venerdì 7 Novembre 2025
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Un fotoreporter italiano ha sconfitto Meta sul diritto d’autore

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Autosave-File vom d-lab2/3 der AgfaPhoto GmbH

Nei giorni scorsi, Facebook ha perso una battaglia in materia di violazione del diritto d’autore. La piattaforma social si è dovuta piegare alla decisione del tribunale di Torino, il quale l’ha riconosciuta colpevole di aver ospitato illegittimamente numerose fotografie scattate dal fotoreporter Gianni Minischetti alla celebre giornalista Oriana Fallaci. I contenuti, regolarmente segnalati, non sono stati rimossi, mentre la piattaforma ha tratto profitto dalla condivisione virale delle immagini caricate abusivamente sui propri server. Per le sue responsabilità, Meta – azienda madre di Facebook – è stata condannata al pagamento di una multa pari a 151.000 euro: una cifra esigua per una Big Tech, tuttavia il peso della sentenza va ben oltre l’aspetto economico. La decisione ricorda infatti che autori e creativi hanno la possibilità e il diritto di resistere agli abusi perpetrati dalle grandi piattaforme digitali.

Che sia a fini celebrativi, ironici o virali, le foto di Minischetti con soggetto Oriana Fallaci sono ormai utilizzate da anni a vario titolo su Facebook, senza preventiva autorizzazione e, spesso, senza neppure che venga opportunamente menzionata l’attribuzione degli scatti. I giudici Alberto La Manna, Marisa Gallo e Rachele Olivero hanno stabilito che un compendio di 54 foto dell’autore è stato condiviso almeno 1.045 volte in un periodo di riferimento che parte dal 2022; tra queste figura anche il celebre ritratto in cui la giornalista posa davanti al ponte di Brooklyn, con le Torri Gemelle che spiccano platealmente alle sue spalle. Le stime del tribunale potrebbero però essere riduttive, visto che il reporter sostiene che il fenomeno abbia avuto una portata ben maggiore di quella ufficialmente riconosciuta dal tribunale.

«Hanno preso come valida la data della citazione», spiega Minischetti a L’Indipendente. «Io è dal 2013 che gli segnalo il problema con lettere dagli avvocati e diffide. C’è addirittura una mail in risposta da Facebook – allora era Facebook, non esisteva Meta – dove dicono “grazie per la segnalazione delle fotografie, siamo prontamente a rimuoverle e disabilitare l’uso”. Dopodiché non si sono più fatti sentire». Per muovere battaglia contro il colosso statunitense, l’autore si è affidato agli avvocati Giovanni Manganaro e Nicola Gianaria dello studio BGM di Torino, all’avvocato torinese Fabrizio Lala e all’avvocato Enrico Chiarello del Foro di Milano. Secondo Manganaro, gli scatti «hanno registrato un’impennata di caricamenti, condivisioni e interazioni dal 2016 in avanti», probabilmente in relazione al moto di paura suscitato dagli attentati parigini rivendicati dall’Isis, nonché dalle opinioni espresse da Oriana Fallaci sul rapporto tra Islam e i moti terroristi. 

Gli scatti in questione, parte del set pubblicato nel libro Oriana Fallaci in New York – Una storia d’orgoglio, sono già stati in passato al centro di battaglie legali mosse contro testate e giornali che li hanno sfruttati senza un adeguato permesso. La loro paternità e la loro natura autoriale erano dunque già state riconosciute a livello giuridico, tuttavia non era scontato che questo genere di pretese potesse attecchire anche contro Meta, azienda che esercita un peso politico e finanziario tale da far chinare il capo persino alle teste coronate e ai politici. La Big Tech ha inoltre puntato su di una linea difensiva che i quotidiani non avrebbero mai potuto perseguire, ovvero ha cercato di convincere la corte di non aver tratto alcuna forma di profitto dalla pubblicazione illegittima del lavoro di Minischetti.

«Meta ha sostenuto che i caricamenti sulla piattaforma non fossero a scopo di lucro e che gli utenti stessero semplicemente esercitando i propri diritti costituzionali. Vuoi perché attraverso queste foto potevano esprimere opinioni, critiche e satira nei confronti della Fallaci, o semplicemente discutere di un personaggio famoso. Vuoi perché gli utenti non hanno effettuato caricamenti con l’intenzione di guadagnare», spiega l’avvocato. «Secondo Meta, per estensione, anche lei non avrebbe scopo di lucro, il che mi sembra improbabile, considerando che fattura 100 miliardi di euro all’anno». Circa 146,4 miliardi di euro, stando ai dati del 2024.

