dell’utilizzo di armi chimiche, un utilizzo che non è mai stato comprovato. La potenza a stelle e strisce ha normalizzato i rapporti diplomatici con Hanoi nel 1995, approfondendo i legami nel 2023 con una visita nella capitale vietnamita dell’ex presidente Joe Biden. Il Paese del Sud-est asiatico ha però mantenuto stretti legami anche con la Russia, che è il suo principale fornitore d’armi, e con la Cina, che investe molto nella sua economia. Ma oltre all’aspetto economico-politico e diplomatico, uno dei più gravi problemi che il Vietnam si ritrova ancora oggi ad affrontare resta quello delle conseguenze sull’ambiente e sulla salute di migliaia di persone provocate dalle armi chimiche sganciate dagli Stati Uniti.
Dl Sicurezza, Regioni compatte contro il governo per tutelare la filiera della canapa
La Commissione Agricoltura della Conferenza delle Regioni ha approvato all’unanimità, il 29 aprile, un ordine del giorno che chiede al governo di apportare pesanti modifiche (se non di eliminare del tutto) l’art. 18 del nuovo decreto Sicurezza, il quale mette fuori legge coltivazione, trasformazione e vendita di infiorescenze di canapa a basso tasso di THC. Si tratta di un settore, sottolinea la Commissione, che conta 3 mila aziende e 30 mila addetti. Le conseguenze dell’art. 18 potrebbero dunque avere un impatto devastante su tutta la filiera.
L’allarme era già stato lanciato da Canapa Sativa Italia, Confagricoltura, Coldiretti e Filiera Italia, i quali avevano dichiarato che il decreto avrebbe potuto paralizzare l’intero comparto, mettendo migliaia di aziende nell’incertezza proprio alla vigilia della stagione agricola. Tuttavia, il governo ha scelto di tirare dritto. Il paradosso, sottolinea Federico Caner, coordinatore della Commissione politiche agricole della Conferenza delle Regioni, è che la norma va a impattare e penalizzare solamente il made in Italy, in quanto i medesimi prodotti possono ugualmente essere importati dall’estero, secondo quanto previsto dalla normativa europea. E il danno è ingente, se si considera che, tra fatturato, indotto e asset immobilizzati, il patrimonio stimato si aggira intorno ai 2 miliardi di euro. Per questo motivo, prosegue Caner, «nelle prossime ore partirà dalla Commissione Politiche Agricole una lettera al ministro Lollobrigida» al fine di chiedere «di valutare la revisione dell’articolo 18 del testo di legge» e «permettere l’utilizzo delle infiorescenze di canapa contenenti cannabidiolo anche per usi diversi dal florovivaismo professionale».
Intanto, le associazioni di settore non si arrendono e annunciano ricorsi a livello nazionale ed europeo. Tuttavia, fino alla sospensione o all’annullamento del decreto, chiunque decidesse di proseguire l’attività compirebbe atti di disobbedienza civile, con rischi e conseguenze annessi. Sul fronte politico, +Europa ha annunciato un referendum abrogativo, chiedendo a tutte le forze di minoranza di unirsi nella raccolta firme per contrastare una norma giudicata tanto irragionevole quanto dannosa per l’economia, la libertà d’impresa e la coerenza giuridica. Per tutto il mese di maggio, inoltre, sono previste proteste dei negozianti, che culmineranno il 31 maggio in una grande manifestazione contro il decreto.
Gli scienziati hanno messo in dubbio le attuali teorie sull’origine dell’acqua sulla Terra
Al contrario di quanto si pensava in precedenza, la Terra primordiale potrebbe aver contenuto una quantità nativa di idrogeno maggiore rispetto a quanto stimato finora e ciò, di conseguenza, suggerirebbe che il nostro pianeta potrebbe essere stato già “umido” al momento della sua formazione. È la teoria proposta da un gruppo di ricercatori dell’Università di Oxford, dettagliata in un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Icarus. Analizzando una roccia spaziale chimicamente simile alla Terra primitiva, i ricercatori hanno rilevato elevate concentrazioni di idrogeno legato allo zolfo e ciò, spiegano, contrasta l’idea finora prevalente secondo cui l’acqua sarebbe arrivata da asteroidi idratati in un secondo momento. «Abbiamo dimostrato che il materiale che ha formato la Terra conteneva già idrogeno e ossigeno», commentano, aggiungendo che la scoperta non implica necessariamente che la vita avrebbe potuto svilupparsi prima, ma che potrebbe, d’altra parte, ribaltare le teorie sulla distribuzione dell’acqua nel Sistema Solare.
