mercoledì 10 Settembre 2025
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Aree protette, in Italia è stato istituito il nuovo Parco Nazionale del Matese

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Nel cuore dell’Appennino centro-meridionale, tra Campania e Molise, nasce ufficialmente il 25° Parco Nazionale italiano: il Parco Nazionale del Matese. Con la firma del decreto da parte del ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin, avvenuta simbolicamente il 22 aprile, Giornata della Terra, l’Italia compie un passo importante nella tutela della biodiversità, sancendo la nascita di un’area protetta di quasi 88mila ettari, frutto di un lungo e travagliato iter politico, amministrativo e giudiziario. La nuova area protetta tutela un territorio di elevata valenz...

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Svezia, sparatoria a Uppsala: almeno tre morti

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Poco dopo le ore 17 si è verificata una sparatoria nel centro di Uppsala, cittadina universitaria svedese a circa 70 km da Stoccolma. aggiungendo che il portavoce della polizia locale sta dando la caccia ad uno o più sospetti. Secondo i media locali, ci sarebbero almeno tre morti e diversi feriti. Testimoni hanno riferito alla radio di servizio pubblico svedese, Sveriges Radio, di aver udito spari nei pressi di un barbiere in una piazza centrale, poco distante dalla stazione ferroviaria. Ora è in corso una vasta operazione della polizia per trovare e fermale il responsabile, che sarebbe fuggito a bordo di uno scooter.

Estrazione in acque profonde, Trump ignora le norme internazionali e accelera le autorizzazioni

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Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per accelerare il processo di esplorazione ed estrazione di minerali dai fondali marini, sia nelle acque statunitensi che in quelle internazionali. Si tratta di una mossa molto controversa che, secondo diversi esperti, minaccia gli ecosistemi dei fondali e viola le norme internazionali sull’estrazione in acque profonde. Finora il deep-sea mining è stato infatti parzialmente tenuto a bada dall’Autorità Internazionale dei Fondali Marini (ISA), la quale sta elaborando le regole per disciplinare tale attività emergente. Gli Stati Uniti tuttavia non ne sono membri e Trump sostiene di poter sfruttare una legge federale del 1980 per concedere locazioni minerarie in acque internazionali.

A fare gola alle compagnie minerarie vi sarebbe in particolare la Clarion Clipperton Zone (CCZ), un’area nell’Oceano Pacifico centrale che si stima contenga più nichel, cobalto e magnesio di tutte le fonti terrestri messe insieme. Prima dell’ordine esecutivo di Trump, la società canadese di estrazione The Metals Company aveva annunciato di aver «avviato un processo» per ottenere l’approvazione degli Stati Uniti all’estrazione nella CCZ. «Abbiamo un’imbarcazione pronta per la produzione – ha spiegato l’amministratore delegato dell’azienda Gerard Barron – ci manca solo il permesso per iniziare». Permesso che tuttavia gli Stati Uniti non avrebbero il potere di fornire. Il segretario generale dell’ISA, Leticia Carvalho, ha precisato a Mongabay che «qualsiasi sfruttamento commerciale effettuato nei fondali marini internazionali senza l’autorizzazione dell’Autorità Internazionale costituirebbe una violazione del diritto internazionale». Ad ogni modo, gli Stati Uniti si uniscono quindi alla Norvegia, al Giappone e ad un’altra manciata di nazioni che cercano di avviare una nuova attività antropica di sfruttamento dell’ambiente naturale. Il tutto senza che si abbiano conoscenze sugli impatti per la biodiversità e l’ecosistema marini. Una pratica, in ogni caso, destinata ad amplificare la crisi ecologica e a danneggiare habitat che stiamo appena iniziando ad esplorare e comprendere. Basti pensare che un’indagine del 2023 ha rilevato che nella CCZ vivono almeno 5.000 specie fino ad allora sconosciute.