«Alcune foto sono ancora lì, certi link non li hanno voluti rimuovere. Sostengono che servono agli utenti per socializzare tra di loro. Con le mie fotografie devono socializzare?», si domanda retoricamente Minischetti. Gli utenti «le hanno tutte deturpate, tagliate, storpiate, gli hanno aggiunto delle scritte ignobili. Un massacro totale. E alla fine chi ci ha guadagnato? Meta. […] Hanno visto che Oriana Fallaci, famosa in tutto il mondo, funzionava, che faceva da catalizzatore nella loro piattaforma».

Facebook e portali omologhi hanno in effetti molto da guadagnare, seppur indirettamente, dalla diffusione di contenuti virali. L’alto tasso di interazioni tra utenti soddisfa gli inserzionisti; inoltre, la partecipazione attiva delle persone genera una serie di dati che vengono poi monetizzati tramite la profilazione. «Dire che la partecipazione dell’utente non sia fonte di diretto guadagno per Meta è un falso storico. Se gli utenti non aderissero alla piattaforma e non fornissero i propri dati attraverso la partecipazione attiva, Meta non potrebbe fare nulla», sostiene Manganaro. Non a caso, nel 2021 il Consiglio di Stato ha sanzionato Meta per aver promosso i suoi servizi come gratuiti, senza spiegare puntualmente ai consumatori che, in realtà, i loro dati sarebbero stati adoperati a fini commerciali. A fine 2024, la Procura di Milano ha dunque aperto un’indagine contro Meta proprio per verificare la natura “gratuita” dei servizi offerti dal social, fiutando un’evasione fiscale quantificata in 4 miliardi di euro.

Tenendo in considerazione questi presupposti, la cosiddetta direttiva sul commercio elettronico prevede che Meta, pur rivestendo un ruolo passivo nel caricamento dei dati, in qualità di fornitore di servizi, abbia l’onere di rimuovere i contenuti che violano il diritto d’autore non appena questi vengano segnalati. Nel caso di Minischetti, Facebook ha reagito con colpevole lentezza, eliminando i file solo una volta che il processo è stato avviato, ed esclusivamente come “atto di prudenza”. Ormai condannata, Meta non potrà più caricare né condividere le immagini al centro della disputa e, in caso di violazione, i giudici prevedono una multa di 100 euro per ogni giorno di permanenza delle foto su Facebook.

Negli ultimi mesi, Meta e omologhi stanno esercitando forti pressioni sulla Casa Bianca per convincere l’Amministrazione Trump che le tasse e le leggi europee rappresentino dei “dazi” sotto mentite spoglie: un processo di persuasione che ha contribuito a far sì che gli USA esigessero dai partner europei la rinuncia, di fatto, della cosiddetta “digital tax”, una proposta di tassazione che è nata con l’obiettivo di impedire alle Big Tech di sfruttare stratagemmi al fine di limitare significativamente il versamento dei tributi. In generale, vige la sensazione che le istituzioni UE si stiano dimostrando accomodanti nei confronti degli interessi statunitensi, ma anche che si stiano dimostrando fin troppo pronte ad alleggerire le leggi interne che, dal GDPR all’AI Act, influenzano lo sviluppo digitale. La decisione del tribunale di Torino si muove dunque in controtendenza con l’ethos del momento, offrendo una pietra miliare giuridica tanto sorprendente quanto anomala.

Piuttosto che giungere a una sentenza, le grandi aziende preferiscono tradizionalmente trovare con le controparti soluzioni amichevoli che evitino loro qualunque ammissione di colpevolezza. In questo caso non è andata così: Facebook non ha trovato alcuna forma di compromesso ed è stata condannata, segnando una macchia netta nei suoi precedenti. Una leva che potrà essere sfruttata anche da azioni legali future. Considerando il modus operandi di Meta, è facile immaginare che la vicenda giuridica non possa ancora dirsi conclusa e che il confronto proseguirà in fase di appello; tuttavia, l’azienda non ha impugnato la decisione, né ha annunciato di volerlo fare. Il caso «solleva un’attenzione maggiore e mette un po’ tutti nella condizione di smettere di pensare che il copyright – attraverso questi strumenti digitali – possa essere degradato a un diritto secondario e calpestabile», conclude Manganaro. «Sicuramente mette i server provider in uno stato di maggiore attenzione, di maggiore allerta, su quello che fanno. Non basta più dire “lo ha caricato qualcun altro”».

