giovedì 18 Settembre 2025
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“Non opprimeremo i palestinesi”: i giovani israeliani che rifiutano il servizio militare

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Shahar Perets ed Eran Aviv sono due giovani israeliani di 19 anni e da mesi rifiutano di arruolarsi tra le Forze militari israeliane. Il motivo del rifiuto è semplice quanto coraggioso: non voler prendere parte all’oppressione della Palestina. Per tale ragione hanno già scontato diverse pene detentive, rispettivamente di 28 e 114 giorni totali. Rendendo il loro rifiuto pubblico e mostrando apertamente che è possibile intraprendere una strada diversa da quella imposta dal Governo, sperano di ispirare altri giovani come loro ad attivare un cambiamento nella società.

Li chiamano refusenik, mutuando un termine coniato durante la guerra fredda e poi diventato parte del linguaggio comune. Viene utilizzato in particolare per indicare i cittadini ebrei israeliani che si rifiutano di perseguire attività di occupazione della Palestina o repressione contro i cittadini palestinesi. Questo viene messo in pratica anche tramite azioni di obiezione di coscienza e rifiuto della coscrizione obbligatoria presso l’IDF, le Forze di difesa israeliane. Tra questi vi sono Sharar Perets ed Eran Aviv, entrambe di appena 19 anni ma con un considerevole numero di giorni trascorsi in prigione alle spalle. La motivazione è la medesima per entrambe: il rifiuto di servire l’esercito israeliano e le sue politiche di occupazione.

Durante un’intervista, Perets racconta di come a suo parere il Ministero dell’Educazione israeliano sia complice di una vasta operazione di repressione, affinchè non si parli dell’occupazione della Palestina. “Le lezioni di storia non parlano della narrativa palestinese” afferma: a causa di questa disinformazione, sostiene, la gente reagisce con rabbia alla sua posizione di obiettrice di coscienza. Per di più la vista di uniformi e militari è parte integrante della vita quotidiana di ogni giovane israeliano, che ne accetta l’esistenza come qualcosa di naturale.

La scelta di Perets, Aviv e molti altri loro coetanei mostra come vi sia una coscienza critica e politica già nei giovanissimi la quale, se portata in luce, può spingere a un cambiamento in molti. Sono infatti 120 gli asolescenti israeliani che a gennaio hanno firmato una Lettera Shministim (dal termine shministiyot, che indica gli studenti senior delle scuole superiori), dove hanno dichiarato il rifiuto di servire nell’IDF. Il loro messaggio per i palestinesi è mostrare che il movimento di rifiuto, seppur piccolo, esiste. Negli ultimi 50 anni sono molti gli studenti che hanno firmato questo genere di lettere.

“Vedere i soldati e colonizzatori in piedi di fronte ai palestinesi” afferma Perets, parlando di un’esperienza vissuta in Cisgiordania, “mi ha reso chiaro che non sarei voluta diventare uno di quei soldati, non voglio indossare quest’uniforme che simboleggia la violenza e il dolore di cui fanno esperienza i palestiensi“.

Eran Aviv è convinto che l’obiezione pubblica sia il metodo più efficace per convincere i giovani tra i 16 e i 18 anni che dovranno arruolarsi che è possibile fare scelte differenti. “Non rifiuto per intero l’IDF, solo l’Occupazione” afferma.

Prima di essere incarcerato nelle prigioni israeliane, Aviv ha dichiarato: “Mi rifiuto perché credo che sia immorale e irragionevole tenere i palestinesi sotto il controllo e il blocco militare senza garantire loro diritti civili e politici, e violando costantemente i loro diritti umani (…) Mi rifiuto perchè credo che Israele potrebbe e dovrebbe portare a termine l’occupazione immediatamente, che sia attraverso accordi, la ritirata o il garantire la cittadinanza alle persone palestinesi e la creazione di uno stato bi-nazionale per israeliani e palestinesi”.

Perets, Aviv e gli altri shministiyot continueranno a rifiutare di arruolarsi e subire l’ingiusta incarcerazione, perseguendo i loro ideali, finchè l’esercito non deciderà di congedarli.

