giovedì 18 Settembre 2025
Home Blog Pagina 1383

No Tav, la giustizia si accanisce: condannata al carcere la 75enne Nicoletta Dosio

1

Il Tribunale di Torino ha condannato a un anno e un mese di carcere la 75enne Nicoletta Dosio, attivista No Tav. La condanna giunge a seguito del mancato rispetto dei domiciliari, imposti nel 2016 a causa di un precedente arresto. Nicoletta non ha mai nascosto la sua mancata volontà di rispettare l’iniqua misura imposta dal Tribunale e ha annunciato di non volersi piegare nemmeno se la condanna dovesse diventare definitiva.

Nicoletta era già stata condannata a otto mesi di carcere per aver ripetutamente violato i domiciliari. Nel 2012 aveva infatti partecipato a un presidio di 30 minuti presso il casello dell’autostrada di Avigliana: i manifestanti avevano alzato le sbarre e fatto passare gli automobilisti, declamando al megafono «oggi paga Monti». Nel 2016 fu condannata per questo a 8 mesi ai domiciliari. Nicoletta decise di non piegarsi e continuò a partecipare alle attività del movimento e vivere libera.

Il mancato rispetto degli arresti domiciliari le valse una condanna al carcere, riconvertita nuovamente nel marzo 2020 in domiciliari a causa dell’esplosione dell’emergenza Coronavirus nelle carceri. Nicoletta ha anche in questo caso violato l’imposizione del Tribunale, il 17 settembre, per partecipare a una manifestazione di solidarietà. Ora una nuova sentenza la condanna a scontare un anno e un mese nel carcere torinese Le Vallette.

«Io ho sempre rivendicato quello che mi è stato imputato» dichiara Nicoletta ai microfoni di Radio Onda d’Urto, parlando di un’unica, lunga evasione durata tre mesi. «Io non mi sono mai nascosta, ma ero visibile ovunque ci fossero delle scadenze di movimento e delle lotte, perché questo era il senso del mio non voler accettare la sentenza e le imposizioni del Tribunale di Torino. Non si tratta di eroismo individuale, ma di una presa di coscienza collettiva».

Tra 15 giorni le motivazioni finali della sentenza. «Nel momento in cui la sentenza sarà definitiva io non intendo piegarmi» afferma Nicoletta, il cui spirito indomito non conosce barriere.

[di Valeria Casolaro]

Per la prima volta in Italia un malato ha ricevuto l’autorizzazione al suicidio assistito

0

Si chiama Mario, è nato a Pesaro 43 anni fa, gli ultimi dieci dei quali trascorsi da tetraplegico in seguito a un grave incidente stradale. Sarà lui il primo italiano a poter accedere legalmente al suicidio assistito. Lo ha stabilito il Comitato Etico dell’Azienda Sanitaria della sua regione (Asur Marche) ritenendo che nel suo caso siano soddisfatti tutti e quattro i stringenti paletti stabiliti dalla Corte Costituzionale per fornire il via libera: il richiedente è tenuto in vita da trattamento di sostegno vitali; è affetto da una patologia irreversibile; soffre di dolori intollerabili; é pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Mario è riuscito ad ottenere il via libera dopo una lunga battaglia con l’aiuto dell’Associazione Coscioni. Quella che ha scritto è certamente una pagina che entrerà nella storia dei diritti in Italia. Sarà il primo cittadino a poter scegliere quando morire, facendolo a casa sua, accanto alla sua famiglia. Potrà cambiare idea anche all’ultimo istante perché il suicidio medicalmente assistito prevede l’azione della persona che lo chiede: soltanto lui (che muove solo il dito mignolo della mano destra) potrà autosomministrarsi il farmaco letale, non sarà consentito l’intervento di nessun medico (come sarebbe invece possibile nel caso dell’eutanasia).

Ad agosto dell’anno scorso Mario (che in realtà è il nome di fantasia diffuso dall’Associazione Coscioni per proteggerne il diritto alla riservatezza) aveva ricevuto il permesso dalla Svizzera per andare a esercitare il suicidio assistito lì. Ma ha scelto di seguire la via indicata dalla sentenza della Corte Costituzionale, cioè far verificare alla sua Asl l’esistenza dei requisiti necessari per esercitare il diritto al fine vita. Sono serviti 13 mesi perché un’equipe di medici e psicologi lo visitassero. Poi altri due perché, sulla base della loro relazioni, il Comitato etico si esprimesse. «Un calvario dovuto allo scaricabarile istituzionale», lo ha definito Marco Cappato, membro dell’Associazione Coscioni e volto storico delle battaglie sul fine vita.

