venerdì 7 Novembre 2025
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Creta, vasto rogo a Ierapetra: centinaia di sfollati e danni ingenti

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Un vasto incendio sta devastando Ierapetra, sull’isola di Creta, propagandosi su tre fronti e costringendo all’evacuazione di diverse località, tra cui Ferma, Agia Fotia, Koutsounari, Achlia e Galini. I residenti parlano di distruzione “biblica”, con numerose abitazioni andate distrutte e persone tratte in salvo anche via mare. Centinaia di sfollati sono stati accolti nella palestra comunale coperta. Le operazioni di soccorso sono rese difficili dai venti fortissimi, che hanno raggiunto gli 11 Beaufort. Le fiamme restano fuori controllo sul fronte nord, mentre i vigili del fuoco parlano di uno scenario senza precedenti.

Il protocollo varato dal governo per proteggere i lavoratori dal caldo estremo

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Con l’arrivo dell’estate e il progressivo aumento delle temperature, il lavoro sotto il sole cocente torna a rappresentare una seria minaccia per la salute di migliaia di lavoratori. Edilizia, agricoltura, logistica, vigilanza, trasporti e persino il lavoro in bicicletta dei rider sono tra i settori più esposti. In questo contesto, il governo ha deciso di intervenire: è stato firmato al ministero del Lavoro, alla presenza di sindacati e imprese, il nuovo Protocollo sulle condizioni climatiche estreme. Un’intesa che, almeno sulla carta, punta a coniugare la continuità delle attività produttive con la tutela della salute dei lavoratori, specialmente quelli che operano all’aperto. Non mancano, però, alcuni punti di non ritorno, sottolineati dalle stesse sigle sindacali.

La firma del documento è avvenuta alla presenza della ministra del Lavoro Marina Calderone, dei sindacati (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) e delle principali associazioni datoriali (tra cui Confindustria, Ance, Coldiretti, Confartigianato, Confagricoltura, Cna). Per la ministra Calderone, «con la sottoscrizione del protocollo caldo al ministero del Lavoro, le parti sociali hanno dato una risposta importante ai lavoratori e alle imprese in un momento certamente eccezionale». Il protocollo, che sarà recepito con un decreto ministeriale, definisce un insieme di misure organizzative, formative e tecniche rivolte a prevenire gli effetti del caldo estremo. Tra i punti cardine c’è il «ricorso ampio ed automatico» agli ammortizzatori sociali, in particolare alla Cassa Integrazione Ordinaria (CIGO) con causale «eventi meteo» — anche per i lavoratori stagionali — evitando che le ore di sospensione vengano computate nei limiti massimi previsti dalla normativa. Il trattamento può essere richiesto «non solo in presenza di temperature “realmente” superiori ai 35 °C, ma anche quando quelle “percepite” rendono impossibile lo svolgimento in sicurezza dell’attività, o in caso di ordinanze di sospensione».

Per garantire un’attivazione tempestiva delle misure di protezione, il datore di lavoro dovrà avvalersi del bollettino ufficiale pubblicato sul sito del Ministero della Salute, o di altri strumenti idonei come le mappe Worklimate sviluppate da Inail e Università di Bologna. La valutazione del rischio deve inoltre tenere conto del microclima locale, prevedendo azioni mirate come l’installazione di aree d’ombra e ristoro, la fornitura di acqua e sali minerali, la modifica degli orari di lavoro o la sospensione delle attività nelle ore più calde. Il Protocollo si sviluppa su quattro ambiti di intervento fondamentali: informazione e formazione, sorveglianza sanitaria, dispositivi di protezione individuale (DPI) adeguati, riorganizzazione dei turni e degli orari. Grande attenzione è rivolta alla prevenzione e alla corretta attuazione della sorveglianza sanitaria, con percorsi condivisi validi anche per studenti in alternanza scuola-lavoro e per tutti i lavoratori, senza distinzione.