[di Valeria Casolaro]

Cina: inviate forze navali e aeree nello stretto di Taiwan

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Nella giornata di ieri, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Reuters, la Cina ha inviato forze navali e aeree nello stretto di Taiwan per effettuare dei pattugliamenti. Il tutto dopo che, per la seconda volta nell’arco di un mese, una delegazione di membri del Congresso degli Stati Uniti si è recata a Taipei per offrire sostegno all’isola. Proprio per questo infatti, come avvenuto in occasione della prima visita statunitense, i militari cinesi hanno deciso di pattugliare lo stretto di Taiwan.

Non solo CO2: i “dimenticati” della crisi ambientale

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Volendo risalire alle cause del riscaldamento globale, o del più ampio cambiamento climatico, ormai sappiamo bene su chi puntare il dito: la famigerata anidride carbonica, le cui parti per milione in atmosfera ogni anno raggiungono nuovi picchi avvicinando la temperatura media della Terra verso soglie sempre più allarmanti. C’è quindi indubbiamente del vero, tuttavia, stiamo banalizzando: la CO2 derivante dalle nostre attività non è infatti l’unica colpevole. Pensiamo al metano, altro gas serra di gran lunga più potente dell’anidride carbonica. Sebbene meno persistente in atmosfera, la quota di emissioni che lo riguardano è tutt’altro che trascurabile. Ma anche in questo caso, e pure se aggiungessimo alla lista degli imputati tutti i gas climalteranti noti, staremmo comunque dimenticando qualcosa.

Si cercano soluzioni solo in una direzione

La crisi climatica odierna è infatti il risultato dell’interazione tra più fattori, non ultimo l’alterazione dell’ambiente naturale. Nonostante buona parte delle cause di perdita di biodiversità sia a sua volta responsabili del cambiamento climatico, ancora cerchiamo soluzioni solo in una direzione. Eppure, non sembra poi così complesso: gli ecosistemi terrestri e acquatici assorbono quasi il 50% della CO2 proveniente dalle emissioni antropiche, cosa accadrebbe se questa loro funzione venisse meno a causa della devastazione già in atto? In parole povere, tra inquinamento e deforestazione, stiamo compromettendo l’unica arma naturale a nostra disposizione per contrastare il riscaldamento globale. Al riguardo, la comunità scientifica ha proprio recentemente sottolineato quanto cambiamento climatico e perdita di biodiversità siano due facce della stessa medaglia. Infatti, nessuno dei due problemi sarà risolto con successo a meno che non vengano affrontati insieme. Finora però le due questioni sono state trattate separatamente e, a dirla tutta, ecosistemi e diversità biologica sono passati in secondo piano, come se le problematiche che li riguardano, in relazione alla crisi climatica, fossero marginali. Il pianeta, ed ogni sua componente, è tuttavia più interconnesso di quanto la nostra mente sia in grado di percepire. Vien da sé che la transizione – sebbene quella pianificata appare più energetica che altro – non a caso, è necessario che sia ecologica. «Il ripristino degli ecosistemi – hanno scritto 50 tra i maggiori esperti mondiali di biodiversità e clima – è tra le misure di mitigazione basate sulla natura più economiche e rapide da implementare. Riqualificando, si fornisce habitat indispensabile per piante e animali e si migliora la resilienza della biodiversità di fronte ai cambiamenti climatici, insieme a molti altri benefici: regolazione delle inondazioni, protezione delle coste, miglioramento della qualità dell’acqua, riduzione dell’erosione del suolo e garanzia dell’impollinazione. Il ripristino ecosistemico – hanno aggiunto – può anche creare posti di lavoro e reddito, soprattutto se si prendono in considerazione le esigenze e i diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali». Ciononostante, se ne parla ancora troppo poco, mentre, nei fatti, la conversione industriale ed energetica è ormai sulla bocca di tutti. Investire in nuovi impianti, seppur sostenibili, conviene. Tra l’altro, ora come non mai. Mentre finanziare progetti di riqualificazione ambientale, no.

