giovedì 18 Settembre 2025
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Covid: Nessuno studio scientifico ad oggi conosciuto afferma che vaccinare i bambini è sicuro

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Ieri anche l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha concesso il via libera al vaccino anti-Covid prodotto da Pfizer-BionTech anche per i bambini di età compresa tra 5 e 11 anni. Seguendo l’analoga decisione presa dall’agenzia europea (Ema) lo scorso 25 novembre gli esperti italiani hanno valutato che i dati “dimostrano un elevato livello di efficacia e non si evidenziano al momento segnali di allerta in termini di sicurezza”. In un documento rilasciato al momento della richiesta di autorizzazione, il 26 ottobre scorso, la stessa Pfizer aveva avvertito che: “Il numero di partecipanti all’attuale programma di sviluppo clinico [circa 3.000 bambini, ndr] è troppo piccolo per rilevare potenziali rischi di miocardite associata alla vaccinazione. La sicurezza a lungo termine del vaccino COVID-19 nei partecipanti di età compresa tra 5 e 12 anni sarà studiata in 5 studi di sicurezza post-autorizzazione, incluso uno studio di follow-up di 5 anni per valutare le sequele a lungo termine di miocardite/pericardite post-vaccinazione”. Insomma sui rischi correlati se ne saprà di più entro cinque anni, ma l’autorizzazione è stata ad ogni modo concessa con la consueta formula: i benefici superano i rischi.

Il documento Pfizer che spiega che nulla si sa sui rischi di miocardite e possibili effetti a lungo termine del vaccino sui bambini [fonte: https://www.fda.gov/media/153409/download – pagina 11 del testo]
Ma quali sono dunque i rischi connessi al Covid nei bambini di età compresa tra 5 e 12 anni? Nelle ultime settimane il grosso dei media e dei virologi maggiormente presenti nei salotti televisivi hanno spesso sostenuto che anche i bambini possono correre rischi seri con il Covid, lo stesso comunicato Aifa specifica che “sebbene l’infezione da SARS-CoV-2 sia sicuramente più benigna nei bambini, in alcuni casi essa può essere associata a conseguenze gravi”. Numeri forniti? Nessuno. Per trovarli abbiamo fatto una ricerca tra gli studi scientifici attualmente presenti sul tema. Si tratta, bene specificarlo, di studi ancora in fase di pre-print, i cui risultati dovranno essere validati (come quelli di Pfizer, dopotutto). Ma le risposte che forniscono sono piuttosto univoche.

L’ultimo in ordine di tempo è stato pubblicato appena 3 giorni fa. Si intitola “Risk of Hospitalization, severe disease, and mortality due to COVID-19 and PIMS-TS in children with SARS-CoV-2 infection in Germany” ed è stato condotto da un team di ricercatori che hanno analizzato i dati relativi ai bambini contagiati in Germania. Lo studio rivela che “il tasso complessivo di ospedalizzazione […] è stato di 35,9 ogni 10.000, il tasso di ricoveri in terapia intensiva era di 1,7 ogni 10.000 e la mortalità era di 0,09 ogni 10.000 bambini”. Rivela inoltre che “è stato riscontrato che i bambini senza comorbilità hanno una probabilità significativamente inferiore di soffrire di una malattia grave o [di avere un] decorso mortale della malattia”. Concludendo che “il rischio più basso è stato osservato nei bambini di età compresa tra 5 e 11 anni senza comorbidità. In questo gruppo, il tasso di ricovero in terapia intensiva era di 0,2 ogni 10.000″. E quello di mortalità? La ricerca scrive nero su bianco quanto segue: “Non è stato possibile calcolare la mortalità, a causa dell’assenza di casi”.

I dati della ricerca condotta in Germania

Un altro studio in tema era stato pubblicato il 3 ottobre scorso, basato su una mole poderosa di casi. Un team del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), l’agenzia indipendente dell’Unione Europea che si occupa di malattie infettive, ha confrontato oltre 820 mila casi di contagiati sintomatici di età compresa tra 0 e 17 anni per valutarne i tassi di decorsi problematici. I risultati sono stati pubblicati nella ricerca “COVID-19 trends and severity among symptomatic children aged 0 to 17 years in ten EU countries” e raccontano quanto segue: 9.611 (1,2%) sono stati ricoverati, 640 (0,08%) hanno richiesto cure intensive e 84 (lo 0,01% non del totale dei contagiati, ma della minoranza dei sintomatici) sono deceduti. Anche in questo caso è stato sottolineato che l’aumento del rischio è stato riscontrato tra i casi di bambini “con comorbidità come cancro, diabete, malattie cardiache o polmonari”. Per quanto riguarda la mortalità generale del Covid su bambini e ragazzi, ovvero la possibilità di perdere la vita a causa della malattia per i soggetti da 0 a 19 anni di età il dato in Italia – calcolato su fonti Istat –  è il seguente: 0,0003%. Significa 3 casi su un milione. Basandosi su quali dati e quali ragionamenti scientifici uno studio come quello presentato da Pfizer, basato su appena tremila bambini e portato avanti per pochi mesi, può assicurare che i rischi derivanti dai possibili effetti collaterali dei vaccini a breve, medio e lungo termine saranno inferiori? Nessun documento di approvazione risponde a questa domanda.

