giovedì 11 Settembre 2025
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USA, Trump rimuove Waltz dopo lo scandalo delle chat

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Il consigliere per la sicurezza nazionale USA, Mike Waltz, e il suo vice Alex Wong lasciano l’amministrazione Trump dopo lo scandalo “Signalgate”, nato dalla diffusione involontaria di piani segreti per un attacco in Yemen in una chat riservata. Trump ha annunciato la rimozione come una “promozione”, nominando Waltz prossimo ambasciatore all’ONU. Il ruolo di consigliere passa così ad interim al segretario di Stato Marco Rubio. L’incidente ha sollevato dubbi sulla gestione della sicurezza. Waltz, ex deputato della Florida e veterano decorato dei Berretti Verdi, si era assunto nelle scorse settimane la piena responsabilità per l’incidente, definendolo «imbarazzante» in un’intervista a Fox News.

Istanbul, manifestazioni per il 1 maggio: almeno 400 arresti

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Sarebbero almeno 400 le persone arrestate dalla polizia turca in occasione della manifestazione del 1° maggio a Istanbul. A dare la notizia è l’Associazione dei Giuristi Contemporanei (CHD), che spiega che la polizia è intervenuta contro alcuni gruppi di manifestanti mentre questi cercavano di raggiungere Piazza Taksim. La stessa piazza, storico simbolo della Festa dei Lavoratori, era stata designata come zona rossa dalle forze dell’ordine, che prima della manifestazione hanno schierato decine di migliaia di agenti attorno ai quartieri Sisli, Kadikoy e Besiktas e bloccato metro, autobus e traghetti.

Corea del Sud, il primo ministro rassegna le dimissioni

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Il primo ministro e presidente ad interim della Corea del Sud, Han Duck-soo, ha rassegnato le dimissioni e annunciato la propria candidatura alle prossime presidenziali. L’annuncio arriva dopo una decisione della Corte Suprema che potrebbe minare la candidatura di Lee Jae-myung, esponente del rivale Partito Democratico e favorito per la vittoria elettorale: Lee è stato giudicato colpevole di avere rilasciato false dichiarazione durante la sua ultima campagna elettorale, e ora la Corte d’Appello dovrà decidere se ammetterlo alle elezioni. La prossima tornata elettorale è prevista il 3 giugno, ed è stata indetta dopo la destituzione dell’ex presidente Yoon Suk-yeol, accusato di tradimento per avere provato a instaurare la legge marziale.

Il nuovo rapporto Amnesty dettaglia la crisi globale dei diritti umani

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Recentemente, Amnesty ha pubblicato l’annuale rapporto sui diritti umani nel mondo. Il documento analizza lo stato in cui versano i diritti in 150 diversi Paesi del pianeta, sottolineando «l’insinuarsi di pratiche autoritarie e le feroci repressioni contro il dissenso». Quest’anno, a ricevere un posto d’onore nella trattazione, è quello che Amnesty definisce «Effetto Trump», ossia quella «campagna contro i diritti umani» portata avanti dall’amministrazione del presidente statunitense attraverso il sostegno indiscriminato allo Stato di Israele e alle grandi aziende finanziarie, nonché mediante il trattamento che riserva a migranti e minoranze. Tra guerre e genocidi, discriminazione delle minoranze e repressione del dissenso, i diritti umani nel mondo stanno entrando in una vera e propria «crisi» nella maggior parte dei Paesi analizzati, tra cui anche nella stessa Italia.