Le operazioni, sebbene concentrate sulla raccolta dei cosiddetti noduli polimetallici, hanno il potenziale di indurre effetti devastanti sul fondale, come mostrato da alcune esplorazioni pilota condotte in Giappone. Le attività minerarie sottomarine rischiano quindi di compromettere irreversibilmente la biodiversità oceanica, l’equilibrio climatico e la pesca globale. Nonostante gli enormi rischi, gli interessi economici spingono per l’approvazione dei permessi. L’EASAC, ente che riunisce le accademie scientifiche europee, ha invece chiesto una moratoria sull’estrazione mineraria in acque profonde, sottolineando il paradosso che i minerali marini siano indispensabili per la transizione energetica ed evidenziando rischi ambientali potenzialmente irreparabili. L’Unione Europea, dal canto suo, con il Critical Raw Materials Act, punta ad assicurarsi materie prime strategiche, e pur non avendo ancora dato particolare spazio all’estrazione marina dai fondali, non la esclude. L’ISA, ente finalizzato a regolamentare anche queste attività, ha comunque già concesso finora 31 licenze esplorative e la sua capacità di valutare l’impatto ambientale è messa in dubbio da scienziati ed esperti. Nonostante la crescente opposizione globale, da parte di scienziati, ONG, comunità indigene e alcuni Stati per impedire lo sviluppo di ogni forma di deep-sea mining, tutto verrà deciso a luglio 2025, quando l’ISA e i suoi 169 membri stabiliranno se e come autorizzare la pratica.

[di Simone Valeri]

Un’esistenza in affanno: l’incubo dei ritmi lavorativi giapponesi

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Tokyo. Sono le quattro di un soleggiato pomeriggio, Yuri rientra in casa di corsa, posa le scarpe davanti alla porta, lascia cadere a terra il cappotto e scalda rapidamente il riso rimasto nella pentola. «Devo tornare al lavoro, oggi giornata piena». Trangugia il tutto e dopo nemmeno due minuti raccoglie il cappotto, si rinfila le scarpe ed esce. Questo frammento di immagine, che descrive l'intimo spaccato nella vita di una donna giapponese, descrive una realtà più comune di quanto si creda. Yuri tornerà a casa verso le 20.30, dopo aver trascorso dodici ore della sua giornata in uno studio leg...

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La Germania sospende il patto di Stabilità e accelera la corsa al riarmo

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La Germania ha chiesto alla Commissione Europea una sospensione del Patto di Stabilità per aumentare la spesa per la difesa nei prossimi anni. La richiesta è stata inoltrata dall’attuale ministro dell’Economia, Jörg Kukies, ed è stata ricevuta ieri, lunedì 28 aprile. Se venisse accettata, la Germania otterrebbe un’esenzione dai limiti di indebitamento imposti dal Patto, diventando così il primo Paese ad accogliere la proposta della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. Non è ancora chiaro a quanto ammontino i piani di spesa presentati da Berlino alla Commissione, ma nell’ambito del piano di riarmo la Commissione Europea ha proposto agli Stati membri di aumentare la spesa per la difesa dell’1,5% del prodotto interno lordo annuo per quattro anni. La richiesta arriva un mese dopo che il Parlamento tedesco ha approvato l’istituzione di un fondo di 500 miliardi di euro per i progetti strategici e cambiato la Costituzione per aumentare le spese militari.

L’annuncio della ricezione della richiesta tedesca di sospensione del Patto di Stabilità per aumentare le spese militari è stato dato dal portavoce della Commissione Europea, Balazs Ujvari. La Germania diventa così il primo Paese a presentare richiesta per aumentare la spesa pubblica per la difesa in deroga al Patto. Altri Paesi, tuttavia, tra cui Portogallo e Polonia, sembrerebbero interessati ad avanzare un’analoga proposta. Il termine ultimo per la presentazione delle domande, sottolinea Ujvari, resta il 30 aprile, ma se qualche richiesta dovesse arrivare in ritardo la Commissione sarebbe pronta a valutarla ugualmente: «Se richieste di sospensione dovessero arrivare due o tre giorni dopo non sarebbe certo la fine del mondo», ha detto il portavoce.

Non è ancora chiaro quale sia il piano di spesa che la Germania avrebbe intenzione di portare avanti, ma secondo molti Berlino vorrebbe utilizzare i fondi che verrebbero sbloccati per finanziare il pacchetto votato lo scorso marzo. Esso è stato approvato con un accordo tra quella che sarebbe stata la futura alleanza di governo, ossia dai parlamentari socialisti di SPD e dai conservatori dell’UCD di Merz, e tra le varie cose prevede l’istituzione di un fondo da 500 miliardi per gli investimenti infrastrutturali e industriali in vari settori, tra cui quelli energetico e della difesa. Nello stesso periodo, la Germania ha approvato una riforma costituzionale che permette al Paese di allentare la cosiddetta regola del freno al debito”, che limita l’indebitamento pubblico allo 0,35% del prodotto interno lordo, per aumentare le spese militari e nel settore infrastrutturale.

