Oggi 4 febbraio alle ore 12:00 a Roma, le forze dell’ordine hanno fatto irruzione, senza un regolare mandato, in un appartamento situato in via Cattaneo dove erano presenti ragazzi che avevano partecipato alla campagna “Ultima Generazione – Assemblea Cittadina Ora” organizzata dal gruppo ecologista Ultima Generazione, parte di Extinction Rebellion.
Giornalisti locali presenti sul posto, hanno riferito che i ragazzi, tra cui alcuni minorenni, sono stati trattenuti diverse ore senza potere comunicare, nonostante all’interno dell’appartamento non fossero state rinvenute ne armi, ne sostanze proibite e i ragazzi non avessero opposto resistenza. Le forze dell’ordine hanno in seguito riferito ai giornalisti che l’operazione era legata al rispetto delle norme Covid negli appartamenti in affitto tramite AirBnB. Nonostante, a quanto riferito, nessun altro appartamento dello stabile sia stato perquisito, ad eccezione di quello dove si trovavano gli attivisti di Extinction Rebellion.
Dopo alcune ore, le forze dell’ordine hanno poi deciso di portare i ragazzi (5 tra cui una minorenne) in questura. Tra questi, uno è stato portato fuori dallo stabile in manette. Nei giorni scorsi in seguito alle azioni da parte del gruppo alla sede del ministero alla Transizione Ecologica (MiTe), alcuni attivisti erano stati trattenuti in questura per diverse ore, mentre altri erano stati “accompagnati” alla stazione Termini ed “invitati” a lasciare la città’. Durante l’azione i militanti del gruppo Ultima Generazione si erano limitati a danneggiare la facciata del ministero con della vernice. Nonostante questo il ministro Cingolani, aveva dichiarato che l’azione alla sede del MiTe fosse da considerarsi come “un attacco e non come attivismo”.
Gli obiettivi della campagna portata avanti dai membri dal gruppo di Extinction Rebellion sono due: in primis, sensibilizzare i cittadini sulle problematiche legate ai cambiamenti climatici tramite l’organizzazione di un’Assemblea Cittadina nazionale con il potere di deliberare su queste tematiche. Il secondo punto invece, è ottenere un incontro pubblico con i vertici del governo, incluso il premier Mario Draghi, per confrontarsi e cercare soluzioni alla crisi climatica globale. Gli attivisti hanno inoltre comunicate che fino a che tali richieste non verranno considerati il gruppo continuerà con le azioni, non violente, di disobbedienza civile.
Recentemente è stata fondata la Società Italiana di Medicina (Sim), una rete di associazioni impegnate nella tutela della Salute. All’interno delle stesse, infatti, vi sono medici ed odontoiatri che rivendicano il diritto-dovere di operare in piena libertà e autonomia, senza alcuna pressione, imposizione, condizionamento economico, politico o di qualsiasi natura. Sostanzialmente l’intento – come si legge sul sito ufficiale della Sim – è quello di tutelare la salute dei pazienti individuando le cure migliori nel rispetto del codice deontologico e del dettato costituzionale. Quanto scritto finora, però, è semplicemente una sorta di riassunto di quelle che sono le ragioni alla base della creazione della Sim nonché degli obiettivi da essa perseguiti, che in realtà sono molto vasti. Proprio per questo abbiamo intervistato il Dr. Luigi Marcello Monsellato, presidente e coordinatore della Sim, che ci ha spiegato in maniera dettagliata quali sono i principi che guidano la Sim ed i motivi che hanno determinato la sua nascita.
Cosa vi ha spinto a creare la Sim?
Sicuramente il fatto che stiamo vivendo una situazione davvero assurda a livello medico-sanitario. Purtroppo i medici sono stati costretti ad adeguarsi a delle imposizioni che noi della SIM reputiamo anticostituzionali, ed è proprio per far fronte a questo malcontento che serpeggia tra noi che abbiamo deciso di creare la Sim, che è una rete di associazioni. Noi infatti non accettiamo persone singole ma solo associazioni, in modo tale da riuscire col tempo a creare una massa critica.
Su cosa si basa la medicina in cui voi credete?
Noi partiamo dal fatto che la medicina deve ovviamente basarsi sulle prove. Inoltre deve fondarsi sulla prevenzione primaria, sulla profilassi e soprattutto sulla terapia personalizzata. Ciò in quanto, se ad esempio si guarda al Covid, si nota che non tutti vengono colpiti allo stesso modo dal virus: moltissime persone non vengono minimamente lambite da esso, altre sono positive ma asintomatiche, altre ancora hanno pochi sintomi ed infine pochissimi individui hanno sintomi importanti. Dunque è fondamentale valutare ad personam rischi e benefici di qualsiasi trattamento, perché ognuno ha una differente capacità di reagire alle minacce esterne. Il nostro approccio perciò è improntato a curare la persona piuttosto che una realtà esterna. Pensiamo che non esista un problema esterno, ma che l’esterno crei un problema all’interno poiché quest’ultimo glielo consente: in pratica, una realtà esterna può incidere nel momento in cui c’è un terreno fertile che glielo permette.