Insomma, secondo i dati i rischi per i bambini sani appare sostanzialmente nullo. Discorso in parte diverso per quelli che purtroppo soffrono di patologie, sui quali giustamente le autorità scientifico-sanitarie avrebbero potuto fare un ragionamento differente. Tuttavia il vaccino è stato autorizzato per tutti i bambini, indistintamente. Sarebbe stato utile se il documento di approvazione emanato da Aifa avesse chiarito sulla base di quali dati e quali studi è stato calcolato che i benefici superano i rischi. Tuttavia nessuna informazione è stata fornita in tal senso.

Anche all’interno della comunità scientifica i dubbi si sono levati circa l’autorizzazione vaccinale per i più piccoli. Appena una settima fa, ad esempio, la professoressa Maria Rita Gismondo (direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano) ha dichiarato quanto segue: «al momento non ci sono dati sufficienti per poter avvalorare la scelta del vaccino anti-Covid nella fascia d’età 5-11 anni, anche perché non ci sono dati validi sul rapporto rischio-beneficio. Questo lo dico ovviamente per i bambini in buona salute. Discorso diverso per i fragili, perché tutti i fragili, di qualsiasi età, dovrebbero essere vaccinati». Anche il virologo Andrea Crisanti pochi giorni fa ha sollevato dubbi sul vaccino ai bambini. O almeno ci ha provato, dallo studio di La7 lo hanno cortesemente invitato a tacere “almeno in prima serata”.

Alla luce di questi dati, e nonostante il consenso non unanime della comunità scientifica, l’Aifa (seguendo l’Agenzia europea) ha deciso di procedere: dal 16 dicembre circa 4 milioni e 700 mila bambini italiani saranno convocati per ricevere la prima dose Pfizer.

ONU, crisi finanziamenti: niente stipendi per dipendenti progetto Palestina

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L’UNRWA, l’agenzia ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, ha comunicato il mancato pagamento di 28 mila dipendenti per il mese di novembre a causa di una grave crisi dei finanziamenti. Questi sono infatti fermi dal 2013: nel 2021 solo gli USA hanno ripreso le donazioni, dopo l’interruzione voluta da Trump nel 2018. Altri Paesi, come gli Emirati Arabi e il Regno Unito, le hanno drasticamente ridotte o definitivamente sospese. Attualmente l’UNRWA si occupa di 5,7 milioni di rifugiati palestinesi, soprattutto discendenti dei profughi del conflitto del 1948. L’associazione gestisce numerosi servizi di base, soprattutto sanitari, educativi e di cibo, tutti a rischio di essere sospesi.

Uno studio prova che il cibo dei fast food americani è pieno di ftalati, e in Italia?

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McDonald’s, Burger King, Pizza Hut, Domino’s, Taco Bell e Chipotle sono alcune tra le maggiori catene in cui vengono venduti alimenti dov’è stata dimostrata la presenza di ftalati. Questi, anche conosciuti come ortoftalati, sono una famiglia di sostanze chimiche organiche e derivano dal petrolio (motivo per cui l’impatto ambientale è significativo), utilizzati in più settori per migliorare la flessibilità e la modellabili dei materiali. Gli ftalati sono tra gli agenti plastificanti più diffusi e seriamente dannosi per gli esseri umani. I soggetti più a rischio sono i bambini, i quali possono avere serie conseguenze anche con dosi minime, e le donne incinte. Oltre a comportarsi come interferenti endocrini (e quindi causare disturbi al sistema riproduttivo) tali sostanze in circolo nel sangue aumentano il rischio di diabete di tipo 2 ed è stato riscontrato come stimolino la comparsa di disturbi di tipo mentale e comportamentale (iperattività, ansia, depressione) ma anche problemi motori.