Le mosse della Germania sono pienamente in linea con le richieste dell’Unione Europea e con il piano di riarmo presentato da Ursula von der Leyen. Quest’ultimo avanza la possibilità per i Paesi dell’UE di incrementare in modo significativo la spesa militare senza essere soggetti ai vincoli imposti dal Patto di Stabilità e Crescita, suggerendo a ciascun membro di spendere l’1,5% del proprio PIL ogni anno per quattro anni. Questo meccanismo consentirebbe di generare fino a 650 miliardi di euro di investimenti nei prossimi quattro anni. Un’altra misura chiave prevista è l’istituzione di un fondo da 150 miliardi di euro destinato a fornire prestiti agli Stati membri per finanziare progetti nel settore della difesa. Inoltre, il piano apre alla possibilità di utilizzare il bilancio dell’Unione Europea per stimolare investimenti militari, sfruttando strumenti come i programmi della politica di coesione e altre risorse finanziarie comunitarie.

Il Parlamento ungherese ha votato per uscire dalla CPI

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Il Parlamento ungherese ha approvato l’uscita del Paese dalla Corte Penale Internazionale. La notizia è stata data dal ministro degli Esteri Péter Szijjártó, che ha scritto che con questa decisione, l’Ungheria «rifiuta di essere parte di una istituzione politicizzata che ha perso la sua imparzialità e la sua credibilità». La decisione di uscire dalla CPI era stata annunciata lo scorso 3 aprile, durante una visita al Paese da parte del premier israeliano Netanyahu, sotto mandato di arresto dalla CPI. Netanyahu era stato invitato nel Paese dallo stesso Orbán, e le autorità si sono rifiutate di arrestarlo nonostante fossero ancora formalmente tenute a farlo.

Anche Meta ammette: i social sono pensati per intrattenere e consumare

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L’antitrust statunitense ha in corso una causa nei confronti di Meta, contesto che ha permesso alla Federal Trade Commission (FTC) di porre al CEO Mark Zuckerberg tutta una serie di domande le cui risposte hanno validità legale. Dopo più di dieci ore di testimonianze e a seguito della pubblicazione di molteplici email interne, emerge un’immagine delle piattaforme social che nulla ha a che vedere con il concetto di “piazza pubblica” che la stessa Big Tech ha cercato di imporre attraverso le sue propagande commerciali.

Secondo lo stesso Zuckerberg, l’azienda si è progressivamente allontanata dallo scopo sociale di tenere in contatto amici, parenti e comunità per slittare piuttosto verso “l’idea generale di intrattenimento e formazione sul mondo e per scoprire cosa sta succedendo”. Messi da parte i rapporti umani e le comunicazioni interpersonali, Meta ha deciso esplicitamente di privilegiare lo svago e la pubblicità. 

Secondo i documenti portati davanti all’FTC, l’imprenditore aveva notato già nell’aprile del 2022 i limiti del tradizionale modello di “amicizia” di Facebook, il quale, raggiunto il suo naturale plateau, non permetteva significative opportunità di crescita. In quell’occasione, il CEO ha ammesso di preferire i modelli à la Instagram e Twitter, quelli con soluzioni basate sul seguire influencer e personalità pubbliche. “Tutti i moderni social network sono basati sul follow piuttosto che sulla richiesta di amicizia”, aveva scritto Zuckerberg, formulando l’opinione per cui l’atto di aggiungere un’amicizia sui social fosse ormai troppo “pesante” per l’utente medio.

Dopo anni passati a cercare di convincere legislatori e opinione pubblica dell’alto ruolo sociale dei suoi portali, Meta rivede dunque la lettura del suo scopo, così da meglio difendersi dalle accuse mosse dall’antitrust americana. La FTC ritiene infatti che la decisione di Facebook di comprare tra il 2012 e il 2014 Instagram e Whatsapp costituisca una pratica anticompetitiva che ha danneggiato l’industria dei “servizi social network personali”. Approfittando del fatto che la definizione di “social network” sia fumosa, Meta si difende sostenendo che le sue piattaforme non siano più quelle di quindici anni fa, che siano ormai pensate per ogni forma di consumo digitale. Secondo questa premessa, l’esistenza stessa di TikTok e YouTube dimostrerebbe nei fatti l’esistenza di un panorama sano e propenso all’innovazione.

