venerdì 7 Novembre 2025
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Somalia, cade un elicottero ugandese

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Questa mattina, un elicottero militare della missione di pace dell’Unione Africana in Somalia è precipitato all’aeroporto della capitale Mogadiscio. Subito dopo l’incidente, avvenuto mentre l’elicottero stava atterrando, è scoppiato un incendio, che è stato spento nelle scorse ore. L’elicottero trasportava otto passeggeri, tre dei quali sono riusciti a salvarsi prima del divampare delle fiamme; ignota la sorte degli altri cinque passeggeri. Dopo l’incidente, è stato reso noto che l’elicottero era di proprietà dell’esercito ugandese.

Cisgiordania: Israele accelera la pulizia etnica autorizzando la distruzione di Masafer Yatta

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[Campi recintati e non più coltivabili dagli aitanti palestinesi di un villaggio di Masafer Yatta, con colonia di sfondo (credit Filippo Zingone)]

L’organizzazione palestinese I giovani di Sumud, che si batte per i diritti del suo popolo, ha lanciato un appello denunciando come Israele abbia autorizzato la demolizione dei 12 villaggi palestinesi di Masafer Yatta. La pulizia etnica in corso da decenni in questa parte della Cisgiordania rischia così di giungere a una svolta, che determinerà l’espulsione delle quasi 3000 persone che abitano questi villaggi.

«Il 18 giugno 2025, il Consiglio Superiore di Pianificazione di Israele ha emesso una direttiva per la Firing Zone 918 a tutti i suoi sottocomitati, autorizzando il rifiuto delle obiezioni alla demolizione e le procedure di pianificazione», riporta l’appello dei giovani di Sumud. «Questo avviso, che rimane non divulgato al pubblico, afferma che l’addestramento militare è ora richiesto in tutta la Firing Zone 918». Ciò implicherà il diniego di tutte le richieste di costruzione avanzate nell’area dai palestinesi, così come la dismissione di tutte le procedure legali aperte dalle comunità contro gli ordini di demolizione delle proprie case.

L’area di Masafer Yatta, come spiega a L’Indipendente M., attivista di ISM (International Solidarity Movement, il movimento internazionale che in Cisgiordania sta al fianco dei palestinesi nelle zone più a rischio di espulsioni e violenze), è stata proclamata Firing Zone 918 negli anni ‘80, dall’allora ministro nonché futuro primo ministro Ariel Sharon. Fu sua l’idea di rendere l’area un poligono militare per limitare «l’espansione dei residenti arabi di quelle colline». Lo stato ebraico da 40 anni usa la scusa delle esercitazioni militari per sgomberare e allontanare le comunità palestinesi che ci vivono, favorendo l’insediamento di coloni israeliani. «Ma con questo nuovo decreto militare stanno praticamente dando il via libera a demolire in massa Massafer Yatta», dichiara M.

Se prima il territorio era diviso in “wet zone” e “dry zone”, ossia in zone dove si svolgevano esercitazioni militari e altre dove i palestinesi potevano stare, ora tutto sarà considerato terreno di gioco dei militari israeliani. Di fatto, mandando via o rendendo impossibile la vita a chi vi abita, per costringerlo ad andarsene. «Questa mossa equivale alla pulizia etnica delle comunità indigene Masafer, tagliandole fuori dalle loro terre private, dalle zone di pascolo e dai mezzi di sostentamento di base,» denunciano ancora gli attivisti di Sumud. «Questo sta accadendo sotto la copertura della guerra con l’Iran, in palese disprezzo del giusto processo e dello stato di diritto. Lo Stato sta usando false affermazioni di “sicurezza” per giustificare la distruzione e lo sfollamento,» scrivono in un appello anche gli attivisti israeliani di The Village group, da anni presenti sul territorio.

Violenze all’ordine del giorno

Militari e coloni sono alleati nell’obbiettivo di allontanare le comunità palestinesi che da sempre vivono in quelle montagne. Gli attacchi dei coloni sono sistematici, e comprendono distruzione delle infrastrutture, furto di bestiame, violenze fisiche, minacce, incendi ai coltivi e ai mezzi di lavoro. Attacchi che sono addirittura aumentati dal 7 di ottobre, data la chiara politica del governo di Tel Aviv che spinge verso la colonizzazione totale della Cisgiordania e assicura tacitamente l’impunità a coloro che l’agiscono. Il braccio armato in divisa d’Israele, invece, si occupa delle demolizioni forzate delle abitazioni e di impedire che nuove case vengano costruite.

Molte famiglie sono costrette a vivere nelle grotte, come mostra anche il film-documentario No Other Land, vincitore quest’anno del premio Oscar, nel quale si racconta la realtà delle comunità palestinesi che vivono sulle montagne a sud di al-Khalil (Hebron). In poche immagini, il film descrive uno dei tanti esempi di violenza quotidiana nell’area: un soldato spara a un giovane ragazzo disarmato a cui avevano appena demolito la casa, rendendolo paralizzato dal collo in giù. Costretto a vivere in una grotta, data l’impossibilità di ricostruire nella zona “militare” per i palestinesi, muore a 26 anni dopo anni di sofferenze.

