giovedì 11 Settembre 2025
Home Blog Pagina 146

No, Hamas non ha incitato i palestinesi a “bruciare Gerusalemme”

0

Il pomeriggio di mercoledì 30 aprile, sulle alture attorno a Gerusalemme si è diffuso un vastissimo incendio che ha interessato un’area di almeno 2.000 ettari e provocato il ferimento di almeno 29 persone. Le fiamme hanno costretto le autorità israeliane a evacuare tre autostrade e oltre 7.000 persone dalle proprie case, a mobilitare 119 squadre di vigili del fuoco e 12 aerei, a dichiarare l’emergenza nazionale e a chiedere il supporto degli alleati internazionali. La notizia non è tardata ad arrivare anche in Italia: Allarme incendi a Gerusalemme. E Hamas chiama la jihad dei roghi: “Bruciate le case, ha titolato il Giornale; Brucia Israele, Hamas minaccia: «Incendiate tutto, boschi e case», l’Avvenire. Insomma, per i giornali italiani è tutto chiaro: Hamas avrebbe incitato i palestinesi a insorgere e bruciare la propria stessa terra, e sfruttato, se non addirittura provocato, lo scoppio dell’incendio per danneggiare Israele. Un’interpretazione, come prevedibile, lanciata e diffusa dai media israeliani, che i nostri giornali hanno preferito prendere per vera piuttosto che esercitare il dovuto lavoro di verifica.

La notizia del presunto appello a «bruciare tutto» di Hamas è stata lanciata dal Jerusalem Post con un articolo uscito alle 16:55 del 30 aprile e aggiornato alle 18:40 dello stesso giorno. Il JP scrive che «mercoledì Hamas ha pubblicato su Telegram un messaggio che incoraggia i palestinesi a “bruciare tutto ciò che possono di boschi, foreste e case dei coloni”». Precedentemente, sostiene il JP, «in un post su Telegram, il canale Telegram della Jenin News Network aveva invitato i palestinesi a “bruciare gli alberi vicino agli insediamenti”». L’appello sarebbe arrivato attraverso una serie di messaggi, un video e una immagine-manifesto entrambi di origine chiaramente grafica. Quest’ultimo dettaglio relativo alla locandina non è stato riportato da nessun quotidiano italiano, neanche da quelli che riprendono l’immagine senza mostrarla ai lettori descrivendola con formule a tratti fuorvianti: è il caso per esempio di Libero e il Tempo, che scrivono – usando le stesse parole – che «nel post è stata anche pubblicata la foto di una persona mascherata che appicca il fuoco a un campo».

Le parole del JP sono state riprese dalla quasi totalità della stampa italiana, nella maggior parte dei casi senza effettuare alcuna verifica. Nel suo articolo, L’Avvenire scrive che il messaggio su Telegram sarebbe comparso «nelle stesse ore in cui sono divampati i primi roghi sulle colline di Gerusalemme». Anche Sky tg24il Corriere della Sera, il Tempo, Libero, e diversi altri spiegano, usando su per giù le stesse parole, che «l’incendio è scoppiato in concomitanza» con un appello di Hamas, mentre il Messaggero e l’Huffington Post sostengono che l’appello sarebbe stato lanciato prima dei roghi: «l’appello di Hamas sui social prima dei roghi», titola il primo; «“Bruciate tutto”. la minaccia è stata seguita», il secondo.

La questione della coincidenza degli orari è stata, nella migliore delle ipotesi, frutto di una libera interpretazione dei redattori che si sono occupati degli articoli. Lo stesso articolo del JP ripreso da quasi tutte le testate italiane, infatti, sottolinea come «gli incendi boschivi sono scoppiati mercoledì mattina sulle colline della Giudea». I post incriminati di Jenin News, tuttavia, sono usciti alle 15:12 (il video) e alle 15:22 (l’immagine), e lo stesso canale riportava la prima notizia sull’incendio alle 10:30. I pochi che hanno notato il problema cronologico hanno comunque dato per certa la notizia del JP e hanno addossato ad Hamas la responsabilità di avere «approfittato» delle fiamme per lanciare gli appelli: Israele, incendi intorno Gerusalemme. Hamas ne approfitta e lancia l’appello: “Bruciate tutto”, titola per esempio La Repubblica.