L’origine dell’acqua sulla Terra è da tempo oggetto di dibattito. Secondo l’ipotesi dominante, essendo formata in una zona interna e calda del Sistema Solare, la Terra non poteva contenere acqua in origine, e l’elemento sarebbe stato quindi “importato” più tardi da asteroidi e comete provenienti dalle zone esterne, in un processo considerato fortuito e caotico. Tuttavia, negli ultimi anni alcune misurazioni hanno iniziato a suggerire che le condriti enstatitiche — meteoriti isotopicamente simili alla Terra — potessero contenere più idrogeno del previsto, anche se vi era un problema: l’idrogeno rilevato poteva essere dovuto a contaminazione terrestre. Per superare questo ostacolo, quindi, i ricercatori hanno utilizzato una tecnica avanzata, la spettroscopia XANES (X-ray Absorption Near Edge Structure), condotta presso l’acceleratore di particelle Diamond Light Source, per mappare in dettaglio la distribuzione dell’idrogeno legato allo zolfo all’interno del meteorite LAR 12252, raccolto in Antartide.
Secondo i risultati ottenuti, la matrice fine del meteorite contiene mediamente quasi dieci volte più acido solfidrico rispetto ai condruli – piccole sfere vetrose tipiche di queste rocce – e, secondo gli esperti, questa forma di idrogeno associata alla pirrotina e intrappolata in vetro siliceo non può essere spiegata con l’alterazione terrestre. «La probabilità che questo acido solfidrico provenga da contaminazione è molto bassa», commentano i coautori, aggiungendo che i picchi di idrogeno osservati suggeriscono che fosse già presente nei minerali che hanno formato la Terra e che la presenza d’acqua, quindi, possa essere stata una conseguenza naturale del processo di accrescimento del pianeta. Si tratterebbe di una ricerca che apre interrogativi simili riguardanti anche altri pianeti come Marte e Mercurio secondo i ricercatori, anche se altri scienziati hanno invitato la cautela chiedendo di soffermarsi prima sulla conferma di risultati sulla Terra: Matt Genge, infatti, planetologo non coinvolto nello studio, ha sottolineato che il meteorite ha trascorso centinaia di migliaia di anni in Antartide, rendendo impossibile escludere del tutto l’origine terrestre dell’idrogeno. D’altra parte però, il coautore James Bryson ha risposto che secondo le stime «solo il 15% dell’idrogeno totale rilevato potrebbe essere dovuto all’acqua terrestre», aggiungendo che lo studio, in conclusione, rilancia l’idea che l’acqua del nostro pianeta possa non essere un dono del caso, ma il risultato inevitabile della sua stessa origine.
Repubblica Democratica del Congo: l’esercito viene evacuato da Goma
Centinaia di soldati e agenti di polizia della Repubblica Democratica del Congo rifugiatisi nella base delle Nazioni Unite di Goma stanno venendo trasferiti a Kinshasa. A dare la notizia è il Comitato Internazionale della Croce Rossa, che ha affermato che scorterà agenti e soldati, ora disarmati, verso la capitale. I soldati si erano rifugiati all’interno della struttura dopo la presa di Goma da parte dei ribelli dell’M23 avvenuta lo scorso gennaio. Dopo mesi di scontri in cui l’M23 è riuscito a conquistare le maggiori città dell’area orientale del Paese, M23 e RDC hanno siglato una tregua temporanea.