Con questa nuova direttiva, gli sgomberi e le demolizioni non faranno che aumentare. Inoltre, denuncia ancora M., «tutti gli outpost israeliani che sono stati creati dal 7 di ottobre – e che sono nelle stesse aree – nessuno li sta toccando e possono rimanere. Quindi, come al solito, la pratica è quella di mandare via la popolazione palestinese e favorire l’espansione delle colonie israeliane». M. racconta l’aumento delle violenze dell’ultimo periodo: «un paio di mesi fa hanno praticamente raso al suolo Khalet a-Dab’e, che è un villaggio proprio in mezzo all’area militare 918. Poi hanno cercato di demolire le tende nella quale si erano trasferiti i cittadini, che adesso vivono nelle cave e nelle grotte. I coloni hanno cercato di stabilire un avamposto, e andavano lì tutti i giorni… a Susya, un paio di mesi fa, l’esercito ha imposto una close military area (“un’area militare chiusa”) che durerà due anni, quando di solito questi sono ordini di 24 ore… anche lì i coloni hanno cercato di mettere un outpost di fronte a una delle case, che per ora è stato sgomberato, ma vanno quotidianamente ad attaccare le abitazioni, a distruggere le cisterne d’acqua, la rete elettrica, le varie infrastrutture. L’altro giorno hanno dato fuoco a una delle case a Susya. La situazione è terrificante. C’è veramente una forte spinta a mandare via le persone da Masafer Yatta».

Il movimento internazionale è oggi in difficoltà, data la forte repressione che anche gli attivisti stanno subendo nella zona. «Due attiviste di ISM sono state deportate poche settimane fa perché gli israeliani non vogliono che nessuno veda e nessuno parli di cosa succede», dice ancora M. «E pochi giorni fa anche due attivisti di Operazione Colomba sono stati detenuti. Chi è interessato a portare solidarietà ai palestinesi qui in Cisgiordania, è benvenuto. Servono volontari» conclude M.

Gli abitanti della zona hanno lanciato un appello internazionale per fermare le operazioni di demolizione e sfollamento. Chiedono attenzione, ma anche l’imposizione di sanzioni o altri meccanismi pertinenti che possano obbligare Israele a smettere di violare il diritto internazionale e fermare la pulizia etnica in Cisgiordania. E mentre a Gaza i massacri non si fermano, in Cisgiordania un’altra piccola Nackba continua. L’appello della popolazione di Masafer Yatta rischia di rimanere solo un altro grido che chiede giustizia lasciato cadere nel nulla.

TAV a Vicenza: si avvicinano gli sgomberi, cittadini in piazza

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Gli sgomberi per la costruzione della linea ad alta velocità a Vicenza sono sempre più imminenti, tanto che potrebbero iniziare già la prossima settimana: per tale motivo, i cittadini che ormai da più di un anno occupano il bosco Lanerossi hanno deciso di scendere in piazza per una fiaccolata e difendere la città. Intanto, l’associazione Italia Nostra ha presentato una diffida a Iricav Due, Rete Ferroviaria Italiana e Italferr, in cui chiede di «non iniziare i cantieri prima dell’espletamento della nuova Valutazione di impatto ambientale sul bacino di laminazione del torrente Onte, a Sovizzo». Il piano per l’alta velocità a Vicenza, dal valore di circa 1,82 miliardi di euro, rientra nel più ampio progetto della linea ad alta velocità/capacità Verona-Padova; la tratta vicentina prevede lavori su 6,2 chilometri all’interno della città, lungo i quali verrebbero abbattuti decine di edifici e intere aree verdi come il bosco Lanerossi.

La fiaccolata contro la costruzione del tracciato della nuova ferrovia si è svolta nella serata di ieri, martedì 1 luglio, in piazza Castello, a Vicenza. La protesta precede di una settimana l’apertura dei cantieri a Vicenza ovest, che, secondo i cittadini, dovrebbero venire avviati tra l’8 e il 10 luglio. Da quanto sostengono i media locali, ai residenti che verrebbero sfrattati dovrebbero venire temporaneamente assegnate delle case dell’edilizia residenziale pubblica. «È ormai sotto gli occhi di tutte e tutti il disastro che porta con sé l’arrivo dei cantieri TAV in città», scrivono gli attivisti dei “Boschi che resistono”, occupati dal 3 maggio 2024. «Mano a mano che si procede nella progettazione esecutiva del lotto Ovest, emerge chiaramente quanto i comitati denunciano da anni: l’opera è insostenibile e inaccettabile». Gli attivisti hanno lanciato un appello ai cittadini per mobilitarsi ed evitare l’abbattimento di boschi ed edifici, almeno una trentina a Vicenza ovest; hanno inoltre organizzato un presidio permanente che inizierà il prossimo 5 luglio. Intanto, l’associazione Italia Nostra ha inviato una diffida formale in cui chiede di non iniziare i lavori fino al termine della nuova Valutazione VIA. «Dal sito istituzionale del Ministero non risulta che sia stato ancora concluso, con l’emissione del decreto del Direttore generale del MASE, il procedimento di rinnovazione della procedura di VIA», denuncia infatti l’associazione.