Il Governo italiano continua a non fare chiarezza sui fondi spesi per la Libia

0

L’Italia spende ogni anno milioni di euro per finanziare le attività della Guardia costiera libica, organismo creato nel 2017 grazie al Memorandum di Intesa Italia-Libia. In tale documento l’Italia si impegna a fornire alla Libia fondi e strumentazioni necessarie per attuare i respingimenti dei migranti sull’asse del Mediterraneo centrale. Ma anche prima del 2017 i finanziamenti erano continui e ingenti. Non si parla di soldi donati al Governo di Tripoli, che non esercita un controllo effettivo sul territorio a causa della frammentazione della situazione politica, sociale e militare dovuta a dieci anni di guerra civile. Gli aiuti italiani sono per lo più tradotti in supporto logistico, donazione di strumentazione di vario tipo (come le motovedette) e formazione continua del personale. Finora il programma IBM (Integrated Border Management, detto anche Supporto alla gestione integrata delle frontiere) ha ricevuto un finanziamento pari a 46 milioni di euro, provenienti dall’Unione europea ed amministrati dal Ministero dell’Interno. Questi tuttavia non ha mai pubblicato rapporti di spesa o resoconti di utilizzo di tali fondi, rifiutandosi di rispondere alle richieste di chiarezza fatte dalla società civile e da diverse associazioni giuridiche.

In base al FOIA infatti, il Freedom of Information Act, introdotto nel nostro ordinamento nel 2015, la pubblica amministrazione ha l’obbligo di concedere informazioni ai cittadini che le richiedano, quando queste non contrastino con la sicurezza nazionale o la privacy. Per quanto riguarda le spese destinate alla Libia, Il Ministero dell’Interno ha sempre violato il principio della trasparenza, non rendendo disponibili le cifre ma limitandosi a pubblicare le informazioni sull’affidamento delle forniture alla Libia sul sito della Polizia di Stato. Vi sono poi inoltre precedenti che alimentano ulteriori sospetti sull’utilizzo di tali fondi, come quanto dichiarato il 9 settembre 2017 al Corriere della Sera dall’intelligence libica. In tale occasione era stato riportato come una milizia locale avrebbe ricevuto “cinque milioni di euro dall’Italia, se non il doppio” per attività di controllo delle partenze dalle coste vicino Tripoli.

Le notizie su quanto accada nei centri di detenzione libici si sprecano. Il fatto che il Governo italiano ancora si rifiuti di riconoscere la realtà dei fatti non è un argomento sul quale ci soffermeremo in questa sede, limitandoci a sottolineare come tali respingimenti violino il diritto fondamentale di asilo dei rifugiati e il principio di non respingimento in mare, sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. La violazione di tali norme prevede responsabilità giuridiche da parte di Italia ed Unione Europea.

L’ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) ha per tali motivi richiesto all’ANAC (Autorità Nazionale Anti Corruzione) di “attivare i propri poteri di controllo” sull’IBM, e alla Corte dei Conti (l’organismo che vigila sulle finanze dell’Unione europea) di sospendere il programma di finanziamenti e operare una revisione. Tali finanziamenti attingono inoltre al Fondo fiduciario per l’Africa, che dovrebbe supportare programmi di sviluppo per i Paesi africani. Tuttavia, come sembra, tali fondi finirebbero in ben altre mani.

[di Valeria Casolaro]

 

Antitrust: Apple e Amazon sanzionate per 200 milioni

0

L’Autorità Garante della Convenienza e del Mercato ha sanzionato Apple e Amazon per una cifra complessiva di 200 milioni di euro. In particolare Amazon sarà tenuta a pagare 68,7 milioni mentre Apple 134,5. Il provvedimento riguarda un accordo restrittivo messo in atto dalle due aziende, stipulato il 31 ottobre 2018, che impediva ai rivenditori ufficiali e non ufficiali di prodotti a marchio Apple e Beats di operare sulla piattaforma di Amazon. La vendita di tali prodotti era infatti concessa solo ad Amazon e alcuni rivenditori selezionati in modo discriminatorio. L’Autorità ha affermato che tale mossa costituisce una violazione della normativa UE.