Gaza: 60 giorni senza cibo né acqua, per l’ONU è “catastrofe umanitaria”
Oggi, mercoledì 30 aprile, è scattato il sessantesimo giorno consecutivo di blocco totale dell’entrata degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza, imposto da Israele. L’UNRWA continua a rimarcare la drammatica situazione alimentare in cui versa la Striscia, sottolineando che alcune famiglie mangiano «quello che riescono a trovare, anche quando non è più sicuro. Le scorte di base si esauriscono, i bisogni aumentano», i servizi hanno cessato di funzionare e, negli ultimi giorni, 52 persone — tra cui 50 bambini — sono morte di fame. Intanto, la protezione civile ha annunciato di aver terminato il carburante per alimentare i propri veicoli, mentre negli ospedali mancano i materiali di consumo e i farmaci necessari a centinaia di migliaia di pazienti. Il tutto arriva sullo sfondo di un’intensificazione degli attacchi, che non risparmiano nemmeno il personale umanitario internazionale: dal 7 ottobre, sono stati uccisi almeno 295 operatori delle Nazioni Unite.
La situazione umanitaria a Gaza è più critica che mai. Per quanto riguarda l’emergenza alimentare, il Programma Alimentare Mondiale, dopo aver annunciato la chiusura di tutti i propri panifici, ha dichiarato di aver ormai terminato le scorte di cibo per le famiglie. Il 25 aprile, il PAM ha consegnato le ultime scorte alimentari rimanenti alle cucine della Striscia di Gaza, mentre la maggior parte degli altri magazzini nella Striscia sono già chiusi da tempo. Nel frattempo, il prezzo dei beni alimentari è aumentato a dismisura, con la farina che ha raggiunto i 72,60 dollari al chilo (contro i 6,70 dollari al chilo di ottobre 2023) e l’olio i 12,60 dollari al litro (prima di ottobre 2023 il prezzo era di 1,90 dollari al litro). Secondo l’ultimo aggiornamento dell’ONU, negli ultimi cinque giorni, 10 cucine comunitarie sono state costrette a chiudere o a diminuire il contenuto dei pasti erogati. Le cucine riescono a fornire un solo pasto caldo al giorno, che tuttavia non copre appieno il fabbisogno nutrizionale dei cittadini e riesce a raggiungere solo la metà delle persone in bisogno. Se le cucine comunitarie sono costrette a bruciare pallet di legno per compensare la mancanza di carburante, i cittadini che provano a cucinare per sé stanno facendo ricorso alla combustione dei rifiuti e dei resti di cibo deteriorati, aumentando il rischio di problemi sanitari.
Proprio la mancanza di carburante è uno dei tanti problemi che stanno vivendo gli ospedali, le strutture sanitarie e la protezione civile di Gaza. A essa si aggiunge quella di medicinali, apparecchiatura medica e pezzi di ricambio per ambulanze e generatori. In totale, si stima che oltre 150.000 persone abbiano bisogno di dispositivi di assistenza, che risultano completamente assenti nella Striscia. L’Ufficio umanitario delle Nazioni Unite ha dichiarato che l’87% dei materiali medici di consumo necessari per gli interventi chirurgici ortopedici e il 99% dei medicinali utilizzati per la cateterizzazione cardiaca sono attualmente esauriti. Il vaccino a rotazione per i bambini è totalmente esaurito, la quarta dose di vaccino per la poliomielite, che sarebbe dovuta essere garantita ai bambini di Gaza proprio in questo mese, è stata sospesa, mentre «una grave carenza di attrezzature mediche continua a ostacolare il supporto all’assistenza materna e neonatale».
A tutti questi problemi si sommano quelli igienico-sanitari, idrici, educativi, logistici, delle infrastrutture elettriche, dei rifugi, delle telecomunicazioni, e gli innumerevoli maltrattamenti giornalieri. In occasione dell’apertura dei cinque giorni di udienze consultive relative agli obblighi di Israele nella Striscia, tenutasi il 28 aprile presso la Corte Internazionale di Giustizia, Elinor Hammarskjöld, consulente legale dell’ONU, ha sottolineato che dal 7 ottobre 2023 sono stati uccisi almeno 295 membri del personale umanitario delle Nazioni Unite. In totale, secondo l’ultimo bollettino dell’Ufficio umanitario, sono stati uccisi 418 operatori umanitari e 110 lavoratori della protezione civile. Diversi, invece, sono stati arrestati. Solo il personale UNRWA prelevato da Gaza e trattenuto nelle carceri conta oltre 50 operatori che hanno riferito al direttore dell’agenzia, Philippe Lazzarini, di aver subito «minacce» (a loro e alla loro famiglia), «umiliazioni» e «maltrattamenti», e di essere stati «picchiati», «usati come scudi umani», «sottoposti a privazione del sonno», «attaccati dai cani» e «costretti a confessare» cose di cui erano accusati».
