domenica 21 Settembre 2025
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Austria: cancelliere Sebastian Kurz indagato per favoreggiamento corruzione

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Il Cancelliere federale dell’Austria, Sebastian Kurz, è attualmente indagato per favoreggiamento della corruzione. A renderlo noto sono stati alcuni media locali, tra cui in particolare i quotidiani Die Presse e Der Standard. Questa mattina sono state effettuate perquisizioni avvenute in Cancelleria e nella sede dell’Oevp, il partito che ha come leader proprio Sebastian Kurz: a far scattare l’inchiesta una serie di sondaggi pubblicati dal quotidiano Oesterreich e dalla tv privata oe24, i quali sarebbero stati finanziati dal ministero delle finanze «esclusivamente per scopi partitici». Oltre a Kurz, però, ad essere indagati sarebbero anche alcuni suoi stretti collaboratori.

I punti oscuri della nuova (costosissima) pillola anti-covid in approvazione

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L’annuncio è arrivato nei giorni scorsi: la multinazionale Merck è pronta a richiedere alla FDA statunitense l’approvazione per l’uso di emergenza della prima pillola anti-covid. Prontamente l’azienda ha diffuso il comunicato stampa che trasmette i promettenti risultati: dimezzamento di ricoveri e decessi assumendo 4 pillole al giorno per 5 giorni, con trattamento da effettuare nei primi giorni dall’infezione. Prontissime le manifestazioni di entusiasmo dei virologi più in vista. Anthony Fauci, il factotum della gestione pandemica americana, ha parlato di «dati impressionanti», mentre dall’Italia, Matteo Bassetti, ha rilanciato definendolo un «risultato straordinario». Oltre a comunicati stampa e dichiarazioni, però, quanto si sa sulla pillola è ancora molto poco. I ricercatori che volessero verificare i dati hanno a disposizione solo il comunicato stampa aziendale e la sperimentazione è stata sospesa prima di essere completata, basandosi sulla metà dei volontari inizialmente previsti. Di certo per ora c’è solo l’altissimo costo della pillola (700 dollari a trattamento) e l’immediato e brusco rialzo del valore delle azioni della multinazionale americana in borsa.

Le zone d’ombra che ancora avvolgono il molnupiravir (questo il nome della pillola anti-Covid) sono diverse. Il comunicato sull’efficacia si basa sui risultati preliminari di uno studio di fase 3, ultima tappa prima dell’eventuale approvazione. Gli studi di fase 3 prevedono di dividere i soggetti partecipanti in due gruppi: uno da trattare con il farmaco, l’altro con il placebo o altri farmaci già in uso. Nel caso specifico si è scelto di confrontare il molnupiravir con il placebo. Dallo studio è appunto emerso che il farmaco sia efficace al 50% in quanto il 7,3% dei pazienti trattati con esso è stato ricoverato, mentre il 14,1% dei pazienti che hanno ricevuto il placebo è stato ricoverato o è morto. Tuttavia, già la scelta di comparare il molnupiravir al placebo (una sostanza farmacologicamente inerte) nonostante vi fosse la possibilità di confrontarlo, ad esempio, con i farmaci antinfiammatori non steroidei (Fans), che la stessa Aifa (Agenzia italiana del farmaco) consiglia per il trattamento del Covid, potrebbe averne amplificato l’efficacia. È quanto sostiene ad esempio il ricercatore italiano Andrea Capocci in un articolo pubblicato sul quotidiano Il Manifesto.

Un altro punto critico è rappresentato dal fatto che, in seguito a tali risultati, lo studio è stato interrotto anticipatamente, e i risultati diffusi si basano sulla valutazione dei dati provenienti da 775 pazienti, poco più della metà dei 1500 pazienti inizialmente previsti per la sperimentazione. Questo può averne inficiato i risultati? Nessuno può escluderlo. Di certo il motivo per il quale le ricerche scientifiche prevedono sempre bacini numerosi di volontari non è casuale: più il campione è ristretto, più alto è il rischio che i dati siano inficiati dalla variabilità statistica. I motivi addotti dalla Merck per giustificare l’interruzione della sperimentazione sono i seguenti: «Il risultato positivo ha indotto i ricercatori a interrompere il test, per non somministrare ai volontari un placebo in presenza di un’alternativa efficace».