In Europa vige un regolamento sull’uso di ftalati e simili negli alimenti e nei prodotti in generale, vista la loro pericolosità. In Italia, sull’onda delle restrizioni europee, è stata posta particolare attenzione – specialmente per la tutela dei bambini – tanto che non è consentita la messa in commercio di prodotti che abbiano una concentrazione di ftalati superiore allo 0,1 percento. La presenza di sostanze come gli ftalati nei cibi è un tema trattato da anni e gli studi sono stati perlopiù relativi ai prodotti utilizzati per il confezionamento (quindi nella plastica destinata a venire a contatto con alimenti). Solo nel 2018 una ricerca della George Washington University pubblicata sulla rivista Environment International aveva approfondito l’argomento esaminando le urine, dimostrando l’effettiva presenza di sostanze dannose per i soggetti che, nelle ultime 24 ore, avevano fatto tappa nei fast food. Il recente studio condotto in Texas è invece il primo a quantificare le concentrazioni di ortoftalati e plastificanti sostitutivi all’interno degli alimenti delle sopracitate catene di fast food. Attraverso l’analisi di sessantaquattro campioni di cibo (hamburger, patatine fritte, bocconcini di pollo, burrito di pollo, pizza al formaggio) e di tre paia di guanti utilizzanti nei ristoranti (perché possono essere responsabili della contaminazione), sono state trovate elevate concentrazioni di plastificanti sostitutivi e di DEHT (Diottiltereftalato).

Si tratta di risultati preliminari ma comunque allarmanti, condotti specificatamente negli Stati Uniti dove vigono regole diverse rispetto all’Italia (che manca, per il momento, di un simile studio) sulla sicurezza alimentare. Non che sia una novità quanto consumare il cibo dei fast food possa essere poco alleato della salute, ma ora è dimostrata una preoccupante abbondanza di plastificanti sostitutivi nei pasti consumati nelle svariate sedi delle grandi catene statunitensi. Migliaia di consumatori al giorno, assumono – senza esserne a conoscenza – sostanze tossiche per il loro organismo. Un gruppo  di scienziati e professionisti della salute (progetto TENDR, Targeting Environmental Neurodevelopmental Risks) ha sottolineato – con le dovute prove e dimostrazioni – come l’esposizione agli ftalati porti realmente ai rischi inizialmente indicati, raccomandando quindi l’eliminazione degli ftalati dai prodotti in generale e consigliando di porre urgentemente attenzione al cibo ingerito dai soggetti più vulnerabili.

[di Francesca Naima]

Italia: via libera dell’Aifa al vaccino anti-Covid per bambini da 5 a 11 anni

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Come previsto il comitato tecnico scientifico dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha dato il via libera al vaccino anti-Covid prodotto da Pfizer-BionTech anche per i bambini di età compresa tra 5 e 11 anni. La decisione segue il parere favorevole espresso il 25 novembre scorso dall’Ema, l’agenzia europea del farmaco. Secondo quanto dichiarato dal sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, la somministrazione dei vaccini ai bambini italiani potrebbe iniziare prima di Natale.

Livorno, l’incendio nella raffineria Eni è solo la punta dell’iceberg

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Ieri, poco dopo le 14, è divampato un incendio nella raffineria Eni di Stagno, tra i comuni di Livorno e Collesalvetti. Una colonna di fumo nero si è levata poco dopo un’esplosione, le cui cause sono in via di accertamento. Non si registrano feriti e l’allarme che invitava a “non uscire di casa” è rientrato. Nel giro di un paio d’ore, infatti, le fiamme sono state domate e – come ha rassicurato la Protezione Civile di Livorno – «la situazione è tornata alla normalità». Se si può definire tale. L’incendio avvenuto nell’impianto “forno hot oil” in manutenzione, difatti, è solo la punta dell’iceberg, l’epilogo nefasto di una gestione negligente del territorio. Quest’ultima non ne è la causa, ma fa da sfondo ad un quadro critico in cui la salute pubblica è all’ultimo posto. Le fiamme sono state sì domate, ma quel che hanno liberato avrà delle conseguenze, esattamente come l’inquinamento cronico dell’intero settore in cui ricade la raffineria del Cane a sei zampe.

L’area in questione non è una zona industriale qualunque: inclusa nei Siti di Interesse Nazionale (SIN), fa infatti parte delle 42 aree più inquinate d’Italia. In questo caso specifico, a causa della concomitante attività di più industrie, sia nelle acque che nel suolo, le concentrazioni di idrocarburi quali il benzene, cancerogeno certo per l’uomo, sono oltre ogni limite di legge. Lo aveva già denunciato, non molto tempo fa, l’unità investigativa di Greenpeace dopo aver visionato diversi documenti relativi al sito. Da questi sono emersi picchi di 2.350 microgrammi/litro (μg/l) di benzene nelle acque sotterranee, quando il limite di legge è di 1 μg/l. Mentre le ultime analisi del 2019 hanno segnalato superamenti fino a 162 μg/l. Ma che l’area fosse particolarmente inquinata non è affatto cosa nuova. Nel 2003, l’allora Ministero dell’Ambiente ne aveva evidenziato il perimetro al cui interno, oltre alla raffineria Eni, sono tutt’ora comprese anche la centrale termoelettrica Enel, lo Stabilimento di produzione lubrificanti e le aree dismesse denominate ex Italoil, ex Deposito Interno AgipPetroli e Stabilimento GPL. E chi più ne ha più ne metta. Decenni delle più disparate attività industriali concentrate in un singolo sito avrebbero mai potuto avere impatti trascurabili? Questa è forse la domanda che bisognava porsi a monte. Ma ora, alla luce dell’errore commesso, è necessario chiedersi: perché non si sta rimediando?