I vari messaggi di incitamento a bruciare le colline attorno a Gerusalemme provengono dalla stessa Jenin News, che malgrado quanto sostengono alcune testate, come per esempio Today, non è affiliata ad Hamas, e da altri canali di informazione palestinesi anch’essi svincolati dai vari gruppi palestinesi. La foto e il video postati da Jenin News che hanno fatto tanto discutere la stampa italiana, invece, sono stati originariamente diffusi da un canale privato denominato al-Mutarad (traducibile in italiano con Il Fuggitivo) che ha condiviso i file rispettivamente alle 14:07 e alle 14:11. Neanche questo, contrariamente a quanto sostenuto da molti, risulta legato ad Hamas. Sui canali che invece sono realmente gestiti o affiliati alla firma palestinese, non compare alcun appello, e i media del gruppo palestinese si limitano a dare la notizia dell’incendio.

Hamas, insomma, non ha lanciato nessun appello a bruciare Gerusalemme, e la notizia che sarebbe all’origine degli incendi non poggia su alcuna fonte  attendibile. La causa dello scoppio dei roghi risulta infatti ancora ignota. Una fonte di sicurezza israeliana, tuttavia, ha rivelato al quotidiano israeliano Haaretz che a iniziare gli incedi sarebbero stati gli stessi coloni israeliani. Questa notizia non è verificabile, ma va sottolineato che, se fosse vera, non costituirebbe il primo episodio in cui i cittadini israeliani danno fuoco ai campi palestinesi. Articoli e inchieste giornalistici, rapporti di ONG, studi di movimenti, monografie specializzate, bollettini di istituzioni internazionali, e numerose altre analisi testimoniano infatti che una delle pratiche coloniali comuni in Palestina è proprio quella di dare fuoco ai campi dei palestinesi per espropriare i terreni alla popolazione araba e trapiantarvi flora non autoctona. Lo stesso Jewish National Fund (JNF), che possiede circa il 13% di tutto il territorio israeliano e si occupa della flora locale, ammette che alcuni degli alberi piantati dall’organizzazione non sono autoctoni. Questi, tra l’altro, sono particolarmente sensibili ai climi caldi della Palestina, fattore che li rende soggetti al rischio di incendi.

Ucraina: l’accordo con Trump sulle terre rare torna ad alimentare il conflitto

3

Dopo mesi di trattative, l’Ucraina e gli Stati Uniti hanno siglato il cosiddetto accordo sulle terre rare che, oltre a risarcire Washington per gli aiuti finanziari forniti finora a Kiev, cambia radicalmente il modo di gestire il conflitto da parte dell’amministrazione Trump. Se finora, infatti, il presidente statunitense aveva sospeso gli aiuti militari all’Ucraina per dare più spazio alle trattative diplomatiche tra Kiev e Mosca, lo stesso giorno della firma dell’intesa, il capo della Casa Bianca ha dichiarato al Congresso di voler autorizzare l’esportazione di prodotti per la difesa all’ex Paese sovietico attraverso vendite commerciali dirette di 50 milioni di dollari o più, come riferito dal Kiev Post. Dopo lo stallo delle trattative con la Russia e le difficoltà incontrate per conciliare le posizioni dei due Stati belligeranti, riprendono così le forniture d’armi a Kiev, non più sotto la forma degli aiuti, bensì in cambio dell’utilizzo di risorse minerarie. Ciò significa che Washington di fatto torna ad alimentare il conflitto che Trump aveva dichiarato di voler chiudere nel minor tempo possibile dal momento del suo ritorno al governo: l’autorizzazione all’esportazione di armi, infatti, è la prima da quando il tycoon è tornato in carica.

Il Consigliere per la Sicurezza nazionale USA, Marco Rubio, ha comunque precisato che gli Stati Uniti non hanno intenzione di rinunciare a risolvere il conflitto in Ucraina, sottolineando però che «questioni più importanti stanno accadendo in tutto il mondo» e gli Stati Uniti devono decidere quanto tempo dedicare alla questione russo-ucraina. Tradotto, Washington avrebbe problemi più importanti da affrontare, in primis quelli economico-commerciali con la Cina. Nel frattempo, però, l’amministrazione Trump pare intenzionata a sfruttare il più possibile a suo favore le ricchezze dell’Ucraina: oltre a ottenere un risarcimento per i 350 miliardi di dollari spesi dagli Stati Uniti dall’inizio della guerra, infatti, l’accordo stipulato con Kiev garantisce alla potenza a stelle e strisce una corsia preferenziale per accedere alle risorse minerarie e ai progetti d’investimento in questo settore del Paese europeo. L’intesa ha istituito il “Fondo di Investimento per la Ricostruzione Usa-Ucraina” in cui Kiev verserà il 50% di tutti i proventi generati dalle nuove licenze per l’estrazione di minerali in nuove aree. Entrambi i Paesi avranno, inoltre, pari diritti di voto nella gestione del fondo. Il documento è stato stipulato a seguito dell’incontro in Vaticano tra Trump e il presidente ucraino Zelensky in occasione dei funerali del papa sabato scorso.