Il protocollo firmato da governo, sindacati e associazioni datoriali per affrontare le emergenze climatiche nei luoghi di lavoro è stato accolto con favore, ma anche con una serie di critiche. Francesca Re David, della CGIL, ha evidenziato l’urgenza di uscire da una logica emergenziale, chiedendo misure strutturali e soglie climatiche precise oltre le quali attivare tutele e ammortizzatori sociali, che nel 2025 saranno estesi anche ai lavoratori stagionali. A sollevare critiche anche Fillea Cgil, secondo cui il limite primario del protocollo sul caldo è la necessità di stipulare accordi locali o di categoria, che rischiano di arrivare troppo tardi. Per il segretario generale Antonio Di Franco, infatti, mancano norme organiche, aggiornamento delle tabelle sulle malattie professionali e integrazione del rischio climatico nella pianificazione dei lavori pubblici.

Intanto, merito ai rider, il Piemonte ha fatto da apripista: è la prima Regione ad aver esteso le tutele anche ai ciclofattorini, lavoratori esposti in prima linea al caldo urbano durante le ore dei pasti. Nel frattempo, però, la piattaforma di delivery Glovo ha proposto ai propri rider un «cottimo climatico», costituito da un bonus dal 2% all’8% per effettuare le consegne anche quando le temperature salgono sopra i 32 gradi. Il sindacato Cgil ha criticato fortemente Glovo, affermando che «nessun compenso può giustificare il lavoro in condizioni di rischio estremo», che «la salute viene prima dei bonus» e che tale iniziativa rischia «di trasformare un pericolo per la salute in un incentivo economico».

Senegal: Corte Suprema conferma la condanna per il premier

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La Corte Suprema del Senegal ha confermato la condanna per diffamazione a Ousmane Sonko, primo ministro del Paese. Sonko era stato condannato lo scorso gennaio per avere diffamato l’ex ministro del Turismo Mamé Mbaye Niang. In quel periodo, Sonko era il leader di Liberare il popolo, il partito di opposizione al governo, e la condanna gli aveva impedito la candidatura alle elezioni presidenziali; le elezioni sono state vinte da Bassirou Diomaye Faye, altro esponente del partito, che ha così nominato Sonko primo ministro. Sonko ha dichiarato che presenterà un altro ricorso contro la decisione del tribunale.

“Economia del genocidio”: il rapporto ONU che identifica le aziende che fiancheggiano Israele

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“Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”. È questo il titolo dell’ultimo rapporto della Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese. Nel documento, Albanese esplora «i meccanismi aziendali che sostengono il progetto coloniale israeliano». Il rapporto scoperchia il proverbiale vaso di Pandora, mostrando chi guadagna da questa duplice operazione di cancellazione e sostituzione dei palestinesi dalla propria terra: dietro vi sono aziende belliche come l’italiana Leonardo, di sorveglianza tecnologica come Palantir, di commercio digitale come Amazon, ma non solo; si parla dell’industria alimentare di Tnuva, dei supermercati di Carrefour, dei colossi del turismo globale di AirBnB e Booking, delle ONG, delle università, dei fondi pensionistici. Una fitta rete di interessi che fa spesso capo ai maggiori gruppi finanziari del mondo, come Vanguard e Blackrock, e che risponde a quella domanda che tutti si pongono quando vengono quotidianamente esposti alle immagini atroci di ciò che accade a Gaza: come è possibile che il genocidio continui? La risposta, conclude il rapporto, è semplice: «perché è redditizio per molti».

Come le aziende violano il diritto internazionale

Il rapporto di Albanese indaga sui meccanismi e i legami aziendali che contribuiscono allo sfollamento e alla sostituzione dei palestinesi nei territori occupati, mostrando le entità che traggono profitto «dall’economia israeliana di occupazione illegale, apartheid e, ora, genocidio». Albanese ha sviluppato un database di oltre 1.000 entità aziendali che collaborano con la macchina economica israeliana: con “entità aziendali” «si intendono imprese commerciali, società multinazionali, entità a scopo di lucro e non a scopo di lucro, private, pubbliche o statali». Aiutando Israele, queste aziende violano i Principi guida su imprese e diritti umani, e le norme più fondamentali del diritto internazionale.