Dunque ritenete anche che sia importante favorire un corretto stile di vita?
Certamente. Bisogna offrire alle persone uno stile di vita adeguato al benessere ed alla salute. Il nostro infatti è un progetto di educazione al vivere bene, il che implica tutta una serie di fattori quali quello di seguire una corretta alimentazione e di fare attività fisica.
Cosa pensate del modo in cui le istituzioni hanno gestito la pandemia?
Premetto che noi vogliamo evitare uno scontro con le istituzioni: vogliamo semplicemente un confronto – che stiamo chiedendo da mesi – con cui dare voce a due diverse visioni della stessa realtà. Ovviamente non escludiamo il fatto che ci sia un’emergenza a cui bisogna far fronte con i metodi classici della medicina ufficiale, tuttavia vi sono varie criticità legate al modo in cui il governo ha risposto alla pandemia. Basti pensare che i tabaccai sono sempre rimasti aperti e le sigarette sono state vendute non tutelando così la salute delle persone. Quindi torniamo al discorso di prima del corretto stile di vita, che non è stato preso affatto in considerazione dalle istituzioni, le quali hanno continuato a sostenere che l’unica soluzione risiedesse nel vaccino. Si pensi poi alla famosa vigile attesa e tachipirina: abbiamo tantissime dimostrazioni di medici – me compreso – che ribellandosi a queste linee guida governative, e curando il paziente da subito, hanno ottenuto ottimi risultati.
A proposito di medici, all’interno della Sim ci sono nomi noti?
Sì, ci sono diversi medici e professori universitari noti che hanno deciso di abbandonare il potere ed il prestigio che avevano acquisito per cercare di riappropriarsi di concetti quali la libertà ed il valore. Personaggi ormai alla ribalta che spiegano in maniera inequivocabile che esiste anche un altro modo di vedere le cose, come il Dr. Luca Speciani o il pediatra Eugenio Serravalle.
La vostra idea è quella di fondare una nuova medicina o in realtà volete un “ritorno alle origini”?
Vogliamo un recupero della medicina nel senso più vero del termine. Per noi non esiste un’altra medicina, esiste semplicemente la medicina così come è sempre stata e con la quale però purtroppo negli ultimi tempi abbiamo perso il contatto. La medicina adesso è diventata eccentrica rispetto ai bisogni del paziente nonché influenzata da pressioni economiche. Noi invece vogliamo una medicina libera.
Quindi, in conclusione, quali sono i principi fondamentali perseguiti dalla SIM?
Sono i seguenti: libertà di espressione, libertà di cura, libertà di terapia ed assenza di conflitto di interessi con le aziende farmaceutiche.
«Scoprire di far ridere è come scoprire di essere la figlia del re.»
Ha segnato la storia Monica Vitti e non solo della settima arte. Interprete poliedrica e fondamentale del cinema del Novecento, artista camaleontica e donna squisitamente complessa, Monica Vitti è stata prima di tutto una mente in cerca di umanità vera, cruda, travolgente. Nata a Roma nel 1931, Maria Luisa Ceciarelli – questo il vero nome – è riuscita con garbo, eleganza e raffinata forza a fare un grande regalo al pubblico: riflettere la sua contemporaneità donando sé stessa, completamente. Oltre all’indiscutibile capacità di saper trasmettere veramente, Monica Vitti è ed è stata tanto amata perché affascinata dal caos della vita, tanto da farsi avvolgere da esso, innamorata. Con un atto di coraggio infinito, l’attrice musa di Antonioni ha stralciato stereotipi quando questi quasi non erano identificati come tali.
«Mi concedo un unico grande lusso: rifiutare.»
A partire dalla sua fisicità, ben diversa dalla donna giunonica ben più in voga negli anni Sessanta (anni in cui debuttò), fino al timbro della sua voce, al suo essere diva perché incoronata dagli altri come tale, nonostante lei della “diva” riconoscesse di non avere i tratti caratteristici, la corporatura adeguata, il modo di fare usuale…ma, soprattutto, della diva la Vitti non voleva avere nulla. E proprio questo nulla l’ha resa “tutto”.
«Le attrici, diciamo bruttine, che oggi hanno successo in Italia lo devono a me. Sono io che ho sfondato la porta.»
Indefinibile non perché incomprensibile ma perché capace di immedesimarsi nei ruoli più disparati senza mai prendere nessun personaggio alla leggera, donando così voce e dignità a tutte le donne a cui ha dato corpo e anima.