Secondo il Washington Post, che ha visionato una versione dell’accordo, l’Ucraina non è riuscita a ottenere garanzie di sicurezza esplicite nel contratto, ma il testo chiarisce comunque che gli Stati Uniti si impegnano a mantenere un “allineamento strategico a lungo termine” con Kiev e a e a creare “un’Ucraina libera, sovrana e prospera”. Secondo Scott Bessent, segretario al Tesoro USA, l’intesa «segnala chiaramente alla Russia che l’amministrazione Trump è impegnata in un processo di pace incentrato su un’Ucraina libera, sovrana e prospera a lungo termine». Nel comunicato del Tesoro americano si chiarisce anche che “a nessuno Stato o persona che abbia finanziato o fornito la macchina da guerra russa sarà consentito di beneficiare della ricostruzione dell’Ucraina”. Da parte sua, il ministro dell’Economia, Yulia Svyrydenko ha detto che l’intesa «riflette l’impegno degli Stati Uniti per la sicurezza, la ripresa e la ricostruzione dell’Ucraina» e che «Il documento può garantire successo a entrambi i paesi».

In termini economici e di risorse minerarie, l’accordo per ora potrebbe non soddisfare le aspettative dell’amministrazione americana, nonostante l’ottimismo di Trump: secondo alcuni esperti, infatti, dopo la guerra saranno necessari investimenti privati per sviluppare un settore devastato dal conflitto. Allo stesso tempo, si sottolinea anche come, al momento, lo sviluppo di un’industria mineraria legata al litio – minerale di cui l’Ucraina è ricca – non esista fuori dalla Cina. Creare da zero tale settore richiederebbe ingenti investimenti. Nonostante il nome dell’accordo faccia riferimento solo alle terre rare, in realtà nel documento stipulato tra Washington e Kiev sono compresi anche minerali e giacimenti di idrocarburi. Kiev possiede il 6% delle risorse globali di grafite, l’1- 2% di quelle di litio, l’1% di quelle di titanio e il 2-4% delle risorse di Uranio. Per quanto riguarda le terre rare, nel sottosuolo ucraino sono presenti il lantanio e il cerio. Bisogna però considerare che in seguito alla conquista da parte di Mosca della parte orientale dell’Ucraina, circa il 40% delle risorse metalliche del Paese è ora sotto il controllo russo: la Nazione eurasiatica ha occupato almeno due giacimenti di litio, uno a Donetsk e un altro nella regione di Zaporizhia, nel sud-est. Kiev controlla ancora i giacimenti di litio nella regione centrale di Kyrovohrad.

Se da un lato, dunque, non è garantito un ritorno in termini economici in tempi rapidi, dall’altro Washington sembra avere fatto retromarcia circa la volontà di portare a termine i negoziati, tornando, al contrario, ad alimentare la guerra attraverso la vendita di prodotti bellici all’ex Stato sovietico. Se continuare a fornire armi all’Ucraina non cambierà i risultati sul campo, può in ogni caso contribuire a logorare la capacità difensiva, l’economia e il morale della Russia. Inoltre, causerà altre vittime militari e civili da una parte e dall’altra, mentre gli Stati Uniti sono impegnati a ottenere il massimo profitto possibile.

Project Kuiper: Bezos sfida Musk per il controllo di internet satellitare

1

Jeff Bezos ha lanciato nell’orbita bassa terrestre il primo lotto di satelliti del suo Project Kuiper, il quale mira a competere con la rete Starlink di Elon Musk per la diffusione di internet. Il progetto intende creare una massiccia costellazione di satelliti, che si va ad aggiungere ai 6 mila già in orbita di proprietà di Musk – il quale dispone di 5 milioni di clienti in tutto il mondo. Il lancio costituisce una delle ormai innumerevoli contraddizioni che segnano la narrazione di queste aziende, che da un lato si ergono a protettrici dell’ambiente (si pensi al Bezos Earth Fund, che vuole «combattere il cambiamento climatico» e  «proteggere la natura»), dall’altro lo devastano tramite il lancio di razzi spaziali enormemente inquinanti.