Al centro delle violazioni, c’è la duplice logica di eradicazione e sostituzione dell’eredità palestinese dal territorio. Questa pratica si è affermata sin da prima della fondazione di Israele, con l’istituzione del Fondo Nazionale Ebraico nel 1901, e «con l’aiuto crescente di entità aziendali». Specialmente dopo il 1967, il settore aziendale ha fornito a Israele tutto il necessario per distruggere l’eredità palestinese, aiutando lo Stato ebraico a segregare e reprimere le comunità arabe, per infine incentivare la loro sostituzione e la presenza militare israeliana. In cambio, le aziende hanno tratto e traggono ancora oggi profitto da tale sistema, sfruttando il lavoro e le risorse palestinesi, costruendo e alimentando le colonie, e vendendo e commercializzando beni e servizi ​​in Israele. Con gli accordi di Oslo, la situazione è peggiorata, perché il «monopolio di Israele» è stato istituzionalizzato «sul 61% della Cisgiordania ricca di risorse (Area C)». Oggi questo sistema costa alla Palestina almeno il 35% del suo PIL, e questa forma di economia coloniale si è trasformata in un’economia del genocidio.

La cancellazione: armi, tecnologia e civile

Un mezzo della Caterpillar viene utilizzato nei campi a ovest di Betlemme, in Cisgiordania.

Il primo tassello fondamentale del progetto coloniale e genocidario israeliano è quello della cacciata dei palestinesi dalla propria terra, che ha dato vita a una vera e propria economia della cancellazione di un popolo. Nell’economia del genocidio, gli arei F-16 ed F-35, i droni, i quadricotteri, gli esacotteri, fino ad arrivare alle armi da fuoco e ai proiettili risultano centrali. Molte tecnologie sono sviluppate in collaborazione con il Massachusetts Institute of Technology; alcuni materiali robotici sono forniti dalla giapponese FANUC Corporation; le componenti sono consegnate da aziende di trasporto come la danese Maersk; diversi progetti, tra cui quelli dei caccia, sono realizzati dalle israeliane Elbit Systems e Israeli Aerospace Industries, dalla statunitense Lockheed Martin e dall’italiana Leonardo. «Per aziende israeliane come Elbit e IAI, il genocidio in corso è stato un’impresa redditizia», scrive Albanese. Nel 2024 la spesa militare israeliana è aumentata del 65% e ha generato un forte aumento dei profitti annuali di tali aziende.

Accanto al settore militare, c’è quello della sorveglianza e in generale della tecnologia. Le stesse aziende tecnologiche israeliane nascono dal settore militare: è il caso di NSO Group, sorto su iniziativa dell’unità 8200 delle IDF, le cui tecnologie di riconoscimento vengono utilizzate contro gli attivisti palestinesi ed esportate in tutto il mondo. La statunitense IBM opera in Israele dal 1972, addestrando personale militare e di intelligence; IBM gestisce anche il database centrale di alcune istituzioni israeliane, e consente la raccolta, l’archiviazione e l’uso governativo dei dati biometrici sui palestinesi. Accanto a IBM, c’è HP, che ha a lungo «abilitato i sistemi di apartheid di Israele, fornendo tecnologia al COGAT, al servizio carcerario e alla polizia». Le tecnologie di Microsoft sono integrate con il sistema israeliano, «nel servizio carcerario, nella polizia, nelle università e nelle scuole, comprese le colonie», nonché nell’esercito. Col passare degli anni, questo fitto sistema tecnologico ha iniziato ad avere bisogno di tecnologie cloud per l’archiviazione e l’elaborazione di dati, che nel 2021 Israele ha assegnato ad Alphabet (Google) e Amazon, con un contratto da 1,2 miliardi di dollari. La tecnologia, sottolinea Albanese, è redditizia: nel 2024 Israele ha registrato un aumento del 143% delle start-up di tecnologia militare, prodotti che hanno rappresentato il 64% delle esportazioni israeliane durante il genocidio.

