giovedì 18 Settembre 2025
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Colombia, polizia causa danni oculari irreversibili ai manifestanti

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L’Esmad (il corpo di polizia della Colombia) ha causato intenzionalmente decine di traumi oculari, spesso irreversibili, a manifestanti scesi in piazza nell’ambito dello Sciopero nazionale del 2021. A rivelarlo è un rapporto di Amnesty International pubblicato il 26 novembre, il quale ha analizzato oltre 300 video dei fatti e ascoltato la testimonianza di alcuni dei manifestanti presenti sulla scena. Alcuni di questi sono arrivati persino a perdere un occhio. Il rapporto spiega come tra le difficoltà delle vittime non vi sia solamente il recupero fisico ma anche il recupero psicosociale. Non è la prima volta che l’Esmad, che spesso ricorre all’uso di armi vere sparando sulla folla, viene accusata di deliberato e non necessario uso della violenza.

L’importanza di mangiare il cibo di stagione: le mele

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melo
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A dispetto della varietà di cibi che si trovano sui banchi del reparto ortofrutta del supermercato, varietà che però è sinonimo di cibo industriale e di processi produttivi a forte impatto ambientale, ciò a cui in realtà bisognerebbe puntare e poi trasmettere alle nuove generazioni a livello di educazione alimentare è l’importanza di mangiare il cibo di stagione, in quanto è questo il comportamento alimentare più rispettoso per l’Ambiente. Per una serie di motivi, in primis quelli riguardanti la tutela degli ecosistemi. Vediamo insieme alcune buone motivazioni per mangiare più cibo di stagione e meno cibi industriali:

  1. Più nutrienti. Le piante che seguono il loro ciclo stagionale presentano una quantità maggiore di nutrienti e principi attivi e apportano la giusta quantità di calorie in relazione al periodo dell’anno. Questo significa che le proprietà nutrizionali di un determinato alimento, se è coltivato fuori dalla sua stagione abituale, potrebbero risultare “falsate” e quindi esserci meno utili. Facciamo 2 esempi per capirci: la stagione naturale di crescita dei pomodori è l’estate, non a caso questo frutto è ricchissimo di vitamina C e di un antiossidante chiamato licopene, entrambe sostanze fortemente protettive per la retina e per la pelle in generale contro le radiazioni solari che in estate sono più forti e aggressive nei nostri confronti. In Inverno invece maturano i cavoli, che hanno alti livelli di vitamina C e di sostanze di rinforzo del sistema immunitario, necessarie per il naturale calo delle difese immunitarie che si verifica nella stagione del clima più freddo. Tutto ciò non è un caso, ma una sagace opera della Natura che mira a mantenere le cose in equilibrio. Ecco che mangiare pomodori in inverno al posto di cavolfiore e broccoli non è una buona idea, come non lo sarebbe mangiare questi ultimi in estate al posto del pomodoro, melanzane e altri ortaggi estivi.
  2. Pochi o zero pesticidi. Questo è vero, in particolar modo, per gli ortaggi biologici e biodinamici. Anche quelli non bio, tuttavia, se sono di stagione richiedono una quantità nettamente inferiore di prodotti chimici per eliminare i parassiti. Le piante che vengono “costrette” a crescere in periodi diversi dalla loro normale stagione, infatti, risultano indebolite e sono più facilmente preda di insetti indesiderati, necessitando dunque di trattamenti chimici aggiuntivi.
  3. Costa meno. Dato che gli ortaggi di stagione non hanno bisogno di serre, non si consuma energia aggiuntiva per farli crescere e maturare: sfruttano già quella del sole. Se poi scegliamo prodotti a km zero, coltivati cioè vicino al luogo di residenza, il risparmio è ancora maggiore, perché abbatteremo anche i costi di trasporto.
  4. Più gusto. I prodotti di stagione sono più buoni, profumati, aromatici. Avete fatto caso al sapore di un pomodoro in inverno? Praticamente non ha sapore e si è costretti ad esagerare coi condimenti.
  5. Più rispetto per la Terra. I peperoni o le zucchine a dicembre hanno un costo ambientale elevatissimo: per farli crescere servono grandi serre riscaldate e illuminate che richiedono molta energia, spesso proveniente da combustibili fossili (petrolio). Anche i pesticidi e fertilizzanti utilizzati per i cibi fuori stagione sono di sintesi, quindi derivati dal petrolio. Gli ortaggi fuori stagione, dunque, risultano molto inquinanti. Se poi provengono da altri Stati lontani e aggiungiamo il costo ambientale dei trasporti (su strada o aerei), ecco che risultano ancora più inquinanti! Tutto ciò significa anidride carbonica che si va ad aggiungere a quella già presente in atmosfera, incrementando l’effetto serra e peggiorando la situazione globale.

Perché supportare, da consumatori, un sistema produttivo distruttivo dell’Ambiente e della vita, anziché uno che sia favorevole alla vita stessa e  che sia biologico?