Sono 27 i satelliti di Project Kuiper che sono decollati in cima a un razzo Atlas V dalla Cape Canaveral Space Force Station, in Florida. Il razzo è stato costruito dalla United Launch Alliance, una joint venture tra Lockheed Martin Space and Boeing. «Questa è una pietra miliare importante per il Progetto Kuiper e un entusiasmante passo avanti nella missione di Amazon di chiudere il divario digitale globale», ha affermato Rajeev Badyal, vicepresidente del Progetto Kuiper. Come spiegato sul sito di Amazon, Project Kuiper è un’iniziativa che mira ad aumentare l’accesso globale alla banda larga attraverso una costellazione di oltre 3.000 satelliti posizionati nell’orbita terrestre bassa. Project Kuiper ha già prenotato almeno 80 lanci da condurre, oltre che con Blue Origin dello stesso Bezos, con diverse aziende aerospaziali. Tra queste vi sono United Launch Alliance, Arianespace e persino SpaceX del rivale Musk. Project Kuiper combina una costellazione satellitare in orbita terrestre bassa con terminali di una rete globale di stazioni di terra e un’infrastruttura di comunicazione alimentata da Amazon Web Services (AWS).

Oltre alla competizione nel settore dell’internet satellitare, dove Musk è in netto vantaggio con il suo sistema Starlink, Bezos è in competizione con il fondatore di SpaceX anche nel settore aerospaziale, con la sua compagnia Blue Origin. L’ultimo lancio dell’azienda ha peraltro fatto molto discutere. Lo scorso 14 aprile, infatti, un equipaggio composto da donne miliardarie (tra i quali la cantante Katy Perry e la compagna di Bezos, Lauren Sánchez) è stato mandato nello spazio a bordo del razzo New Sheperd, di proprietà di Blue Origin. Durato appena pochi minuti, con un costo di centinaia di migliaia di dollari ed emissioni pari a 75 tonnellate di CO2, il viaggio è stato un mix perfetto di pinkwashing (ovvero di tentativo di mascherare con retoriche falsamente femministe la promozione commerciale dell’azienda) e devastazione ambientale.

Evidentemente, attività come questa stridono con la retorica di filantropia ambientale dietro la quale queste aziende cercano di nascondersi. La corsa alla conquista dello spazio e alla privatizzazione dell’orbita terrestre è infatti caratterizzata da un enorme dispendio di energia, oltre che dalla produzione di grandi quantità di CO2 e altre sostanze inquinanti – che i miliardari stessi dicono di voler contribuire a limitare. «Jeff e Lauren stanno facendo la storia, non solo con la somma del loro investimento nella natura, ma anche con la sua velocità», ha detto il CEO di Conservation International, M. Sanjayan, quando nel maggio 2024 ha consegnato ai due coniugi il Global Vision Prize. Il riferimento era all’attività del loro fondo per il clima e la biodiversità da 10 miliardi di dollari, il Bezos Earth Fund. Lo stesso che, nel febbraio scorso, ha interrotto i finanziamenti a Science Based Targets, organizzazione che monitora la decarbonizzazione delle aziende, sulla scia del riallineamento dei miliardari alla nuova presidenza Trump. A sottolineare, insomma, che le dichiarazioni ambientaliste di questi magnati puzzano quanto la CO2 che i loro enormi razzi si lasciano dietro al decollo.

[di Michele Manfrin]

Germania, AfD è stato dichiarato un pericolo per la democrazia

0

Il partito tedesco di estrema destra Alternativa per la Germania è stato dichiarato una organizzazione estremista che mette in pericolo la democrazia. A inserirlo nella lista dei pericoli per la democrazia è l’Ufficio federale per la Protezione della Costituzione – i servizi segreti del Paese – che ha indicato il partito come possibile causa di discriminazione verso alcune frange della popolazione. Alcuni rami di AfD, come la sua sezione giovanile, erano già stati denominati pericoli per la democrazia, ma tale indicazione non era mai stata estesa all’intero partito. Il nuovo status di AfD non ha conseguenze dirette, ma il Parlamento tedesco utilizzarlo per chiedere lo scioglimento del partito.