La zona industriale Livorno-Collesalvetti, tra le più critiche in Europa, attende una bonifica da anni. L’iter è partito nel 2003, quasi 20 anni fa, ma nulla di concreto è stato fatto. La multinazionale petrolifera – la cui pertinenza sul sito è pari al 95% – continua a tamponare l’inquinamento con misure di contenimento previste dalla legge ma tutt’altro che risolutive. E anziché individuare le cause effettive della contaminazione diffusa e avviare una bonifica degna di questo nome, la Regione ha perfino approvato un accordo che autorizza un nuovo impianto potenzialmente in grado di compromettere ulteriormente l’area. Eni e Regione Toscana, nel 2019, hanno infatti siglato un accordo per la realizzazione di un nuovo impianto destinato a bruciare ogni anno fino a 200 mila tonnellate di plastica non riciclabile e combustibile solido secondario. Nel mentre, da almeno due decenni, lo studio Sentieri del Ministero della Salute evidenzia come a Livorno si registrino «eccessi della mortalità per tutti i tumori in entrambi i generi». Se attorno alla raffineria Eni si facesse lo stesso studio realizzato per i quartieri accanto all’Ilva – ha infatti ribadito la Onlus Medicina Democratica – «si potrebbero scoprire delle problematiche che farebbero diventare Livorno la nuova Taranto». L’importante però è che l’incendio sia stato spento. Quel che ha liberato, in fondo, è solo una goccia in un vaso già fin troppo colmo. La normalità è stata ripristinata: d’altronde, pecunia non olet.

[di Simone Valeri]

 

 

Russia vs Ucraina: cosa sta accadendo e qual è la posta in gioco

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Le tensioni tra Russia e Ucraina sono spesso al centro dell'interesse dei media in queste settimane. Le ultime notizie parlano del dispiegamento di truppe moscovite verso il confine, mentre da Mosca viene denunciati analoghi movimenti da parte delle forze di Kiev. Sui media già si parla di venti di guerra, in una narrazione che mai unisce i punti e spesso tende a prendere in considerazione solo quanto fatto trapelare dalle fonti atlantiche, con il risultato di diffondere tra l'opinione pubblica l'idea che sia il presidente russo Vladimir Putin a cercare con insistenza lo scontro. Ma le cose, i...

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Il governo verso una nuova proroga dello stato di emergenza: a quale scopo?

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In Italia il 31 dicembre scadrà lo stato di emergenza, tuttavia l’ipotesi che esso venga prolungato ulteriormente è davvero concreta dato che nell’ultimo periodo più volte dal governo sono arrivati segnali di apertura in tal senso: la ministra per gli Affari regionali Mariastella Gelmini ad esempio ha parlato di «proroga probabile» mentre il ministro della Salute Roberto Speranza ha affermato che tale soluzione potrebbe essere rinnovata «senza timore» se dovesse esserci la necessità. Dunque, dato che le istituzioni sembrano intenzionate a procedere in tal modo, è d’obbligo cercare di capire quali siano le conseguenze dello stato di emergenza, in che modo quest’ultimo abbia condizionato la vita dei cittadini fino ad oggi, quali siano i rischi legati alla sua proroga e come essa possa essere messa in pratica.

Dunque, partendo da quest’ultimo punto bisogna innanzitutto ricordare che lo stato di emergenza non è previsto dalla Costituzione: esso infatti si basa sulla legge n. 225 del 24 febbraio 1992, ulteriormente dettagliata dal Codice della Protezione civile del 2018. Tale Codice però prevede che la sua durata «non può superare i 12 mesi, ed è prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi». In teoria dunque, essendo lo stato di emergenza iniziato il 31 gennaio 2020, esso potrebbe essere prorogato ancora di un mese, tuttavia in realtà le cose sono leggermente più complicate. Il primo stato d’emergenza è stato infatti deliberato per 6 mesi e non per un anno, ed è stato prorogato una prima volta fino al 31 gennaio del 2021 ed una seconda volta fino al 31 luglio del 2021. Sono quindi stati utilizzati tutti i 12 mesi previsti dalla norma e di conseguenza il governo per prolungarlo dovrà intervenire con una norma primaria, come ad esempio un decreto ad hoc, non potendo più prorogare lo stato di emergenza originario. Non a caso ciò è già stato fatto con l’ultima estensione al 31 dicembre, con il governo che si è rifatto ad un decreto legge successivamente convertito in legge.