Qui sotto in foto, potete memorizzare tutta la frutta e verdura di stagione in Dicembre. Acquistate e mangiate solo questi vegetali in questo mese, ci sarà un guadagno in salute e nel rispetto dell’ecologia!

Calendario frutta e verdura di stagione

Un frutto di stagione eccezionale: la mela

La mela è un frutto straordinario dalle tante proprietà nutrizionali ed è considerato dagli studiosi un farmaco naturale. A titolo di curiosità si sappia che attualmente i ricercatori hanno individuato all’interno delle mele circa 170 molecole chimiche differenti, ma non sono ancora riusciti a descrivere con esattezza le caratteristiche di tutte e 170 queste molecole chimiche, cioè a capire l’effetto chimico di ognuna di esse.

Sappiamo che le mele contengono vitamina C, acido malico e molte altre molecole ormai note, ma non si conoscono ancora tutte le sostanze presenti all’interno del frutto e il loro ruolo a livello nutrizionale nel nostro organismo. Probabilmente sono tutte sostanze benefiche per la nostra salute, la ricerca riuscirà a studiarle e comprenderle appieno solo nel tempo.

Per adesso, possiamo essere certi che il detto “una mela al giorno leva il medico di torno” non è assolutamente farlocco bensì alquanto veritiero da un punto di vista scientifico. Infatti, proprio uno studio recente del 2013 che arriva dall’università di Xi’an in Cina e pubblicato sulla banca dati ufficiale delle ricerche scientifiche Pubmed, indica la sperimentazione da parte dei medici di alcune delle sostanze contenute nella mela nella cura di un carcinoma umano del colon (tumore dell’intestino) e con grande sorpresa i risultati hanno mostrato che gli oligosaccaridi delle mele sono stati in grado di uccidere più cellule cancerogene del miglior farmaco chemioterapico conosciuto contro il tumore del colon. Gli oligosaccaridi sono delle fibre particolari contenute nelle mele che sono sostanze chimiche più complesse rispetto al fruttosio (monosaccaride) o al saccarosio (disaccaride). In pratica stiamo parlando delle fibre solubili della mela, come la famosa pectina.

L’esperimento scientifico sul tumore al colon

L’esperimento è stato fatto in vitro (che significa: in laboratorio) e l’interesse è altissimo in quanto se l’effetto fosse replicato anche in vivo (che significa: negli animali o sull’uomo) la scoperta porterebbe a delle conseguenze positive di enorme importanza nella cura del tumore al colon, dal momento che gli oligosaccaridi sono molecole biologiche naturali che l’organismo umano recepisce in maniera indolore e processa in maniera biocompatibile, al contrario del farmaco chemioterapico, il quale viene recepito sempre malissimo dall’organismo e spesso scatena reazioni collaterali tossiche nel paziente.

Gli oligosaccaridi di mele hanno ucciso fino al 46 per cento delle cellule del cancro del colon umano in vitro e superato il farmaco chemioterapico più comunemente usato. A soli 0,9 microgrammi per mL (circa 0,9 PPM), gli oligosaccaridi hanno ucciso il 17,6 per cento delle cellule del cancro dopo 36 ore, mentre il farmaco chemio ha ucciso solo il 10,9 per cento (ad una concentrazione più elevata di 1,3 microgrammi per mL).

Se non vi fidate dei detti antichi dei vostri nonni e antenati, sappiate che esistono svariati importanti studi scientifici che confermano i pregi di questo frutto in termini di salute. Ne citiamo qui ancora un paio.

La prima ricerca è degli anni Duemila ed è stata pubblicata sulla rivista medica Annals of Oncology con il titolo Does an apple a day keep the oncologist away? Un team di ricercatori italiani ha analizzato i dati provenienti da studi caso-controllo condotti tra il 1991 e il 2002 in Italia. Uno studio caso-controllo è utilizzato per identificare i fattori che possono contribuire ad una condizione medica, confrontando soggetti con una certa malattia con un gruppo simile ma privo della patologia. In questo caso si voleva indagare il rapporto tra consumo di mele e cancro e i risultati hanno riscontrato un’associazione inversa coerente tra le mele e il rischio di vari tipi di cancro. Secondo i ricercatori, infatti, molti tumori del tratto digerente in Italia sarebbero associati ad un basso consumo di frutta e verdura.

Infine, lo studio A statin a day keeps the doctor away: comparative proverb assessment modelling study, pubblicato dall’Università di Oxford nel 2013, ha constatato come il consumo giornaliero di mele potrebbe prevenire e contrastare circa 8500 decessi nel Regno Unito, legati a malattie cardiovascolari nelle persone dai 50 anni in su.

Un risultato paragonabile all’uso delle statine, ma certamente con un maggior contributo nutrizionale e senza effetti collaterali.