La battaglia dell’antitrust sembra tutta in salita e, soprattutto, si appoggia su fondamenta ormai antiche. L’indagine sull’acquisto da parte di Facebook della concorrenza è stata avviata ai tempi della prima Amministrazione Trump ed è improbabile che, a questo punto, un intervento possa riequilibrare gli scenari industriali o prevenire i problemi del prossimo futuro. Il confronto con l’FTC si dimostra piuttosto utile a raccogliere una visione concreta della direzione assunta dalla Big Tech, la quale sta agendo attivamente per non farsi carico degli oneri civili e penali riguardanti il suo sedicente ruolo all’interno della società.

Lontano dalle proprie campagne pubblicitarie, Meta sta compiendo enormi sforzi di lobby per non essere considerata responsabile della tutela dell’infanzia e della verifica anagrafica dei propri portali, mentre Mark Zuckerberg ha interrotto le donazioni alle scuole materne inclusive che aveva fondato insieme a sua moglie, la pediatra Priscilla Chan, verosimilmente per assecondare le politiche del Presidente Donald Trump.

Nigeria, camion esplode su mina: 26 vittime

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Almeno 26 persone sono rimaste uccise in Nigeria dopo che un camion è saltato in aria su una mina artigianale posta lungo una strada nello Stato di Borno, nel nord-est del Paese. Le autorità hanno riferito che «ventisei persone sono morte nell’esplosione, tra cui 16 uomini, 4 donne e 6 bambini». Lo Stato di Borno è la culla e la roccaforte dell’organizzazione terroristica Boko Haram, la cui insurrezione jihadista ha causato negli ultimi 15 anni più di 40mila morti e 2 milioni di sfollati in questa regione.

Torture nel carcere di Foggia: pm chiede rinvio a giudizio per 10 agenti

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Per il presunto pestaggio di due detenuti avvenuto nell’agosto 2023 nel carcere di Foggia, la pm Laura Simeone ha chiesto il rinvio a giudizio di dieci agenti penitenziari e quattro operatori sanitari. Le accuse sono a vario titolo di tortura, danneggiamento, concussione e tentata concussione, falsità ideologica, calunnia, soppressione atti, favoreggiamento e omissione di referto medico. La Procura ha contestato «violenze gravi e crudeltà» da parte dei poliziotti, nonché una pianificata operazione di insabbiamento dei fatti e depistaggio sulle conseguenze. Gli indagati, quasi tutti rimessi in servizio (sebbene in case circondariali diverse di Puglia e Calabria), respingono in parte o del tutto le accuse. L’udienza preliminare è fissata per il 15 settembre.

Nello specifico, la Procura di Foggia ha chiesto il rinvio a giudizio per i membri della polizia penitenziaria dopo aver appurato che l’11 agosto 2023 un detenuto originario di Bitonto, invalido al 100% e affetto da gravi disturbi psichiatrici (sfociati anche in atti autolesivi), sarebbe stato pestato con crudeltà e violenza tra le mura della sua cella poiché considerato «problematico». Due mesi prima dell’aggressione, questi aveva minacciato una ispettrice della polizia penitenziaria – anch’essa coinvolta nell’indagine – sollevando contro di lei uno sgabello e graffiandola sulla fronte con le unghie. «Hanno agito con violenze gravi e crudeltà, sottoponendo il detenuto a un trattamento inumano e degradante – ha messo nero su bianco la Procura motivando la richiesta di rinvio a giudizio –. E quando il compagno di cella provò a intervenire, ci furono botte anche per lui, con accanimento sul volto di una persona scalza e indifesa che cercava solamente di ripararsi dai colpi». Nell’ordinanza di custodia cautelare era stato scritto che gli indagati avrebbero agito «utilizzando il loro numero soverchiante per impedire qualsiasi possibile reazione difensiva», causando alla vittima lesioni in varie parti del corpo, importanti sofferenze fisiche e un trauma psichico.

Secondo i pubblici ministeri, inoltre, in seguito a tali condotte sarebbe stata azionata la macchina del depistaggio, con la predisposizione e la sottoscrizione di atti falsi con l’obiettivo di celare le violenze subite dai detenuti ed evitare che venissero emesse le diagnosi delle lesioni da loro riportate. La Procura afferma inoltre che sarebbero accertate vere e proprie minacce rivolte alle vittime mediante cui due degli indagati le avrebbero costrette a sottoscrivere farsi verbali in cui si riportava una versione diversa rispetto ai fatti realmente accaduti. Nella sua richiesta degli arresti, il pm aveva evidenziato un «diffusissimo clima di omertà, quando non di fattiva collaborazione nell’ostacolare le indagini», che avrebbe implicato la «capacità di ottenere la collaborazione di detenuti differenti dalle persone offese, al fine di depistare le indagini e di intimidire le stesse vittime delle violenze».