Nel frattempo continuano anche i bombardamenti. Solo oggi, Israele ha ucciso 21 persone, di cui 8 in un bombardamento su un edificio effettuato presso il campo di Nuseirat. Israele ha distrutto o danneggiato il 92% delle case (l’ultimo aggiornamento risale a prima del cessate il fuoco del 19 gennaio), l’82% delle terre coltivabili (i dati più recenti sono di ottobre 2024), l’88,5% delle scuole (dato del 25 febbraio 2025) e, in generale, il 69% di tutte le strutture della Striscia (1 dicembre 2024). Il 59% del territorio della Striscia risulta sotto ordine di evacuazione o interdetto ai civili. In totale, dall’escalation del 7 ottobre a oggi, l’esercito israeliano ha inoltre ucciso direttamente almeno 52.365 persone, anche se il numero totale dei morti potrebbe superare le centinaia di migliaia, come sostenuto da un articolo della rivista scientifica The Lancet e da una lettera di medici volontari nella Striscia.
Il costo ambientale nascosto dell’insalata in busta
Abbiamo già parlato in un articolo di qualche tempo fa dell’insalata in busta e mostrato come questo prodotto si caratterizza per la perdita di nutrienti ed un costo di circa otto-dieci volte superiore del prodotto fresco. Nell’articolo di oggi vogliamo soffermarci sul fatto che queste insalate rappresentano in realtà anche uno dei prodotti meno sostenibili che troviamo al supermercato.
Sebbene questo tipo di prodotto presenti numeri e statistiche di vendita sempre in aumento, come tutti i cibi già sbucciati e confezionati (quali gli spicchi di arancia o le uova sode, già confezionati nella plastica), va sottolineato che la messa in commercio di tali prodotti comporta un prezzo salato che noi tutti paghiamo. Parliamo, ovviamente, di costi negativi ambientali e sociali a carico della collettività.
Boom di serre in Meridione
La provincia di Salerno è ormai diventata la seconda regione in Europa ad avere la maggiore concentrazione di serre e coltivazioni industriali, dopo quella gigantesca e mostruosa della regione di Almeria nel sud della Spagna (irraggiungibile con i suoi 26 mila ettari di serre), chiamata «Mar de plastico» ovvero il mare di plastica per la sua spaventosa estensione. In Italia comunque non siamo da meno, in quanto tra le serre della Lombardia, del Veneto, e quelle della Piana del Sele, in provincia di Salerno, le tre aree italiane più grandi per la coltivazione dell’insalata di quarta gamma ovvero quella in busta, abbiamo raggiunto più o meno la stessa estensione in ettari dell’Almeira.
Basta andare nella provincia di Salerno, tra Eboli e Battipaglia per rendersene conto. Se si attraversano i viadotti dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria quest’area sembra un’unica palude di plastica con 7000 ettari di serre, in cui crescono le nostre insalatine e rucole disponibili tutto l’anno, una produzione tra l’altro fortemente sostenuta dai fondi europei che finanziano al 70% la costruzione delle serre o il 90% se sono destinate al BIO (sulla verdura biologica coltivata in serra ci sarebbe da affrontare l’argomento a parte).
Accanto alle serre del salernitano ci sono poi anche gli stabilimenti per la lavorazione perché ovviamente l’insalata non cresce pulita e imbustata, ma va lavata e lavorata. Quanta acqua si consuma per lavare queste verdure? Secondo Slow Food parliamo di una quantità compresa tra i 5 e i 10 litri per chilo di prodotto prima del taglio, a cui se ne devono aggiungere altri 3-4 litri dopo il taglio. All’acqua utilizzata dobbiamo aggiungere il costo energetico della refrigerazione delle celle lungo la catena del freddo fino ad arrivare ai potenti frigo nei supermercati, che a loro volta hanno un ulteriore costo energetico e ambientale da sopportare.