Altro che festa dei lavoratori: nel mondo aumentano solo gli stipendi dei top manager

1

Mentre in molti Paesi del mondo si è celebrata ieri la “Festa dei Lavoratori”, le statistiche sulla distribuzione della ricchezza fotografano una realtà in cui si ha ben poco da festeggiare. Secondo una recente analisi di Oxfam, infatti, tra il 2019 e il 2024 la retribuzione reale degli amministratori delegati è cresciuta del 50%, passando da 2,9 a 4,3 milioni di dollari. Parallelamente, nel medesimo arco temporale, il salario medio reale dei lavoratori nei Paesi monitorati è aumentato di appena lo 0,9%. Il risultato è che i compensi dei CEO sono cresciuti 56 volte più rapidamente rispetto a quelli dei lavoratori. Una sproporzione che, secondo Oxfam, fa apparire «grottesca» la narrativa ufficiale sul progresso economico.

Oxfam ha preso in esame le retribuzioni totali – inclusi bonus e stock option – di quasi 2.000 amministratori delegati in 35 Paesi. Tutti hanno guadagnato più di un milione di dollari nel 2024. I dati mostrano una crescita spaventosa ai vertici, con picchi in Europa: in Irlanda, la retribuzione mediana degli ad ha toccato i 6,7 milioni di dollari, in Germania 4,7 milioni. Anche in economie emergenti come Sudafrica e India le retribuzioni sono elevate, rispettivamente a 1,6 e 2 milioni di dollari annui. Nel frattempo, i miliardari, spesso azionisti principali delle grandi imprese, hanno visto la loro ricchezza aumentare in media di 206 miliardi di dollari nell’ultimo anno. Questo scollamento tra vertice e base si fa ancora più doloroso se si considera il dato dell’inflazione. Dopo due anni, 2022 e 2023, segnati da un’impennata dei prezzi, il potere d’acquisto è crollato per milioni di lavoratori a basso reddito. I costi, tra cui quelli per gli affitti, per il cibo e per le cure sanitarie, sono esplosi mentre le retribuzioni restavano al palo. E se nel 2024, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, i salari reali sono cresciuti del 2,7% a livello globale, in molti Paesi – come Francia, Sudafrica e Spagna – l’aumento effettivo è stato di appena lo 0,6%. Troppo poco per recuperare le ingenti perdite degli anni precedenti.

Anche l’Italia, in questo quadro, si distingue in negativo. In seguito al crollo del potere d’acquisto provocato dalla fiammata inflattiva, nel 2024 i salari reali sono sì aumentati (+2,3%), ma la somma delle perdite dal 2008 a oggi parla chiaro: -8,7%. Se si considera solo il periodo 2019-2023 e si tiene conto dell’inflazione sui beni essenziali, la riduzione sfiora addirittura il 15%. Mikhail Maslennikov, policy advisor su giustizia economica di Oxfam Italia, ha commentato le statistiche affermando che fino ad oggi, nell’azione del governo italiano, «è del tutto mancata una chiara politica industriale, orientata alla creazione di posti di lavoro di qualità, che scommetta su innovazione, transizione verde e formazione, senza lasciare indietro nessuno». Oltre alla stagnazione salariale, persiste il divario retributivo di genere, sebbene leggermente diminuito (dal 27% al 22% in un anno). Su oltre 11mila aziende analizzate in 82 Paesi, solo il 7% ha una donna al vertice. A pesare sulle prospettive dei lavoratori ci sono ora anche i nuovi dazi statunitensi, che secondo l’organizzazione potrebbero determinare una contrazione dell’occupazione e un ulteriore aumento del costo dei beni di prima necessità, amplificando ancora di più le disuguaglianze.

Il quadro globale, insomma, è chiaro: la forbice tra i super-ricchi e il resto del mondo del lavoro si allarga. Un dato già ben delineato dal recente rapporto di Oxfam intitolato Takers, not Makers (letteralmente “coloro che predano, non coloro che producono”), in cui si è attestato come, nel 2024, la ricchezza dei miliardari sia cresciuta di duemila miliardi di dollari, pari a circa 5,7 miliardi di dollari al giorno, a un ritmo tre volte superiore rispetto all’anno precedente. Il report ha mostrato che, nonostante i tassi di povertà complessivi siano diminuiti nel mondo, il numero di persone che vivono nell’indigenza rimane invariato rispetto al 1990, rappresentando ancora il 44% della popolazione globale. Nel frattempo, l’1% delle persone più ricche possiede circa il 45% dell’intera ricchezza mondiale.