Regno Unito: continua la manifestazione in solidarietà a Palestine Action

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Sono decine le persone che si sono radunate fuori dell’Alta Corte della magistratura britannica a Londra, per mostrare solidarietà al gruppo di attivisti Palestine Action. La Corte sta ancora esaminando un caso, presentato dalla co-fondatrice del gruppo Huda Ammori, che chiede la sospensione temporanea dell’ordinanza con la quale il governo britannico intende rendere illegale il movimento, dichiarandolo terrorista. Il caso risale a qualche settimana fa, quando gli attivisti Palestine Action hanno portato avanti una azione di sabotaggio danneggiando degli aerei militari britannici. L’emendamento è stato già approvato dalla Camera bassa del Regno Unito, ma si attende ancora la conferma della Casa dei Lord.

“Gaza: dottori sotto attacco”: il documentario che la BBC non ha voluto pubblicare

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Condotto dalla voce calma e analitica della giornalista britannica Ramita Navai, Gaza: Doctors Under Attack è un docu-film di 65 minuti di sgradevoli — ma proprio per questo, necessarie — emozioni. Un reportage con interviste a informatori e gole profonde israeliani, immagini inedite da Gaza, Cisgiordania occupata ed Egitto. Un viaggio che si accende con la paura dei 15 operatori di soccorso uccisi nel marzo 2025 durante un’operazione di recupero vittime a Rafah.

8 operatori della Croce Rossa, 6 membri della Protezione Civile e uno del personale UNRWA, brutalmente freddati con armi da fuoco a pochi metri dalle loro ambulanze. Un video nella memoria di un cellulare ritrovato nella fossa con i corpi seppelliti dall’IDF restituisce la verità: i lampeggianti erano accesi. Le ambulanze erano chiaramente identificabili. Nonostante ciò, si sentono partire i colpi di un mitra. Una delle vittime piange il suo destino e manda l’ultimo pensiero alla madre.

La BBC aveva detto sì. Poi ha detto forse. Poi ha detto no. Raccontare dei 1.500 medici, infermieri e operatori sanitari uccisi a casa o a lavoro, della distruzione della maggior parte dei 36 ospedali, delle operazioni senza anestesia e delle ambulanze nel mirino a Gaza, dal 7 ottobre 2023, è troppo scomodo. Dopo aver programmato sei date di uscita ed effettuato settimane di controlli, il documentario — pronto per la messa in onda a febbraio — è stato poi accantonato dal colosso britannico dell’informazione. Ufficialmente: per non generare una “percezione di parzialità”. In realtà, per paura.

Così è toccato a una giovane piattaforma indipendente raccoglierne i frammenti e restituirli al mondo, acquistando i diritti del documentario per la distribuzione. È Zeteo News fondata da Mehdi Hasan, giornalista ex Al JazeeraThe Guardian e The Intercept, nonchè voce scomoda nei talk-show anglosassoni e spesso solitaria nel difendere la causa palestinese.

In questo clima di omissione e censura, il 2 luglio il film ha preso finalmente voce. A volte urla. Spesso respira, osserva, ascolta. E racconta. Racconta di volti stanchi, mani ancora sporche di disinfettante e sangue, occhi che hanno visto troppo e non riescono più a piangere. Sono medici, infermieri, soccorritori. Non eroi né santi. Persone. Persone che curano in silenzio, in mezzo alle grida e alla polvere.

Con l’ausilio di animazioni e grafiche, si mostra con lucidità il piano sistematico dell’esercito sionista per smantellare dal Nord verso il Sud la resistenza di un popolo partendo dai suoi ospedali. Le strutture sanitarie diventano bersagli tattici: una dopo l’altra, vengono colpite, accerchiate, costrette all’evacuazione. Si parte da Al-Shifa, il più grande ospedale a Gaza City. Si prosegue con l’Indonesian Hospital, l’Al-Awda, il Kamala Adwan. Ogni reparto chiuso è una porta in meno verso la sopravvivenza.

Ma i pazienti non possono fuggire. E nemmeno chi li cura. Medici, infermieri, paramedici restano. Come capitani che non abbandonano la nave, anche se sanno che affonderà. Perché lasciare significherebbe firmare la condanna a morte dei pazienti.