La storia recente mostra oltretutto come una ricerca terminata in anticipo possa dare risultati anche molto diversi da quelli che poi si riscontrano sul campo. A insegnarlo è la vicenda del remdesivir, antivirale sviluppato in origine contro il virus Ebola e successivamente proposto come cura anti-Covid. In quel caso i test furono interrotti in anticipo per la medesima ragione e il remdesivir fu autorizzato all’uso. Peccato che un test più ampio svolto direttamente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ne abbia poi mostrato la sostanziale inefficacia e l’Oms attualmente ne sconsiglia l’impiego. Questo non ha impedito alla casa produttrice Gilead di venderne dosi per 2,8 miliardi di dollari nel 2020 e prevedere ricavi analoghi per il 2021.

Evidente dunque come l’efficacia reale della pillola anti-covid rimanga da dimostrare. Particolare che però non sembra preoccupare gli Usa, che già hanno siglato con la Merck un contratto di approvvigionamento che gli garantirà forniture per 1,7 milioni di trattamenti alla cifra di 1,2 miliardi di dollari. Fanno 700 dollari a trattamento, ovviamente versati alla multinazionale con fondi pubblici. Il contratto diverrà operativo non appena l’Fda (l’organo statunitense che regola i prodotti farmaceutici) concederà al farmaco l’autorizzazione per l’uso di emergenza. Gli americani non sono soli: anche l’Australia, secondo quanto riportato dai media locali, ha infatti deciso di acquistare 300mila dosi. Anche in questo caso si aspetterà l’approvazione delle autorità statuali. Autorizzazioni sulle quali la multinazionale americana pare pronta a scommettere dato che ha comunicato di essere già attrezzata per «produrre 10 milioni di cicli di trattamento entro la fine del 2021».

Per ora, tra l’altro, i profitti della Merck paiono essere l’unico fatto realmente verificabile della vicenda. Solo l’annuncio della richiesta di autorizzazione ha infatti prodotto un immediato e robusto rialzo del suo valore, passato dai 75 dollari per azione del 30 settembre (giorno precedente l’annuncio) agli 83,10 dollari del 4 ottobre

[di Raffaele De Luca]

Una centrale nucleare slovena mette a rischio l’Italia?

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Il governo di Lubiana ha deciso per il raddoppio della centrale nucleare di Krško. Una decisione che desta più di una preoccupazione, presa nonostante diversi esperti abbiano sollevato più di una perplessità. Come nel caso dei potenziali rischi per l’Italia. L’impianto, infatti, sorge su un’area a rischio sismico a soli 130 chilometri da Trieste ed è privo di un deposito per smaltirne i rifiuti. In tutto questo – denuncia Altreconomia – Roma però tace. Il provvedimento è stato approvato lo scorso luglio dal parlamento sloveno con 49 voti a favore e 17 contrari. La struttura, unica centrale nucleare dell’ex Jugoslavia, avrebbe dovuto chiudere battenti nel 2023, ma il governo già nel 2016 optò per prorogarne la chiusura di vent’anni, al 2043.

L’impianto di Krško, da solo, soddisfa il 40% dell’intero fabbisogno energetico nazionale sloveno. Motivo per cui la nazione ne è tanto affezionata. Quando fu costruito, ormai quarant’anni fa, però non si disponevano di informazioni adeguate sulla sismicità del sito. Ora, però, ne siamo a conoscenza: la struttura ricade in un’area a rischio sismico medio-alto. L’unica in tutta Europa a essere collocata in una zona con tale grado di pericolosità. E non si tratta solo di ipotesi avanzate da studi geologici: di conferme, infatti, ce ne sono fin troppe. Basti pensare allo scorso dicembre, quando la cittadina croata di Petrinja è stata gravemente colpita da un terremoto di magnitudo 6.4, a circa 80 chilometri di distanza dalla centrale nucleare Krško. Oppure a marzo 2020, quando a tremare è stata Zagabria, a 50 chilometri dall’impianto, o peggio, al 2015, quando un sisma di magnitudo 4.5 si è verificato a soli 12 chilometri dalla struttura.