Una mela al giorno toglie il medico di torno

 È importante mangiarle con la buccia

Come molti altri frutti anche le mele andrebbero mangiate con la buccia perché è proprio nella parte più esterna di esse che si racchiudono in maggiore quantità i nutrienti principali. Naturalmente per poter fare questo è preferibile acquistare mele da agricoltura biologica o da aziende che producono con il metodo della lotta integrata, in modo da evitare di assumere insieme alle sostanze benefiche anche pericolosi pesticidi. Quando questo non è possibile, si può almeno in parte risolvere il problema dei pesticidi lavando le mele molto bene con il bicarbonato di sodio.

La mela è uno spuntino sano e con la buccia lo diventa ancor di più per diversi motivi:

  1. La buccia contiene la maggior parte delle fibre, fondamentali per il benessere e la regolarità del nostro intestino e dei batteri che lo abitano, i quali costituiscono l’esercito più importante di cui è costituito il sistema immunitario. Una mela mangiata con la buccia contiene in media 4,5 grammi di fibra, senza la buccia invece solo 2 grammi.
  2. La buccia contiene anche la maggior parte delle vitamine. Una mela con la buccia contiene in media 8,4 milligrammi di Vitamina C e 98 Unità Internazionali di vitamina A. Senza, invece, queste vitamine scendono rispettivamente a 6 milligrammi e a 61 UI.
  3. La buccia delle mele contiene Quercetina, una sostanza antiossidante dalle molte proprietà: allevia i problemi respiratori, protegge la memoria e dagli ultimi studi sembra essere in grado di combattere i danni ai tessuti cerebrali che nel tempo possono portare a sviluppare Alzheimer o altre malattie degenerative.
  4. Nella buccia delle mele sono contenute delle sostanze considerate antitumorali. Si tratta dei triterpenoidi che secondo uno studio del 2007 condotto dalla Cornell University inibiscono o uccidono le cellule tumorali in colture di laboratorio” soprattutto quelle che si sviluppano in fegato, colon e seno.
  5. Via ai chili di troppo. La buccia della mela contiene acido ursolico, composto importante per tenere a bada il peso corporeo. Sembra infatti che questa sostanza sia in grado di aumentare il grasso bruno considerato un “grasso buono” perché permette di bruciare più calorie, riducendo così il rischio obesità.

Sembra proprio vero, quindi, che una mela al giorno (con la buccia) toglie il medico di torno.

[di Giampaolo Usai]

Italia, il Governo restringe i poteri del Garante della Privacy

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Il Governo, tramite il decreto legge n. 139 dell’8 ottobre 2021, ha modificato i poteri del Garante della Privacy: tale atto normativo infatti non solo contiene nuove misure in tema di accesso a diversi tipi di attività ma anche in materia di protezione dei dati personali, tramite le quali sono stati diminuiti i poteri dell’Autorità. Il decreto è già stato approvato al Senato ed è ora in discussione alla Camera. La nuova normativa impone l’abrogazione dal Codice della Privacy dell’articolo 2-quinquesdecies, che obbligava la pubblica amministrazione a rispettare quanto eventualmente prescritto dal Garante «a garanzia dell’interessato» prima di porre in essere determinati trattamenti dei dati personali «per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico». In più ad essere stato abrogato è anche il comma 5 dell’art. 132 del Codice che, in materia di dati relativi al traffico telefonico e telematico, stabiliva che il loro trattamento per finalità di accertamento e repressione dei reati dovesse essere effettuato «nel rispetto delle misure e degli accorgimenti prescritti dal Garante a garanzia dell’interessato». In entrambi i casi, dunque, al Garante è stata praticamente impedito di stabilire misure volte a tutelare i soggetti interessati.

Oltre a ciò il decreto stabilisce anche un termine perentorio entro il quale il Garante può esprimere pareri su riforme, misure e progetti del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Essi infatti devono essere forniti «nel termine non prorogabile di trenta giorni dalla richiesta, decorso il quale si potrà procedere indipendentemente dall’acquisizione degli stessi». Infine, l’unica eccezione ai depotenziamenti imposti all’Autorità è rappresentata dall’inserimento nel Codice della Privacy dell’art. 144-bis, il quale stabilisce che «chiunque, compresi i minori ultraquattordicenni, abbia fondato motivo di ritenere che immagini o video a contenuto sessualmente esplicito che lo riguardano, destinati a rimanere privati, possano essere oggetto di invio, consegna, cessione, pubblicazione o diffusione senza il suo consenso, può rivolgersi al Garante, il quale entro quarantotto ore dal ricevimento della richiesta provvede».

Il decreto, che allinea la normativa nazionale ad un regolamento dell’Unione europea in materia di trattamento dei dati personali e di privacy, si appresta – salvo sorprese – a divenire legge nei prossimi giorni. Il disegno di legge di conversione dello stesso, infatti, è già stato approvato dal Senato ed è attualmente in corso di esame alla Camera. Non è lontana dunque la possibilità che i minori vincoli sulla privacy ed il conseguente ridimensionamento dei poteri del Garante per la protezione dei dati personali siano definitivamente introdotti nel nostro ordinamento.