Ultimo, ma non meno importante, elemento dell’economia della distruzione è l’impiego di tecnologie civili e mezzi pesanti per distruggere campi, abitazioni, e infrastrutture palestinesi. A guadagnare dalle operazioni di demolizione è stata, per decenni, la statunitense Caterpillar, fornendo attrezzature e mezzi pesanti, anche attraverso il programma statunitense di finanziamento militare estero. In collaborazione con aziende come IAI, Elbit Systems e RADA Electronic Industries (in mano alla nostra Leonardo) Israele ha trasformato il bulldozer D9 della Caterpillar in un armamento automatizzato dell’esercito israeliano. Anche Hyundai e Volvo sono da tempo collegate alla distruzione di proprietà palestinesi, fornendo «attrezzature attraverso rivenditori israeliani autorizzati esclusivamente». I mezzi di queste aziende sono oggi utilizzati tanto nella Striscia di Gaza quanto in Cisgiordania.

La sostituzione: risorse, commercio e turismo

In parallelo alla cacciata, alla segregazione e alla cancellazione dei palestinesi, le aziende hanno anche aiutato nella costruzione di ciò che li sostituisce: le colonie e tutto ciò che le circonda. Dopo ottobre 2023 queste ultime attività sono aumentate. Nel 2024, infatti, il bilancio del Ministero delle Costruzioni e dell’Edilizia Abitativa israeliano è raddoppiato. Oltre ai già citati mezzi pesanti per distruggere gli insediamenti palestinesi, Israele «saccheggia milioni di tonnellate di roccia dolomitica dalla cava di Nahal Raba su terreni confiscati ai villaggi palestinesi in Cisgiordania» concedendo licenze alla tedesca Heidelberg Materials. Proprio lo sfruttamento delle risorse e il conseguente controllo dei servizi essenziali risultano centrali nell’economia del genocidio israeliano: Mekorot detiene il monopolio dell’acqua nel territorio palestinese occupato; Gaza dipende dalle importazioni di carbonio e carburante di cui Drummond Company e Swiss Glencore sono i principali fornitori; lo Stato ebraico ha concesso licenze per l’esplorazione di idrocarburi a Chevron e BP. Il consorzio della Chevron fornisce inoltre più del 70% del consumo interno di gas naturale israeliano.

Israele guadagna e fa guadagnare alle aziende anche nei settori agricolo, commerciale e turistico. Tnuva, il più grande conglomerato alimentare israeliano, ora di proprietà maggioritaria della cinese Bright Dairy & Food, ha alimentato e beneficiato dell’espropriazione delle terre palestinesi, aumentando la dipendenza palestinese dall’industria alimentare israeliana; in molti Paesi non si fa distinzione tra i prodotti provenienti da Israele e quelli provenienti dalle sue colonie; alcune catene di supermercati come Carrefour operano direttamente nelle colonie, così come le piattaforme di commercio elettronico come Amazon; Booking e AirBnb affittano proprietà e camere d’albergo nelle colonie israeliane, tanto che negli ultimi cinque anni il numero di tali annunci è più che raddoppiato.