Conflitti armati e rispetto del diritto internazionale

Un gruppo di bambini ammassato per ottenere una razione di cibo nella Striscia di Gaza

Una delle principali cause della regressione dei diritti umani sono le guerre, i genocidi e i conflitti armati sparsi per il mondo. Nella maggior parte dei conflitti citati (tra cui figurano Gaza, Birmania, Repubblica Democratica del Congo, Sudan), infatti, i civili sono stati privati dei diritti all’istruzione, al cibo, a un alloggio adeguato, all’assistenza sanitaria e alla sicurezza. Nel 2024, guerre e conflitti hanno portato a «un’impennata» dei casi di violenza sessuale e di genere legata al conflitto, con un «impatto sproporzionato» su donne e ragazze. Il caso di Gaza, in questo, è forse uno dei più emblematici, poiché violenze, abusi e privazioni dei diritti fondamentali si configurano come un vero e proprio genocidio, e i crimini assumono i tratti della discriminazione razziale. Come a Gaza, anche in Birmania il «razzismo sistemico» la fa da padrone, di fronte a una sempre più disinteressata risposta politica internazionale.

«Mentre in alcuni casi i meccanismi di giustizia internazionale hanno compiuto importanti passi avanti verso l’accertamento delle responsabilità», si legge infatti nel rapporto, «i governi potenti hanno ripetutamente bloccato i tentativi di adottare azioni significative per porre fine alle atrocità». USA, Regno Unito e molti Stati dell’UE, continua il rapporto «hanno pubblicamente appoggiato le azioni compiute da Israele a Gaza», facendo, nel caso degli Stati Uniti, un «ricorso improprio» al diritto di veto in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La soluzione, scrive Amnesty, è riformare tale istituzione, «in modo che gli Stati membri permanenti non possano esercitare il potere di veto per bloccare azioni finalizzate a far cessare i crimini di atrocità e garantire un rimedio».

Razzismo e repressione delle minoranze

La privazione dei diritti dei più deboli, scrive Amnesty, non è aumentata solo nei Paesi in guerra, ma in tutto il mondo. In cima alla lista delle minoranze discriminate figurano rifugiati e persone migranti. «Diversi Paesi, tra cui Arabia Saudita, Canada e Qatar», scrive Amnesty, «hanno continuato ad applicare programmi di gestione dei visti caratterizzati da razzismo e a vincolare i lavoratori migranti a uno specifico datore di lavoro», aprendo la strada allo sfruttamento. Le persone migranti sarebbero inoltre oggetto di «misure estreme e violente» per impedirne e respingerne l’arrivo nei Paesi, spesso portate avanti, come nel caso della Grecia, ignorando o aggirando gli ordini emessi dall’autorità giudiziaria. L’attacco alle persone migranti è direttamente collegato ai casi di discriminazione razziale, che Amnesty definisce «sistemica» e «radicata». In Brasile, in Ecuador e negli USA, «le operazioni di pubblica sicurezza hanno preso di mira o colpito in modo sproporzionato le persone afrodiscendenti»; in Cina e in Tagikistan, «le minoranze etniche e religiose hanno subìto persecuzioni e una discriminazione sistemica», mentre in Danimarca, nei Paesi Bassi e in Svezia «sistemi di welfare automatizzati hanno portato a pratiche discriminatorie contro le persone razzializzate».

Tra i casi di discriminazione citati da Amnesty vi è anche quella di genere: in Afghanistan i talebani hanno «escluso completamente» le donne dalla vita pubblica «limitando di fatto tutti gli aspetti della loro vita». In Argentina, è stato registrato un femminicidio ogni 33 ore. In Iran, è invece aumentata la repressione contro le ragazze «che sfidavano le leggi sull’obbligo di indossare il velo». Malgrado i passi avanti in Thailandia, in Grecia, in Repubblica Ceca, in Corea del Sud, in Giappone e a Taiwan, inoltre, «la proliferazione della discriminazione e di leggi repressive guidate da movimenti anti-diritti e anti-gender» è aumentata, specialmente nei Paesi africani, in Bulgaria e in Georgia.