Uno squilibrio eccessivo e ingiustificato

Il tornaconto economico appare quindi ancora requisito essenziale per far sì che la via della sostenibilità venga percorsa. Accuse infondate? Niente affatto. Per farsi un’idea, basta guardare il nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Dei 248 miliardi di fondi Ue, 70 sono stati sì destinati al comparto ambientale, ma di questi, appena 1,7 miliardi sono spettati alla salvaguardia della biodiversità e degli ecosistemi. Di contro, oltre 3 miliardi sono stati assegnati per “promuovere la produzione, la distribuzione e gli usi finali dell’idrogeno”. Risorsa ancora immatura ma senza dubbio rinnovabile e pulita (a patto che sia ‘verde’) che, tuttavia, arricchisce in parte i soliti colossi del settore energetico. Eni, ad esempio – grazie ai suoi pozzi esausti di gas – sarebbe l’unico potenziale produttore del tutt’altro che risolutivo idrogeno blu, quello derivante dagli idrocarburi fossili che, al momento, guarda caso, va per la maggiore. Nel complesso si hanno: oltre 9 miliardi al comparto energetico e meno di 2 a quello puramente ecologico. Considerate le premesse precedenti tale squilibrio appare eccessivo ed ingiustificato. È evidente che gli interessi celati dietro la transizione vadano oltre il raggiungimento degli obiettivi climatici internazionali.

Pressioni per prolungare la vita delle fossili

In questo senso, una prima possibile lettura viene da una recente inchiesta secondo cui i paesi legati all’industria degli idrocarburi hanno fatto pressioni per stravolgere uno dei rapporti sul clima dell’Onu. Dall’analisi di 32.000 documenti sono emersi diversi tentativi finalizzati a proteggere interessi e status quo. Dall’Australia e l’India che hanno avuto da ridire sull’addio al carbone, all’Arabia Saudita che ha esplicitamente chiesto che le conclusioni secondo cui bisogna “eliminare gradualmente i combustibili fossili” siano cancellate. Ma qualcosa di simile, d’altronde, è già accaduto dentro i nostri confini: “tramite una capillare attività di lobbying “, il settore dei combustibili fossili è infatti riuscito a imporsi alle decisioni del governo italiano. Un settore, in Italia capeggiato da Eni e Snam, che, grazie ad una serie di numerosi incontri con i vertici ministeriali, ha incassato una cospicua parte dei fondi di ripresa. Tornando al documento Onu, secondo l’indagine, poi, non è mancato un lobbying sfrenato per far dire al rapporto quanto i Sistemi di cattura e stoccaggio del carbonio siano indispensabili. «Carbon capture and storage (CCS) –  ha ricordato Greenpeace che ha condotto l’inchiesta – è il nome dato alle tecnologie che possono catturare le emissioni di carbonio da siti industriali come le centrali elettriche per tenerle fuori dall’atmosfera o utilizzarle nei processi industriali. L’Australia, l’Arabia Saudita, l’Iran, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC) e il Giappone hanno tutti fatto commenti a favore di queste, ribadendo quanto andrebbero considerate strumento potenziale per ridurre le emissioni». Una soluzione questa, però, solo apparentemente risolutiva che cela inoltre rischi difficilmente prevedibili. Pur essendo l’unico strumento di riduzione diretta delle emissioni di cui disponiamo, non si hanno informazioni su possibili conseguenze a lungo termine. «Un enorme spreco di denaro e un pretesto per continuare a estrarre combustibili fossili», queste le accuse avanzate dal movimento ambientalista Friday For Future. Critiche rincarate anche dal chimico Vincenzo Balzani che ha definito la pratica come «un’azione fuori da ogni logica, tecnicamente non ancora sviluppata, caratterizzata da alti costi e forti pericoli ambientali, soprattutto se lo storage avviene in zone sismiche o con forte subsidenza». Dubbi e criticità evidenziati più di recente anche dal WWF.

Soluzione logiche e meno costose sono possibili

Insomma, il tentativo sarebbe quello di imporre una tecnologia costosa, immatura e potenzialmente dannosa allo scopo di ‘nascondere’ l’anidride carbonica generata da un’industria che avremmo già dovuto abbandonare. Di contro, ci sono le bistrattate soluzioni offerte dalla natura che, con minori spese, catturerebbero CO2 egregiamente e senza rischi. Piantare alberi, preservare mangrovie e zone umide – ha ribadito ad esempio una recente ricerca – sono soluzioni economiche ed efficaci, ma trascurate. Su quale puntare tra le due dovrebbe essere scontato. Ma si sa, specie sulla questione ambientale, seguire la logica è tutt’altro che ovvio e gli interessi monetari che spingono in altra direzione sono fortissimi.