Gli abilitatori: fondi pensionistici, ONG, istituti finanziari

A oliare l’articolata macchina dell’economia del genocidio, permettendo la speculazione, sono ONG, banche, gruppi assicurativi, fondi sovrani e pensionistici, istituti finanziari. «Dal 2022 al 2024, il bilancio militare israeliano è cresciuto dal 4,2% all’8,3% del PIL, portando il bilancio pubblico a un deficit del 6,8%». Ad aumentare la fiducia degli investitori sono intervenute alcune tra le più grandi banche del mondo, quali BNP Paribas e Barclays, che hanno sottoscritto i titoli israeliani, consentendo al Paese di contenere il premio del tasso di interesse, malgrado un declassamento del credito. Ad acquistarli, le maggiori società di gestione patrimoniale: Blackrock, per 68 milioni di dollari, Vanguard per 546 milioni di dollari, e la sussidiaria di gestione patrimoniale di Allianz, PIMCO, per 960 milioni di dollari. Queste stesse società possiedono una cospicua percentuale di diverse delle aziende citate precedentemente: Blackrock è il secondo maggiore investitore in Palantir (8,6%), Microsoft (7,8%), Amazon (6,6%), Alphabet (6,6%) e IBM (8,6%), e il terzo maggiore in Lockheed Martin (7,2%) e Caterpillar (7,5%); Vanguard è il maggiore investitore istituzionale in Caterpillar (9,8%), Chevron (8,9%) e Palantir (9,1%), e il secondo maggiore in Lockheed Martin (9,2%) ed Elbit Systems (2,0%). BNP Paribas è stato uno dei principali finanziatori europei dell’industria delle armi che rifornisce Israele, prestando, tra le altre cose, 410 milioni di dollari a Leonardo; nel 2024, Barclays ha fornito 862 milioni di dollari a Lockheed Martin e 228 milioni di dollari a Leonardo.

Accanto agli istituti bancari e finanziari ci sono anche i fondi sovrani e pensionistici: dopo il 2023, il più grande fondo sovrano del mondo, il Norwegian Government Pension Fund Global (GPFG), ha aumentato i suoi investimenti in società israeliane del 32%, toccando quota 1,9 miliardi di dollari. Entro la fine del 2024, il GPFG aveva investito almeno 121,5 miliardi di dollari nelle aziende citate da Albanese, il 6,9% del suo valore totale. La Caisse de Dépôt et Placement du Québec, un fondo pensionistico canadese, vi ha invece investito 6,67 miliardi di dollari. Anche le organizzazioni di beneficenza religiose «sono diventate importanti facilitatori finanziari di progetti illegali», sfruttando i propri vantaggi fiscali. Il Fondo Nazionale Ebraico (KKL-JNF) e le sue oltre 20 affiliate finanziano l’espansione dei coloni e progetti legati all’esercito; dall’ottobre 2023, piattaforme come Israel Gives «hanno consentito il crowdfunding deducibile dalle tasse in 32 Paesi per unità militari e coloni israeliani»; Christian Friends of Israeli Communities con sede negli Stati Uniti, Dutch Christians for Israel e affiliati globali, hanno inviato oltre 12,25 milioni di dollari nel 2023 a vari progetti che sostengono le colonie, «compresi alcuni che addestrano coloni estremisti».

Gaza, si lavora a una tregua: entro domani risposta di Hamas

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Hamas ha annunciato di essere al vaglio di una proposta di cessate il fuoco di 60 giorni con Israele annunciata negli scorsi giorni dal presidente USA Trump, che ha evidenziato il parere favorevole di Tel Aviv. Secondo il quotidiano Saudi Asharq News, Hamas – che sta valutando le nuove offerte ricevute dai mediatori Egitto e Qatar – presenterà la sua risposta ufficiale entro domani. Il gruppo palestinese, che si è detto in linea generale soddisfatto della proposta, continua però a contestarne diversi punti, in particolare quelli riferiti all’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia e al ritiro dell’IDF dalla Striscia, menzionati senza indicare date specifiche né allegare mappe.

Accordi per 27 miliardi tra Arabia Saudita e Indonesia

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L’Arabia Saudita e l’Indonesia hanno firmato diversi accordi e memorandum d’intesa per un valore di circa 27 miliardi di dollari. Gli accordi sono stati siglati in occasione di una visita del presidente indonesiano al Paese del Golfo, e prevedono una maggiore collaborazione in settori come l’energia pulita e la petrolchimica. I Paesi hanno inoltre rilanciato la cooperazione nell’approvvigionamento di petrolio greggio, e si sono poste l’obiettivo di rafforzare le catene di approvvigionamento nei settori energetico e minerario.