«Siamo nel teatro, nella sala operatoria. Buio totale, niente acqua, niente elettricità. Ma abbiamo degli eroi, i chirurghi di Gaza», dice il Dr. Adnan al-Bursh mentre la telecamera documenta un intervento condotto alla luce fioca delle torce. È lo stesso medico che, poco dopo, verrà prelevato dai militari israeliani e di cui non si saprà più nulla. La sua sorte emergerà mesi più tardi: “sottoposto a violenza sessuale” e morto sotto custodia israeliana, denuncerà un rapporto delle Nazioni Unite.

C’è chi invece, taglia la corda. Ma non è un codardo. In una delle sequenze più toccanti, come in un duello dove si sa già chi vince, il direttore dell’ospedale Kamala Adwan cammina verso un carro armato israeliano con ancora il camice bianco addosso. È la stessa calma disperata dell’uomo di Piazza Tiananmen. Una singola scena che riassume questa pellicola senza precedenti. Un’inchiesta arricchita dalle testimonianze dei gazawi e delle interviste esclusive a whistleblowers  — informatori che chiedono l’anonimato — israeliani. Basement Film, la casa di produzione britannica, ricostruisce così uno dei fili più intricati nel gomitolo del genocidio palestinese: la sistematica e volontaria distruzione della sanità a Gaza.

Sud Sudan: tra le ombre di Juba, la luce dei bambini

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Non credere ai giornali, fanno una pessima pubblicità al nostro Paese. Con un sorriso sornione, fa scivolare il mio passaporto nel vano sottostante al vetro divisorio che mi separa dall’operatore consolare. Il visto ingombra una pagina intera. Un rettangolo sul quale si staglia in stampatello: «Visto per visita ufficiale della Repubblica del Sud Sudan». Tra le mura dell’ambasciata del Sud Sudan a Nairobi, mi sento già il benvenuto nella nazione più giovane al mondo. Indipendente dal 2011, il Sud Sudan ha trascorso gran parte della sua breve esistenza in un conflitto costante. Ora, le ombre della guerra sembrano estendersi fino a Juba, la capitale, dove il capo dell’opposizione – nonché vice presidente – si trova agli arresti domiciliari. I politici parlano di un ritorno alla guerra civile, i media esortano la comunità internazionale a intercedere.

Ma i cittadini vivono senza curarsi dei titoli di giornale e degli annunci dei politicanti. C’è un senso di orgoglio tra i sudsudanesi nell’appartenere a una nazione nuova, indipendente, seppur imperfetta. Tutti sembrano condividere un sogno: elevare il Sud Sudan, renderlo prospero, equo e giusto. Il lavoro da fare è tanto. 

Nella Repubblica sudsudanese, oltre 2,8 milioni di bambini non frequentano la scuola: il 70% della popolazione infantile. E la crisi si estende oltre i confini nazionali. La diaspora sudsudanese consta di 2,4 milioni di profughi, che vivono soprattutto nei Paesi limitrofi. Centinaia di migliaia nel campo profughi di Kakuma – uno tra i più grandi al mondo. 

Mentre sistemo la valigia nel mio ufficio, Puol mi scruta con curiosità. Il mio viaggio è imminente. Abbiamo appena costituito un’organizzazione no profit nel Paese e ora è tempo di visitare il campo e attivare la missione: costruire la prima scuola di emergenza e riabilitazione gratuita per i bambini di Juba, la capitale. A Juba, l’istruzione è un lusso riservato a pochi: classi sovraffollate, infrastrutture precarie, bambini lavoratori, spose bambine – e prezzi alle stelle. Sì, perché la capitale soffre degli effetti collaterali dell’aiuto umanitario. Con oltre 20 miliardi di dollari di fondi allo sviluppo ricevuti nell’ultimo decennio, l’economia di Juba è stata permanentemente alterata. E così, quella del resto del Paese. Puol vuole dirmi qualcosa, ma sta ancora cercando le parole in inglese, lingua che ha scoperto pochi mesi fa, quando ha cominciato a far parte della nostra Scuola Internazionale a Nairobi. Lui fa parte dei figli dimenticati del Sud Sudan. È cresciuto nel campo profughi di Kakuma, in Kenya, dove ha trovato rifugio insieme alla madre. Scappare dal Sud Sudan, tuttavia, non ha permesso loro di evadere la miseria. Nel campo di Kakuma, Puol e la mamma hanno subìto sistematicamente abusi. 