Repressione del dissenso e delle libertà

Le forze dell’ordine arrestano un manifestante contro il genocidio in Palestina, ad Amsterdam

La discriminazione delle minoranze ha un effetto diretto su un altro dei punti fondamentali affrontati da Amnesty: la repressione del dissenso e delle libertà. «I gruppi marginalizzati sono stati utilizzati come capri espiatori e presentati come una minaccia alla stabilità politica o economica», scrive infatti il gruppo, «al fine di legittimare ulteriori restrizioni ai diritti umani e permettere a chi detiene il potere di rafforzare il proprio controllo». Quei fenomeni di orientamento discriminatorio, insomma, sarebbero solo un modo per scaricare le colpe del malfunzionamento dei meccanismi sociali alle minoranze e aprire la strada a una maggiore restrizione dei diritti. Mentre dal basso si è impegnati a farsi la guerra gli uni con gli altri, dall’alto si sfrutterebbe la polarizzazione del dibattito per inasprire la repressione della conflittualità sociale. Al tempo stesso, l’attacco ai diritti delle minoranze costituirebbe un fertile precedente, fornendo una base solida per una futura estensione delle restrizioni all’intera società.

In termini di repressione del dissenso, sono state colpite tanto la libertà di riunione quanto quella di espressione. In Argentina, Georgia, Nicaragua, Pakistan e Perù sono sorte nuove norme a restrizione del diritto di protesta; in Bangladesh, Egitto, Georgia, Giordania, Guinea, India, Indonesia, Kenya, Mozambico, Nepal, Nigeria, Pakistan e Senegal sono aumentati i casi di violenza da parte delle forze dell’ordine; e in quasi tutto il mondo chi ha manifestato per la Palestina «ha dovuto affrontare violenze, vessazioni o l’arresto». Parallelamente, in Paesi come la Cina è aumentato il ricorso a tecnologie che impiegano spyware e sistemi di riconoscimento facciale, i social media hanno diminuito le «protezioni finalizzate a prevenire danni agli individui più marginalizzati» e in tutto il mondo le nuove tecnologie sono ancora prive di una regolamentazione che ne garantisca un impiego etico e rispettoso dei diritti individuali. La progressiva privazione delle libertà avviene sullo sfondo di un aumento della povertà e delle disuguaglianze economiche, e dei sempre più frequenti disastri climatici, che si verificano in assenza di meccanismi giuridici che garantiscano la giustizia ambientale.

Il caso dell’Italia

Nel rapporto, Amnesty dedica una parte a un focus sull’Italia. Il rapporto, di preciso, cita i casi di tortura e maltrattamenti da parte del personale penitenziario ai danni dei detenuti, che nel 2024 sono stati almeno 83. Ad aprile, «alcune procuratrici hanno rivelato che 13 agenti penitenziari erano stati arrestati e otto sospesi per accuse di tortura e altre violazioni contro ragazzi trattenuti nel carcere minorile di Milano», caso che abbiamo trattato in un articolo de L’Indipendente. I casi di violenza domestica contro donne e ragazze registrati, invece, risultano almeno 59, e i femminicidi almeno 95. Amnesty cita poi i rapporti di ONU e Commissione Europea contro il Razzismo e l’Inclusione (ECRI) che «descrivevano come le persone rom, africane e di discendenza africana, migranti e LGBTI continuassero a essere vittime di razzismo e discriminazione, anche da parte di ufficiali statali».

In Italia, ritiene Amnesty, le persone migranti continuano a subire discriminazioni con il protocollo Italia-Albania, che costituirebbe anche un esempio di scavalcamento degli ordini emessi dall’autorità giudiziaria, e con i pluridocumentati maltrattamenti nei CPR. Stanno inoltre restringendosi le libertà economiche – con un aumento delle persone a rischio povertà – sociali – come nel caso dei diritti sanitari – e il diritto a vivere in un ambiente salubre, come testimoniato dall’ondata di siccità che ha colpito la Sicilia. Ultimo, ma non meno importante, l’attacco alle libertà e la repressione del dissenso rappresentato dal pacchetto Sicurezza”, recentemente approvato sotto forma di decreto legge, che ha già ricevuto diverse critiche da giuristi, magistrati, e istituzioni internazionali come l’ONU.