Detto questo, per quanto riguarda ciò che lo stato di emergenza comporta, bisogna sapere che con esso la Protezione civile viene autorizzata ad emanare ordinanze «in deroga ad ogni disposizione vigente» ma nel rispetto dei «principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Unione europea»: in tal modo vengono infatti assicurati gli interventi eccezionali che lo stato di emergenza richiede. Per questo, dunque, sono state emanate più di 80 ordinanze della Protezione civile in questi 2 anni, tramite le quali sono state prese misure necessarie durante la pandemia come ad esempio l’istituzione del Comitato tecnico scientifico (Cts) o l’acquisito di ventilatori e mascherine.

A dirla tutta, però, molte misure anti Covid stabilite in Italia non sono state imposte dalle ordinanze della Protezione civile ma da decreti legge che citano lo stato di emergenza come loro presupposto nonostante in base alla legge esso non sembri essere indispensabile. La possibilità di limitare alcuni diritti fondamentali è infatti prevista dalla stessa Costituzione: ad esempio, la libertà di circolazione e soggiorno può essere limitata per «motivi di sanità o sicurezza» così come l’obbligo vaccinale può essere imposto ma ad una determinata condizione: la disposizione di legge. In pratica spesso per introdurre misure restrittive, come quelle appena citate, lo Stato deve approvare una legge o appunto un decreto legge.

Tuttavia siccome – come detto – alcuni dei decreti in questione citano lo stato di emergenza come loro presupposto, la sua fine determinerebbe non solo il venir meno degli ampi poteri della Protezione civile ma potrebbe mettere in discussione questi ultimi. In tal senso seppur si tratti di un rischio contenuto, dato che è la stessa Costituzione a prevedere la possibilità di comprimere alcuni diritti fondamentali, esso rappresenta comunque una minaccia per la sopravvivenza della normativa emergenziale. Se a ciò si aggiunge poi che non prolungando lo stato di emergenza la Protezione civile non potrebbe emanare ordinanze in deroga ad ogni disposizione vigente, si può arrivare a comprendere quale sia, probabilmente, il motivo alla base dalla volontà di proseguire con esso.

[di Raffaele De Luca]

Cannibali o solidali: i giornalisti italiani di fronte ad una scelta epocale

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I nodi vengono sempre al pettine, almeno se uno si pettina. E i giornalisti italiani, oggi, sono costretti a cominciare a pettinarsi. I dati che estrapoliamo da Ads, l’istituto che da 40 anni, certifica le tirature e le vendite dei giornali italiani mostrano uno spaccato spietato. Negli ultimi vent’anni il gruppo di quotidiani nazionali maggiori è passato da oltre 3 milioni e mezzo di copie vendute a poco più di 850 mila. Un tracollo vertiginoso. È vero che la pandemia ha gettato benzina sul fuoco, ma è anche vero che il trend era lì da decenni. Sono calate vertiginosamente le vendite, è calata la pubblicità, è calata la qualità del lavoro. Ma le crisi vengono da lontano.

Al principio fu la televisione. Poi le ondate della rete e i suoi passaggi “epocali”. Il modello delle reti “all-news” della CNN, ad esempio, nasce con la crisi del Golfo del 1991 e inventa il giornalista-presentatore televisivo. Gli attentati terroristici del 2005 a Londra furono l’inizio del “citizen journalism” fatto di contenuti e immagini pubblicate da utenti generici forniti di un banale smartphone. La “rivoluzione verde” in Iran del 2009 dove nacquero i “video amatoriali” veicolati attraverso i social e capaci di aggirare le censure. Il terremoto ad Haiti nel 2010 è stato il primo “Twitter event”, la Primavera araba che ha affermato Facebook e le elezioni USA del 2016 le “fake news” e la manipolazione degli algoritmi sulle grandi piattaforme. Un cittadino qualsiasi o un informatico, un matematico, un hacker possono impacchettare foto, video, testi, dati e farne notizie pubblicandole dal telefonino. Un influencer può valere – anche finanziariamente – mille volte un “vecchio” opinionista. In poco più di vent’anni un giornalista ha visto stravolgere completamente i propri schemi di lavoro. Penna e carta, alfabetizzazione e sillabazione, orpelli ottocenteschi in un contesto che ritorna alla trasmissione del sapere (video) orale, ma grandemente archiviabile e continuamente fruibile.