E poi c’è la confezione di plastica. Il consumatore spende ameno dieci euro al chilo per avere l’insalata pronta e soprattutto per il confezionamento di plastica, in alcuni casi due confezioni per prodotto, ovvero vaschetta più involucro di copertura. Involucri che finiscono nella spazzatura. Tra imballaggi, confezioni e bottiglie di plastica i numeri sono impressionanti: in Italia ogni anno vengono prodotti circa 40 chili di rifiuti di plastica a persona. A livello globale – secondo i dati dell’ OECD (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) – se ne consumano circa 500 milioni di tonnellate.
Problemi ambientali e dissesto idrogeologico
Nel Salernitano la prima conseguenza di questa esplosione di impianti di lavorazione delle insalate di IV gamma è innanzitutto idrogeologica, dal momento che la serricoltura contribuisce all’impermeabilizzazione del terreno e quindi acuisce i problemi di alluvioni ed esondazioni resi già cogenti da impianti di deflusso refluo piuttosto vetusti. La situazione è diventata così critica che ha spinto il Consorzio di bonifica in Destra del fiume Sele a inserire dei paletti ben precisi per la diffusione degli impianti fissando dei tetti alle costruzioni che oscillano, in base alle caratteristiche del territorio, tra il 50 ed il 70% degli ettari disponibili.

Ma nonostante questi paletti la piana di Salerno continua ad essere molto ambita, per la sua naturale fertilità e le condizioni ottimali di clima e umidità per far crescere le verdure, attirando imprenditori e aziende della Lombardia che hanno già impianti per la produzione di insalate in busta (IV gamma) al Nord e adesso arrivano in Campania per aprire nuovi impianti, più redditizi di quelli del Nord fra l’altro, perché la produttività e la resa nella zona di Salerno è doppia rispetto a quella della Lombardia. «I costi per l’acquisto di un ettaro – precisa Carmine Libretto, direttore Confagricoltura Salerno – oscillano tra i 100mila e i 300mila euro per ettaro mentre l’affitto va dai 3000 ai 6000 euro annui per ettaro. Il vantaggio per i produttori lombardi che vengono a coltivare orticole di IV gamma sono le favorevoli condizioni climatiche che di fatto raddoppiano la produttività. Per la rucola, ad esempio, se in Lombardia si fanno massimo 4 tagli l’anno, qui da noi si arriva a farne anche otto».
Tra gli ortaggi e verdure più coltivate in questa area ci sono pomodoro (oltre 740 ettari per più di 547 mila quintali l’anno), lattuga (mille ettari per 320 mila quintali l’anno) e rucola, 1.200 ettari per 60 mila quintali a taglio. Ma si producono anche carota, radicchio, ravanello e valeriana. Con questo trend di crescita la provincia di Salerno è destinata a scippare il primato produttivo per la IV gamma alla Lombardia che fino a poco tempo fa era al primo posto con il 31% degli ettari coltivati, seguita con il 30% dalla Campania, Veneto (11%) e Toscana(8%). E in tutto ciò c’è chi millanta grandi prospettive di crescita per l’occupazione con l’assunzione di tanti lavoratori, ma se è vero che devono essere impiegate molte persone per lavorare questa verdure di IV gamma, resta da vedere quanto sia regolare, onesta e ben retribuita questa occupazione, e se non vi siano invece anche in questo caso sfruttamento della manodopera e condizioni retributive non idonee.
Inutile dire che da anni si sono levate voci che denunciano già lo sfruttamento dei braccianti in questa zona, chiamata anche «la California d’Italia» per la ricchezza della sua agricoltura e per i “prodotti di eccellenza” dei suoi comparti. Il problema dello sfruttamento dei lavoratori e del caporalato nella Piana del Sele è noto da anni anche ai nostri Ministeri dell’Agricoltura e dell’Interno e ultimamente si cerca di porvi un freno, come si può leggere nelle dichiarazioni ufficiali sul sito del Ministero dell’Interno stesso. Ma se devo essere onesto, leggendo il documento del ministero, è difficile capire la differenza, da parte delle nostre autorità politiche, di integrare in maniera corretta i migranti che arrivano dall’Africa, o piuttosto di sfruttarli come manodopera a basso costo di gestione, inserendoli immediatamente al loro arrivo in Italia in queste zone di lavoro massacrante (Piana del Sele e altre zone agricole intensive in Italia).