Gli dico che di lì a poco sarei andato a Juba e i suoi grandi occhi neri brillano. Mi chiede se può venire con me. Ha pochi ricordi della sua terra natia e, nonostante tutto, il suo cuore arde per lo stesso Paese che lo ha costretto a fuggire. Parto. Dall’oblò dell’aereo in frenata d’atterraggio, una batteria di aerei leggeri si susseguono come tante diapositive. Ne conto 15, ma potrebbero essere di più. Portano due maiuscole dipinte sulla carrozzeria: “UN”, Nazioni Unite. Le poche macchine che solcano le arterie principali della città sono opulente e sufficientemente ingombranti da creare ingorghi e traffico nei sottili incroci e strette rotonde. Ci sono targhe di tutti i colori. Rosse, verdi, azzurre, bianche, ognuna esprime una solennità e un potere diverso. Nazioni Unite, ONG, governo, ambasciate. E divise di altrettanti colori. Militari, polizia, forze di sicurezza e caschi blu. Un senso di finzione permea la città.

La Russia ha riconosciuto i talebani dell’Afghanistan

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La Russia ha riconosciuto formalmente il governo talebano dell’Afghanistan. La decisione di Putin arriva su consiglio del ministro degli Esteri russo Lavrov, ed è volta a rilanciare i rapporti con Kabul. Lavrov ha infatti dichiarato che Mosca è intenzionata a rafforzare la cooperazione con l’Afghanistan in materia di sicurezza, antiterrorismo e lotta alla droga. Lavrov ha parlato anche di un consolidamento delle relazioni economiche con Kabul, specialmente nei campi dell’energia, dei trasporti, dell’agricoltura e delle infrastrutture. Con tale decisione, la Russia diventa il primo Paese a riconoscere formalmente il governo talebano, che tuttavia intrattiene rapporti diplomatici anche con Cina, Emirati Arabi Uniti, Uzbekistan e Pakistan.

Soldi a ricchi e difesa, pagano i lavoratori: la “grande e bellissima legge” di Trump

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«Con questa legge ho mantenuto tutte le promesse che avevo fatto». È quanto ha affermato ieri il presidente statunitense Donald Trump durante un comizio in Iowa sulla “One Big Beautiful Bill Act” (la “grande e bellissima legge”), approvata ieri in via definitiva dalla Camera controllata dai repubblicani. Nonostante le divergenze e le perplessità che circolavano tra i repubblicani, alla fine solo due dei 220 membri della Camera hanno votato contro, dopo una notte di stallo. Si tratta di una delle iniziative legislative più importanti del secondo mandato di Trump che si fonda su due pilastri: la riduzione della pressione fiscale e l’aumento della spesa per la sicurezza e la difesa delle frontiere. Un punto, quest’ultimo, su cui il presidente statunitense ha posto subito l’accento affermando che «metteremo fine all’invasione dei nostri confini», una tematica particolarmente sentita dal suo elettorato. Secondo i repubblicani, la legge ridurrà le tasse per gli americani in tutte le fasce di reddito e stimolerà la crescita economica, ma a smentirli è intervenuto subito il CBO (Congressional Budget Office), l’agenzia indipendente del Congresso degli Stati Uniti, secondo cui gli americani più ricchi trarrebbero i maggiori benefici dal disegno di legge, mentre le persone con redditi più bassi vedrebbero di fatto diminuire i propri redditi a causa dei tagli alla spesa pubblica e allo stato sociale. In altre parole, la legge si concretizzerebbe in un travaso di ricchezza verso le classi sociali più ricche e pagarne il prezzo più alto sarebbero solo i lavoratori e le classi sociali meno abbienti.

Nello specifico, secondo il CBO, la legge ridurrebbe le entrate fiscali di 4,5 trilioni di dollari in 10 anni e taglierebbe la spesa di 1,1 trilioni di dollari: a risentire dei tagli alla spesa sarebbe innanzitutto il Medicaid, il programma sanitario che copre 71 milioni di americani a basso reddito. La “grande e bellissima legge”, infatti, inasprirebbe i requisiti di iscrizione al programma e limiterebbe un meccanismo di finanziamento utilizzato dagli Stati per incrementare i pagamenti federali, lasciando quasi 12 milioni di persone senza assicurazione, secondo il CBO. Oltre ai tagli alla sicurezza sanitaria, la legge ridurrebbe anche i fondi relativi alla sicurezza alimentare e azzererebbe decine di incentivi per l’energia “verde”. Al contrario, invece, la legge stanzierebbe la cifra senza precedenti di 170 miliardi di dollari per il controllo dell’immigrazione, secondo un’analisi dell’American Immigration Council, un ente pro-immigrazione, e secondo un’analisi dell’agenzia di stampa Reuters.  Di questi 170 miliardi, 45 sarebbero spesi per la detenzione degli immigrati, aumentando così il numero di persone detenute dalle attuali 41.500 al giorno, in media, ad almeno 100.000, il numero più alto di sempre.