Saluti romani ad Acca Larentia, chiesto rinvio a giudizio per 31 persone

0

La Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di 31 militanti di CasaPound che il 7 gennaio 2024, durante la commemorazione di Acca Larentia, eseguirono il saluto romano, violando le leggi Mancino e Scelba. Coordinati dal procuratore Francesco Lo Voi, i pm ritengono quella cerimonia una riproposizione della «liturgia delle adunanze usuali del disciolto partito fascista». Affidate a Digos e carabinieri, le indagini – concluse a dicembre – hanno identificato gli imputati attraverso l’analisi dei video che mostrano la «chiamata del presente». Il procedimento fu aperto alcuni giorni dopo l’adunata in una strada non lontana da via Tuscolana.

Bombardata con droni la nave di aiuti umanitari Freedom Flotilla, diretta verso Gaza

2

La Conscience, una delle navi facente parte della flotta navale Freedom Flotilla, è stata attaccata alle 00.23 del 2 maggio nelle acque internazionali al largo delle coste di Malta. L’equipaggio, composto da una trentina di attivisti e attiviste provenienti da ventuno Paesi del mondo, denuncia che a quattordici miglia nautiche dalle coste maltesi vari droni armati hanno colpito «la prua di un’imbarcazione civile disarmata, causando un incendio e una falla nello scafo», interrompendo, di fatto, la missione umanitaria diretta verso Gaza e lasciando la flotta in una situazione critica, nella quale l’imbarcazione rischia l’affondamento.

In seguito al messaggio di SOS inviato dall’equipaggio, un’imbarcazione proveniente da Cipro del Sud si è recata sul posto, senza però ripristinare la corrente elettrica sulla nave colpita. Dalle prime ricostruzioni sembra che i droni fossero diretti sul generatore, per isolare deliberatamente l’imbarcazione e impedire ogni tipo di comunicazione e contatto con l’esterno. Mentre dal centro di coordinamento del soccorso marino di Roma annunciano l’invio sul posto di un rimorchiatore, l’equipaggio denuncia che la guardia costiera maltese, obbligata a servire assistenza, non ha risposto ai segnali di SOS, infrangendo le norme del diritto internazionale. «Chiediamo che Malta risponda immediatamente al suo obbligo e garantisca la sicurezza di tutti coloro che sono a bordo della nave. La comunità internazionale condanni questa aggressione contro una nave umanitaria disarmata e chieda alle autorità maltesi di agire immediatamente» afferma l’equipaggio nel suo comunicato. «Tutti gli Stati pongano fine al sostegno politico, finanziario e militare all’assedio illegale, al blocco, all’occupazione e all’apartheid di Israele» denunciano dalla Flotilla.

Non è la prima volta che questa flotta subisce un attacco. Quindici anni fa, il 31 maggio del 2010, dieci attivisti furono uccisi e altre centinaia furono detenuti dalle forze speciali israeliane, che giustificarono il massacro affermando che le navi stessero trasportando armi per Hamas.

La flotta, che fu obbligata a rimandare la partenza prevista per il 24 aprile a causa della richiesta di Israele di imporre un blocco amministrativo, ha l’urgenza di consegnare 5.500 tonnellate di cibo a Gaza. L’organizzazione della missione, che denuncia l’impassibilità della comunità internazionale dinanzi alle azioni genocide dello stato di Israele e accusa le soluzioni messe in atto, come «il corridoio marittimo di Cipro, il porto galleggiante improvvisato degli Stati Uniti e il simbolico lancio di cibo», sceglie di intervenire direttamente mettendo in evidenza la forza della società civile e il subdolo oblio delle istituzioni politiche internazionali.

A due mesi dalla rinnovata chiusura delle frontiere della Striscia e l’impedimento da parte dello stato di Israele di far entrare i camion con aiuti umanitari destinati alla popolazione, Gaza sta rimanendo inesorabilmente senza cibo. Mentre la comunità internazionale offre aiuto per spegnere i vasti incendi che hanno colpito la città di Gerusalemme, simultaneamente le forze israeliane continuano a bombardare i territori palestinesi e attaccano impunemente mezzi civili disarmati che hanno la missione di rompere l’embargo umanitario imposto da Israele aggirando le frontiere e intervenendo via mare.