Alla fine di tutto, quello che mi chiedo e vi chiedo è: ma davvero dobbiamo pagare un prezzo così alto in termini ambientali per avere un sacchetto di rucola o valeriana pronta all’uso (che non fa nemmeno bene alla salute)? Ma costa davvero così tanto tempo e fatica lavare e asciugare un cespo di lattuga fresca? Una onesta analisi costi-benefici mostra chiaramente come stiamo percorrendo una strada del tutto sbagliata.
Filippine-Nuova Zelanda: firmato accordo di difesa
Filippine e Nuova Zelanda hanno firmato un accordo per rafforzare la cooperazione nel settore della difesa. L’accordo consente ai due Paesi di schierare truppe sui rispettivi territori e intende facilitare la collaborazione tra gli eserciti. I rapporti tra Filippine e Nuova Zelanda sono sempre più serrati: l’anno scorso Wellington ha partecipato per la prima volta a esercitazioni marittime congiunte con le Filippine, Stati Uniti, Australia e Giappone nel Mar Cinese Meridionale, dove Manila e Pechino si scontrano da anni portando avanti distinte rivendicazioni territoriali. Nel 2026, inoltre, è prevista la trasformazione dei rapporti diplomatici tra i Paesi in un partenariato globale.
Meloni incontra Erdogan e rafforza la cooperazione su armi, energia e migrazione
Il presidente turco Erdoğan e i suoi ministri sono stati accolti a Roma da Giorgia Meloni per il IV vertice intergovernativo Italia-Turchia. L’incontro ha sancito un rilancio dei rapporti bilaterali: superata la soglia dei 30 miliardi di dollari di interscambio, l’obiettivo ora è 40. Al business forum tenutosi all’Hotel Parco dei Principi, che ha visto la partecipazione di oltre 620 aziende, è emersa la volontà di rafforzare la cooperazione su economia, energia, difesa, telecomunicazioni e migranti. Sono state firmate oltre dieci intese economiche tra i due Paesi, tra cui un accordo tra l’italiana Leonardo e la turca Baykar per i droni militari che prevede la nascita di una joint venture con sede in Italia. Sul Medio Oriente, Meloni ha ribadito il sostegno a una «transizione democratica» in Siria e ha espresso scetticismo sulla tregua unilaterale russa in Ucraina.
Il IV vertice Italia-Turchia si è tenuto ieri, martedì 29 aprile. Al termine della sessione plenaria si è tenuta la cerimonia di firma degli accordi e sono state rilasciate le dichiarazioni congiunte alla stampa. Nelle dichiarazioni, i Paesi parlano di iniziative commerciali, nel settore dei trasporti, nella cooperazione di impresa, e di collaborare negli ambiti culturale, sportivo e sociale. Le questioni cruciali, tuttavia, sono quattro: energia, migrazione, geopolitica e difesa. Per quanto riguarda l’ambito energetico, Italia e Turchia intendono rafforzare l’approvvigionamento di gas mediante il Corridoio Meridionale del Gas. Nella dichiarazione, inoltre, i Paesi dicono di volere «rafforzare la cooperazione per garantire la sicurezza delle catene di approvvigionamento di minerali critici e terre rare», e quella «nelle infrastrutture per le energie rinnovabili, l’efficienza energetica, l’idrogeno e il gas naturale». «Le Parti», infine, «hanno concordato di esplorare possibili modalità di ulteriore cooperazione, anche in progetti congiunti nel settore petrolifero e del gas nei rispettivi Paesi e in Paesi terzi».