[di Simone Valeri]

Isole Salomone, 3 morti durante le proteste

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I corpi carbonizzati di 3 persone sono stati ritrovati tra i resti di un negozio incendiato nei giorni scorsi a Honiara, capitale delle Isole Salomone, al largo dell’Australia. Il negozio si trovava nel quartiere cinese della città, da giorni preso di mira dai manifestanti che chiedono le dimissioni del Primo ministro Sogavare. All’origine della sommossa vi è la decisione di Sogavare di sospendere le relazioni con Taiwan in favore di quelle con la Cina. Nei giorni scorsi i manifestanti hanno tentato di assaltare il Parlamento, incendiato diversi edifici, saccheggiato negozi e ignorato il coprifuoco imposto dal Governo per contenere le violente proteste. L’Australia ha inviato i corpi militari di pace per aiutare aiutare il Governo a garantire la sicurezza.

L’analfabeta e il poeta

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Forse aveva ragione Hans M. Enzensberger quando affermava nell’Elogio dell’analfabetismo (1988) che “sono stati gli analfabeti a inventare la letteratura. Le sue forme elementari, dal mito fino alle poesiole da bambini, dalle favole al canto, dalla preghiera fino all’indovinello, sono tutte più antiche della scrittura. Senza tradizione orale non ci sarebbe poesia e senza gli analfabeti non ci sarebbero libri”. Gli ha fatto eco il grande Ray Bradbury, visionario e surreale, nella postilla di Addio all’estate (2006): “La zia Neva è stata la custode e giardiniera delle metafore che sono diventate la parte più importante di me. Si è occupata di nutrirmi con le fiabe più belle, con la poesia, il cinema e il teatro, in modo che la febbre della vita continuasse a bruciare insieme alla voglia di scrivere. Oggi, dopo tanti anni, quando scrivo ho ancora l’impressione che mi guardi di sopra la spalla e sprizzi orgoglio”.

L’inizio di Doppio sogno (1926) di A. Schnitzler, a cui corrisponde con una certa fedeltà la sequenza d’avvio di Eyes Wide Shut di Kubrick che vi si è ispirato, riporta una pagina delle Mille e una notte letta da una bimba che si addormenterà a quelle parole, e poi tutta la storia e tutto il film verranno dominati dai colori e dalle luci di quel racconto. E sostanzialmente da una perdita dell’innocenza.

“Il concepire mitico dell’infanzia è insomma un sollevare alla sfera di eventi unici e assoluti le successive rivelazioni delle cose, per cui queste vivranno nella coscienza come schemi normativi dell’immaginazione affettiva. Così ognuno di noi possiede una mitologia personale…che dà un valore assoluto al suo mondo più remoto… dove pare, come in un simbolo, riassumersi il senso di tutta una vita” (Cesare Pavese, Feria d’agosto, 1946).
Infanzia e poesia ritornano nei suggerimenti di Rainer M. Rilke al giovane poeta: “Se la vostra vita quotidiana vi sembra povera, non l’accusate; accusate voi stesso, che non siete assai poeta da evocarne la ricchezza…E se anche foste in un carcere, le cui pareti non lasciassero filtrare alcuno dei rumori del mondo… non avreste ancora sempre la vostra infanzia, questa ricchezza preziosa, regale, questo tesoro dei ricordi?” (Lettere a un giovane poeta, 1903-8).

Parliamo ovviamente dell’analfabetismo immerso nella tradizione, nella ritualità, nella ricerca del tempo perduto, non dell’analfabetismo di ritorno, sempre secondo Enzensberger, che è quello gestito dalla televisione che impedisce qualsiasi ricerca, qualsiasi dubbio, qualsiasi seria discussione o pacato colloquio.