Bolivia, annullato il mandato d’arresto a Morales

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Un giudice del tribunale di Santa Cruz, in Bolivia, ha annullato il mandato di arresto nei confronti dell’ex presidente indigeno Evo Morales. Il mandato era stato emesso lo scorso dicembre, sulla base di accuse di tratta di minori. Morales, di preciso, era accusato di avere avuto rapporti sessuali con una ragazza di quindici anni durante il periodo della sua presidenza, fra il 2016 e il 2019. Non sono ancora note le motivazioni con cui è stato ritirato il mandato. L’indagine nei suoi confronti, tuttavia, resta ancora aperta, e il ritiro del mandato potrebbe venire impugnato.

In Italia le morti sul lavoro sono ancora troppe

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Le ultime notizie risalgono a ieri: Moamen Khairy Selim Osman, gruista di 35 anni, ha perso la vita a Cremona dopo essere stato colpito alla testa da un piccolo escavatore. A Frosinone, un operaio di 44 anni è rimasto ferito gravemente mentre manovrara un carrello elevatore. Due giorni prima, Paolo Lambruschi, 59 anni, è precipitato all’interno di una cava di marmo, a Carrara, mentre era alla guida di un dumper, morendo sul colpo. La lista prosegue senza sosta. I dati sul 2025 sono ancora parziali ma, stando ai conteggi del sindacato USB, potrebbero essere già 300 le morti sul lavoro quest’anno. Quasi tre operai al giorno. Proprio ieri, alla vigilia del 1° maggio, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha annunciato 650 milioni di euro in finanziamenti aggiuntivi per provvedimenti volti a «migliorare la sicurezza sui posti di lavoro». Le ipotesi? Generici «incentivi e disincentivi» per le aziende in base alla loro condotta e formazione di studenti e lavoratori, con copertura assicurativa per tutti. Misure emergenziali, che coprono un velo una problematica strutturale di lunghissima data nel nostro Paese. Eppure, una possibile soluzione concreta ci sarebbe: l’entrata in vigore di una legge che istituisca il reato di omicidio e lesioni gravi o gravissime sul lavoro, che porterebbe, secondo i promotori, a significative modifiche nell’atteggiamento dei responsabili della sicurezza. Attualmente, la proposta di legge giace in Senato da oltre un anno. Il governo non ha dato cenni di voler procedere ulteriormente in quella direzione.

La manovra annunciata da Meloni si profila, insomma, come un cerotto elargito con quel tempismo simbolico ormai di prassi (fu alla vigilia della festa della donna, lo scorso 7 marzo, che fu annunciato il decreto contro i femminicidi), che sembra puntare a smorzare le possibili critiche contro l’operato dell’esecutivo. Nello stesso comunicato di governo, infatti, non vengono menzionate nemmeno una volta misure radicali volte a responsabilizzare aziende e datori di lavoro. Le aziende avranno sì degli «incentivi» o «disincentivi» in base alla «condotta in materia di sicurezza», ma ad essere davvero centrale, per l’esecutivo, è la «cultura della prevenzione». Da parte dei lavoratori, sia chiaro. Così, vengono annunciate iniziative per la formazione già a partire dalle scuole, non solo «rafforzando la conoscenza di questi temi, di queste materie tra i giovani», ma anche «rendendo strutturale l’assicurazione INAIL per studenti e docenti». Una sorta di misura-beffa, quest’ultima, introdotta nel 2023 dopo la morte di Giuliano De Seta, 18 anni, durante il percorso di alternanza scuola-lavoro in fabbrica. Sin dal momento della sua introduzione è stata fortemente contestata dagli studenti, che all’eventuale risarcimento post-mortem avrebbero preferito l’abolizione dell’alternanza scuola lavoro (tema centrale delle infuocate proteste studentesche del 2022).