Le autorità slovene hanno tuttavia sempre rassicurato su quanto la centrale sia tra le più sicure in Europa ed inoltre, nel 2016, la Commissione Ue ha ribadito i risultati incoraggianti di uno ‘stress test‘ realizzato nel 2011. Non è però dello stesso parere il sismologo Livio Sirovich: «gli impianti – ha spiegato – erano stati calcolati per resistere a terremoti troppo piccoli. Si capì che un evento sismico, lì, poteva generare accelerazioni massime del suolo addirittura doppie rispetto a quelle considerate dal progetto. Solo che, ormai, era troppo tardi per modificare le strutture. In ballo c’erano già troppi interessi economici per fare marcia indietro». La Slovenia, tra l’altro, sarebbe fortemente intenzionata a realizzare una nuova centrale, col triplo della potenza, adiacente a questa. Nonostante le opinioni in merito siano discordanti. Nel 2013, ad esempio, il Servizio nazionale francese di Radioprotezione e Sicurezza Nucleare (Irsn) scrisse alla società energetica Gen Energija, proprietaria dell’impianto, che «la scoperta di una nuova faglia attiva non permette di concludere in modo favorevole sull’adeguatezza dei due siti per la costruzione di una nuova centrale nucleare».

[di Simone Valeri]

Aggiornamento (07/10/2021): Il titolo e parti dell’articolo sono stati modificati di modo che non vengano alimentati allarmismi ingiustificati. Le opinioni in merito alla sicurezza della Centrale rimangono contrastanti, tuttavia, questo non indica che l’Italia si trovi in una situazione di pericolo imminente.

Crisi di Taiwan: Biden annuncia l’accordo con la Cina

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Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha dichiarato di aver avuto un colloquio telefonico con il presidente cinese Xi Jinping, nel quale i due si sono accordati per il rispetto dell’Accordo di Taiwan, che garantisce l’indipendenza del piccolo stato. La telefonata arriva dopo giorni di tensione, con la Cina che aveva ripetutamente violato lo spazio aereo di Taiwan con veivoli militari. La Cina ad ogni modo continua a rivendicare la propria sovranità sull’isola e la controversia appare molto lontana dall’essere risolta.

Boom dell’homeschooling in Italia: la pandemia triplica gli “studenti casalinghi”

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È record di homeschoolers in Italia. Tantissime famiglie, negli ultimi due anni segnati dalla pandemia, hanno deciso di fare studiare i propri figli a casa. Una metodo d’istruzione già più che diffuso all’estero e che, adesso, sta prendendo piede anche nel Belpaese. Dal 2018/19 – ultimo anno scolastico pre-pandemico – al 2020/21, gli “studenti casalinghi” sono pressoché triplicati, passando da 5.126 a 15.361.

Ma che cos’è l’homeschooling? Detta anche istruzione domiciliare, non deve essere confusa con la didattica a distanza (DAD). Difatti, mentre quest’ultima consiste in una tipologia di insegnamento-apprendimento virtuale ma pur sempre legata all’istituto scolastico, l’homeschooling vede la piena responsabilità dei genitori per quanto concerne l’istruzione dei figli. La formazione, in questo caso, si svolge nel contesto domestico-familiare, quindi senza usufruire del servizio scolastico offerto dal sistema nazionale. Per alcuni studiare da casa significa farlo avendo i genitori come insegnanti, ma in sempre più contesti si tratta di più famiglie che si organizzano insieme, mettendo insieme competenze proprie e risorse per avvalersi anche di insegnanti esterni.