Il Progetto Av/Ac Verona-Padova 2° lotto “Attraversamento di Vicenza” prevede il raddoppio dei binari sulla linea Milano-Venezia, inclusi i tratti che attraversano il centro abitato della città veneta. Per la realizzazione del piano per l’alta velocità sono previste diverse demolizioni abitative, soprattutto nei quartieri di San Lazzaro, San Felice e Ferrovieri, tra i più popolosi di Vicenza, per un totale di circa 62.316 metri quadri di superficie. L’opera andrà a modificare 6,2 chilometri di tratto con annessi interventi all’intera viabilità nella parte ovest della città, fino alla stazione ferroviaria nel centro storico. Le proteste contro l’opera si sono intensificate da maggio dell’anno scorso, quando il bosco Lanerossi è stato occupato dai collettivi che si oppongono alla sua distruzione. Gli attivisti hanno organizzato performance, proiezioni, attività per bambini e momenti di condivisione collettiva, con l’obiettivo di fare luce sulle criticità del progetto e sull’impatto ambientale dell’opera.

Dopo 45 anni abbiamo la verità definitiva sulla Strage di Bologna

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A 45 anni dalla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, costata la vita a 85 persone, la Corte di Cassazione ha chiuso il cerchio sulle responsabilità penali dell’eccidio, condannando definitivamente all’ergastolo Paolo Bellini, ex Avanguardia nazionale, come quinto esecutore materiale. Quest’ultimo è stato riconosciuto colpevole in concorso con gli ex NAR Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini, già condannati in via definitiva. Confermate anche le condanne per Piergiorgio Segatel (sei anni per depistaggio) e Domenico Catracchia (quattro anni per false informazioni al PM). Nel corso dei processi a Bellini e Cavallini, i giudici avevano già inquadrato come mandanti, finanziatori e organizzatori dell’attentato il numero uno della P2 Licio Gelli, il capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato, l’ex MSI Mario Tedeschi e il faccendiere Umberto Ortolani, tutti deceduti.

L’ultimo verdetto costituisce dunque una pietra miliare del percorso processuale sulla strage di Bologna, che ora, almeno per quanto concerne l’esecuzione materiale della strage, storicizza la colpevolezza di un quinto uomo. Nelle motivazioni della sentenza di appello i giudici avevano scritto che, dal quadro probatorio, è emersa «con assoluta certezza» la piena colpevolezza di Bellini «in ordine agli orrendi delitti a lui contestati». Bellini fu infatti ripreso il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna da un filmato amatoriale girato dal turista Harald Polzer, che ne ha attestato la presenza in loco pochi minuti dopo lo scoppio della bomba. Maurizia Bonini, ex moglie di Bellini, lo ha identificato come l’uomo ripreso dal filmato a camminare nell’area del binario 1 della stazione. Ulteriori testimonianze hanno poi indicato la presenza di Luciano Ugoletti, simpatizzante di estrema destra, «nelle immediate vicinanze della stazione subito prima dello scoppio della bomba», facendo emergere «la concreta possibilità» che Ugoletti avesse avuto come specifico compito quello di «sorvegliare l’auto del Bellini», parcheggiata nelle immediate vicinanze della stazione.

Il primo processo per la strage di Bologna iniziò nel 1987 e coinvolse oltre venti imputati, accusati di strage, banda armata, associazione sovversiva e calunnia aggravata. Tra loro figuravano esponenti dei NAR (Fioravanti, Mambro, Cavallini), di Avanguardia Nazionale (Delle Chiaie), della P2 (Gelli) e del SISMI (Musumeci, Belmonte, Pazienza). Dopo una complessa vicenda giudiziaria, la Cassazione confermò l’ergastolo per Fioravanti e Mambro come esecutori materiali dell’attentato. Gelli e Pazienza furono condannati a 10 anni per calunnia aggravata con finalità di terrorismo; Musumeci a 8 anni e 5 mesi e Belmonte a 7 anni e 11 mesi per aver eseguito i depistaggi. Tra il 1997 e il 2007 si svolse un secondo processo, che portò alla condanna a 30 anni dell’ex NAR Luigi Ciavardini, anche lui riconosciuto come esecutore materiale.