Il Garante della Privacy negli ultimi mesi, grazie ai suoi ampi poteri, aveva mosso obiezioni e sollevato dubbi nei confronti dell’operato del governo, con particolare riferimento ai provvedimenti adottati dall’esecutivo per far fronte all’emergenza sanitaria. In tal senso, più volte l’Autorità aveva posto la lente d’ingrandimento sulle criticità legate al Green Pass: nel mese di giugno 2021, ad esempio, aveva chiesto che venissero date adeguate garanzie circa l’utilizzo della certificazione verde, mentre in quello di settembre aveva inviato una lettera al ministero dell’Istruzione precisando che agli istituti scolastici non fosse consentito conoscere lo stato vaccinale degli studenti del primo e secondo ciclo di istruzione e che questi ultimi non fossero tenuti a possedere ed esibire il Green Pass per accedere alle strutture scolastiche.

[di Raffaele De Luca]

Barbados è diventata una Repubblica parlamentare

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L’isola Barbados ha portato a termine il proprio percorso di cambiamento costituzionale iniziato a ottobre, diventando ufficialmente una Repubblica parlamentare governata da due donne. Il passaggio avviene simbolicamente in occasione della ricorrenza del 55° anno dall’indipendenza dalla Gran Bretagna, ottenuta il 30 novembre 1966. Durante la cerimonia Sandra Mason, eletta a ottobre con suffragio universale diretto, ha prestato giuramento, diventando così la prima presidente dell’isola. Barbados, meta turistica ambitissima, si trovava da circa quattro secoli sotto il dominio della Corona inglese. Presente alla cerimonia anche il principe Carlo.

Vicino ai cittadini, lontano dalle multinazionali: un’altra transizione è possibile

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La buona notizia è che l’indipendenza energetica è possibile: sono sempre di più  le aziende, i comuni ed i privati cittadini che decidono di ricorrere alle fonti rinnovabili, dimostrando che il cambiamento è attuabile anche quando veicolato dal basso. In contrasto con l’andamento a rilento delle politiche di transizione nei grandi impianti, le piccole realtà portano avanti soluzioni concrete che apportano cambiamenti tangibili, a livello locale, per l’ambiente e per la società.

Ripensare le proprie forme culturali

Ciò che sta avvenendo in numerose realtà, parallelamente al progresso tecnologico, è una sostanziale riconfigurazione culturale, che plasma esperienze creative e innovative di autoconsumo e autoproduzione energetica. Alcune di queste, adottando l’etica del cambiamento, hanno potuto staccarsi dal modello energivoro delle multinazionali come unica forma di utenza per l’approvvigionamento energetico.

In questo modo la società si riorganizza su più fronti. Da un lato accelera il processo verso la decarbonizzazione, contribuendo a rallentare la crisi climatica. Dall’altro, il ritorno alla localizzazione e al decentramento del processo produttivo permette al cittadino di avere un nuovo ruolo attivo, allontanando il modello muscolare della multinazionale che stabilisce termini di erogazione e prezzi guardando solo al proprio guadagno. I soggetti passano da consumer prosumer, ovvero consumatori ma anche parti attive nel processo produttivo, con l’effetto di una democratizzazione dell’intero sistema di approvvigionamento energetico.

I nuovi modelli sono già realtà

Sono centinaia le comunità che in tutto il mondo hanno avviato (e in molti casi portato a termine) processi di transizione a fonti di energia rinnovabili già dalla fine degli anni ’90. Le nuove configurazioni permettono a queste realtà di soddisfare buona parte delle proprie necessità energetiche, se non tutte.

Anche in Italia questa realtà è in fermento. Secondo il rapporto di Legambiente sono almeno 40 i comuni 100% rinnovabili, ovvero nei quali i fabbisogni elettrici e termici delle famiglie sono interamente coperti da fonti di energia rinnovabili: impianti eolici, fotovoltaici, idroelettrici e a bioenergie che arrivano a fruttare un risparmio anche del 40% in bolletta, rispetto alle tariffe della distribuzione energetica nazionale.

Samsø, la prima isola autosufficiente

Un primo esempio è rappresentato dall’isola di Samsø, in Danimarca, dove la completa indipendenza energetica è stata raggiunta nel 2003. Anziché dipendere dalla vendita di energia da parte delle multinazionali, viene utilizzata quella rinnovabile prodotta in loco da turbine eoliche, pannelli solari e biomasse. Parte di queste strutture sono in mano a cooperative locali e buona parte dei lavori di costruzione e mantenimento sono stati affidati agli abitanti. In questo modo è diminuito il tasso di disoccupazione ed è stata rilanciata l’economia locale. Il risparmio economico dovuto al minor costo dell’energia rinnovabile e la rivendita del surplus di energia prodotta ha inoltre permesso l’ammortizzamento dei costi di investimento.

La vera rivoluzione in atto a Samsø sta nel fatto che la riconversione energetica non è stata affidata alle grandi centrali ma ai cittadini. Questi hanno costituito parte integrante di ogni fase del progetto, dall’ideazione alla messa in pratica. L’intera comunità si è convertita da cliente delle multinazionali a produttrice della propria energia, mettendo così in atto una vera e propria democratizzazione del modello di conversione energetico. Le politiche riguardo le tematiche energetiche sono certo piuttosto innovative di per sé in Danimarca, e Samsø è una piccola isola, ma non per questo innovazioni di questo tipo non possono rappresentare dei modelli di riferimento.