Proprio in queste ore, invece, il ministero dell’Istruzione ha deciso di tirare dritto sul tema, proponendo addirittura l’abbassamento dell’età in cui è possibile accedere all’alternanza scuola-lavoro a 15 anni. Negli istituti tecnici, «nel primo biennio, oltre alle attività orientative collegate al mondo del lavoro e delle professioni, è possibile realizzare, a partire dalla seconda classe, i Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento». PCTO, una denominazione generica che indica un tema ben preciso: lo sfruttamento della manodopera giovanile a costo zero, proprio perchè parte di un «percorso formativo». Obbligatorio, peraltro.

Per sottolineare l’urgenza di affrontare la questione della sicurezza sul lavoro, CGIL, CISL e UIL hanno deciso di farne il tema centrale di questo 1° maggio 2025. E rispondono al comunicato di Meloni sottolineando che «esperienza e giurisprudenza dimostrano che la sicurezza, o l’insicurezza, è il risultato della influenza reciproca di un esteso numero di fattori, dei quali il comportamento dei lavoratori non è neanche il più rilevante». I sindacati di base chiedono una «svolta radicale» nella gestione della sicurezza sul lavoro, che sia accompagnata da un salario degno. Secondo gli ultimi dati Eurostat, infatti, i lavoratori (anche a tempo pieno) con uno stipendio inferiore del 60% alla media nazionale sono in aumento, rappresentando il 9% del totale, mentre oltre il 10% degli occupati, tanto full-time quanto part-time, è a rischio povertà. Nel frattempo, l’INAIL riferisce che, tra i propri assicurati, sono stati 1077 i decessi dei lavoratori nel 2024 (in aumento del 4,7% rispetto ai 1029 del 2023),13 quelli degli studenti (rispetto ai 12 del 2023). Dati che, sottolinea l’Osservatorio Indipendente Morti sul Lavoro di Bologna, non tengono conto di una lunga serie di casistiche, tra le quali i lavoratori in nero o i morti in itinere (mentre si recano o rientrano da lavoro). Il totale, secondo l’Osservatorio, sarebbe di almeno 1481. Sono dati che urlano forte, più di qualsiasi proclama politico. E che richiedono azioni e risposte urgenti.

Torino, rivolta nel CPR Brunelleschi: 1 ferito

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Ieri sera, attorno alle 23, è scoppiata una rivolta nel Centro di permanenza per i rimpatri di Corso Brunelleschi, a Torino. Attorno a quell’ora si è sollevata dal centro una colonna di fumo e fiamme, e sul posto sono giunte camionette della polizia, vigili urbani, vigili del fuoco e tre ambulanze. Vigili del fuoco e ambulanze sono entrati nella struttura e almeno un ragazzo ha riportato delle ferite, venendo poi portato via dalle forze dell’ordine. Ancora poco chiare le cause e dinamiche della vicenda. Secondo fonti interne apparse sui media locali, all’origine della rivolta vi sarebbe un tentato suicidio, ma la notizia non sembra al momento essere stata confermata.

È stata depositata una proposta di legge per inserire il diritto ad abitare in Costituzione

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Il comitato Ma Quale Casa? ha presentato in Cassazione una proposta di legge per inserire il diritto ad abitare nella Costituzione. La proposta modificherebbe tre articoli della Carta fondamentale, introducendo tra gli obblighi della Repubblica il dovere di garantire l'accesso all'abitazione e quello di tutelare l'accesso al “godimento” della casa (ossia anche a forme quali l'affitto), oltre a rafforzare il potere dello Stato in materia di politiche abitative generali. La proposta ha ora tempo fino a settembre per raggiungere le 50.000 firme necessarie a essere sottoposta al Parlamento. Se dov...

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Dazi: i BRICS si riuniscono per cercare alternative alle politiche di Trump

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Sostegno alla sicurezza universale, promozione attiva della pace e del dialogo, rafforzamento delle basi dello sviluppo e rafforzamento della cooperazione pratica: sono questi i quattro pilastri di discussione dell’incontro dei Paesi BRICS che si è svolto negli scorsi giorni a Rio de Janeiro, in Brasile, tra i ministri degli Esteri dei Paesi membri. In particolare, è stata sottolineata l’importanza di trovare una risposta comune alla politica aggressiva dei dazi di Trump, sottolineando l’importanza di svolgere negoziati multilaterali come asse principale di azione nel commercio. L’unica vera divergenza, la quale non ha permesso la produzione del documento congiunto, è stata quella sulla possibile riforma delle Nazioni Uniti e del suo Consiglio di Sicurezza, in cui, secondo quanto emerso dai media, India, Brasile e Sudafrica vorrebbero un posto permanente.