«Le donne mi hanno sempre sorpresa: sono forti, hanno ancora la speranza nel cuore e nell’avvenire.»
Figure cinematografiche che oggi sarebbero vissute forse in maniera diversa ma che hanno posto le basi artistiche per un necessario cambiamento sociale che lentamente provava a farsi strada. E vista la sorprendente inscindibilità tra la vita e la recitazione della grande attrice italiana recentemente scomparsa, non solo nei film ma nella stessa vita la Vitti è stata esempio di donna che esce e si libera da ciò che è dovuto. Negli anni della sua brillante carriera risultava ancora difficile ammettere di volersi realizzare come donna a livello professionale e non forzatamente con la famiglia stereotipata. “Famiglia” che lei non ha voluto per dedicarsi alla sua vocazione ma famiglia tipica che poi l’attrice stessa rappresentava eccellentemente nei suoi lavori. E se il cinema coglie la vita ed è riflesso stesso di quest’ultima, attraverso le pellicole di cui la Vitti è stata protagonista gli italiani rivedevano le proprie assurdità, mentre il sussurro del bisogno di una trasformazione sociale entrava nei loro cuori.
«A 14 anni e mezzo, sì. ho deciso che non mi sarei mai sposata, e non avrei mai avuto un figlio. perché lo ritengo in effetti una delle cose più difficili che una donna possa fare. non solo avere un figlio, ma aiutarlo a vivere […] e siccome io, a quell’età avevo già un’intenzione, quella di recitare, sapevo che le due cose insieme non si potevano fare. Allora dovevo scegliere e ho scelto. io non voglio un figlio per nessun motivo al mondo, ce ne sono tanti!»
E così Monica Vitti si è imposta, rifiutando di coprirsi di un velo d’ipocrisia, in un elegante mettersi a nudo come persona, come donna, come artista. A sua immagine sono stati cuciti ruoli indelebili per la storia del cinema italiano: Monica Vitti ha rappresentato una, cento, mille donne e di esse le infinite e articolate realtà interne ed esterne. Non solo, lo ha fatto in un momento storico unico nel suo genere, in quelli che sono stati film specchio di una società indifferente e in cerca di bisogni creati. Pellicole che l’hanno incoronata come l’antitesi della sex symbol, leggiadra musa immersa in un’atmosfera senza eguali. Prima scrigno dell’inquietudine, del nonsense, del silenzio assordante (come negli incredibili personaggi della trilogia dell’incomunicabilità di Antonioni) poi mattatrice mentre si destreggiava con perfetta armonia in ruoli del tutto diversi (con i film di Monicelli, Scola, le iconiche collaborazioni con Alberto Sordi, Gigi Proietti…) affermandosi come l’attrice più alta della commedia italiana. La grande qualità di una donna che recitava “Per non morire”, senza inganni o stratagemmi ma con la tenacia d’essere ciò che desiderava.
«Faccio l’attrice per non morire, e quando a 14 anni e mezzo avevo quasi deciso di smettere di vivere, ho capito che potevo farcela, a continuare, solo fingendo di essere un’altra, facendo ridere il più possibile.»
Un’attrice che aveva grande rigore, cultura e intelligenza: aveva studiato molto la Vitti e aveva ancora fame, si immergeva nei ruoli emotivamente, sì, ma con incredibile tecnica e dedizione. Aveva frequento la Silvio D’Amico e continuava a voler apprendere dall’ininterrotto flusso della vita e della sua stellata carriera. Non si prendeva sul serio, o forse era talmente cosciente dell’immensità di un mondo fatto più di sentimenti che di realtà tangibili, da rispondere con un sorriso, tanto importante per lei perché nato dalla consapevole coesistenza di gioia e dolore.
«Il segreto della mia comicità? La ribellione di fronte all’angoscia, alla tristezza e alla malinconia della vita.»
Dal drammatico al comico, Monica Vitti sapeva incarnare i personaggi senza mai cadere nel grottesco o in una qualche scontata caricatura, dando uno schiaffo morale a chi sosteneva – e sostiene – i luoghi comuni sulle donne tanto nel drammatico quanto nel comico. In oltre trentacinque anni di carriera, Monica Vitti ha mostrato come essere incredibilmente affascinanti facendo divertire, come essere felici nell’essere tristi, come essere divertenti con estrema eleganza e femminilità, senza bisogno di travestimenti strampalati. La “comicità al femminile” ha iniziato ad essere presa sul serio, “l’emotività femminile” ha potuto finalmente divenire “emotività umana”. Non debolezza, non fragilità, ma umana rappresentazione di un animo che in quanto tale va oltre il sesso, oltre il corpo, oltre le “etichette” mentre mormora deciso “Tutte le volte che ho cercato di comunicare con qualcuno, l’amore è andato via” (La notte, 1961) . Oltre l’immagine dell’interprete, oltre la donna, oltre il corpo e le apparenze… Monica Vitti sapeva di avere la grande responsabilità di dare voce al silenzio. Monica Vitti lascia parti di sé non solo nel cinema ma anche a teatro, nel piccolo schermo, nel varietà, nella radio…nei libri (Sette sottane del 1993 e Il letto è una rosa del 1995) e ancora nel mondo cinematografico come sceneggiatrice e infine regista (con Scandalo Segreto, del 1990). “L’angelo biondo” lascia infine ritagli del suo spirito in tutti coloro che l’hanno amata come professionista e come donna dalla profondità tanto immensa da essere “mille” e… oltre.