Per quanto riguarda la questione migratoria e della lotta ai crimini internazionali, Italia e Turchia si impegnano a collaborare nella «lotta al terrorismo» e ai «crimini digitali», anche attraverso la cooperazione in ambito giuridico: «Le Parti», si legge nella dichiarazione, «hanno concordato di coordinare i loro sforzi per rafforzare la cooperazione giudiziaria in materia di estradizione, assistenza giudiziaria reciproca, trasferimento delle persone condannate e protezione dei minori». Sul piano geopolitico, invece, hanno parlato di Libia, Medio Oriente e Ucraina. Per ciò che concerne la Libia, «confermano il loro impegno a sostenere un processo politico di proprietà e guida libico, con la facilitazione delle Nazioni Unite, con l’obiettivo di preservare la sicurezza, la stabilità, la sovranità, l’integrità territoriale e l’unità politica della Libia». Riguardo alla Siria, «hanno espresso la loro determinazione a sostenere la ripresa economica e la ricostruzione della Siria», suggerendo possibili investimenti e l’allentamento delle sanzioni. Sull’attuale situazione a Gaza, hanno lanciato un appello perché venga ristabilito il cessate il fuoco e «confermato il loro sostegno a una soluzione a due Stati con uno Stato di Palestina indipendente che viva fianco a fianco con Israele in pace e sicurezza, in conformità con le pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite». Sull’Ucraina, infine, «le Parti hanno confermato il loro incrollabile sostegno all’integrità territoriale, alla sovranità e all’indipendenza dell’Ucraina», e hanno rilanciato gli investimenti nei progetti di ricostruzione del Paese. A tal proposito, Meloni ha sottolineato che la pace di tre giorni proposta da Putin «è tutt’altra cosa rispetto a quello che è necessario».
Riguardo i settori di difesa e sicurezza, le parti hanno annunciato che la 14a Riunione di Cooperazione per l’Industria della Difesa si terrà nel 2025. Proprio la cooperazione in difesa e sicurezza risulta essere una delle più dense di iniziative. Nell’ambito di tali settori è stato ratificato l’Accordo di massima tra Leonardo e Baykar Technologies, già firmato dalle due aziende lo scorso 6 marzo. Esso prevede l’istituzione di una joint venture dal valore di 100 miliardi di dollari per la produzione di droni. I siti Leonardo interessati dalle attività sviluppate dalla Joint Venture saranno quelli di Ronchi dei Legionari (Friuli), centro specializzato nel settore droni; Torino (Piemonte) e Roma Tiburtina, rispettivamente per gli aspetti produttivi e lo sviluppo di tecnologie integrate multi-dominio; e Nerviano (Lombardia) per le soluzioni congiunte offerte per il settore spaziale.
In generale, i rapporti tra l’industria bellica italiana e quella turca risultano sempre più serrati. Leonardo e Baykar sono attualmente impegnate nello sviluppo e nella produzione di ulteriori droni, sistemi elettronici, carichi utili, C4I (comando, controllo, comunicazioni, computer e intelligence), intelligenza artificiale, sistemi di missione integrati, e apparecchiature e servizi spaziali, anche nell’ottica dello sviluppo di sistemi interoperabili. Nel gennaio di quest’anno, l’Amministratore Delegato di Leonardo, Roberto Cingolani, ha visitato uno stabilimento turco di Baykar allo scopo di «cercare sinergie» con la linea di droni dell’azienda, incluso il Bayraktar TB2, utilizzato nei conflitti in Libia, Nagorno-Karabakh e Ucraina. In quell’occasione, le due aziende hanno discusso di una potenziale collaborazione per implementare i droni Baykar dotandoli di radar dell’omologa italiana. Il mese precedente, Baykar ha comprato la produttrice italiana Piaggio Aerospace, operazione sulla base di cui, secono le parole del ministro del Made in Italy Adolfo Urso, si dovrebbero sviluppare «altri accordi di partnership tecnologica e industriale tra i nostri campioni, quindi tra Baykar e Leonardo, per rafforzare gli stabilimenti italiani e la partnership tra le due grandi aziende in Europa».
Trump riduce i dazi sulle componenti di auto
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per alleggerire i dazi sulle componenti automobilistiche. L’ordine, nello specifico, esenta tali prodotti dalle altre tariffe imposte dal presidente, come quelle su acciaio e alluminio o sui prodotti esteri. Lo scorso aprile, Trump aveva annunciato dazi del 25% su tutti i prodotti del settore automobilistico in entrata, suddividendoli in due categorie: una tariffa, entrata in vigore il 2 aprile, riguarda i veicoli importati, mentre un’altra, che entrerà in vigore il 3 maggio, colpisce le componenti automobilistiche. La Casa Bianca ha precisato che la modifica non avrà alcun effetto sui dazi del 25% sui veicoli importati.