Nel 2017 si aprì un terzo processo a carico di Gilberto Cavallini, condannato all’ergastolo in via definitiva lo scorso gennaio per aver favorito gli altri attentatori fornendo loro rifugio, documenti falsi e un’auto. Proprio nella sentenza di appello di questo processo, i giudici hanno scritto che dietro alla strage di Bologna si sono «mossi in modo deviato, calunnioso e in spregio ai valori e alle istituzioni democratiche anche pubblici ufficiali che perseguivano proprie autonome strategie politiche, al di fuori di qualsiasi lecita investitura politico-istituzionale». Dai NAR, la sentenza ha infatti alzato la sua lente di ingrandimento sulla P2 di Licio Gelli e l’universo delle istituzioni deviate. «Può ritenersi che il Gelli – mettono nero su bianco i giudici – tramite i servizi da lui dipendenti e che a lui rispondevano, finanziò e attuò la strage, servendosi come esecutori di esponenti della destra eversiva (NAR, esponenti di Tp e per quanto da ultimo accertato dalla Corte d’Assise di Bologna, anche Avanguardia Nazionale)», trovando «terreno fertile in quei ragazzini che in quella fase avevano il convergente interesse, nella loro prospettiva ideologizzata, a disintegrare in radice le basi dello stato democratico». I depistaggi, chiariscono i giudici, vennero «posti in essere da appartenenti ai servizi (sia Sisde sia Sismi) tutti facenti parte della P2 o ad essa comunque collegati (Grassini, Santovito, Umberto D’Amato, Pazienza, Musumeci, Cioppa, Pompò, Belmonte), i quali tutti rispondevano direttamente o indirettamente a Gelli».

Anche la sentenza di secondo grado del processo Bellini si muove sulla medesima scia, attestando come il capo della P2 Licio Gelli sia «il consapevole finanziatore della strage di Bologna», circostanza che «spiega il movente dell’attività calunniosa e depistatoria da lui posta in essere, unitamente ad alti funzionari dello Stato, proprio in relazione alla strage di Bologna». La Corte ha sancito a chiare lettere che «i mandanti, gli organizzatori, i finanziatori ed alcuni degli esecutori materiali hanno agito con lo scopo di eversione dell’ordinamento democratico e di destabilizzazione delle istituzioni dello Stato». Tale verità è stata partorita per la prima volta nel 2020, quando la Procura generale di Bologna, nell’atto di conclusione delle indagini del processo appena terminato, aveva messo nero su bianco anche i nomi dei mandanti, finanziatori e organizzatori dell’attentato, oggi defunti. Licio Gelli e il suo braccio destro Umberto Ortolani sono stati indicati come i mandanti-finanziatori, mentre Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari riservati del Ministero degli Interni e lo storico direttore del giornale Il Borghese e senatore del MSI Mario Tedeschi, sono stati ritenuti mandanti-organizzatori.

Lucano è stato dichiarato decaduto

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Il Tribunale di Locri ha dichiarato decaduto il sindaco Domenico Lucano, accogliendo la richiesta della prefettura di Reggio Calabria. La sentenza arriva in seguito alla condanna definitiva a 18 mesi per falso, emessa nell’ambito del processo Xenia sui presunti illeciti nella gestione dell’accoglienza delle persone migranti nella cittadina calabra. Lucano era stato assolto da tutte le altre accuse. Il sindaco ha annunciato che farà appello contro la decisione del Tribunale.

Sesto Fiorentino: stop alla vendita di prodotti israeliani nelle farmacie comunali

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A partire dal 1 luglio, le farmacie comunali di Sesto Fiorentino non venderanno più prodotti israeliani, inclusi farmaci, parafarmaci, attrezzature mediche e preparati cosmetici provenienti da aziende israeliane. Questa decisione, storica per la città, segna il primo caso di boicottaggio economico attuato in Italia con queste modalità. La delibera approvata dal Comune sancisce anche la fine di ogni forma di collaborazione istituzionale tra l’Amministrazione comunale e i rappresentanti del governo israeliano o le istituzioni ad esso collegate, fino a quando non verrà ripristinato il rispetto de...

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India, esplosione in fabbrica farmaceutica: almeno 39 morti

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Si è attestato ad almeno 39 morti e 34 feriti il bilancio dell’esplosione e del successivo incendio in una fabbrica farmaceutica della Sigachi Industries, nello Stato indiano del Telangana. L’incidente, avvenuto lunedì, ha causato il crollo dell’intera struttura. I soccorritori sono ancora al lavoro per rimuovere le macerie e verificare la presenza di altri lavoratori intrappolati. Al momento dell’esplosione, all’interno si trovavano 108 persone. Le vittime saranno identificate con test del DNA. Le cause non sono state rese note, ma la produzione resterà sospesa per 90 giorni. Il governo ha annunciato un’indagine e compensi alle famiglie delle vittime.

Un’inchiesta dimostra che l’IDF ha sparato apposta sui palestinesi in fila per gli aiuti

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«È un campo di sterminio». Sono queste le parole utilizzate da un soldato delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) per descrivere la attuale situazione a Gaza. La sua testimonianza è riportata, assieme a quella di molti altri militari, dal quotidiano israeliano Haaretz in una inchiesta in cui sostiene che «ai soldati dell’IDF è stato ordinato di sparare deliberatamente ai cittadini di Gaza disarmati in attesa di aiuti umanitari». Una pratica ormai consolidata e normalizzata, riportano le testimonianze, su cui nessuno, neppure gli ufficiali, sembrerebbe interrogarsi. La situazione sarebbe peggiorata notevolmente da quando la distribuzione degli aiuti è passata nelle mani della Gaza Humanitarian Foundation, i cui centri – quattro in tutta la Striscia – sono costantemente sorvegliati dai soldati israeliani. Dalla loro apertura, lo scorso 27 maggio Israele ha ucciso oltre 500 persone in fila per gli aiuti e ne ha ferite oltre 4.000.