«Con il mare ho un rapporto travolgente, quando lo vedo muoversi, impazzire, calmarsi, cambiare colore, rotta, è il mio amante.»
La Commissione Europea ha proposto di estendere fino al 30 giugno 2023 (quindi di un altro anno) il certificato digitale Covid dell’Unione Europea. La misura sarebbe atta a garantire la mobilità per i viaggi internazionali negli Stati nei quali siano mantenute in vigore le restrizioni. “Il virus Covid-19 continua ad essere prevalente in Europa e non è possibile determinare l’impatto di un possibile aumento delle infezioni nella seconda metà del 2022 o dell’emergere di nuove varianti” scrive in un comunicato la Commissione Europea.
Il Green Pass europeo è stato adottato il 1° luglio 2021 e scadrà il 30 giugno 2022. La Commissione Europea ha per tale motivo avanzato la proposta di rinnovo con largo anticipo e sta attendendo che essa venga adottata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio affinché possa entrare in vigore prima della data del 30 giugno.
“Le regole stabiliscono che coloro che siano in possesso del certificato valido dovrebbero nella maggior parte dei casi non essere soggetti ad alcuna restrizione quando si trovassero a viaggiare in Europa” scrive la Commissione in un comunicato. Nel provvedimento vi sarebbe anche la proposta di adottare un regolamento che estenda l’applicazione del Green Pass europeo a tutti i cittadini extraeuropei che si trovino a soggiornare regolarmente in uno degli Stati membri.
Il Commissario per la Giustizia Didier Reynders ha dichiarato “Senza questa estensione, rischiamo di avere molti sistemi nazionali divergenti, e tutta la confusione e gli ostacoli che questo causerebbe. Il certificato digitale COVID dell’UE si è dimostrato uno strumento efficace per facilitare i viaggi sicuri e liberi”.
In questi giorni i media sono stati rapiti dalle discussioni, a tratti accese, circa l’elezione del “nuovo” Presidente della repubblica, facendo passare così molte notizie sottotraccia nonostante, alcune di esse, avrebbero meritato certamente di essere portate all’attenzione dell’opinione pubblica. Nello specifico, a passare inosservate sono state quelle notizie che hanno visto i giovani, i più giovani, come protagonisti, disposti a scendere in piazza per confrontarsi, anche aspramente, con le forze dell’ordine.
La morte di Lorenzo Perelli, un ragazzo di soli 18 anni coinvolto in un progetto di alternanza scuola lavoro, ha letteralmente sconvolto la comunità studentesca del paese: le studentesse e gli studenti sono scesi in piazza e hanno chiesto l’abolizione di tale istituto. Non si tratta di un’agitazione da prendere sotto gamba (ammesso che alcune possano esserlo) perché i ragazzi hanno pagato anche fisicamente la propria protesta: la rete è stata letteralmente invasa da immagini di volti ammaccati, talvolta sanguinanti, usciti malconci dagli scontri con la polizia. Purtroppo i telegiornali ne hanno parlato poco o non ne hanno parlato affatto.
L’accaduto è utile per operare una riflessione sull’alternanza scuola lavoro. Anzitutto può risultare interessante richiamare le fonti che la regolano, con particolare riferimento al periodo della loro emanazione.
Introduzione e riforme
Essa è stata introdotta nel 2003, con la legge n. 53 (sarà disciplinata mediante un decreto legislativo, il n. 77 del 2005). Al governo c’era Berlusconi e il ministro dell’Istruzione era Letizia Moratti. Si vivevano momenti molto significativi: era l’anno della legge Biagi, la n. 30 del 2003, e il mercato del lavoro veniva votato a quella che si definiva “flessibilità”, alcuni la chiamavano flexicurity (flessibilità più sicurezza sociale). Erano anni di tensione e di piazza: il 23 marzo del 2002, il segretario della CGIL, Sergio Cofferati, aveva portato al Circo Massimo circa tre milioni di persone per fermare il governo che intendeva mettere le mani sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che regolava le sanzioni in caso di licenziamento illegittimo e riconosceva ampie tutele ai lavoratori: il sindacato vinse quella battaglia, forse l’ultima grande vittoria che si ricordi.