L’Indipendente è stato censurato sul social network TikTok

2

Nell’ultimo periodo il social network TikTok ha rimosso tre video pubblicati dal profilo ufficiale de L’Indipendente: solo uno di essi è stato ripristinato, mentre gli altri due sono tuttora oscurati. La censura del social nei nostri confronti non è terminata qui, dato che in seguito alla rimozione del terzo ed ultimo video avvenuta nella giornata di ieri, la piattaforma video ha sanzionato anche il nostro profilo, impedendoci di pubblicare contenuti fino alle ore 16:51 della giornata di oggi. Tuttavia, le ragioni alla base di tali misure restrittive risultano essere alquanto incomprensibili.

Il primo video in questione – pubblicato lo scorso 18 ottobre e censurato pochi minuti dopo – si basa sul nostro articolo riguardante la vicenda di Aldo Bianzino, morto nel 2007 dopo essere stato arrestato per possesso di cannabis. Siamo stati informati del fatto che la sua rimozione è legata alla categoria «Attività illegali e beni regolati», ragion per cui con ogni probabilità l’algoritmo del social ha censurato il contenuto solo poiché esso conteneva la parola “cannabis”. Ad ogni modo, però, tale rimozione non sembra neanche combaciare perfettamente con la giustificazione fornitaci, all’interno della quale si legge infatti che «non sono consentiti contenuti che rappresentino scambi, vendite, divulgazioni, modalità d’uso di prodotti e altre forme rappresentative di attività criminali» ma che sono consentite eccezioni per diversi tipi di scopi, tra cui quelli «giornalistici». Tuttavia, nonostante il ricorso da noi presentato, il video è tuttora bloccato.

Il secondo video, invece, ha ad oggetto il nostro articolo sulla censura da parte dei social del nudo d’autore e sul conseguente sbarco dell’arte erotica di Vienna sulla piattaforma OnlyFans. Esso ci è stato rimosso il 26 ottobre, subito dopo averlo pubblicato, per «Immagini di nudo ed atti sessuali», pur non avendo violato le norme previste in tal senso da TikTok. Ad ogni modo, però, dopo aver presentato ricorso il video è stato correttamente ed immediatamente ripristinato.

Questione molto differente, invece, quella riguardante il terzo ed ultimo video, pubblicato il 20 novembre e bloccato dal social network dopo circa 24 ore. Esso si basa sul nostro articolo intitolato «Inchiesta sui dati: quanto ha speso realmente l’Europa per i vaccini», che cerca appunto di fare luce – attraverso l’analisi dei dati – sulla somma spesa dall’Ue per assicurarsi i vaccini anti Covid. Il mancato accoglimento del nostro ricorso a riguardo, pertanto, appare difficile da comprendere: la violazione contestataci infatti rientra nella categoria «Autenticità e moralità», che punisce i contenuti atti ad ingannare o a diffondere false informazioni. Tuttavia all’interno del video in questione non c’è alcuna fake news, trattandosi di un articolo che si basa esclusivamente sui fatti. Alla luce di tutto ciò, dunque, anche la sospensione temporanea del nostro profilo risulta essere ingiustificata.

[di Raffaele De Luca]

Sicurezza informatica: dati di dirigenti italiani in vendita sul dark web

0

Un insieme di dati appartenenti a dirigenti di aziende italiane del settore bancario e assicurativo sono in vendita online, sul dark web. A segnalarlo è stata Yoroi, una importante società di cybersecurity italiana. Secondo quest’ultima, si tratterebbe sia di numeri di telefono che di indirizzi email, per un totale di quasi 4.000 contatti tra quelli nazionali e quelli esteri. Il rischio, aggiunge la società, è che questi contatti diventino bersaglio delle cosiddette “Ceo-fraud”, truffe in cui i criminali informatici riescono a usare i profili di manager e amministratori delegati con l’intento di danneggiare altre vittime.