Feldheim, la cittadina tedesca che sfida le multinazionali

La piccolissima cittadina di Feldheim, per esempio, viene visitata ogni anno da migliaia di turisti proprio per la particolarità del suo modello energetico. Situata nella zona sud-ovest di Berlino, la piccola cittadina dispone di più di 40 turbine eoliche, un impianto a biogas che trasforma gli scarti dell’agroindustria in metano e una stazione fotovoltaica: in tutto queste tre risorse sono in grado di produrre energia sufficiente per soddisfare il fabbisogno elettrico e termico dell’intera città, oltre a produrre un surplus che viene rivenduto sul mercato costituendo così una forma di introito.

Uno degli ostacoli al progetto è stato il rifiuto, da parte della multinazionale delle energie rinnovabili E.ON., di cedere l’uso della propria rete di distribuzione elettrica, dimostrando come la logica del guadagno rimanga inalterata quando si tratta di grossi sistemi centralizzati, che siano combustibili fossili o energia verde. Gli abitanti di Feldheim si sono quindi organizzati e grazie al contributo di fondi europei, prestiti di capitali e un investimento di 3000 euro a cittadino hanno messo in piedi una rete elettrica propria, che distribuisce l’energia prodotta in loco. Il processo di “autarchia energetica” si è così completato, insieme a quello di decarbonizzazione: oggi i cittadini possono controllare il prezzo dell’energia autoprodotta, più conveniente rispetto a quella distribuita dalle grandi multinazionali tedesche, e rivenderne una gran parte. L’investimento dei privati sarà ammortizzato entro pochissimi anni, per poi cominciare a fruttare dei veri e propri guadagni. Come a Samsø, inoltre, anche qui la trasformazione energetica ha rilanciato l’economia, portando la città ad una quota di piena occupazione.

A Napoli le rinnovabili combattono la povertà energetica

La rivoluzione energetica in Italia è partita dal quartiere San Giovanni a Teduccio, nella periferia di Napoli, il quale costituisce un ottimo esempio della necessità di affrontare i problemi sociali, ambientali ed economici in un’ottica congiunta. Grazie ad un investimento di circa 100 mila euro della Fondazione Con il Sud, quaranta famiglie con disagi sociali hanno potuto godere dei benefici del nuovo sistema energetico.

Il caro prezzi di energia elettrica e riscaldamento costituisce una problematica grave nel nostro Paese, dove almeno due milioni di famiglie vivono in condizioni di povertà energetica. Con quest’espressione si definisce un fenomeno “che sta crescendo nei Paesi sviluppati” e riguarda “persone, singole o famiglie che hanno difficoltà a pagare le bollette per garantirsi servizi essenziali come il diritto a scaldarsi, raffrescarsi o anche cucinare”. L’installazione di un impianto fotovoltaico sul tetto della Fondazione Famiglia di Maria produce energia sufficiente ad essere sfruttata in parte dalla struttura e in parte dalle famiglie aderenti al progetto. Il risparmio reale è stimato intorno ai 300 mila euro in 25 anni, all’incirca 300 euro all’anno per ciascuna famiglia.

Podere Vallescura, una delle prime realtà off-grid italiane

Le esperienze off-grid costituiscono le realtà più coraggiose nel contesto della transizione energetica, perché si fondano sul fare affidamento solo sulle risorse rinnovabili prodotte in loco, senza appoggiarsi alla rete di distribuzione nazionale. Ciò implica necessariamente un adattamento dei propri stili di vita per poter sfruttare al massimo il sistema energetico in base alle stagioni, ma si tratta di piccoli aggiustamenti che richiedono poco sacrificio. Questa è la sfida che ha deciso di cogliere il Podere Vallescura, nella provincia di Perugia, una delle prime realtà di questo tipo in Italia. L’energia elettrica e termica prodotte dalla piccola pala eolica e da sei pannelli fotovoltaici sono sufficienti a coprire le necessità energetiche e di riscaldamento dell’intero agriturismo, dell’abitazione dei proprietari e della stalla.

Le strutture off-grid rappresentano un perfetto esempio di quanto obsoleto e superabile sia il sistema di rifornimento dell’energia che passa dalle grandi centrali produttrici alle aziende intermedie per giungere al cittadino, con un evidente costo altissimo per le tasche dei consumatori. Ancora una volta la localizzazione e la decentralizzazione, come nei casi precedenti, garantiscono una vera e propria democrazia energetica e una maggiore accessibilità alle risorse.