Nel 2010, al governo c’era di nuovo Berlusconi e al ministero competente Mariastella Gelmini, si operò un riordino della materia e, per la prima volta, l’alternanza scuola lavoro assunse la dimensione di metodo sistematico da introdurre nei piani di studio.
La vera rivoluzione, il consolidamento dell’istituto che assume dimensione obbligatoria, avvenne nel 2015, con la legge n. 107 del 13 luglio (c.d. Buona Scuola). Al governo c’era Matteo Renzi e al ministero sedeva Stefania Giannini. Anche quello fu un periodo intenso: era l’anno del Jobs Act, un’imponente riforma in materia di lavoro che nutriva l’ambizione (quella dichiarata) di rilanciare l’economia, l’occupazione, anche mediante l’attrazione di importanti capitali esteri. Si consideri che la riforma era in perfetta continuità con quanto avviato dal governo Monti, che nel 2012 aveva modificato profondamente l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, depotenziando radicalmente le tutele contro il licenziamento illegittimo.
Nel 2019, infine, con la legge di bilancio, essa ha assunto la denominazione più generica di Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO).
È importante contestualizzare i vari interventi
È assai interessante incasellare le riforme in materia di alternanza scuola lavoro (come si potrebbe peraltro fare con altri istituti, lo stage per esempio o alcuni apprendistati) nell’ambito di specifici periodi nei quali si operavano rilevanti mutamenti anche in materia di mercato del lavoro e di diritti del lavoro in generale. Qualcuno, formalmente in maniera assolutamente corretta, potrebbe obiettare che le due sfere in realtà siano distinte: l’alternanza scuola lavoro formalmente attiene al mondo della formazione, così come i tirocini, e dunque non dovrebbe essere letta in controluce con le vicende del mondo del lavoro.
Ma così non è, purtroppo, per almeno due ragioni.
La prima riguarda la narrazione stessa che i sostenitori dell’alternanza scuola lavoro hanno quasi ossessivamente ripetuto all’opinione pubblica: lo strumento fungerebbe da raccordo tra formazione e mondo del lavoro, tra conoscenza e produzione, al fine di consentire un più facile inserimento delle persone nel mondo del lavoro, al termine del percorso di studi. Forse il ragionamento muove i suoi passi da una sorta di diffidenza nutrita nei confronti del mondo della scuola e della formazione in generale: è come se si volesse intendere, in filigrana ma nemmeno troppo, che l’istruzione italiana sia troppo teorica, scostata dalla realtà e dalla necessaria praticità; e che dunque, gli studenti alla fine del loro percorso conoscano delle cose, ma di fatto sappiano fare assai poco. A questo si aggiunga poi l’idea secondo cui il sapere debba essere prioritariamente orientato al mondo della produzione, al mercato, all’impiego negli ingranaggi del sistema capitalistico affermatosi: insomma, sapere per sapere non servirebbe a nulla se non è utile alla creazione di prodotto, di valore aggiunto quantificabile, misurabile in termini di profitto.
Ad ogni modo, al netto di come la si voglia vedere, l’istituto è di natura meramente formativa, tale dovrebbe essere: lo studente dovrebbe restare studente e il percorso (esattamente come dovrebbe accadere per lo stage) dovrebbe essere di natura squisitamente scolastica. Sulla carta, la persona non può in tale ambito essere considerata una lavoratrice o un lavoratore: tanto è vero che a questi ragazzi non è riconosciuta alcuna retribuzione. Quello alla retribuzione, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, costituisce un diritto inalienabile, irrinunciabile, che deve peraltro rispondere a specifici criteri espressamente individuati: deve essere sufficiente a garantire alla persona una vita libera e dignitosa.
L’effettività delle regole in materia di lavoro
La seconda motivazione per la quale l’alternanza scuola lavoro è da leggersi in relazione al funzionamento del mondo del lavoro appare di gran lunga più rilevante e preoccupante della prima.
Prioritaria è la consapevolezza (di chi si occupa di diritto del lavoro) di un aspetto prima di qualsiasi altro: ciò che conta realmente, più della stessa previsione formale delle norme (rispetto alla quale è sempre comunque bene continuare a riflettere e agire alla ricerca delle migliori soluzioni), è la loro esigibilità, materialità, effettività.