Venezuela: alle urne vince ancora l’alleanza socialista del presidente Maduro

1

Ieri, domenica 21 novembre, in Venezuela sono andate in scena le elezioni regionali del paese le quali hanno visto il largo trionfo del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV) guidato dal Presidente Nicolas Maduro, assieme agli altri partiti e movimenti alleati. Dopo quattro anni di astensione dalla partecipazione politica del paese, gran parte dell’opposizione è tornata a percorre la via democratica e il paese sembra tentare di imboccare una strada che non sia segnata dalla violenza. Più di 130 osservatori internazionali hanno seguito il processo democratico-elettorale del paese.

I cittadini venezuelani sono stati chiamati ai seggi elettorali per eleggere più di 3.000 tra governatori statali, sindaci e membri del consiglio comunale. Sebbene la bassa affluenza, il 41,8% – comunque più alta delle previsioni che la davano al 30% – che risulta non essere distante dalle percentuali registrate nelle democrazie occidentali, la vittoria dello schieramento governativo è stata schiacciante: 20 su 23 governatori. Presenti ai seggi elettorali gli osservatori dell’UE, come concordato con i partiti di opposizione al fine di creare un clima di distensione politica che segua i processi democratici. Oltre a questo, è stata decisa la rinuncia della violenza e la riparazione per le vittime di essa al fine di riabbracciare la via del diritto e tornare a partecipare alla vita democratica del paese.

Il PSUV ha vinto negli Stati di Amazonas (40,16 percento), Anzoátegui (45,98 percento), Apure (43,33 percento), Aragua (51,76 percento), Barinas (42,10 percento), Carabobo (54,94 percento), Delta Amacuro (59,95 percento). ), Falcón (43,39 percento), Guárico (47,07 percento), La Guaira (50,12 percento),Lara (45,91 percento), Mérida (40,42 percento), Miranda (48,19 percento), Monagas (45,59 percento), Portuguesa (45,78 percento), Sucre (46,71 percento), Táchira (41,03 percento), Trujillo (41,48 percento) e Yaracuy (45,89 percento). L’opposizione invece ha vinto in tre Stati: Cojedes (48,52 percento) e Zulia (56,90 percento) dove a uscire vincitore è il candidato della Mesa de la Unidad Democrática (MUD); mentre a Nueva Esparta ha prevalso il candidato di Fuerza Vecinal (42.56 percento).

Le forze antigovernative, dopo aver disertato le elezioni per l’Assemblea Costituente e quelle amministrative del 2017, le presidenziali del 2018 e le parlamentari del 2020, hanno deciso di presentarsi nuovamente alla sfida elettorale. L’opposizione si è lacerata in una moltitudine di sigle che hanno tentato di rimanere in qualche modo unite sotto il cappello della Mesa de la unidad democratica (Mud). Sulla linea intransigente sono rimasti l’ex candidato presidenziale Henrique Capriles e Maria Corina Machado – che nel 2002 prese parte al tentato colpo di stato ai danni di Hugo Chavez.

Juan Guaido, autoproclamatosi Presidente del Venezuela nel 2019, e da allora sostenuto dai paesi occidentali, Stati Uniti in testa, ha preferito porre fine alla strategia del rifiuto elettorale. Mentre l’Occidente continua a riconoscere Guaido come legittimo Presidente, nonostante i reiterati tentativi di colpo di stato, lui stesso e gran parte dell’opposizione venezuelana tenta una riconciliazione civile che certamente non si presta ad essere semplice, soprattutto quando vi sono forze esterne che interferiscono. Da oltre 20 anni, infatti, gli Usa e i sui alleati cercano di rovesciare il sistema di governo costruito dalla sinistra in Venezuela, il cosiddetto chavismo (dal nome di Hugo Chavez primo presidente socialista del Venezuela, morto nel 2013), che si basa su nazionalizzazioni, gestione sovrana delle ricchezze del paese (innanzitutto petrolio) sottratte al controllo delle multinazionali e accesso gratuito dei cittadini a educazione e sanità.

[di Michele Manfrin]

Governare il Paese come una banca: con Draghi record di decreti e voti di fiducia

1

Una media di 4,2 decreti legge ogni mese, il ricorso a 26 voti di fiducia da quando è in carica (media di tre al mese). Sono numeri senza precedenti quelli che testimoniano come il governo Draghi stia esautorando il Parlamento da quello che sarebbe il compito assegnatogli dalla Costituzione, ovvero l’esercitare il potere legislativo. I dati testimoniano come il governo sia inteso da Draghi alla stregua di una governance aziendale, del quale l’ex capo della Banca Centrale Europea è l’indiscutibile amministratore delegato.