Cambiare il sistema è possibile

Ripensare le proprie abitudini di consumo, lasciarsi ispirare dai modelli innovativi che fioriscono nel resto del mondo costituisce il primo passo per apportare un cambiamento radicale. Le alternative al sistema volto al profitto delle multinazionali è possibile: sfaldare il sistema egemonico e compatto delle grandi industrie (dei combustibili fossili come delle energie rinnovabili) per decentrare la produzione riportandola alla sua dimensione locale può costituire il primo e più importante passo verso una distribuzione democratica delle risorse. Sempre più piccole realtà ci insegnano che tutto questo è possibile.

[di Valeria Casolaro]

Svezia: Magdalena Andersson eletta nuovamente premier

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Per la seconda volta in una settimana la leader dei socialdemocratici Magdalena Andersson è stata eletta premier della Svezia. Il 24 novembre, infatti, Andersson era stata nominata primo ministro da parte del Parlamento affermandosi come la prima donna premier nella storia del Paese, ma poche ore dopo si era dimessa per una sconfitta sulla legge di bilancio. Tuttavia, in seguito al voto di oggi da parte del Parlamento svedese, Andersson è stata eletta nuovamente premier.

Draghi e Macron firmano il nuovo patto italo-francese: il Parlamento lo scopre a giochi fatti

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Il primo ministro Mario Draghi e il presidente francese Macron hanno siglato venerdì scorso il Trattato del Quirinale, accordo bilaterale di cooperazione rafforzata tra i due Paesi. Si tratta dell’esito di un lungo percorso di negoziazione, cominciato nel 2017 con l’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, poi bloccato quando in Italia salì al governo la coalizione Lega-M5S nel 2018. Le trattative sono riprese con maggior intensità nel corso del 2021 sotto la guida del premier Draghi. Il Trattato, i cui contenuti sono stati resi noti solo dopo la firma, mira a riavvicinare le due potenze europee mettendo un cerotto sulle tensioni recenti, affinché si possa costituire “un fronte comune in materia di politiche europee ed internazionali”.

Rafforzare la collaborazione in materia di politica estera, difesa, affari europei, migrazioni, sviluppo tecnologico, contrasto al cambiamento climatico e molto altro. Questa la finalità dichiarate del Trattato siglato da Draghi e Macron alla presenza del Presidente della Repubblica Mattarella. All’indomani della chiusura dell’epoca Merkel e con l’insorgere dei nazionalismi nell’Europa Orientale, le potenze occidentali sentono il bisogno di rafforzare le proprie alleanze e costruire «un’Unione Europea più forte», come dichiarato dallo stesso Mattarella. Il trattato va ad affiancarsi al precedente Trattato dell’Eliseo, siglato da Francia e Germania nel 1963 e nuovamente ratificato dalle parti nel 2019. Macron ha tuttavia specificato che «non si è in cerca di sostituti della Germania». Tuttavia, come spiegato dall’analisi di Giampiero Massolo, presidente dell’ISPI, “senza chiudere il triangolo con un’intesa pattizia analoga tra Italia e Germania, sarebbe monco il disegno di rafforzare l’Europa”.

Il Trattato del Quirinale appare volto a suturare le lacerazioni nei rapporti diplomatici tra Francia e Italia, per aprire un nuovo capitolo e procedere in Europa come fronte comune. Dalla mancata acquisizione di Finicantieri da parte di Chantiers de l’Atlantique, alle rivalità sulle fonti energetiche in Libia, all’incontro, risalente al 2019, tra l’allora vicepremier Di Maio e i gilet gialli, che ebbe come conseguenza il richiamo in patria dell’ambasciatore francese in Italia, non sono mancati momenti di tensione nella storia recente. Tuttavia, a fronte di una maggiore instabilità europea dovuta alla crisi per la pandemia da Covid-19, ma anche al complicarsi dei rapporti con la Cina, la Brexit e l’emergenza climatica, si punta sulla costruzione di un sistema a leadership plurima che faccia fronte comune sulle questioni europee ed internazionali.

Settori cruciali individuati dal Trattato, dichiara Draghi, sono quelli della sicurezza, della giustizia, della ricerca e dell’industria. A livello concreto verranno istituite unità operative condivise a sostegno delle Forze dell’Ordine e un Comitato di Cooperazione Transfrontaliera che gestisca il flusso di migranti lungo i confini. La difesa dei confini in linea con il principio della Fortezza Europa è un punto centrale del Trattato, il quale agirà «in modo complementare con la NATO» secondo quanto affermato dal premier italiano. Ad essere rafforzata sarà anche la cooperazione in ambito energetico e tecnologico, della quale il Trattato di Cooperazione sullo Spazio siglato venerdì costituisce un primo esempio. Draghi ha poi voluto fortemente una clausola aggiuntiva per la quale “Un membro di Governo di uno dei due Paesi prende parte, almeno una volta per trimestre e in alternanza, al Consiglio dei Ministri dell’altro Paese”. La prospettiva che sembra profilarsi è quindi quella di una vera e propria condivisione di sovranità (e ingerenza).