L’analfabetismo che faceva coincidere, in Giovanni Pascoli, la poesia con la lampada “ch’ arde soave”, che “ascolta novelle e ragioni…/ e vecchie parole sentite/ da presso con palpiti nuovi”, che presiede ai riti di una famiglia di campagna, che non ha paura di coltivare sentimenti. Pascoli che scrive La canzone del girarrosto dove celebra le “piccole grida” della cucina, il “ronzare… d’un ospite molto ciarliero”. O altrimenti, la poesia che essa stessa diventa analfabeta quando “consiste/ nel dir sempre peggio/ le stesse cose” (E. Montale).
Tutto questo per suggerire che bisogna riprendersi il tempo, cioè perderne un po’, per ritrovare la socialità, il disinteresse, le banalità e le grandezze di una semplice conversazione.

Scriveva Vasco Pratolini ne La costanza della ragione (1963, cap. 26): “I suoi Poeti, cosa gli avevano insegnato? Essi vissero con un’idea. Furono soldati e teatranti, diplomatici e miliziani, contadini e ingegneri. Si chiamavano Lorca e Majakovski quelli che lui più amava. Conobbero l’estasi e il dolore, cantarono il sangue e la rosa, i grattacieli e gli ulivi, la metropoli e il mare, le macchine, la betulla e il maggese. Si fecero uccidere o si uccisero. Ma sarebbe stato lui senza i suoi Poeti? … Come ogni creatura che della propria costanza si è fatta una ragione, portarono addosso le pene e i deliri, le contraddizioni che prevaricano verità e giustizia, i vizi che travolgono le innocenze. E i miti, che incarcerano la libertà. Crollarono sotto il peso del mondo, dopo averlo sospinto di un passo verso la salvazione”.
Dovremmo insomma camminare tenendo accanto “dimesse parole e volti senza maschera”, come scriveva Montale, ostinarci a persistere nella fantasia. In un crescente bisogno di semplicità e autenticità, come avanguardie di una nuova rivoluzione che sa mescolare progetti e memoria, e li sa condividere.

Mentre oggi facciamo fatica, come gli abitanti di Macondo, a riconoscere il mondo circostante. Altri cent’anni di solitudine, allora? In un’intervista, Eugenio Montale concludeva scetticamente: “L’uomo non sa nulla di se stesso: ma esiste la cosiddetta scienza per stabilire qualche cosa, e bisogna fingere di crederci se si vuole essere iscritti all’elenco degli uomini pensanti”. Era il 1974.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Femminicidi e revenge porn in Italia continuano ad aumentare

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I reati di femminicidio e revenge porn sono in aumento in Italia. Stando ai dati riportati dal Viminale, su 263 omicidi volontari compiuti nei primi dieci mesi del 2021, 109 riguardano reati su donne, 93 dei quali commessi in ambito familiare e affettivo. 63 di questi, a loro volta, sono compiuti dal partner o dall’ex partner. Nonostante l’impegno da parte delle istituzioni nel trovare una soluzione al problema, l’aumento registrato dell’8% di vittime femminili suggerisce la necessità di un ripensamento dell’intero approccio alla problematica.

Dati alla mano, i delitti di donne in ambito familiare-affettivo registrano un significativo aumento, soprattutto i casi di femminicidi commessi per mano di partner o ex partner (+7%). Nei primi dieci mesi del 2021 sono in aumento, rispetto al 2020, le violazioni degli ordini restrittivi e di allontanamento dalla casa famigliare. I reati di “deformazione dell’aspetto della persona con lesioni permanenti al viso” sono in crescita di uno spaventoso 35%, mentre salgono del 45% i casi di revenge porn, le cui vittime sono per il 73% donne.

L’aumento considerevole della costrizione al matrimonio (+143%) può invece essere letto come una maggiore consapevolezza del reato da parte delle vittime e una conseguente maggiore propensione alla denuncia. La stragrande maggioranza dei casi (86%) riguarda vittime femminili, soprattutto di origine straniera.