La storia dell’olivo in Italia è antica di quasi 4 mila anni: le tracce in Sicilia

0

Il rapporto tra l’uomo e l’olivo in Italia sarebbe iniziato almeno 3.700 anni fa, durante l’età del bronzo. Le prime tracce documentate di questo legame arrivano dalla Sicilia: è quanto emerge da un nuovo studio condotto da un team italiano delle università di Pisa, della Tuscia e della Sapienza di Roma, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Quaternary Science Reviews. Secondo la ricerca, in un’area paludosa vicino Messina chiamata Pantano Grande risiederebbero le più antiche prove di sfruttamento umano dell’olivo mai trovate nella Penisola, seconde in assoluto solo a quelle di Malta – risalenti a circa 5.000 anni fa. Il tutto grazie alle analisi delle carote di sedimento che hanno permesso di rilevare elevate concentrazioni di polline di olivo, segno di una sua presenza massiccia e gestita nel paesaggio. Secondo gli autori, tale sfruttamento non si limitava solo alla produzione di olio, ma anche all’utilizzo del legno come combustibile e materiale di costruzione, e delle foglie come foraggio. «Abbiamo condotto un approccio fortemente interdisciplinare che ci ha consentito di ricostruire le dinamiche a lungo termine dell’interazione tra uomo e ambiente», spiega il coautore e professore dell’Università di Pisa Giovanni Zanchetta.

L’olivo è un simbolo millenario del paesaggio mediterraneo, ma la sua storia nell’Italia centro-occidentale è ancora poco documentata rispetto all’Oriente. Le testimonianze archeobotaniche e archeologiche relative alla domesticazione e alla coltivazione dell’olivo in Sicilia, infatti, risultavano ancora sporadiche e spesso limitate a frammenti non databili con precisione. Per questo motivo, spiegano i ricercatori, si è deciso di tentare di colmare tale lacuna: nello studio recentemente pubblicato sono stati combinati i dati ricavati da analisi polliniche ad alta risoluzione – ovvero le analisi dei pollini conservati nei sedimenti per ricostruire la vegetazione del passato – con riferimenti storici e archeologici e indicatori paleoambientali, ovvero misure che permettono di ricostruire l’ambiente e il clima di epoche remote. Il tutto nel sito di Pantano Grande che, come spiegano gli autori, si trova in una posizione strategica lungo lo Stretto di Messina, antica rotta commerciale tra il Mediterraneo orientale e quello tirrenico. Le cosiddette carote sedimentarie – ossia cilindri di terreno estratti in profondità per analizzare gli strati accumulatisi nel tempo – sono state ottenute mediante carotaggi profondi fino a oltre sette metri e datate con precisione grazie alle analisi del carbonio-14 e dei livelli di cenere vulcanica e ciò, grazie all’utilizzo di tecniche di palinologia – ovvero metodi consolidati per lo studio dei pollini fossili al microscopio – ha permesso di identificare fasi distinte nell’abbondanza del polline di olivo, che gli autori hanno confrontato con la presenza di altri pollini mediterranei e con indicatori ambientali per distinguere cause naturali da interventi umani.

Secondo i principali risultati ottenuti, nel periodo compreso tra il 1750 ed il 1150 a.C, corrispondente alle Media età del Bronzo, il polline di olivo rappresentava in media il 35% del totale nel sito di Pantano Grande, con punte superiori al 50%: valori eccezionali che, secondo i coautori, indicano una presenza dominante nel paesaggio. Dopo un crollo drastico nel XII secolo a.C., poi, lo studio individua altre due fasi espansive: la prima si verifica in epoca romana – tra il II secolo a.C. e il III d.C. – con una ripresa significativa del polline di olivo accompagnata da evidenze archeologiche come anfore e torchi, compatibili con una vera e propria olivicoltura. La seconda esplosione, invece, sarebbe avvenuta in epoca moderna, tra il XIII e il XIX secolo, durante il Regno di Sicilia, quando le fonti storiche parlano esplicitamente di coltivazione sistematica. Tutte analisi che, secondo gli esperti, suggeriscono che la diffusione dell’olivo non può essere spiegata soltanto da condizioni ambientali favorevoli, ma piuttosto dall’esito di scelte culturali e agricole consapevoli e di reti commerciali che hanno attraversato i millenni: «Abbiamo adottato un approccio fortemente interdisciplinare per indagare l’evoluzione storica, ecologica e culturale degli olivi in Sicilia orientale – conclude Zanchetta – questa sinergia tra scienze naturali e discipline umanistiche ci ha consentito di ricostruire le dinamiche a lungo termine dell’interazione tra uomo e ambiente, evidenziando come fattori culturali, climatici e commerciali abbiano modellato il paesaggio olivicolo. L’espansione degli olivi non è spiegabile solo con condizioni ambientali favorevoli, ma è piuttosto il risultato di scelte antropiche, pratiche agricole, e reti di scambio che hanno attraversato i millenni», spiega Zanchetta.