Questa modalità educativa prevede che, alla fine dell’anno, il bambino o il ragazzo sostenga un esame di idoneità alla classe successiva in un istituto statale o paritario, per verificare l’effettivo percorso di apprendimento. Attualmente, l’homeschooling sta riguardando soprattutto i bambini. Difatti, circa due terzi degli alunni “casalinghi” dovrebbero sedere ai banchi della scuola primaria e, se tra il 2018 e il 2019 erano circa 2.243, tra il 2019 e il 2021 sono aumentati a 2.926, e triplicati nell’ultimo anno. Discorso analogo per i ragazzi nella fascia d’età delle scuole medie. Se nel 2019 erano 2.256 quelli impegnati in un percorso di studio alternativo, tra il 2020 e il 2021 sono raddoppiati, arrivando a 4.386. Il fenomeno invece risulta molto meno rilevante nei numeri alle scuole superiori, dove anzi i ragazzi che studiano da casa sono diminuiti, passando da 1030 a 947.

Il boom “dell’istruzione domiciliare” trova le sue cause anche, forse soprattutto, nel periodo pandemico. Con i figli a casa in DAD e il doversi fare obbligatoriamente carico della gestione di parte della didattica, molte famiglie hanno deciso di fare un passo in più, rendendosi autonomi dalle esigenze, richieste e valutazioni della scuola. Proprio come avviene in un’altra modalità scolastica simile all’homeschooling che si sta diffondendo: la scuola parentale. I genitori o i tutori si assumono la totale e diretta responsabilità dell’istruzione dei propri figli ma, in questo caso, è previsto un luogo fisico e la frequenza del bambino. Si tratta di una forma d’istruzione che vede, infatti, più genitori riunirsi al fine di creare una dimensione comunitaria basata su un progetto educativo riconosciuto.

[di Eugenia Greco]

Romania: Parlamento approva mozione di sfiducia, cade il governo

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In Romania, nella giornata di oggi è caduto il governo guidato dal primo ministro liberale Florin Citu. Il tutto in seguito ad una mozione di sfiducia approvata a gran voce dal Parlamento. Essa infatti ha ricevuto 281 voti a favore, una cifra di gran lunga superiore alla soglia minima necessaria pari a 234 voti. Nello specifico, la mozione è stata sostenuta dall’ex partito del governo di coalizione Usr-Plus e dal partito di estrema destra Aur. Gli alleati di Citu, invece, hanno boicottato il voto.

L’Europa valuta una missione militare al fianco dell’Ucraina in chiave anti-russa

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L’Unione Europea starebbe valutando l’invio di una missione di addestramento militare in Ucraina in risposta alle continue attività militari russe. È quanto si apprende da un documento interno di Bruxelles. Secondo il materiale, pubblicato in esclusiva dal settimanale tedesco Welt am Sonntag, il programma prevedrebbe l’invio di una missione di addestramento militare dei paesi membri dell’UE a sostegno del governo di Kiev, impegnato in un conflitto continuo e non dichiarato con la Russia.

La richiesta di un intervento europeo nella regione sembrerebbe venire espressamente da rappresentanti dello stesso governo ucraino, in particolare dai ministri degli Esteri e della Difesa, che a luglio avrebbero fatto esplicita richiesta all’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’UE, Josep Borrell, di un impegno militare europeo a sostegno di Kiev.

D’altronde, l’impegno europeo a salvaguardia dei propri confini orientali è di lunga data. L’attenzione di Bruxelles per il teatro ucraino risale al 2009, con il lancio di un partenariato che però, almeno fino ad adesso, non aveva nessuna dimensione militare, e che anzi si identificava come “un’espressione di solidarietà” con l’Ucraina. Solidarietà che si sarebbe andata rafforzando negli anni, man mano che la tensione con la Russia saliva e, nel 2014, esplodeva con l’annessione della Crimea.

Nel dicembre dello stesso anno, l’Unione Europea promuoveva la missione Advisory Mission Ukraine, mirante a “riformare il settore della sicurezza civile e a rinnovare la fiducia popolare nelle istituzioni attraverso un processo di riforme e di progetti internazionali”. Secondo il documento interno pubblicato dall’inserto settimanale del quotidiano Die Welt, una delle tre opzioni sul tavolo dell’Unione Europea sarebbe quella di rafforzare l’impegno della “Advisory Mission” nell’ambito dell’addestramento militare.