La legge introdotta nel 2019, cosiddetta Codice rosso (legge 694/2019), ha introdotto diverse misure volte ad aumentare la tutela delle vittime di violenza di genere e contribuito ad una maggiore informazione per le vittime stesse riguardo la natura dei reati. La legge ha anche introdotto per la prima volta il reato di revenge porn, necessità resasi urgente dopo il clamore suscitato dalla triste vicenda di cronaca che ha visto protagonista Tiziana Cantone. La donna è giunta a togliersi la vita dopo la diffusione in rete di alcuni video nei quali intratteneva rapporti sessuali. Eppure, nonostante l’inasprimento delle pene, i dati e le notizie di cronaca lasciano intendere un andamento tutt’altro che positivo del controllo del fenomeno.

L’approccio all’intera questione del femminicidio ha dei difetti strutturali che da un lato portano alla vittimizzazione della donna e ad un’attenzione quasi morbosa da parte dei media, dall’altra ad oggi non consente un’adeguata protezione delle potenziali vittime nè prevede interventi rieducativi sostanziali a carico degli uomini che commettono i crimini.

Le stesse misure messe in atto sono insufficienti. Grazie al Codice rosso sono stati apportati miglioramenti alla misura del tracciamento di prossimità, come per esempio l’utilizzo del braccialetto elettronico. Tuttavia questo strumento viene apposto solamente con il consenso del diretto interessato. Inoltre per quanto siano identificati dei luoghi il cui accesso è vietato all’uomo perchè potenzialmente potrebbe incontrare la vittima, il pedinamento può comunque avvenire in luoghi dove il braccialetto non ha effetto. La funzione di prevenzione si rende così nulla. In altri Paesi europei, come per esempio la Spagna, viene dotata di braccialetto elettronico anche la vittima. In questo modo, quando lo stalker o il molestatore si avvicina, il dispositivo della vittima emette un allarme e, tramite un bottone apposito, è possibile mettersi immediatamente in contatto con le Forze dell’Ordine.

In Spagna questo meccanismo, in funzione dal 2009, ha portato a ridurre di un terzo i casi di violenza di genere nella sola Comunità Autonoma di Madrid, e di un 18,75% nell’intera nazione.

Come mostrano i dati, è necessario ripensare interamente il sistema di tutela delle vittime, puntando su interventi maggiormente incisivi in materia di prevenzione. Sarebbe inoltre utile spostare l’attenzione, mediatica e giuridica, anche sui carnefici, cui troppo spesso vengono inflitte pene leggere e per i quali sono quasi assenti programmi di rieducazione.

[di Valeria Casolaro]

Covid: Pfizer e Moderna lavorano a vaccino per nuova variante omicron

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I primi casi di variante B.1.1.529, ribattezzata Omicron, sono stati identificati in Europa. L’Oms l’ha definita “preoccupante”. L’Italia, per cercare di limitarne la diffusione, ha vietato l’ingresso nel Paese per chi arriva da alcuni paesi dove è maggiormente diffusa: Sudafrica, Lesotho, Botswana, Zimbawe, Malawi, Mozambico, Eswatini e Namibia. L’Unione europea che, tramite la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, invoca un aggiornamento dei vaccini «come da contratti con i fornitori». Pfizer e Moderna hanno già fatto sapere che ci stanno lavorando e di essere pronte, se sarà necessario, a produrre nuovi vaccini aggiornati in appena 100 giorni.

Privatizzare i conflitti: la verità sui contractors

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Se uno dei principi base che rende gli stati tali è la sovranità, ovvero il potere di governare grazie al monopolio dell'uso legittimo della forza, sia a livello domestico che internazionale, viene da chiedersi come mai sempre più Stati nel mondo scelgano di delegare l’uso di questa forza a compagnie private. Sono le Private Military Company (PMC) o Private Military and Security Company (PMSC), meglio note come agenzie di contractors. Enti privati, dai contorni molto spesso poco chiari, che si trovano sempre più spesso ad operare per conto degli stati nelle aree di conflitto. 
Nonostante quest...