Inghilterra, exploit alle elezioni locali e suppletive per Farage

0

Il partito nazionalista di destra Reform UK, guidato da Nigel Farage, ha ottenuto importanti successi nelle elezioni amministrative e suppletive inglesi, conquistando anche il suo primo seggio parlamentare a Runcorn e Helsby per soli sei voti, in un’ex roccaforte laburista. Questi risultati segnano un colpo al tradizionale bipartitismo britannico e un duro colpo al governo laburista di Keir Starmer, già in calo di popolarità per scelte impopolari su tasse e welfare. Gli elettori hanno votato per oltre 1.600 seggi locali e per sei elezioni di sindaci particolarmente rilevanti. Tra queste c’è la vittoria di Andrea Jenkyns, ex ministra conservatrice, divenuta sindaca della Greater Lincolnshire.

Riarmo: dopo la Germania, altri 15 Paesi UE chiedono la deroga al Patto di Stabilità

0

Dopo la richiesta avanzata dalla Germania, altri 15 Paesi dell’Unione Europea hanno presentato domanda per sospendere il Patto di stabilità e aumentare la spesa per la difesa nei prossimi anni. Si tratta, nello specifico, di Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Grecia, Lettonia, Lituania, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, e Ungheria. La richiesta arriva proprio allo scadere del termine consigliato dalla Commissione, anche se il Commissario per l’Economia, Valdis Dombrovskis, ha detto che «restiamo aperti a ulteriori richieste di esenzione». I piani di spesa dei Paesi risultano ancora ignoti, ma nell’ambito del piano di riarmo la Commissione Europea ha proposto agli Stati membri di aumentare la spesa per la difesa fino all’1,5% del prodotto interno lordo annuo per quattro anni. Questo debito aggiuntivo, sostiene von der Leyen, potrebbe generare fino a 650 miliardi di euro nel prossimo quadriennio.

La notizia della richiesta di sospensione del Patto di stabilità da parte dei 15 Paesi dell’UE è arrivata mercoledì 30 aprile. Ad aprire le fila, dopo la Germania, è stata la Polonia, a cui sono seguiti altri 10 Paesi. Dopo un primo annuncio da parte del Commissario Dombrovskis, gli ultimi a rispondere all’appello sono stati Bulgaria, Croazia, Lituania e Repubblica Ceca. «In altri casi», rimarca inoltre la Commissione, «si sta procedendo anche a potenziamenti delle capacità di difesa già pianificati». La clausola, spiega il comunicato, copre un periodo di quattro anni e prevede un margine di flessibilità massimo dell’1,5% del PIL. Essa rientra all’interno del «quadro riformato di governance economica» dell’UE, che consente agli Stati membri di «avvalersi di misure di flessibilità economica», e dunque di sospendere i vincoli del Patto di stabilità, «laddove circostanze eccezionali al di fuori del controllo dello Stato membro abbiano un impatto significativo sulle finanze pubbliche dello Stato membro interessato». Secondo l’UE, «la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina e la sua minaccia alla sicurezza europea» giustificherebbero il ricorso a tale misura emergenziale.

La Commissione ha ora un mese di tempo per valutare le richieste presentate dagli Stati membri e per formulare le raccomandazioni necessarie per attivare la clausola nell’ambito del prossimo pacchetto del semestre europeo di primavera 2025. Nel frattempo, come sottolineato da Dombrovskis e dal portavoce della Commissione Europea, Balazs Ujvari, «se dovessero arrivare richieste di sospensione due o tre giorni in ritardo non sarebbe certo la fine del mondo». La scadenza per la presentazione delle domande, in teoria, era fissata allo stesso 30 aprile. Tale data era stata stabilita con l’approvazione del piano di riarmo presentato da Ursula von der Leyen. Secondo la presidente della Commissione, il meccanismo a cui hanno fatto domanda di accesso gli Stati consentirebbe di generare fino a 650 miliardi di euro di investimenti nei prossimi quattro anni. Un’altra misura chiave prevista dal piano è l’istituzione di un fondo da 150 miliardi di euro destinato a fornire prestiti agli Stati membri per finanziare progetti nel settore della difesa. Inoltre, il piano apre alla possibilità di utilizzare il bilancio dell’Unione Europea per stimolare investimenti militari, sfruttando strumenti come i programmi della politica di coesione e altre risorse finanziarie comunitarie.