Una delle questioni controverse sollevate dal Trattato sta nel fatto che si tratti dell’ennesimo patto internazionale siglato al buio, come già avvenuto, per esempio, con i contratti di acquisto dei vaccini tra Unione Europea e Big Pharma. Le parti vi hanno infatti apposto le firme venerdì, mentre i contenuti sono stati resi pubblici solamente il sabato. Si tratta di un’ulteriore manovra che esclude la partecipazione dei cittadini (e dei loro rappresentanti in Parlamento), che dovranno però farsi carico delle conseguenze di quanto stabilito a loro insaputa.

[di Valeria Casolaro]

 

India: il Parlamento ha abrogato la riforma agraria contestata dai contadini

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Il Parlamento indiano ha abrogato le tre leggi della riforma del commercio agricolo – che liberalizzavano la vendita dei prodotti delle campagne – cedendo alle pressioni degli agricoltori che hanno protestato per oltre un anno chiedendo il suo annullamento. Oltre alla abrogazione di tale riforma, però, gli agricoltori chiedono anche che per tutte le colture vi sia una legge avente ad oggetto l’MSP, il prezzo minimo garantito che consente loro di contare su un guadagno limitato ma sicuro. Tale legge però al momento non è stata fatta, motivo per cui i contadini hanno ribadito che non smetteranno di protestare finché essa non verrà introdotta.

Serve una “comunicazione di guerra”: Mario Monti chiede una stretta sull’informazione

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«Nella comunicazione di guerra c’è un dosaggio delle informazioni, che nel caso delle guerre tradizionali è odioso, ma nel caso della pandemia bisogna trovare delle modalità meno democratiche secondo per secondo». Sono le parole che l’ex presidente del Consiglio italiano e attuale capo della “Commissione paneuropea per la salute e lo sviluppo sostenibile” istituita dall’OMS ha rilasciato in diretta durante la trasmissione “In Onda” su La7. Non una battuta uscita male, ma un lungo ragionamento, pesato nella scelta delle parole usate, dal quale traspare la volontà del senatore a vita di reclamare una «comunicazione di guerra».

«Da due anni con lo scoppio della pandemia di colpo abbiamo visto che il modo in cui è organizzato il nostro mondo è desueto, non serve più. Due cose sono state toccate, la comunicazione e la governance del mondo. Nella comunicazione da subito abbiamo iniziato a usare il termine guerra, perché è una guerra, ma non abbiamo minimamente usato in nessun Paese una politica di comunicazione adatta alla guerra […] Io credo che bisognerà, andando avanti in questa pandemia o comunque per futuri disastri globali della salute, trovare un sistema che concili certamente la libertà di espressione, ma che dosi dall’alto l’informazione».

Ma questo controllo a chi spetta in una democrazia, chiede la conduttrice Concita De Gregorio? Risponde Monti: «Al governo ispirato, nutrito, istruito, dalle autorità sanitarie».

Quello che Mario Monti afferma, in buona sostanza, è: abbiamo accettato restrizioni alle libertà di movimento, no? Poi abbiamo accettato il controllo delle nostre attività in generale col green pass, no? E allora perché non dobbiamo accettare anche limiti alla libertà di parola e informazione?

Quelle di Monti non sembrano parole troppo isolate. In questi due anni abbiamo appreso che, spesso, quando sui media inizia a diffondersi un certo ragionamento si tratta del preludio a decisioni in merito. In questo senso la “comunicazione di guerra”, intesa come preparazione dell’opinione pubblica all’accettazione di misure emergenziali, è già oggettivamente in voga da tempo. È accaduto con le restrizioni, poi con il green pass, poi con i richiami vaccinali. E pure sulla stretta della libertà di informazione iniziano ad affacciarsi più contributi. Ad esempio, sul Corriere della Sera di due giorni fa: “È, dunque, facile prevedere che se l’emergenza sanitaria dovesse cronicizzarsi, come si sono cronicizzate quella ambientale e quella migratoria, si accentuerà la tendenza, già in atto, verso forme di potere politico sorte dalla progressiva sospensione o cancellazione delle consuetudini democratiche”.

Decolonizzare il Giorno del Ringraziamento non c’entra nulla con la ‘cancel culture’

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Il Thanksgiving, o Giorno del Ringraziamento, è una festività statunitense che viene celebrata ogni anno l’ultimo giovedì di novembre: i festeggiamenti di giovedì scorso sono stati occasione per riaccendere il dibattito sulla storia della società statunitense, scritta – come sempre – dai vincitori, da parte di coloro che sono i vinti della colonizzazione del Nord America. Diversi media hanno accostato in questi giorni, in maniera molto sbrigativa e superficiale, questo movimento di decolonizzazione del pensiero, dell’immaginario e dei costumi, soprattutto in atto tra le comunità tribali indigene, alla così detta cancel culture (o call-out culture).