Ora il coronavirus, e il racconto derivato da numeri mai univoci, sta riaffermando l’esigenza di poter disporre e raccontare dati e storie più oggettive e attendibili. Ma è roba più da statistici, fisici e informatici che da giornalisti. Durante la pandemia i numeri l’hanno fatta da padrone e in tutti questi “salti” di esigenze professionali si è preteso che il giornalista rimodellasse continuamente il modo di fare quel vecchio mestiere di andare a caccia di notizie e scriverle. Si sono pretese qualità professionali, specializzazioni, per un tipo di lavoro sempre al passo con i mezzi sui quali quel lavoro veniva pubblicato e si è finito per dequalificare chi, di questa professione, la sostanza l’aveva capita. Così, con giornalisti sempre più deboli e alla mercé di chiunque – come rivelano i dati dell’osservatorio Ossigeno per l’Informazione – sono aumentate anche le intimidazioni e le minacce e sono aumentate le defezioni, le auto-censure, le paure e le convenienze spurie.

Ma quanta gente, realmente, oggi svolge la professione? Secondo il Centro di Documentazione Giornalistica all’Ordine risultano iscritti 109.567, tra professionisti e pubblicisti. L’Ordine nazionale dichiara 30mila iscritti con la qualifica di giornalisti professionisti (coloro i quali esercitano l’attività giornalistica come principale attività professionale) e circa 75mila pubblicisti (collaboratori di giornali e testate on line che curano anche altre attività). Le cifre combaciano. L’Osservatorio sul giornalismo registra 60 mila giornalisti attivi (gli altri non esercitano più la professione o hanno raggiunto la pensione). Un record mondiale: sono cinque volte la quota degli Stati Uniti. All’Inpgi, invece, l’Istituto di previdenza gli iscritti – è obbligatorio farlo per chi svolge la professione in esclusiva – sono poco più della metà, 59.017. Ma le cose stanno rapidamente cambiando: lo dimostra il rapporto tra under 30 e over 50 passato da uno a uno nel 2000 ad uno a quattro nel 2015. Un ritmo di invecchiamento due volte superiore a quello della popolazione italiana. Un vero e proprio trend da estinzione. Più crisi di così non si può. Più debolezza di così non è ammissibile. Viene da chiedersi se il fenomeno non sia da leggere all’inverso: ovvero si misura un crollo continuo di lettori in conseguenza ad una crisi strutturale della professione giornalistica e quindi della qualità dell’informazione.

Il gioco di specchi è pericoloso perché, apparentemente, sembrerebbe che il cannibalismo tra i mezzi di comunicazione produca molto più lavoro. Se calano i giornali su carta aumentano quelli digitali. Si afflosciano le televisioni generaliste, ma crescono quelle a pagamento. La perdita di carta stampata è compensata dal digitale. In realtà le regole non sono uguali per tutti e i rapporti di lavoro stabili – a tempo determinato e indeterminato – nel 2012 erano 17.860 mentre a fine 2017 erano poco più di 15.000. Non c’è nessun travaso. La situazione è nuova e va affrontata con regole e visioni nuove. Non solo, ma diminuiscono le posizioni stabili di lavoro mentre aumenta il precariato o la cosiddetta professione autonoma, che per un giornalista significa scarsa forza contrattuale, isolamento e rischio di non poter sostenere pressioni indebite o minacce. Altrettanto evidente è che gli autonomi si ritrovano sia in competizione tra loro – cannibalizzandosi a vicenda – sia con chi ha un contratto stabile e lavora in redazioni strutturate. Anzi, questi ultimi, spesso sono indotti a “usare” il lavoro dei colleghi per poter sopperire alle destrutturazioni delle stesse redazioni. In questo stato di cose non è neppure immaginabile una tenuta seria della professione mentre aumenta il rischio di querele, anche sempre più temerarie.

Il 10 settembre scorso, sul Corriere del Veneto, è apparso un comunicato dell’assemblea dei giornalisti che contestava la mancanza di assistenza dell’ufficio legale del giornale per una richiesta danni da parte di una donna fotografata per strada e pubblicata per raccontare le restrizioni della zona rossa. “L’ufficio legale dell’azienda ne contesta in prima battuta la pretestuosità, ma si affretta a scaricare, in subordine, la responsabilità e l’eventuale pagamento dei danni sul fotografo. Quindi ci risiamo. Prima i tagli, poi gli accorpamenti, ora i contratti dei fotografi e, per analogia, dei collaboratori che scaricano sui singoli colleghi le eventuali conseguenze economiche delle cause civili e le richieste di risarcimento danni da parte di terzi. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un progressivo prosciugamento dei dorsi locali e oggi a un grave strappo a quella fiducia che permette a giornalisti e fotografi di lavorare serenamente.” Risultati? Precariato, autocensura, perdita di status professionale, sfiducia tra editori e giornalisti e fuga dei giovani. Giornali, telegiornali, radiogiornali, infoweb in crollo di qualità e credibilità.