La Germania aumenterà il salario minimo a 14,60 euro entro il 2027

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La Germania ha annunciato un aumento del salario minimo, che raggiungerà i 14,60 euro all'ora entro il 2027. La decisione, presa dalla Minimum Wage Commission, un organismo composto da rappresentanti dei sindacati e dei datori di lavoro, prevede l’aumento in due fasi.  A partire dal 2026, il salario minimo orario passerà da 12,82 euro a 13,90 euro, mentre nel 2027 verrà ulteriormente incrementato di 0,70 euro, portando il salario a 14,60 euro. Con questo aumento, il reddito medio mensile dei lavoratori tedeschi non potrà essere inferiore a circa 2.500 euro, un livello che pone la Germania al s...

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USA, raggiunto un accordo sui dazi col VIetnam

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Il presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump ha annunciato di avere raggiunto un accordo commerciale con il Vietnam. Da quanto comunica Trump, il Vietnam non imporrà dazi sui beni americani importati nel Paese e pagherà una tariffa del 20% sulle sue esportazioni negli Stati Uniti. L’accordo con Hanoi è il secondo annunciato dal presidente degli Stati Uniti. Esso arriva a qualche giorno dalla scadenza della pausa per l’entrata in vigore di quelli che Trump ha definito «dazi reciproci», che dovrebbero scattare il 9 luglio. Le autorità vietnamite non hanno ancora rilasciato alcuna dichiarazione.

Ucraina: gli USA bloccano l’invio di missili, Mosca dichiara di aver conquistato il Lugansk

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L’esercito russo avrebbe assunto il pieno controllo della regione orientale di Lugansk, secondo quanto dichiarato ieri alla televisione di Stato russa dal capo della regione, Leonid Pasechnik: «Il territorio della Repubblica Popolare di Luhansk è completamente liberato, al cento per cento», ha affermato. Da parte del ministero della Difesa russo non c’è stata una conferma immediata, mentre l’Ucraina non ha commentato. Se da un lato, Kiev considera illegali e infondate le rivendicazioni di Mosca su Lugansk e le altre regioni dell’Ucraina conquistate dalle forze russe, dall’altro la Russia afferma che quei territori fanno ora parte della Federazione e ricadono sotto il suo ombrello nucleare. Allo stesso tempo, proprio mentre nel fine settimana Mosca ha lanciato il suo più grande attacco aereo contro l’Ucraina, il Pentagono ha deciso di sospendere le spedizioni dei missili Patriot e di altre munizioni di precisione all’Ucraina a causa del timore che le scorte di armi statunitensi stiano diminuendo troppo. Secondo quanto riferito dal quotidiano Politico, la decisione è stata presa dal responsabile politico del Pentagono, Elbridge Colby, dopo un’analisi delle scorte di munizioni del Pentagono. Successivamente, la vicesegretaria stampa della Casa Bianca, Anna Kelly, ha aggiunto che la decisione «è stata presa per mettere al primo posto gli interessi americani, a seguito di una revisione del Dipartimento della Difesa (DOD) sul supporto militare e l’assistenza forniti dal nostro Paese ad altri Paesi in tutto il mondo».

Tra sabato e domenica scorsa le forze russe hanno lanciato il più grande attacco aereo contro il Paese confinante, impiegando 477 droni e decodificatori e 60 missili. In questo contesto è avvenuta anche la presa totale – secondo le fonti russe – di Lugansk, importante regione ucraina, fulcro – insieme alla vicina Donetsk – del conflitto iniziato nel 2014, dopo la destituzione dell’allora legittimo presidente Viktor Janukovyč, in seguito alla cosiddetta rivoluzione di Maidan. Lugansk, con una superficie di 26.700 chilometri quadrati, sarebbe la prima regione ucraina a passare completamente sotto il controllo delle forze russe, dopo l’annessione della Crimea nel 2014, sebbene le altre tre regioni (Donetsk, Kherson e Zaporizhia) abbiano già aderito alla Federazione russa con una cerimonia avvenuta al Cremlino il 30 settembre 2022. Attualmente la Russia controlla circa il 19% del territorio ucraino, oltre al 70% delle regioni di Donetsk, Zaporizhia e Kherson e frammenti delle regioni di Kharkiv, Sumy e Dnipropetrovsk.