Oltre alla riduzione della pressione fiscale e l’aumento delle spese per la sicurezza interna, la legge estenderà, rendendo permanenti, i tagli fiscali del 2017, approvati durante il primo mandato del tycoon. Tra le nuove agevolazioni fiscali previste ci saranno quelli sulle mance, gli straordinari, gli anziani e i prestiti per le auto, tutte cose promesse da Trump durante la campagna elettorale. Inoltre, il provvedimento approvato al Congresso intende ridurre gli sprechi pubblici e innalzare il tetto del debito degli Stati Uniti. Proprio quest’ultimo punto ha suscitato preoccupazione per le finanze pubbliche, in quanto si teme che l’eccesso di debito possa limitare lo stimolo economico previsto dalla norma, creando un rischio di maggiori costi di indebitamento a lungo termine.

Uno dei punti più critici del provvedimento, tuttavia, resta il potenziale trasferimento di ricchezza dai poveri verso i ricchi segnalato dal CBO: secondo l’ufficio di bilancio del Congresso, infatti, entro il 2033, il 10% delle famiglie con il reddito più basso vedrebbe le risorse finanziarie a loro disposizione diminuire del 4% ogni anno, mentre il 10% con il reddito più alto le vedrebbe aumentare del 2%. Secondo alcuni analisti, l’esenzione fiscale sulle mance avrebbe pochi vantaggi sui cittadini americani a basso reddito e coloro che ne trarranno beneficio potrebbero comunque vedere i guadagni controbilanciati dai tagli all’assistenza sanitaria e alimentare. Inoltre, le persone con redditi più bassi vedrebbero di fatto diminuire i propri redditi, poiché i tagli alla rete di sicurezza sociale supererebbero i tagli alle tasse. Nonostante ciò, l’idea di rendere esentasse le mance, e in generale la legge fiscale nel suo complesso, ha riscosso una grande approvazione tra l’elettorato trumpiano.

Il capo democratico della Camera, Hakeem Jeffries, in un discorso record di otto ore e 46 minuti ha invece affermato che «L’obiettivo di questa proposta di legge, la giustificazione per tutti i tagli che danneggeranno la gente comune americana, è quello di garantire massicce agevolazioni fiscali ai miliardari». Come prevedibile, le disposizioni fiscali di Trump hanno rinvigorito le divisioni presenti nella società americana, avvantaggiando però con ogni probabilità le classi ricche della popolazione, sebbene gli elettori del capo della Casa Bianca siano in gran parte cittadini della classe media e lavoratori.

L’Antitrust francese multa Shein per 40 milioni di euro

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L’autorità antitrust francese ha multato Shein per 40 milioni di euro per pratiche commerciali ingannevoli. Il marchio cinese di abbigliamento a basso costo avrebbe falsamente aumentato i prezzi prima di applicare sconti, facendo credere ai consumatori di ottenere offerte vantaggiose. L’indagine ha rivelato che l’11% degli sconti erano in realtà aumenti mascherati e il 57% non comportava alcuna reale riduzione. Shein è stata inoltre accusata di fornire informazioni fuorvianti sul proprio impatto ambientale, vantando una sostenibilità non dimostrata. A giugno, l’Organizzazione europea dei consumatori aveva già presentato un reclamo contro l’azienda.

In Italia il piano per la rete 5G annaspa tra le proteste: realizzato solo il 38%

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Tre anni dopo l’avvio del Piano Italia 5G, la promessa di una connessione ultraveloce per tutti si è scontrata con la realtà: a un anno dalla scadenza fissata dal PNRR, è stato completato solo il 38,63% delle aree da coprire. Nonostante l’ottimismo ostentato dal Dipartimento per la trasformazione digitale, il rischio concreto è di perdere quasi 350 milioni di euro di fondi europei. Nel frattempo, i cantieri si muovono al rallentatore tra contenziosi legali e un braccio di ferro tra Inwit, cui è stato affidato il progetto, e i Comuni sul canone d’affitto per le antenne. In molte regioni si diffondono progressivamente le proteste dei comitati e delle associazioni, con la Regione Toscana che, lo scorso autunno, ha commissionato una ricerca per attestare i possibili danni sulla salute degli impianti.