Durante la presente legislatura, dal 23 marzo 2018 al 31 ottobre 2021, sono state approvate 228 leggi: due leggi di revisione Costituzionale di iniziativa parlamentare (la legge costituzionale n. 1 del 2020 di riduzione del numero dei parlamentari e la legge n. 1 del 2021, che modifica l’articolo 58 della Costituzione, in materia di elettorato per l’elezione del Senato della Repubblica) e 226 leggi ordinarie (80 leggi di conversione di decreti-legge e 146 altre leggi ordinarie, 102 di iniziativa governativa, 42 di iniziativa parlamentare e 2 di iniziativa mista popolare e parlamentare). Dai governi Conte e Draghi stati emanati anche 114 decreti-legge (26 dal governo Conte I, 54 dal governo Conte II e 34 dal governo Draghi), 115 decreti legislativi e 12 regolamenti di delegificazione.

Per l’approvazione di 45 delle 226 leggi ordinarie il Governo ha fatto ricorso, in almeno un ramo del Parlamento, alla posizione della questione di fiducia (in 26 di questi 45 casi la fiducia è stata posta in tutti i passaggi parlamentari). Tra leggi frutto di conversioni di decreti, di iniziativa governativa, decreti-legge e decreti legislativi siamo ormai al punto in cui il Governo fa e disfa a piacimento. Il Parlamento, si può dire, non tocca palla. E, forse, non “parlamenta” neanche più vista la quantità di “questioni di fiducia” che, tra l’altro, vengono poste sui temi più delicati e politicamente rilevanti. Secondo la Costituzione il Parlamento dovrebbe fare le leggi e il Governo, di fatto, renderle esecutive e applicarle. Ma, da lungo tempo la logica dell’emergenza ha fatto sì che il Governo, attraverso i decreti legge, abbia finito per sovrapporsi al Parlamento – alla Camera e al Senato – e abbia sfornato centinaia di decreti legge nel giro di una mezza legislatura.

Dunque il Governo fa le leggi. E negli ultimi anni ne ha fatte talmente tante che perfino il Presidente Mattarella non ha potuto nascondere l’irritazione. Il 23 luglio scorso, infatti, il Capo dello Stato ha firmato, obtorto collo, il cosiddetto decreto sostegni bis. Ma contemporaneamente ha scritto una lettera di protesta indirizzata a Fico e Casellati.

I decreti per essere efficaci vanno convertiti in legge entro 60 giorni. La logica dei padri costituzionali era che, in casi di necessità e urgenze, il Governo emanasse un decreto per poter, appunto, affrontare l’emergenza, ma poi il Parlamento, entro un paio di mesi doveva ratificare oppure gettarlo alle ortiche. Il Presidente della Repubblica prima emana e poi, una volta convertito, promulga. Accade che Mattarella, che in questa legislatura, di conversioni ne abbia dovute firmare tante irritandosi non solo per le quantità, ma anche perché in questi decreti – una volta si chiamavano Omnibus, poi Minotauri – il Governo ci infila un po’ di tutto. E se ci infila di tutto è chiaro che non siamo di fronte né ad emergenze e, forse, neppure a necessità straordinarie. Non solo, ma fior di costituzionalisti insegnano che questi provvedimenti dovrebbero avere anche una certa omogeneità di contenuto e limiti molto stretti di materie. Invece spaziano dal Covid all’Agenzia per Venezia (esempio classico di tema infilato nel decreto urgente dell’agosto 2020 e a novembre 2021 non ancora varato), da interventi per le infrastrutture alle mance per le più diverse categorie.

Da febbraio 2020 (inizio pandemia) a luglio 2021, quando Mattarella scriveva alle Camere, erano sati adottati dal Governo ben 65 decreti-legge rispetto ai 31 dei 18 mesi precedenti. Più del doppio. È chiaro che la pandemia ha fatto da volano all’accentramento di “governance” – termine mutuato dall’impresa privata – di governi che tendono a esautorare il Parlamento. L’abuso della decretazione d’urgenza, già abbondantemente praticato da decenni, non poteva che diventare un vero e proprio allarme con lo scoppio della pandemia. La media più alta di decreti legge pubblicati ogni mese è del Governo Draghi, 4,2. Seguono il Conte II con 3,18 e poi Letta (2,7) e Monti (2,4).