Secondo le testimonianze raccolte da Haaretz, le IDF sparerebbero a chi arriva prima dell’orario di apertura dei centri per impedirgli di avvicinarsi, e dopo la loro chiusura per disperderli. Tale pratica, venduta ai soldati come se fosse un modo come un altro per mantenere l’ordine, verrebbe effettuata con ogni mezzo a disposizione: fucili, mortai, cannoni di carri armati, mitragliatrici, granate, cecchini. Diversi soldati riportano che i colpi di arma da fuoco e di artiglieria verrebbero scagliati direttamente verso i civili, anche se disarmati e a centinaia di metri di distanza. «Apriamo il fuoco la mattina presto se qualcuno cerca di mettersi in fila da poche centinaia di metri di distanza, e a volte lo attacchiamo da distanza ravvicinata», sostiene un soldato; «ma non c’è pericolo per le forze. Non c’è nemico, non ci sono armi». Il medesimo soldato afferma di non essere a conoscenza di nessun caso in cui dall’altra parte sia stato aperto il fuoco.

I quattro centri GHF sono gestiti da personale statunitense e palestinese, sono sorvegliati dalle IDF, e rientrano in un confine di sicurezza delimitato che si estende per diverse centinaia di metri. Il perimetro di sicurezza delle IDF include carri armati, cecchini e mortai. I centri aprono una sola ora al giorno, generalmente la mattina, ma da quanto riportano le testimonianze di Haaretz tale orario verrebbe cambiato spesso senza notificare per tempo i civili. «Non so chi prenda le decisioni, ma diamo istruzioni alla popolazione e poi o non le seguiamo o le modifichiamo», ha affermato un ufficiale. In questo primo mese di funzionamento dei centri, riporta la testimonianza, è successo che le IDF cambiassero in itinere l’orario di apertura dei magazzini, spostandolo di pomeriggio, e che i civili palestinesi si presentassero all’entrata durante i soliti orari mattutini.

Le testimonianze di Haaretz descrivono la pratica di sparare ai civili in fila per gli aiuti come una prassi «normalizzata». La pratica sarebbe talmente tanto radicata da avere preso il nome di “Operazione Pesce Salato”, un richiamo, spiega Haaretz, al nome ebraico del gioco “Un, due, tre, stella”. Un riservista sostiene che «Gaza è diventato un posto con le sue regole», in cui «la perdita di vite umane non significa nulla»; un altro riservista riporta di un episodio in cui sarebbero stati uccisi otto adolescenti; un alto ufficiale ha riportato di un altro episodio in cui i soldati avrebbero ucciso 10 persone, per «un ordine proveniente dall’alto». La pratica, effettivamente, sembra incoraggiata dagli stessi comandanti: un ufficiale che lavora nel centro settentrionale riporta che il capitano in comando, il generale di brigata Yehuda Vach, ordinerebbe frequentemente di aprire il fuoco contro i palestinesi in attesa degli aiuti per disperderli; un alto ufficiale conferma l’esistenza di «un’ideologia sostenuta dai comandanti sul campo, che trasmettono alle truppe come piano operativo», mentre una fonte militare sostiene che anche i vertici militari «parlano di usare l’artiglieria su un incrocio pieno di civili come se fosse normale».

Dall’apertura dei centri GHF, Haaretz ha registrato 19 occasioni in cui è stato aperto il fuoco vicino ai magazzini. Di questi, sostiene il quotidiano, non tutti sono riconducibili all’esercito, ma visto che le IDF controllano il perimetro sembra difficile individuare responsabili diversi dallo stesso esercito israeliano o dalle milizie a esso collegate. Le testimonianze parlano infatti anche di casi in cui ad aprire il fuoco sarebbero state le milizie di Yasser Abu Shabab, che farebbero addirittura parte delle squadre di supervisori palestinesi attive nei centri. Secondo un ufficiale, le IDF continuerebbero a sostenere il gruppo di Abu Shabaab e altre fazioni. «Ci sono molti gruppi che si oppongono ad Hamas – Abu Shabaab si è spinto ben oltre», ha detto. «Controllano territori in cui Hamas non entra, e le IDF lo incoraggiano».

A incentivare la pratica sarebbe, infine, anche la speculazione edilizia. Un veterano riporta che a Gaza opererebbero diverse ditte appaltatrici, incaricate di demolire le abitazioni dei palestinesi. Per ogni edificio abbattuto, sostiene il veterano, gli appaltatori otterrebbero 5.000 shekel, l’equivalente di circa 1250 euro. «Stanno facendo una fortuna. Dal loro punto di vista, ogni momento in cui non demoliscono case è una perdita di denaro». Gli appaltatori opererebbero dove vogliono, lungo tutta la linea del fronte. Di conseguenza, ha aggiunto il veterano, la campagna di demolizione degli appaltatori li porterebbe, insieme alle loro squadre di sicurezza, vicino ai punti di distribuzione o lungo le rotte utilizzate dai camion degli aiuti. E così «scoppia una sparatoria e delle persone vengono uccise». Eppure, «queste sono zone in cui ai palestinesi è permesso stare», spiega il veterano: per le ditte appaltatrici, insomma, «per guadagnare 5.000 shekel è considerato accettabile uccidere persone che cercano solo cibo».