Per tirare le fila di questi brevi tratti su un giornalismo italiano “a pezzi” si può ricorrere all’ultimo report, 2021, del Centre for Media Pluralism and Media Freedom di Firenze, secondo il quale la situazione dell’informazione nazionale è preoccupante. “Il pluralismo dei media in Italia – si legge nel report di CMPF – è a medio rischio in tutte le aree della valutazione”. I rischi più rilevanti sono dovuti alla sostenibilità economica dei mezzi di informazione, alle condizioni di lavoro dei freelance e al divario di alfabetizzazione digitale dei media. E il Covid non ha fatto altro che “accelerare queste tendenze preesistenti” spostando la situazione sempre più verso la soglia di alto rischio. Insomma siamo in una lunga traversata nella desertificazione dell’informazione in Italia. Il giornalista “classico” è sul viale del tramonto. Tutti gli altri, prima o poi, cambiano o ibridano il mestiere.

[di Antonio Gesualdi]

 

Usa: giudice blocca obbligo vaccinale per operatori sanitari

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L’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari degli Stati Uniti è stato bloccato dal giudice federale del distretto occidentale della Louisiana, Terry Doughty. Quest’ultimo, infatti, ha praticamente fermato la decisione presa dal presidente Joe Biden, in base alla quale tale obbligo sarebbe dovuto entrare in vigore la prossima settimana. Quanto stabilito dal giudice inoltre espande l’ordine emanato lunedì da una corte federale del Missouri, che aveva bloccato questa misura solo in 10 stati.

Il ruolo della tecnologia nella transizione ecologica (risorsa o problema?)

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Ormai sono passati mesi da che si è iniziato a parlare delle molteplici possibilità garantite all’Italia dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Dalle prime bozze alla situazione attuale, Governo e giornali non hanno mai mancato di reclamizzarne le evoluzioni strategiche delle tanto attese riforme, evoluzioni che però non hanno mai stravolto lo spirito di base del progetto, con l’establishment italiano che ha garantito a più riprese che buona parte dei finanziamenti verranno incanalati nella digitalizzazione e nella transizione ecologica.

Complessivamente questi propositi sono abbracciati con enfasi ed entusiasmo, tuttavia una fascia minoritaria di soggetti solleva delle perplessità, chiedendosi se tali promesse possano o meno essere accompagnate da una sincera buona fede. Uno dei quesiti rimasti aperti è se la corsa allo sviluppo informatico sia compatibile con un futuro ambientalmente sano o se la propaganda inscenata sia solamente l’ennesima iterazione di “greenwashing” a cui il mondo della finanza ci sta sottoponendo. Un’incognita legittima, ma a cui è molto difficile, se non impossibile, fornire una risposta puntuale.

Perché la digitalizzazione dovrebbe fare danni?

Nel gennaio del 2021 è esplosa la mania dei non-fungible token (NFT), criptovalute collezionabili che sono state al centro di un moto speculativo di tale vigore da far notizia in tutto il mondo. Mentre i più si chiedevano cosa potesse giustificare un simile successo, una piccola fetta di autori e critici condivideva perplessità sulla sostenibilità ambientale di un simile Mercato. Basandosi perlopiù sul blockchain, il commercio degli NFT fa infatti affidamento su di una gestione decentralizzata che è notoriamente energivora, dettaglio che certamente getta delle ombre sul fatto che un simile consumo di risorse possa essere eticamente giustificabile, nel grande schema delle cose. D’altro canto, è facile obiettare che la transizione digitale di un’opera artistica sia comunque infinitamente meno dispendiosa delle dinamiche commerciali che affliggono un corrispettivo fisico, se si prendono in considerazione gli impatti della produzione e del trasporto.

I NFT possono essere opere d’arte, figurine digitali, illustrazioni e molto altro.

I dubbi etici sviluppatosi attorno agli NFT ci offrono uno spaccato su un dilemma che può essere esteso a ogni singolo ramo della sfera tecnologica. Prendiamo un esempio vicino all’esperienza di tutti: le e-mail. Inviare una e-mail danneggia l’ambiente molto meno di quanto non farebbe l’invio di una missiva cartacea e immette nell’ambiente solamente 4 grammi di CO2 equivalente (CO2e), ovvero poco meno del 2% della sua omologa materiale. Su un piano puramente teorico, la convenienza è evidente, tuttavia basta allegare un file o un’immagine ed ecco che il vantaggio si ridimensiona immediatamente. A questo va quindi sommato il fatto che l’immediatezza e la gratuità della posta digitale ci spinge ad abusare del mezzo inviando contenuti che altrimenti ometteremmo, fomentando un giro di consumo che si ingigantisce ogni anno che passa. Per avere un metro di paragone, si consideri che tra spam, pubblicità, newsletter e comunicazioni varie, un normale impiegato riceve ogni giorno mediamente 121 e-mail e la tendenza è in costante crescita.