[di Antonio Gesualdi]

È morto il cantautore Paolo Pietrangeli

0

È morto all’età di 76 anni Paolo Pietrangeli, cantautore nonché attore regista e scrittore romano. Ad annunciarlo è stato Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea, il quale ha fatto sapere che Pietrangeli «aveva da tempo problemi di salute che gli impedivano di intervenire con la sua voce potente in iniziative che sosteneva e condivideva». Egli infatti è sempre stato impegnato politicamente ed in tal senso la sua fama è legata soprattutto al brano “Contessa” che, aggiunge Acerbo, «è diventato un inno cantato da milioni di studenti e operai».

India, vincono i contadini: la riforma agraria sarà abrogata

1

In India i contadini hanno finalmente vinto la battaglia contro il governo Modi: le tre leggi della riforma agraria verranno abrogate «entro la fine della sessione invernale del Parlamento», annuncia il Primo ministro. Si tratta di una grande vittoria per il movimento contadino, la cui lotta tenace è durata quasi un anno e ha portato alla morte di oltre 600 manifestanti e a diverse campagne di diffamazione da parte del governo nei loro confronti. La débâcle del governo si è dimostrata una scelta necessaria al fine di adottare una strategia politica differente a meno di tre mesi dalle elezioni, che si terranno in cinque Stati. Quello degli agricoltori costituisce infatti il più grande bacino di voti, dal momento che più di metà della popolazione indiana dipende dall’agricoltura.

Nel giugno del 2020 il governo del Primo ministro Modi, leader del Bharatiya Janata Party (BJP) aveva varato tre ordini esecutivi d’emergenza che avrebbero permesso agli agricoltori di vendere direttamente a grandi rivenditori ed acquirenti istituzionali. Una mossa che, secondo il governo, avrebbe attratto i grandi investitori e permesso una più equa redistribuzione della ricchezza. Tuttavia la fine del controllo dello Stato sui prezzi avrebbe fatto perdere ai contadini molte tutele, tra le quali la garanzia di un prezzo minimo di vendita, fondamentale in un Paese soggetto a estreme variazioni del clima. La maggior parte dei contadini indiani possiede inoltre appezzamenti di terra troppo piccoli e scarsamente modernizzati, caratteristiche che precludono la possibilità di avere potere di contrattazione con i grandi compratori.

Nel settembre dello stesso anno il Parlamento approvò la riforma, mentre il ministro per la Trasformazione alimentare annunciò le dimissioni definendo le leggi “anti-contadino”. Gli agricoltori iniziarono ad organizzare importanti proteste, bloccando le linee ferroviarie e le autostrade che portano a Nuova Delhi. La protesta ebbe risonanza internazionale e migliaia di persone si mobilitarono anche a Londra, per sostenere la causa dei contadini indiani. Lo stesso accadde in una cinquantina di città in tutto il mondo, mentre in India i leader del movimento contadino iniziarono scioperi della fame di 24 ore a staffetta e diversi agricoltori morirono di freddo durante i presidi notturni sulle autostrade.

Una prima sospensione a tempo indeterminato della riforma è avvenuta a gennaio ad opera della Corte Suprema indiana, mentre i manifestanti hanno continuato a sfilare, arrivando a occupare il Red Fort di Nuova Delhi. Nel corso del 2021 numerosi politici di tutto il mondo e personaggi dello spettacolo si sono interessati alla vicenda, mantenendo un certo livello di attenzione internazionale (cosa non gradita al governo Modi, che ha dichiarato come vi fosse stato un “fraintendimento” della situazione).

L’immagine del governo Modi e del suo partito, il BJP, esce profondamente danneggiata da questa marcia indietro. Tuttavia si tratta dell’unica soluzione (tardiva) attuabile per recuperare terreno prima delle elezioni che si terranno tra meno di tre mesi in diversi Stati, tra i quali Punjab e Uttar Pradesh, dai quali provengono buona parte dei contadini che si sono opposti alla riforma.

Alcuni dei leader del movimento hanno affermato di voler proseguire con le proteste, per ottenere maggiori tutele per gli agricoltori e la garanzia di un prezzo legale per tutti i beni agricoli.

[di Valeria Casolaro]