L’obiettivo del piano è portare il 5G in 1.385 aree bianche, ossia quelle zone rurali o montane che non interessano ai privati per la loro scarsa redditività. Il progetto, gestito da un consorzio guidato da Inwit (partecipata da fondi come Ardian, Vodafone, Kkr e Global Infrastructure Partners), prevede l’installazione di 900 torri. Al momento, 259 sono attive, mentre 402 risultano «in lavorazione». Tuttavia, solo una parte di queste è effettivamente prossima alla conclusione. Il Dipartimento guidato dal sottosegretario Alessio Butti sostiene che l’80% dei lavori sia stato “sostanzialmente” completato, includendo nel computo i siti in fase avanzata. Ma i numeri ufficiali raccontano tutt’altro. Ad aggravare la situazione è lo scontro tra Inwit e le amministrazioni locali, soprattutto sui costi di occupazione del suolo pubblico. In base a un emendamento al decreto n. 77/2021, il canone annuo per antenna è stato fissato a 800 euro, contro i 5-20 mila euro chiesti dai Comuni. Secondo i sindaci, questo ha causato una perdita secca di 400 milioni di euro per le casse pubbliche e favorito il colosso delle torri, che avrebbe risparmiato fino a 180 milioni l’anno. Il risultato? Centinaia di ricorsi e un conflitto legale diffuso che rallenta l’implementazione della rete.

In Italia, la questione delle antenne 5G è da tempo al centro dell’attenzione mediatica. Non sono infatti pochi i comuni che ostacolano la loro creazione, invitando alla prudenza e chiedendo maggiori evidenze scientifiche che rassicurino circa gli effetti sulla salute dei cittadini. A mobilitarsi contro la costruzione di antenne sono anche privati cittadini, come nel caso delle comunità del piccolo borgo di Cassol, in Veneto, o di Siderno, in Calabria, o come nel caso Fleximan del marzo 2024, che, sempre in Veneto, ha preso di mira proprio un antenna 5G. Nel frattempo, nel giugno dello stesso anno, il Senato ha approvato con voto di fiducia un emendamento al cosiddetto “Decreto Coesione”, destinato a cambiare le sorti del Piano “Italia 5G”. Nello specifico, il provvedimento stabilisce che «la localizzazione degli impianti nelle aree bianche oggetto dell’intervento è disposta anche in deroga ai regolamenti comunali di cui all’articolo 8, comma 6, della legge 22 febbraio 2001, n. 36». Consentendo dunque allo Stato centrale di passare sopra l’amministrazione locale in merito alla installazione delle antenne, anche quando i Comuni si oppongono.

Nel frattempo, lo scorso settembre, la Regione Toscana ha avviato un’indagine approfondita in merito agli effetti dei campi elettromagnetici prodotti dalle nuove antenne 5G. Il progetto, commissionato all’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpat) e all’Agenzia regionale di Sanità (Ars) della Toscana, prevede uno studio che esaminerà se e in quale misura tali impianti possano rappresentare un rischio per la salute, con particolare riguardo all’incidenza di malattie come i tumori. Il monitoraggio, che include misurazioni sul campo e l’acquisizione di nuova strumentazione, finanzia con 220 mila euro un’analisi in parte teorica e in parte pratica.

Disputa diplomatica USA-Colombia: richiamati gli ambasciatori

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Le relazioni USA-Colombia attraversano un momento delicato, con gli Stati Uniti che hanno richiamato il loro diplomatico John McNamara da Bogotá per «consultazioni urgenti» a causa di dichiarazioni considerate «infondate e riprovevoli» da parte del governo colombiano. In risposta, il presidente colombiano Gustavo Petro ha richiamato l’ambasciatore Daniel García-Peña per discutere dell’agenda bilaterale. La crisi si inserisce in un contesto di tensioni crescenti, alimentate anche dalle dimissioni della ministra degli Esteri colombiana Laura Sarabia, che aveva denunciato penalmente il suo ex cancelliere Álvaro Leyva per un presunto complotto contro di lui, emerso da un’inchiesta del quotidiano spagnolo El País.