La cancel culture è nata a partire dal 2014 ma ha avuto un esponenziale espansione tre anni più tardi con l’esplosione del movimento MeToo che riunisce moltissime donne che denunciano casi di violenze e abusi sessuali subite da parte di uomini molto spesso famosi. La cancellazione avviene tramite una campagna di ostracismo mediatico che mette alla gogna pubblica personaggi celebri che hanno approfittato della loro posizione di potere per mettere in atto comportamenti inappropriati o veri e propri abusi sessuali. Il movimento, sotto l’effetto mediatico, si è poi ingrandito fino a toccare ogni strato sociale, specie negli USA, in Canada e nel mondo Occidentale.

Quindi, niente a che vedere con i movimenti di sovranità culturale, politica e sociale che i popoli nativi del continente Nordamericano portano avanti da un secolo a questa parte, ovvero da quando – nel 1924 – sono stati ammessi alla società statunitense come cittadinanza di seconda classe. Il “movimentismo indiano” è la lotta per la difesa di diritti umani, politici e sociali che sono calpestati da cinquecento anni da parte del colonialismo di matrice europea. Risulta essere la risposta alla deportazione, al massacro e allo sterminio, al concentramento, all’assimilazione e alla cooptazione forzosa all’interno della società statunitense, fin dalle sue origini: sotto la forma della Repubblica, i coloni hanno imposto l’Impero della Libertà e dell’universale a coloro che ancora vivevano liberi la loro comunità particolare al di là dei monti Appalachi.

La decolonizzazione dal pensiero Occidentale in favore della riscoperta dei valori tradizionali, della propria spiritualità e del proprio linguaggio, sono da sempre alla base di ogni movimento e organizzazione sociale di comunità indigene che lottano per la sopravvivenza della propria identità e cultura, e non sono certo un’apparizione nuova che fa comodo strumentalizzare a favore di una o l’altra parte politica. Non è quindi “da ieri” che tali movimenti si battono, anche con l’utilizzo delle armi. Ne è un esempio l’American Indian Movement, nato nel 1968 a Minneapolis, che nel 1973 mise in essere la rivolta di Wounded Knee in cui, sotto l’assedio dell’FBI e delle forze speciali, occupò il luogo per quasi tre mesi dichiarando l’indipendenza e la sovranità della comunità locale: Wounded Knee è il luogo in cui, nel 1890, avvenne l’ultimo grande massacro (a danno delle popolazioni delle praterie) che pose fine ad ogni speranza di “resistenza indiana”.

E se il “Giorno del ringraziamento” fosse conosciuto fin dai primordi, si capirebbe semplicemente che non vi è alcun bisogno di cancellare niente. Anche perché, anche qualora così fosse, come si possono realmente cancellare cinquecento anni di storia e di sofferenza? Ciò che i movimenti sociali indigeni vogliono è una onesta narrazione degli eventi storici.

Se molti dicono che il Thanksgiving è il giorno in cui si ringrazia Dio per i suoi abbondanti doni della terra, e certamente lo sarà, è senz’altro vero che la sua istituzione da parte dei Padri Pellegrini ebbe una precisa motivazione e il suo carattere risulta essere molto più terreno, umano. I Pilgrim Fathers arrivarono sulle coste dell’attuale Massachussetts, ove fondarono la cittadina di Plymouth, portando con sé i semi per coltivare il cibo ma che si rivelarono inadatti alle condizioni climatiche del territorio in cui si erano insediati. Ben presto, i coloni si trovarono a dover affrontare una terribile mancanza di cibo a cui cercarono di sopperire con furti alle scorte di cibo delle tribù locali che certamente non gradivano la cosa. Massasoit, uno dei leader della nazione Wampanoag, cercò di mantenere relazioni pacifiche e decise di aiutare le persone venute da ciò che chiamavano “la grande acqua” per far sì che potessero vivere del loro lavoro e in armonia con le altre popolazioni. Massasoit fece dono ai Padri Pellegrini di semi di zucca, mais e di altri prodotti coltivabili in quel territorio. Fu solo così che i Padri Pellegrini poterono procurarsi il cibo che gli avrebbe fatto superare il secondo inverno. L’aiuto dei Wampanoag fu salvifico e permise di sopravvivere a quanti erano riusciti a superare la precedente stagione fredda. Per tale motivo, il Thanksgiving venne celebrato la prima volta nel 1621 insieme alla tribù Wampanoag, con una tavola colma delle verdure coltivate nell’estate dai Pilgrim Fathers e la carne di cervo portata in dono da coloro che gli avevano insegnato cosa e come coltivare in quella terra.

La celebrazione sarà però unica e mai più si ripeterà poiché col passare del tempo i legami si deteriorarono a tal punto che nel 1636 scoppiò la guerra Pequot (1836-1838). Durante il conflitto, dopo l’uccisione di un uomo che i coloni hanno creduto fosse stato ammazzato dai Wampanoag, per rappresaglia, un villaggio venne distrutto e bruciato e 500 tra uomini, donne e bambini morirono. Sul finire della guerra, William Bradford, governatore di Plymouth, scrisse che per «i successivi 100 anni, ogni Giorno del Ringraziamento ordinato da un governatore era in onore della sanguinosa vittoria, ringraziando Dio che la battaglia era stata vinta».

[di Michele Manfrin]