L’offensiva russa non ha interessato solo l’oblast’ di Lugansk, ma diversi punti nevralgici di una linea del fronte che negli ultimi mesi si è estesa del 20% arrivando a raggiungere i 1200 chilometri, come riporta il sito specializzato Analisi Difesa. In particolare, l’esercito moscovita nelle ultime settimane ha infranto le difese nemiche nella regione di Dnipropetrovsk, avanzando nella regione di confine di Sumy, divenuta uno dei punti critici della linea del fronte, tanto che lo Stato maggiore ucraino ha dovuto riconoscere la perdita di controllo su parte dei territori nel nord della regione. Inoltre, ha guadagnano terreno anche nelle regioni di Kharkiv, Donetsk e sul fronte di Zaporizhia. Secondo il comandante delle Forze armate ucraine, generale Olexandr Syrsky, i russi puntano a «sfiancarci con il numero».

In questo contesto di forte difficoltà sul campo di battaglia, la scorsa settimana il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha incontrato Trump a margine del vertice NATO nei Paesi Bassi chiedendo per l’ennesima volta aiuti militari a Washington. Secondo quanto riferito da Politico, il presidente statunitense, irritato dalla reticenza di Putin a sedersi al tavolo delle trattative, avrebbe aperto alla possibilità di fornire sistemi antimissile all’Ucraina, sottolineando però che «sono molto difficili da ottenere». Un’apertura che contrasta con la decisione del Pentagono di sospendere gli aiuti militari. Tra il materiale bellico fin d’ora sospeso ci sono i missili per i sistemi di difesa aerea Patriot, i proiettili di artiglieria di precisione, Hellfire e altri missili che l’Ucraina lancia dai suoi caccia F-16 e dai suoi droni. Il provvedimento del Dipartimento della Difesa USA ha suscitato il disappunto e la preoccupazione degli alleati di Kiev al Congresso, in particolare tra i Democratici. «I sistemi di difesa aerea di fabbricazione statunitense, inclusa la piattaforma Patriot, sono il fulcro delle difese ucraine […]», ha affermato la deputata Marcy Kaptur (Democratica dell’Ohio), aggiungendo che «Se queste notizie sono vere, allora il signor Colby sta prendendo misure che sicuramente causeranno la morte imminente di molti militari e civili ucraini». Non è da escludere, del resto, che la decisione del Pentagono sia motivata anche dal fatto che gli Stati Uniti stanno ora inviando massicci aiuti militari a Israele, mentre negli scorsi mesi hanno utilizzato molti sistemi missilistici per contrastare gli Houthi nello Yemen.

A causa dei molti fronti di guerra in cui sono impegnati gli Stati Uniti, dunque, l’Ucraina rischia di rimanere sguarnita di componenti militari essenziali sul campo di battaglia, proprio mentre la Russia incrementa la sua offensiva e il presidente Vladimir Putin è evidentemente intenzionato a raggiungere tutti gli obiettivi strategici militari, indipendentemente dagli sforzi di Trump di chiudere rapidamente il conflitto.

Bangladesh: condannata l’ex premier Hasina

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L’ex prima ministra del Bangladesh, Sheikh Hasina, è stata condannata a sei mesi di carcere dal Tribunale per i Crimini Internazionali del Paese, con l’accusa di oltraggio alla corte. La leadership di Hasina è caduta durante le proteste degli studenti bengalesi dello scorso anno, che l’hanno portata a lasciare il Paese e fuggire in India. Da allora le sono stati mossi contro diversi capi di accusa, ma quella di oggi è la prima volta in cui viene condannata per una delle varie accuse a suo carico. Trovandosi ancora in India, la Corte ha osservato che la sentenza avrà effetto nel momento in cui verrà arrestata.