 

 

Bugie di guerra e servilismo

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«Caro Donald, grazie per la tua azione decisiva in Iran, è stata davvero straordinaria… Riuscirai a ottenere qualcosa che NESSUN presidente americano è riuscito a fare in decenni. L’Europa pagherà in GRANDE misura, come dovrebbe, e sarà una tua vittoria». Questa sviolinata a Trump, con tanto di maiuscole per imitare lo stile sui social del capo, non è stata scritta da un bambino di otto anni affascinato dal presidente americano, ma dal segretario generale della NATO, Mark Rutte, che in teoria dovrebbe rappresentare gli interessi di tutti i Paesi dell’Alleanza Atlantica e che, come cittadino ed ex premier olandese, sarebbe pure un cittadino europeo. Non contento, davanti alle telecamere, all’ultimo vertice dell’Alleanza, Rutte ha chiamato «paparino» (daddy) l’uomo che aveva appena dato ordine di bombardare le basi nucleari iraniane facendosi beffe del diritto internazionale. 

Chi con freddezza, chi con ironia, il grosso dei media ha riportato la notizia come se fosse una nota di colore su cui fare gossip. Non c’è da stupirsi. Sono gli stessi che hanno propagato senza alcuno spunto critico tre clamorose bugie di guerra. Prima hanno assecondato l’ennesimo crimine israeliano, facendo passare i bombardamenti sull’Iran come “legittima difesa”. Poi hanno ripetuto l’idea che il regime di Teheran fosse prossimo ad avere l’arma nucleare, nonostante la smentita diretta dell’Agenzia atomica dell’ONU. Infine hanno ribadito senza alcuno spunto di riflessione la teoria occidentale secondo cui l’atomica in mano a Teheran sarebbe il più grande pericolo per la pace, omettendo di scrivere che i bombardamenti “difensivi” venivano dall’unico Paese del Medio Oriente che le armi atomiche le ha per davvero (Israele) e dall’unico Paese che nella sua storia l’atomica l’ha anche usata, radendo al suolo Hiroshima e Nagasaki (gli USA). 

La verità è che i media dominanti, in quanto organi di propaganda del potere politico, non sono altro che uno specchio delle miserie della politica europea. La guerra in Medio Oriente e le imbarazzanti dichiarazioni di Rutte hanno avuto almeno il merito di aver reso palese quanto appariva chiaro da tempo: la classe politica europea è talmente abituata al ruolo di governatore coloniale per conto di Washington da aver perso del tutto la capacità di immaginare un futuro libero dagli ordini americani. E, tra tutti, i più servili sono proprio quei governi i cui leader, con sprezzo del ridicolo, continuano a definirsi “patrioti” o “sovranisti”. Come quello italiano, con la Meloni che non solo non ha detto una parola contro l’attacco all’Iran – come d’altra parte non è riuscita a dirla in un anno e mezzo sul genocidio in Palestina – ma che ha obbedito senza batter ciglio all’aumento delle spese militari al 5% del PIL ordinato da Trump, assecondando l’accusa che dà agli europei degli ingrati che usufruiscono a scrocco della difesa americana.

L’ultima enorme bugia del leader americano, che nessun media e nessun governo europeo smaschera occupandosi di spiegare ai cittadini una verità scomoda: il motivo per cui gli USA pagano da decenni spese militari enormi coprendo gran parte del bilancio della NATO è perché questa serve direttamente gli interessi imperiali a stelle e strisce e perché le decine di basi americane in Europa non servono solo contro fantomatici aggressioni russe, ma sono lo strumento attraverso il quale, dal lontano 1945, gli USA hanno trasformato le nazioni europee in Stati a sovranità limitata, con tanto di organizzazioni paramilitari pronte a effettuare colpi di Stato se i governi nazionali avessero alzato troppo la testa (chi volesse saperne di più cerchi informazioni sulla “Organizzazione Gladio”, operativa per oltre 30 anni in Italia). Le azioni e le richieste fuori controllo dell’amministrazione americana potrebbero essere l’occasione per dire a Trump «Non smantelleremo quello che rimane dello Stato sociale per pagare i tuoi soldati. Non ci serve la tua protezione, riporta pure i marines a casa e libera il nostro territorio dalle 120 strutture militari americane che occupano l’Italia da ormai ottant’anni». Ma ovviamente nessun politico avrà il coraggio di dirlo. Servirebbero leader anziché amministratori coloniali, e all’orizzonte non se ne vedono.