La spinta a introdurre un più stretto vincolo militare viene dalle esplicite richieste dei tre paesi baltici europei – Lettonia, Estonia e Lituania – preoccupati dalle continue esercitazioni militare russe vicino ai loro confini (e dunque a quelli europei). Queste nazioni condividono le stesse preoccupazioni ucraine nei confronti di Mosca, e le manovre militari russe dell’area, in particolare l’esercitazione militare Zapad-2021 dello scorso settembre e il massiccio incremento di truppe al confine ucraino di aprile, hanno spinto a richiedere un maggiore coinvolgimento militare europeo nell’area.

Mosca nega un rafforzamento delle proprie truppe sul suo confine occidentale, ma intanto diversi osservatori internazionali ritengono alto il rischio dello scoppio di un nuovo conflitto nella regione. Al momento non risultano dichiarazioni del Cremlino in merito alla formazione di una missione europea in Ucraina.

Tuttavia, l’effettiva creazione di questa missione non è affatto scontata. Un maggiore impegno dell’Unione nel teatro orientale, come d’altronde ogni decisione politica, richiede l’approvazione unanime degli Stati Membri, e le voci discordanti – tra cui quelle di Italia, Grecia e Cipro – che invitano alla prudenza e a evitare “inutili provocazioni” verso Mosca sono diverse. Restano da capire sia le reali possibilità di azione di Bruxelles che le inevitabili risposte del Cremlino, che non tarderanno certo ad arrivare.

Quel che è certo è che l’Ucraina appare destinata a continuare ad essere il principale teatro delle tensioni tra Russia e Nato nel prossimo futuro. Esercitazioni militari congiunte con il governo di Kiev sono già state intraprese dal Regno Unito, che – dopo la Brexit – sta rappresentando sempre più un braccio armato degli Stati Uniti, impegnato in provocazioni di vario tipo non solo contro Mosca ma anche contro la Cina. Mentre gli Stati Uniti insistono nelle dichiarazioni riguardanti l’intenzione di accettare l’Ucraina dentro il patto militare atlantico: decisione che per Mosca somiglierebbe a una dichiarazione di guerra, dato che renderebbe possibile per gli americani istallare missili capaci di tenere sotto tiro le città russe. Fino ad oggi l’Unione Europea (al netto di sanzioni economiche imposte più per dovere nei confronti dell’alleato americano che per reale volontà) è rimasta in posizione di attesa, anzi portando avanti il progetto Nord Steam 2 per trasportare il gas russo nel vecchio continente. Dovesse concretizzarsi una missione come quella prospettata sarebbe un deciso cambio di passo che contribuirebbe ad innalzare la tensione internazionale.

[di Rubén Ernesto Umbrello]

Referendum eutanasia: raccolte oltre 1,2 milioni di firme

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Nella giornata di oggi Marco Cappato, il segretario dell’associazione Luca Coscioni, ed i coordinatori del comitato, hanno annunciato in una conferenza stampa tenutasi a Milano che più di un milione e duecentomila firme sono state raccolte per chiedere un referendum sull’eutanasia legale. Nello specifico, quattrocentomila firme sono state raccolte online, mentre le restanti su carta grazie al lavoro degli oltre tredicimila volontari. Seimila tavoli di raccolta sono stati infatti allestiti da questi ultimi in più di mille comuni.

Ita, viceministra Laura Castelli: “Governo conferma partenza operativa il 15 ottobre”

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«Il governo conferma che la partenza operativa di Ita avverrà il 15 ottobre». È quanto affermato dalla viceministra dell’economia e delle finanze, Laura Castelli, in audizione alle Commissioni riunite Trasporti della Camera e Lavori pubblici del Senato sul piano industriale e la partenza di Ita, la compagnia aerea di proprietà statale pronta a prendere il posto di Alitalia. «I ricavi sono attesi in crescita, da 1,8 miliardi di euro del primo anno a 3,3 miliardi nel 2025», ha aggiunto. Come sottolineato dalla viceministra, però, le linee guida prevedono che si parta con circa 6000 effettivi, a differenza degli oltre 10.000 di Alitalia, e che nel 2025 si arriverà ad avere 8.400 dipendenti. È proprio questo il punto che preoccupa maggiormente i lavoratori.