Nella dichiarazione finale del Presidente di turno, Mauro Vieira, Ministro degli Affari Esteri brasiliano, è stata espressa «grave preoccupazione per la prospettiva di un’economia globale frammentata e per l’indebolimento del multilateralismo». Lo stesso Vieira, nel riassumere le posizioni dei ministri BRICS durante il vertice, in un chiaro riferimento alle mosse di Trump e la sua guerra dei dazi scatenata contro il resto del mondo, ha poi denunciato l’unilateralismo: «I ministri hanno espresso serie preoccupazioni per l’aumento di misure protezionistiche unilaterali ingiustificate incompatibili con le regole dell’OMC, tra cui l’aumento indiscriminato delle tariffe reciproche e delle misure non tariffarie». Come riportato dal China Daily, prima della dichiarazione finale da parte del Ministro brasiliano, il Ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, aveva fatto una simile dichiarazione, condannando le azioni statunitensi e invitando il blocco ad aumentare la cooperazione mondiale per un reciproco vantaggio economico, specie per i Paesi del così detto Sud globale. «Se si sceglie di rimanere in silenzio e scendere a compromessi, si incoraggerà solo i bulli a spingere ulteriormente», ha avvertito Wang.

Come riportato da varie testate, tra cui MercoPress, tutti i ministri degli Esteri dei Paesi BRICS hanno poi affermato la loro opposizione all’utilizzo di doppi standard mentre sostengono la risoluzione pacifica dei conflitti. Per quanto concerne il massacro condotto contro i palestinesi, i ministri hanno chiesto il sostegno internazionale all’Autorità palestinese col fine di promuovere l’indipendenza e la sovranità della Palestina  nella soluzione a due Stati. Inoltre hanno sottolineato la loro opposizione allo sfollamento forzato dei palestinesi e condannato l’espansione degli insediamenti nella Cisgiordania occupata, riaffermando che tali azioni violano il diritto internazionale. Per quanto concerne il conflitto in Ucraina è stata auspicata una risoluzione diplomatica con il proseguo dei negoziati attualmente in corso.

In merito alla tanto discussa possibilità di una moneta comune ai BRICS, in una intervista rilasciata al quotidiano brasiliano o Globo, il giorno precedente al vertice, il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, ha spiegato che il processo di creazione della moneta comune è al momento prematuro e che avverrà quando i tempi lo permetteranno. Lavrov ha anche spiegato che, nel frattempo, è inevitabile che i Paesi del blocco, così come i Paesi in via di sviluppo, diminuiscano sempre di più la quantità di valuta occidentale nei loro scambi commerciali, in favore delle proprie monete.

Sono scoppiati dei vasti incendi a Gerusalemme

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Nella mattinata di oggi, mercoledì 30 aprile, sono scoppiati incendi boschivi sulle alture vicine a Gerusalemme. Le fiamme, inizialmente limitate, sono aumentate sempre di più con il passare delle ore. Verso le 18 le autorità hanno lanciato un appello di aiuto internazionale, mentre i pompieri hanno dichiarato l’emergenza di alto livello. I media segnalano 15 feriti, ma non sembra esservene notizia sulle fonti ufficiali. La portata effettiva dell’incendio risulta ancora poco chiara, così come le cause. Molti giornali stanno riportando che gli incendi sarebbero dolosi e che sarebbero scoppiati dopo che gruppi palestinesi avrebbero lanciato un appello a bruciare le colline attorno a Gerusalemme, ma la notizia non sembra ancora verificata.