Vengono alla mente le parole di Luigi Mariucci, quelle pronunciate nel discorso tenuto il 4 giugno 2010, in occasione dell’Assemblea dei quadri e delegati CGIL di Venezia, intitolata Costituzione e Statuto dei lavoratori: senza diritti non c’è libertà: «Io domando sempre ai miei studenti perché mai nel 1970, ventidue anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, che aveva già perfettamente dichiarato la serie dei diritti civili, politici, di libertà, ecc., c’è bisogno di fare una legge in cui c’è scritto che i lavoratori nelle aziende, nelle fabbriche possono esprimere liberamente la loro opinione. Perché c’è bisogno di fare una legge in cui c’è scritto che le guardie giurate non possono svolgere funzioni di controllo dei lavoratori? Perché c’è bisogno di scrivere una legge in cui si stabilisce che le visite personali di controllo, cioè le perquisizioni personali all’uscita dall’azienda sono vietate, tranne che siano regolate in un certo modo? Evidentemente perché quelle cose accadevano! Non basta dichiarare l’esistenza dei diritti individuali:la solitudine dei diritti individuali non porta molto in là; la storia è piena di dichiarazioni solenni sull’esistenza di diritti, nei fatti puntualmente violati. Quello che conta, e specialmente quando parliamo di diritti del lavoro, è mettere in moto meccanismi di effettività dei diritti, che alzino la soglia della effettiva realizzazione dei diritti. Questo è il punto, la forza dello Statuto».
Tra il dire e il fare…
Il punto è proprio questo ed è tanto impossibile dissimularlo quanto non vederlo: esiste una divaricazione impressionante tra quanto le norme formalmente prescrivono e quanto piuttosto avviene nella realtà. Gli esempi a conferma di ciò sarebbero davvero infiniti, solo alcuni: a fronte di una normativa piuttosto protettiva in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, nel 2021 ci sono stati circa mille morti sul lavoro; a fronte di una normativa che tutela il diritto alla retribuzione, e anche in questo caso parliamo di norme costituzionali, è diffusissimo il lavoro gratuito, il lavoro sottopagato, il lavoro in nero senza riconoscimento di contribuzione previdenziale e non solo; a fronte di una normativa che voterebbe lo smart working a criteri di assoluta libertà e di massima conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, registriamo l’esistenza di radicali criticità lamentate dalle lavoratrici e dai lavoratori coinvolti.
Sono solo alcuni esempi, ma se ne potrebbero davvero fare tantissimi. Si pensi pure al mancato riconoscimento di molte permissività previste per legge (ferie, congedi legati alla genitorialità, alla malattia, all’infortunio) e questo solo per quanto attiene al lavoro dipendente. Se aprissimo il capitolo del lavoro autonomo non ne usciremmo più, a cominciare dal disagio e dall’ingiustizia patiti nello sterminato e variegatissimo mondo delle c.d. partite IVA, ma soprattutto in quello delle “finte” partite IVA.
A fronte di una divaricazione vertiginosa tra prescrizioni formali e realtà, tra legge e pratica, occorre leggere l’alternanza scuola lavoro in combinazione con le dinamiche del mondo lavorativo: istituti puramente formativi, introdotti e poi implementati in concomitanza con la flessibilizzazione delle regole in materia di lavoro, hanno finito con l’assumere de facto la natura di veri e propri contratti di lavoro impropri. Impropri perché, ovviamente, non essendolo formalmente non prevedono tutta una serie di diritti specifici del diritto del lavoro: la retribuzione prima di tutto, ça va sans dire. Senza considerare un elemento che è tutt’altro che un particolare: l’alternanza scuola lavoro è obbligatoria per studenti a partire dal terzo anno di scuola superiore, poco più che bambini, persone dai 16 anni in su. Si tenga ben presente che la normativa non esclude che i ragazzi possano trovarsi a stretto contatto con attività definite ad «alto rischio», possibilità che anzi viene esplicitamente prevista dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, che nelle linee guida si limita a precisare che in caso di attività classificate ad alto rischio ci debbano essere più tutor di supporto.
Gli studenti si trovano spesso a contatto con attività ad alto rischio Fonte: https://www.istruzione.it/alternanza/cos-e-carta-dei-diritti.html
Esiste una soluzione?
Che ci sia chi, anche nel mondo dell’impresa, si adoperi virtuosamente per valorizzare l’alternanza scuola lavoro non ci piove, ci mancherebbe altro, tuttavia appare assolutamente plausibile che qualcuno, meno nobile di altri, possa pensare di attingere mediante questo strumento da una sorta di bacino di lavoro illegale, di lavoro senza diritti, come avviene ampiamente e notoriamente attraverso lo stage.
E a questo punto, concludendo, ci sarebbe da interrogarsi circa un possibile rimedio (o più di uno): cosa fare a fronte di una realtà perniciosa quale quella descritta?
La questione si pone evidentemente nell’ambito di una riflessione decisamente più ampia relativa alla condizione delle persone sui luoghi di lavoro. La protezione delle lavoratrici e dei lavoratori non può che declinarsi attraverso strumenti di tutela (legali, “esterni”) e di autotutela (mediante dinamiche di partecipazione politica e sindacale da parte degli individui stessi). Ad oggi, e non è possibile approfondire in questa sede questi ulteriori profili, tali strumenti appaiono decisamente spuntati e inefficaci.