Un’alimentazione sana per noi e per il pianeta

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Le scelte alimentari che ognuno di noi compie influiscono non solo in maniera diretta sulla nostra salute ma, indirettamente, anche sulla qualità dell’ambiente che ci circonda. Come è facile intuire, infatti, il modo in cui decidiamo di nutrirci inevitabilmente va ad incidere sul cibo che viene prodotto e dunque, almeno in parte, sull’intero sistema alimentare nonché sull’impatto ambientale dello stesso. In tal senso va ricordato uno studio recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Nature: i ricercatori che lo hanno condotto hanno elaborato una banca dati globale delle emissioni alimentari con il fine di effettuare una stima (relativa al periodo 1990-2015) dei gas serra derivanti da tale settore. Ebbene, nel più recente anno oggetto dell’analisi, ossia il 2015, è emerso che dal sistema alimentare è derivato il 34% del totale delle emissioni di gas serra a livello globale.

Contrastare la transizione alimentare in atto

Quello dell’inquinamento prodotto dal sistema alimentare, quindi, costituisce già adesso un problema di notevole importanza, che tuttavia con ogni probabilità si aggraverà ulteriormente in futuro: basterà ricordare che, secondo un rapporto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu), nel 2030 la popolazione mondiale potrebbe essere composta da 8,5 miliardi di persone, nel 2050 da 9,7 miliardi, ed entro la fine del secolo da quasi 11 miliardi. Sarebbero 4,3 miliardi in più di bocche da sfamare rispetto a oggi. Chiaro quindi che anche l’impronta ambientale della produzione di cibo sarebbe destinata ad accrescere proporzionalmente. Uno scenario assolutamente da evitare: per questo sono necessarie rapide contromisure, nelle tecniche di produzione ma anche, forse soprattutto, nella scelta dei cibi da porre sulla tavola. Ma per ora si marcia in direzione opposta. Secondo una ricerca condotta da ricercatori dell’Università del Minnesota, anche in questo caso pubblicata su Nature, è in atto una «transizione alimentare globale in cui le diete tradizionali sono sostituite da diete più ricche di zuccheri raffinati, grassi raffinati, oli e carni. Una tendenza dietetica che, se non controllata, entro il 2050 comporterebbe un aumento stimato dell’80% delle emissioni agricole globali di gas serra derivanti dalla produzione alimentare e dal disboscamento globale». Ed a pagarne il prezzo non è solo il clima, dato che queste diete stanno producendo anche un aumento notevole della «incidenza del diabete di tipo II, della malattia coronarica e di altre malattie croniche».

La dieta mediterranea è sostenibile

Ma cosa possiamo fare, dunque, per migliorare questa situazione? Una risposta potrebbe risiedere nelle cosiddette “diete sostenibili”: è così che l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), all’interno del report “Sustainable Diets and Biodiversity”, definisce le diete a basso impatto ambientale che contribuiscono alla sicurezza alimentare e nutrizionale. Esse sono rispettose della biodiversità e degli ecosistemi, nonché accessibili ed economicamente eque e convenienti. Detto ciò, in Italia non ci sarebbero grossi problemi a seguire un regime alimentare che soddisfi tali requisiti, in quanto tra gli esempi di diete sostenibili la Fao cita proprio quella mediterranea. Ed a tal proposito non si può non ricordare la “Met Diet 4.0”, un quadro multidimensionale che identifica 4 possibili vantaggi di tale dieta, ossia: i benefici per la salute, il basso impatto ambientale, l’alto valore socioculturale e i ritorni positivi sull’economia locale. Si tratta infatti di un modo di alimentarsi che incentiva il consumo stagionale di prodotti freschi e locali nonché la biodiversità e la varietà dei cibi, stimola le attività culinarie tradizionali oltre che la convivialità e la frugalità. Nello specifico poi, alla base della piramide alimentare mediterranea vi sono verdure, frutta e cereali, da consumare ogni giorno, mentre alimenti quali pesce, pollame, legumi, uova e formaggi devono essere consumati settimanalmente. La carne rossa non è bandita, ma ricollocata nel territorio di moderazione che da sempre, a queste latitudini, ne ha contraddistinto il consumo: due porzioni o meno a settimana, massimo 50 grammi a settimana se processata.