In Italia, da nord a sud, sono ormai numerosi i processi in cui la magistratura contesta il reato autonomo di tortura a componenti delle forze dell’ordine. Il primo, su cui recentemente ha messo il timbro la Corte d’Appello di Firenze, è sfociato dal brutale pestaggio da parte di 15 agenti penitenziari ai danni di un detenuto tunisino nel carcere di San Gimignano (Siena) nel 2018. Su tale fattispecie, però, si sono concentrate le critiche di un largo pezzo di maggioranza, che è passata presto alle vie di fatto. In particolare, FDI ha proposto l’abrogazione del reato di tortura attraverso l’eliminazione degli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale che lo delineano, mantenendo soltanto una nuova aggravante comune. Nel dicembre del 2023, il Consiglio d’Europa è intervenuto per bacchettare l’esecutivo italianoinvitandolo «caldamente» a «garantire che qualsiasi eventuale modifica al reato di tortura sia conforme ai requisiti della Convenzione europea dei diritti umani e alla giurisprudenza della CEDU».

March to Gaza: a piedi fino in Palestina per la fine dell’assedio

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Dalla Francia al mondo intero: migliaia di cittadini stanno aderendo alla “March to Gaza”, una mobilitazione globale per chiedere la fine dell’assedio alla Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano. L’iniziativa, nata spontaneamente e organizzata tramite un gruppo Telegram, punta a raggiungere a piedi il valico di Rafah per forzare l’apertura della frontiera e permettere l’ingresso degli aiuti umanitari. In una lettera aperta indirizzata alle ambasciate di Egitto e Israele, i promotori denunciano l’inazione dei governi e annunciano che, se necessario, proseguiranno la marcia fino alla Cisgiordania. L’appello, rilanciato sui social e inviato ai media internazionali, chiama all’azione cittadini di ogni provenienza, cultura e religione in supporto al popolo palestinese.

Questo il testo completo della lettera, firmata dai cittadini del collettivo “Marcia verso Gaza” e indirizzata alle ambasciate del Cairo e di Tel Aviv:

«Noi, cittadini francesi e cittadini del mondo, donne e uomini liberi, provenienti da molteplici paesi, religioni, lingue e culture, vi scriviamo per annunciarvi che il popolo si solleva. Di fronte all’inazione dei governi, di fronte alla sofferenza insostenibile del popolo palestinese, di fronte al blocco disumano imposto a Gaza, migliaia di persone, ovunque nel mondo, si organizzano per una marcia senza precedenti.

Una Marcia verso Gaza. Marciamo per la vita. Marciamo per la dignità. Marceremo fino al terminal di Rafah, con un solo obiettivo: aprire la frontiera, far entrare gli aiuti umanitari ed esigere la fine dell’assedio. Questo movimento, inizialmente simbolico, diventa concreto. Delegazioni cittadine sono in corso di organizzazione in diversi paesi. Interi gruppi si preparano a raggiungere la frontiera egiziana di Rafah nelle prossime settimane. Se non reagite, noi arriveremo. E se dovremo andare oltre, andremo fino in Cisgiordania, fino alle terre dove la colonizzazione illegale si estende ogni giorno. Non porteremo armi: porteremo le nostre voci. Ma siate certi che non ci fermeremo.

Non vogliamo la guerra. Vogliamo la pace. Ma poiché i nostri dirigenti non fanno il loro dovere, noi, il popolo, ci assumeremo le nostre responsabilità. Speriamo che questa mobilitazione susciti un sussulto di coscienza. Speriamo che ascoltiate questo appello e scegliate di non ostacolare la volontà dei popoli liberi. Questa lettera è indirizzata a voi, ma sarà anche diffusa sui social network, nella stampa, in tutte le lingue possibili. La Storia si scrive ora, e vogliamo stare dalla parte giusta. Aprite la frontiera. Liberate Gaza. La pace è ancora possibile».

Chi desidera seguire da vicino l’organizzazione italiana della marcia può unirsi al gruppo Telegram dedicato (qui il link) e restare aggiornato attraverso i profili social ufficiali: su Instagram l’iniziativa è consultabile sull’account @mtg_international_italia, mentre su TikTok l’indirizzo è @march.to.gaza_italia.