Dunque, quantomeno in questa fase, non appaiono poi tanto peregrine le richieste di abolizione dell’alternanza scuola lavoro avanzate dagli studenti nelle piazze del paese.
In Lombardia si sono verificati almeno 15 incendi nell’ultima settimana: è quanto afferma la Coldiretti regionale, sulla base dei dati della Regione Lombardia ricavati dalle segnalazioni dei vigili del fuoco avvenute tra il 28 gennaio e il primo febbraio. Si tratta di un periodo anomalo per una tale frequenza del fenomeno, considerata la stagione fredda, ma secondo i vigili del fuoco le cause sono da attribuire al mix metereologico di siccità e forti venti. A bruciare sono circa 200 ettari di boschi e pascoli, l’equivalente di più di 285 campi da calcio, tra la Val Trompia e la Val Camonica, dove sembra che gli incendi abbiano matrice dolosa.
I cacciatori in Italia sono in forte diminuzione, i controlli sono in aumento, ma la caccia rappresenta ancora un problema notevole per l’Italia. La stagione venatoria si è conclusa il 31 gennaio ed è tempo di bilanci, e questi riportano ancora alla questione irrisolta del bracconaggio illegale. Una pratica che si può definire barbarica, pericolosa per l’ambiente e gli abitanti delle zone interessate, nonché estremamente crudele verso gli animali. Secondo i dati raccolti da Birdlife International l’Italia è al secondo posto per il bracconaggio illegale nel bacino del Mediterraneo, con quasi sei milioni di esseri viventi (principalmente volatili) uccisi illegalmente ogni anno. Peggio fa solamente l’Egitto.
Nonostante un controllo sempre più attento grazie alla vigilanza venatoria messa in atto da Carabinieri forestali, Polizie e guardie volontarie di diverse associazioni, i tristi spettacoli di vere e proprie stragi di animali non sembrano diminuire, anzi. Come denuncia il WWF, anche poco prima della chiusura ufficiale la stagione della caccia non è andata diminuendo, tutto il contrario. Negli ultimi periodi sono state smascherate molte uccisioni illegali di fauna selvatica e tra tutte è da rimarcarne una: sei cacciatori di frodo hanno abbattuto ben 350 animali (tra i quali 150 Mareca Penelope) nella laguna di Grado. Un altro esempio eclatante di quanto con la stagione di caccia aumentino in maniera esponenziale anche i danni recati a svariate specieprotette. Anche dall’Europa arrivano da tempo sollecitazioni per l’Italia purché essa adotti misure concrete per contrastare le fin troppe attività venatorie illegali. L’Unione Europea ha suggerito all’Italia di rendere più severa la legislazione vigente, con un aumento delle sanzioni così da impedire il diffondersi dei crimini contro la fauna selvatica. Un’altra spinta direttamente dall’Europa è quella di raccogliere i dati relativi alla caccia in maniera più precisa ed efficiente, facendo crescere il numero di quelle che, ad ora, sono fin troppe poche unità vigilanti. Anche i cittadini si sono recentemente mossi per combattere contro la caccia, chiedendo diventi del tutto vietata nel territorio italiano.
Ma a quanto pare, l’ultimo vero importante passo avanti dell’Italia è stato fatto trenta anni fa, con la Legge sulla tutela della fauna selvatica e la disciplina della caccia (L. 157/1992), di grande impatto positivo (ma non sufficiente, come precisa anche il Comitato Referendum Sì Aboliamo la Caccia). L’approvazione della Legge è stata indubbiamente cosa buona, con svariate battaglie vinte e la possibilità di tutelare al meglio la fauna selvatica e denunciare chi la mette a rischio. Purtroppo però da lì l’Italia non ha più preso provvedimenti significativi e le regioni italiane non fanno abbastanza o, se fanno, fanno a metà. Dai Tribunali Amministrativi Regionali arriva la conferma di come circa il 90 per cento dei ricorsi siano stati vinti, mostrando il preoccupante e ingiusto potere che esercitano le pressioni venatorie. Comportamenti illegali in cui si pensa all’interesse di pochi individui mentre il denaro pubblico viene inutilmente sperperato. A soffrire di tali noncuranze non solo gli animali ma anche le persone che ogni anno muoiono o vengono ferite a causa di un’attività ludica spesso fin troppo pericolosa anche per chi la pratica. Gli “incidenti” di caccia non sono incidenti inevitabili e la biodiversità è seriamente minacciata da una pratica troppo piena di rischi per l’ambiente e le specie, tanto che è chiaro anche alla Commissione Europea, la quale ha deciso di finanziare il progetto Life SWiPE. Ad aderire e divenire partner del progetto i WWF di tredici Paesi europei, tra cui anche il WWF Italia, con l’obiettivo primario di ridurre i crimini contro la fauna selvatica.