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La procura di Bolzano indaga le scuole parentali (ma sono garantite dalla costituzione)

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La Procura di Bolzano ha aperto un fascicolo per indagare le scuole parentali sul territorio e verificare eventuali casi di “lesione del diritto allo studio” dei minori. La decisione giunge in seguito al vero e proprio boom di questi modelli educativi alternativi, oggi frequentati da 629 alunni contro gli appena 30 del periodo pre-pandemico. La mossa della Procura è stata accolta con favore dall’amministrazione altoatesina che, dopo aver introdotto nuove restrizioni per far fronte ai contagi, appare in cerca di ulteriori strumenti per “ricondurre all’ordine” le famiglie non vaccinate. Secondo le istituzioni il fenomeno è infatti alimentato da famiglie denominate “no vax” e “no mask” che cercano in questo modo di aggirare le restrizioni. Tuttavia le forme di scuola alternativa sono ammesse dalla Costituzione e normate da leggi della Repubblica, quindi non è chiaro di cosa possano essere accusate le famiglie che hanno scelto questa forma di istruzione.

Le forme di scolarizzazione alternativa sono in crescita in tutta Italia, ma in Alto Adige si tratta di una vera e propria impennata, specie tra i bambini madrelingua tedeschi. Casolari abbandonati, case private, cortili, spazi all’aperto sono stati così convertiti in aule: dieci scuole sono state individuate nei boschi della Valle Aurina, Alta Val Venosta e Passiria. In tutto sono 629 gli alunni usciti dalle strutture scolastiche, contro i 30 del periodo pre-pandemico: 40 nella scuola italiana, 20 in quella ladina, 569 nell’istituto tedesco.

Per la procura dei minori di Bolzano si tratta di un fenomeno allarmante che starebbe causando un calo dell’istruzione e avrebbe un’influenza negativa sulla sfera sociale ed emotiva dei giovani. Per queste motivazioni, è stato aperto un fascicolo sull’esplosione dell’istruzione parentale e la procura ha chiesto di segnalare i casi esposti al rischio di “lesione allo studio”. Una richiesta immediatamente ascoltata dalla sovrintendente della scuola di lingua tedesca, Sigrun Falkensteiner, la quale ha avviato delle ispezioni nei confronti delle famiglie che hanno ritirato i figli da scuola. Formalmente, però, spesso si tratta di proprietà private e i controlli non possono essere svolti. Per provare quindi ad arginare il fenomeno, il Consiglio provinciale ha varato un emendamento sull’istruzione parentale che prevede regole precise, più controlli e un esame di fine anno nella scuola di appartenenza e non altrove: in futuro si dovrà fare domanda e dopodiché, seguirà un colloquio di consulenza al fine di verificare l’idoneità di chi si farà carico dell’insegnamento parentale; durante l’anno saranno possibili delle visite, anche se per l’ingresso nei locali privati servirà il consenso dei genitori. Infine, come richiesto dalla Garante dei Minori, andrà verificato il benessere emotivo dei giovani.

Le mosse istituzionali potrebbero far credere che l’homeschooling e la scuola parentale siano una novità che segue lo scoppio della pandemia, e che ciò che preoccupa di più, sia la modalità formativa piuttosto che il mancato rispetto delle norme di sicurezza. Eppure, i genitori che hanno deciso di ritirare i figli da scuola, possono appellarsi a una legge specifica. L’homeschooling – o istruzione domiciliare – e la scuola parentale sono modalità scolastiche costituzionalmente riconosciute e regolamentate dal decreto 76 del 2005, il quale specifica che il bambino/ragazzo può essere istruito al di fuori delle strutture scolastiche pubbliche e private, nella piena responsabilità dei genitori (Art. 30 della Costituzione Art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e Principio settimo dei Diritti del Fanciullo).

La Costituzione prevede la libertà della famiglia nel decidere di assumere un ruolo centrale nella formazione dei propri figli. Sia l’homeschooling che la scuola parentale rientrano in quella che, in ambito giuridico, viene definita educazione parentale. Difatti, al di là dei provvedimenti presi in Alto Adige, la regolamentazione italiana prevede già che entrambe rispettino indicazioni ben precise: i genitori o tutori che per i figli scelgono l’istruzione al di fuori delle tradizionali strutture scolastiche, devono plasmare il percorso formativo seguendo meticolosamente le indicazioni dal Ministero dell’Istruzione. Non è chiaro, quindi, di cosa siano formalmente accusabili le famiglie che hanno scelto – a prescindere dalla motivazione – questa forma di istruzione per i figli. Piuttosto evidenti appaiono invece i fini politici.

[di Eugenia Greco]