Nessuna giustizia per Mario Paciolla: il tribunale di Roma archivia il caso per suicidio

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«Con questa sentenza, Mario è stato ucciso una seconda volta». Lo ripetono i familiari, gli amici, chi ha conosciuto Mario Paciolla soltanto dopo la sua morte e ne ha preso a cuore la storia, unendosi a quel grido di dolore che da cinque anni chiede verità e giustizia. Ieri il giudice per le indagini preliminari (GIP) di Roma ha accolto la richiesta della Procura e archiviato il caso, sostenendo che la vita del cooperante ONU morto in Colombia nel 2020 si sia interrotta con un suicidio. Una tesi che stride con una serie di dati tecnici emersi durante l’autopsia e con l’alterazione della scena del crimine a opera delle Nazioni Unite, oltre che con lo stato d’animo di Mario il quale, non sentendosi più sicuro in Colombia, avrebbe dovuto partire a giorni per l’Italia.

Mario Paciolla era un cooperante ONU, che dal 2018 lavorava in Colombia per garantire l’applicazione degli accordi di pace tra il governo e i guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC). Il 15 luglio del 2020 il corpo di Mario venne ritrovato senza vita presso la sua abitazione, a San Vicente del Caguán. Da allora una serie di depistaggi, silenzi e inerzie ha montato un caso complesso, che coinvolge un Paese straniero e la massima organizzazione internazionale. L’iter giudiziario inizia in Colombia, dove nel settembre 2022 la morte di Mario Paciolla viene archiviata per suicidio. Un mese dopo la Procura di Roma giunge allo stesso esito, che il giudice però respinge, sostenendo che l’ipotesi del suicidio non è logica perché presta il fianco a molti sospetti. Vengono così disposte nuove indagini, ma i pubblici ministeri non cambiano idea e a giugno 2024 avanzano la seconda richiesta di archiviazione, che a distanza di un anno il GIP accoglie. «Noi sappiamo non solo con le certezze del nostro cuore, ma con le evidenze della ragione frutto di anni di investigazione e perizie, che Mario non si è tolto la vita ma è stato ucciso perché aveva fatto troppo bene il suo lavoro umanitario in un contesto difficilissimo e pericoloso in cui evidentemente non bisognava fidarsi di nessuno», ha commentato la famiglia Paciolla, abbracciata ieri dalla solidarietà dei cittadini napoletani riunitisi in presidio a piazza Municipio, nei pressi della sede comunale. Un unico, eloquente, striscione ha parlato per tutti: «Mario Paciolla non si è suicidato! ONU criminale, Italia complice».

Secondo la versione del suicidio avanzata dalla Procura di Roma, il trentatreenne napoletano avrebbe tentato una prima volta di impiccarsi senza riuscirci, ripiegando dunque sul taglio delle vene. Come sottolinea l’avvocata Alessandra Ballerini in una recente inchiesta di Fanpage, la seconda ferita avrebbe dovuto comportare un gocciolamento dato dal primo polso tagliato pochi attimi prima, di cui però non c’è traccia sui vestiti. Mancano anche le impronte insanguinate sul materasso, il che presupporrebbe un balzo con un colpo di reni — non proprio semplice con ferite del genere — per andare in giro per la casa, verso il computer. Qui si registrano dei gocciolamenti, precisi e metodici, senza alcun barcollamento. «Non ci sono impronte né di scarpe né di piedi scalzi, quindi Mario sta attentissimo a non mettere mai il piede su una goccia di sangue che ha lasciato», dice Ballerini. Il balzo felino si ripeterebbe per tornare sulla sedia, il tutto senza appoggiare le mani, dal momento che mancano le impronte. Mario si metterebbe dunque in punta di piedi, a nove centimetri e mezzo dalla grata attraverso cui far passare la corda con un lancio. A questo punto si impiccherebbe in condizioni anomale: «la sedia incredibilmente non cade e Mario la tocca coi piedi», racconta l’avvocata della famiglia Paciolla.