Dal primo febbraio 2022 in Belgio tutti i dipendenti pubblici federali non sono – più – tenuti ad essere continuamente “connessi”. Questo è quanto emerge dalla modifica del Regio Decreto 2 dicembre 2021, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale belga lunedì 3 gennaio 2022 e in vigore dal 1 febbraio. Fuori dall’orario di lavoro, i funzionari hanno il diritto di non essere reperibili, così da potere liberare la mente. Non è un mistero quanto “disconnettersi” da obblighi e doveri, tanto mentalmente quanto fisicamente, sia importante per combattere lo stress e di conseguenza essere molto più produttivi e concentrati quando è il momento di immergersi nel lavoro. È il principio su cui si regge la nuova disposizione legislativa belga e, stando al Regio Decreto 2 dicembre 2021, i funzionari potranno essere contattati al di fuori del normale orario di lavoro solo per motivi eccezionali o gravi imprevisti da risolvere immediatamente. Era dal 2017 che in Belgio si sentiva parlare della pericolosità dell’uso sempre crescente degli strumenti digitali al di fuori dell’orario di lavoro. Così nel 2018 c’era stata la legge relativa al rafforzamento della crescita economica e della coesione sociale, con una sezione contenente disposizioni relative alla consultazione in materia di disconnessione e uso di mezzi di comunicazione digitali, a immagine della già esistente legge francese El Khomri (2016), la quale prevede il diritto alla disconnessione.
Quindi grazie all’articolo 7bis comma 1, anche i lavoratori belga sono ora più tutelati, perché non avranno conseguenza alcuna nel momento in cui non rispondono fuori dall’orario lavorativo. L’applicazione dell’articolo 7bis comma 1 prevede anche l’obbligo di consulenza sulla disconnessione nell’ambito di una politica integrata delle risorse umane: gli amministratori delegati dovranno organizzare una volta l’anno una consultazione sul distacco dal lavoro e sull’uso dei mezzi di comunicazione digitale. La ministra della pubblica amministrazione, Petra De Sutter, ha sottolineato quanto la legge sia utile per un approccio mentale diverso al lavoro. Le persone si sentono infatti spesso obbligate ad essere impeccabili, disponibili, reperibili, anche nelle ore in cui non sono effettivamente retribuite. Problema in crescita, specialmente dopo il periodo pandemico, visto il boom del “lavoro agile”.
Tra smart working e ausili elettronici vari, in Belgio si è arrivati a comprendere quanto i periodi di riposo siano ormai quasi inesistenti. Così come le ferie e i giorni festivi sono ormai spesso segnati da qualche impegno lavorativo imprevisto. Al fine di preservare l’equilibrio tra vita professionale e vita privata, il Belgio ha quindi fatto un importante passo avanti che per ora riguarda 65mila dipendenti pubblici, anche se il Governo sembra avere l’intenzione di estendere il nuovo diritto anche alle aziende private. Valutazione che già spaventa gli imprenditori, pronti a opporsi e in procinto di mobilitarsi purché tale manovra non venga effettuata.
I ministri degli Esteri cinese e russo si sono incontrati a Pechino nella giornata di giovedì 3 febbraio per discutere di “questioni internazionali e regionali di reciproco interesse” tra le quali la situazione in Afghanistan, nella penisola coreana e in Ucraina. Nella giornata di oggi 4 febbraio si terranno invece i colloqui tra il Presidente russo Putin e quello cinese Xi Jinping, in occasione dell’apertura delle Olimpiadi. I due Paesi starebbero rafforzando la loro partnership economica e militare nel contesto della crescente tensione internazionale causata dall’accumularsi di truppe russe al confine con l’Ucraina e dell’inasprirsi dei rapporti tra Russia e Stati Uniti.
Il primo ministro dell’Irlanda del Nord, l’unionista Paul Givan, ha annunciato le sue dimissioni nel corso di una conferenza stampa tenutasi oggi a Belfast. Tale decisione è da collocare nell’ambito della protesta del Partito Democratico Unionista (DUP) contro il Protocollo dell’Irlanda del Nord, il quale è legato agli accordi post-Brexit fra Regno Unito ed Unione europea ed ha lo scopo di garantire la libera circolazione degli scambi attraverso il confine terrestre irlandese. Le dimissioni di Givan costringeranno automaticamente Michelle O’Neill – la sua vice appartenente al movimento indipendentista “Sinn Féin” – a lasciare l’incarico, mettendo così l’esecutivo dell’Irlanda del Nord sull’orlo del collasso.
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