Le “blue zones”

Un’ulteriore conferma del fatto che la dieta mediterranea sia ottima a livello salutare la si può ricavare anche dalle cosiddette “blue zones”: si tratta di alcune aree, geograficamente distanti tra loro, accomunate da una speranza di vita delle persone che vi risiedono notevolmente più alta rispetto alla media mondiale. Ciò è determinato non solo dal fatto che le “blue zones” hanno caratteristiche ambientali e culturali simili, ma anche dallo stile di vita che gli abitanti conducono, alla base del quale vi è un regime alimentare non molto differente da quello previsto dalla dieta mediterranea. Le persone che vivono in queste zone infatti si rifanno ad un’alimentazione frugale, semplice e genuina, povera di zuccheri e di cibi industriali, caratterizzata da un ampio consumo di cibi di origine vegetale e, viceversa, da un consumo moderato di carne bianca, pesce, latte e formaggi.

Sprecare meno cibo è fondamentale

Detto ciò, anche lo spreco di cibo rappresenta un’altra abitudine molto diffusa che, a livello individuale, è fondamentale modificare. In tal caso, per cibo sprecato dobbiamo intendere da un lato quello mangiato inutilmente e dall’altro quello acquistato e non consumato (e di conseguenza buttato). Nel primo caso, infatti, si andrà a favorire una condizione di obesità, la quale non solo arrecherà un danno alla propria salute ma indirettamente anche all’ambiente, a causa delle emissioni di anidride carbonica prodotte durante la filiera. Prova ne è una ricerca avente ad oggetto lo sviluppo di un nuovo indice, il cosiddetto “Spreco Alimentare Metabolico”, che valuta i chili di cibo ”sprecato” o comunque in eccesso che un individuo con problemi di sovrappeso o obesità consuma ed il relativo impatto ambientale in termini di emissioni di anidride carbonica, consumo di acqua e di terreno. Lo Spreco Alimentare Metabolico per la popolazione italiana in sovrappeso e obesa «è risultato essere di oltre 2 miliardi di chili di cibo, un consumo di acqua pari al 13% del volume del Lago di Garda, una quantità di emissioni di CO2 pari all’11,8% delle emissioni prodotte dalla produzione agricola in Italia e un consumo di terreno pari al 73% della superficie di Asia ed Africa».

Venendo invece al secondo caso sopracitato, ossia quello del cibo buttato, bisogna ricordare che non consumando e dunque gettando il cibo acquistato si contribuirà ulteriormente ad inquinare l’ambiente. Si tratta di un problema non da poco, dato che a livello globale ogni anno sprechiamo circa 900 milioni di tonnellate di cibo: solo nel 2019 gli scarti alimentari globali sono ammontati a 931 milioni di tonnellate, il 17% del cibo disponibile al consumo. Nello specifico, l’11% viene gettato dalle famiglie: ciò rende l’idea di quanto le scelte di ognuno di noi incidano anche sulla salute dell’ambiente, dato che l’8-10% delle emissioni globali di gas serra derivano dalla quantità di cibo non consumato.

Chiaro che, come ribadito a più riprese anche in queste colonne, la soluzione ai problemi creati dall’alimentazione va costruita innanzitutto modificandone la filiera di produzione, modellata sulle necessità della grande industria, a discapito delle esigenze dei consumatori e dell’ambiente. Tuttavia riflettere su quanto si porta sulla tavola e cercare di fare la spesa in modo consapevole è un passo immediato e che tutti possono fare. La salute personale ne guadagnerebbe immediatamente, e anche per l’ambiente – goccia su goccia – non sarebbe poco.

[di Raffaele De Luca]