A questa ricostruzione si aggiungono altri punti oscuri. Lo ricordano in ogni occasione utile i genitori di Mario, Anna e Pino, che si sono avvalsi nel tempo di perizie tecniche a sostegno della loro battaglia. Nelle conclusioni dell’autopsia effettuata sul corpo del cooperante ONU, il medico legale Vittorio Fineschi scrive: “Vale il conto, tuttavia, di precisare che talune evidenze – non trovando spiegazione alternativa nell’ambito dell’ipotesi suicidaria – sostengono in maniera prevalente l’ipotesi dello strangolamento con successiva sospensione del corpo”. Compatibile con tale ipotesi è la rottura dell’osso ioide rilevata sul corpo del trentatreenne napoletano oltre che la presenza di un anestetico paralizzante, la lidocaina, nel sangue. Riguardo ai tagli sui polsi, Fineschi afferma: “le evidenze riscontrate nell’ambito della vitalità non consentono di escludere in termini di ragionevole certezza la possibilità che le lesioni siano venute a prodursi in limite vitae o addirittura post-mortem”. A ciò si aggiunge l’inquinamento della scena del crimine da parte del responsabile della sicurezza della missione ONU, Christian Thompson, che dopo aver usato della candeggina per ripulire diversi punti dell’appartamento ha buttato alcuni oggetti, violando i protocolli delle stesse Nazioni Unite senza però incorrere in alcuna sanzione o condanna ma venendo addirittura promosso. D’altronde la massima organizzazione internazionale ha imposto ai suoi dipendenti il massimo riservo sulla questione, non collaborando al percorso di verità e giustizia intrapreso dalla famiglia Paciolla, che ha più volte raccontato dell’inquietudine provata da Mario nei confronti di Thompson. Negli ultimi giorni di vita, il cooperante parla coi genitori di problemi seri, in una telefonata risalente all’11 luglio dice che “gliela faranno pagare”. La versione è confermata dalla compagna Ilaria Izzo, secondo cui Mario Paciolla si sentiva tradito e spiato dallo staff dell’ONU, probabilmente a seguito di alcune scoperte fatte nella gestione della missione.

La famiglia Paciolla, insieme a tanti amici e conoscenti, continuerà la sua lotta. L’appello è rivolto innanzitutto al governo italiano e alle Nazioni Unite, per una collaborazione con le autorità colombiane in grado di stabilire le dinamiche e le responsabilità di quel 15 luglio, andando oltre un’archiviazione di comodo. Quest’ultima, alla luce dei tanti punti d’ombra emersi nella ricostruzione, pare configurarsi infatti come un tentativo di non disturbare equilibri e relazioni internazionali, scontentando tutti coloro che hanno a cuore la storia di Mario. Al di là del canale istituzionale, il comitato giustizia per Mario Paciolla ha fatto sapere che dopo aver capito le ragioni dell’archiviazione ci si riorganizzerà per il futuro, «nuovi elementi saranno a disposizione della campagna di sensibilizzazione per Mario, senza perdere la speranza perché nuove prove sono in attesa di essere scoperte, nuove persone sono in attesa di essere messe in contatto. C’è tanto da fare. Questa è una storia difficile, ma non impossibile».

Da spazio degradato a presidio di resistenza sociale: gli Orti Urbani di Livorno

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La storia degli Orti Urbani di Livorno è una storia di presidio sociale, ambientale e culturale contro la speculazione edilizia e la cementificazione. Gli Orti Urbani sono una realtà di autogestione, di resistenza cittadina collettiva per la sostenibilità e la tutela del territorio, rappresentando un esempio concreto di restituzione di uno spazio degradato alla cittadinanza, con una forte attenzione alla trasparenza, all’inclusione e alla sostenibilità ambientale. A Livorno, come in tutta Italia, sono numerosi gli spazi e i terreni, sia pubblici che privati, lasciati in stato di abbandono da anni, alcuni comprendenti scheletri di edifici in cemento mai finiti. Gli Orti Urbani di Livorno si estendono su un’area di 6 ettari compresa tra via Goito, via dell’Ambrogiana, via dell’Erbuccia, via Corazzi e via da Verrazzano, in pieno centro cittadino, vicino al mare. Quest’area, che fino al 1973 era adibita a uso agricolo, è stata tramutata in area per servizi. Da quel giorno a oggi, la proprietà è passata nelle mani di ben 5 cooperative edili. Nessuno dei progetti presentati all’amministrazione comunale – impianti sportivi, centri commerciali, palazzi abitativi, strade e parcheggi – è mai partito. Di fatto, l’ultimo e unico uso per cui questo terreno è stato utilizzato è la coltivazione.

Da spazio abbandonato a realtà collettiva

Per 35 anni, un terreno situato in pieno centro a Livorno, storicamente adibito a coltivazioni e sottratto alla cittadinanza per realizzare opere mai avviate, è stato lasciato in completo stato di abbandono. Così, nel 2011, il Comitato Precari e Disoccupati di Livorno e i militanti della Ex caserma occupata decisero di ripulire l’ultima grande area verde del centro cittadino, ormai diventata una giungla di rovi e una discarica a cielo aperto, a non molta distanza dal mare e dalla famosa Terrazza Mascagni. La bonifica ha incluso la rimozione di rifiuti di ogni tipo, anche pericolosi – come l’amianto. Una volta che l’area è stata ripulita e che si sono formati i vari collettivi per la sua conservazione, è nata la diatriba con il Comune di Livorno. Quest’ultimo, quasi sfruttando il lavoro svolto da questi cittadini (e forse per impedire anche che prendessero piede iniziative dal basso, oltre a voler fare cassa), decise infatti di autorizzare la costruzione di opere nell’area. In questo modo il proprietario del terreno, che all’epoca era la Cooperativa Lavoratori delle Costruzioni (CLC), si trovò tra le mani un’area che acquisì un grande valore immobiliare, valutata tra i 3 e i 4 milioni di euro. Così partirono i nuovi piani di urbanizzazione e cementificazione. Il progetto, rimasto sostanzialmente invariato da allora, prevedeva, e prevede, la costruzione sul 20% dei 6 ettari di superficie totale dell’area. L’apertura del cantiere avrebbe però portato a chiudere tutta l’area, non solo la parte su cui si sarebbe edificato. E la storia rimane la medesima anche oggi. 

Nel 2016, quando ormai gli Orti Urbani erano una realtà collettiva affermata che aveva spezzato la lunga storia di abbandono e degrado, la CLC provò a utilizzare la forza e inviò gli operai con le ruspe sul posto, recintando la zona per iniziare i lavori. Una volta arrivati, gli operai trovarono i membri dei vari collettivi intenti a piantare alberi proprio lungo la recinzione, frapponendosi in maniera pacifica tra la zona verde e le ruspe. Il tentativo della CLC fallì: gli operai, infatti, non vollero forzare la situazione e si astennero dal proseguire ogni azione di fronte a persone pacifiche che si opponevano a quelle grandi macchine con la piantumazione di alberi. Vari sono i cittadini, anche molto anziani, come il novantenne Franco, che hanno ricevuto una denuncia per quell’azione pacifica contro le ruspe. Nel 2023 furono tutti assolti. Mentre scriviamo, si attende la discussione in Consiglio comunale della petizione firmata da 1200 cittadini che chiedono che non si costruisca e che si ritorni all’uso agricolo dell’area, così da non permettere cementificazione e speculazione edilizia. La petizione è stata sottoscritta per opporsi alla prima asta pubblica per la vendita dell’area, presso il Tribunale di Livorno, per una base d’asta di quasi 2 milioni di euro.

Uno spazio restituito alla città e ai cittadini

I collettivi che formano gli Orti Urbani hanno sempre rifiutato i tavoli di concertazione con l’amministrazione comunale, rifiutando in toto i progetti di cementificazione da essa proposti. L’aumento di porzioni di terreno coperte da cemento, infatti, è legata in maniera diretta a problematiche quali le ondate di calore e l’incapacità del suolo di ricevere e trattenere acqua, con i conseguenti allagamenti in caso di piogge intense. Proprio a Livorno, negli ultimi anni, si sono verificate diverse alluvioni che hanno causato molti morti tra la popolazione, ma i piani dell’amministrazione comunale non sono cambiati.  

Gli orti rappresentano uno spazio vissuto quotidianamente, aperto e senza barriere, che offre attività culturali, sociali e di aggregazione, coinvolgendo anche scuole e famiglie. L’area è attraversata da bambini che la usano come percorso sicuro da casa a scuola, evitando le trafficate strade livornesi e, soprattutto d’estate, ospita molte persone, tra cui mamme con figli che giocano e persone anziane che si riparano dal forte calore all’ombra degli alberi, conversando e fuggendo dalla solitudine casalinga. 

Nell’area degli Orti Urbani ci sono circa 100 particelle, ciascuna assegnata a una o più persone. Il collettivo funziona tramite assemblea, dove tutte le decisioni vengono prese collettivamente, anche da chi non possiede un orto – che può partecipare a condizione di condividere i valori del progetto. Il collettivo ha come scopo principale la restituzione e la gestione condivisa del grande spazio verde, mantenendo attività aperte e collettive come il cinema gratuito, cene popolari e il mercato contadino con prodotti a chilometro zero, promuovendo autosufficienza, sostenibilità e riduzione degli imballaggi, oltre a incentivare l’uso di contenitori riutilizzabili.

Le attività degli Orti Urbani

Fin dall’inizio e ancora oggi, gli orti vengono assegnati in appezzamenti di circa 5 metri per 5. Ogni persona o gruppo deve prendersi cura del proprio pezzo di terreno, mantenendolo pulito e in ordine. Non è obbligatorio coltivare ma è fondamentale la manutenzione e la cura. Le assegnazioni degli orti avvengono tramite una pagina dedicata, seguendo l’ordine cronologico delle richieste, per evitare favoritismi o raccomandazioni. In caso di abbandono, le particelle vengono riassegnate secondo questa procedura trasparente. Gli orti sono irrigati con acqua di una sorgente naturale che passa sotto l’area. La cementificazione metterebbe a rischio questa preziosa risorsa.

Non tutti i 6 ettari sono stati parcellizzati ma, in virtù dei princìpi che hanno spinto all’occupazione del terreno, sono stati mantenuti anche grandi spazi comuni. Tra questi c’è l’area ristoro dove vengono organizzate feste, cene di autofinanziamento ed eventi culturali e dove vengono svolte le assemblee nelle quali viene decisa ogni cosa in maniera collettiva e democratica. Vi sono poi il cinema estivo (gratuito), spazi per praticare sport, il mercato contadino autogestito e molto altro. Questi spazi favoriscono la socialità e l’aggregazione intergenerazionale, tutto in maniera autogestita e volontaria.