Il The Shift Project francese ha stimato nel 2019 che internet e i sistemi a esso associati siano responsabili del 3,7% delle emissioni di gas serra globali e che spurghino nell’aria più o meno il quantitativo di CO2 generato dall’intero settore aeronautico. Detto questo, la stessa think tank ha anche stimato che le cifre stiano lievitando vertiginosamente e che nel 2025 la quantità di carbonio generata dalla filiera internettiana sarà più che raddoppiata, parzialmente anche per colpa dell’immenso traffico derivante dalla consultazione dei video. Per la cronaca, la sola pornografia occupa il 16% dell’intero flusso dati con un totale di emissioni annuo che è comparabile a quello del Belgio.

Tuttavia i calcoli sono inconsistenti

A questo punto, il fulcro della questione è determinare se le emissioni causate dal digitale siano inferiori, uguali o addirittura maggiori di quelle che si genererebbero con un consumo di altra natura. Sfortunatamente, per sua stessa natura, il calcolo non potrà mai essere univoco e costante. A complicare questo genere di riflessioni giunge infatti una diffusa inabilità nel trovare un metro comune con cui definire gli estremi da prendere in considerazione.

Calcolare quante emissioni siano generate dalla stampa di un libro è relativamente semplice, ma come bisogna comportarsi con un e-book? Si calcola solamente il dispendio energetico del file o si prendono in considerazione anche i costi ambientali della produzione del tablet su cui lo si leggerà? Sembra una banalità, tuttavia proprio su questo genere di banalità si poggia un’intera galassia di scontri accademici e aziendali, una galassia in cui i ricercatori fanno metaforicamente a botte per imporre il proprio punto di vista.

C’è dunque la questione di quanto un inquinamento iniziale possa essere giustificato da un eventuale risparmio futuro. Spesso non si tratta di cose da poco: l’addestramento del generatore di testi GPT-3 di OpenAI, azienda fondata da Elon Musk, ha causato una mole di emissioni comparabile a quella che potrebbe essere generata da un ipotetico viaggio automobilistico dalla Terra alla Luna, andata e ritorno, mentre Emma Strubell arriva a stimare che i meccanismi di machine learning possano immettere nell’ambiente quantità di carbonio comparabile a quella generata da cinque autovetture durante il loro intero ciclo vita.

Il digitale “buono”

L’assegnazione dei Premi Nobel ha preso piede perché Alfred Nobel, inventore della dinamite, non voleva che la storia lo ricordasse per aver creato «esplosivi militari» adoperati per causare morte e dolore. Per mondare il suo retaggio, l’uomo si è assicurato di imporre nelle sue ultime volontà che il 94% dei beni da lui accumulati venissero usati per premiare i traguardi intellettuali e accademici dell’umanità. Eppure, a ben vendere, la dinamite non si sarebbe meritata una pubblicità tanto opprimente, di per sé è pura tecnica. Nobel l’aveva progettata perché semplificasse la vita agli scavatori, ogni eventuale abuso è figlio di un “fraintendimento” della sua funzione originaria.

Anche la digitalizzazione è, in senso assoluto, priva di un valore morale intrinseco: non è né buona, né cattiva. Immettere nell’atmosfera una quantità di emissioni comparabile a una piccola flotta automobilistica potrebbe anche essere conveniente, se quello che ne viene fuori è in grado di garantire un risultato che vada a compensare e valorizzare quel primissimo sacrificio. Le intelligenze artificiali, per esempio, hanno già permesso al Regno Unito di notare gli scarichi abusivi di alcune aziende poco rette e le potenzialità di questo genere di strumento sono pressoché illimitate: monitoraggio del clima e dell’ambiente, minimizzazione degli sprechi, ottimizzazione della gestione di traffico ed energia, perfezionamento della filiera alimentare. Non si tratta quindi di definire se la digitalizzazione possa o meno assisterci in maniera ecosostenibile, quanto il decifrare se l’approccio tech del prossimo futuro possa essere adeguato allo stile di vita sostenibile che rincorriamo. Le prospettive non sembrano rosee.

Il “come” fa la differenza

Le macchine possono sicuramente ottimizzare quei processi utili ad attenuare le criticità del nostro stile di vita, tuttavia molte di queste criticità sono state fomentate più dall’ignavia che dall’incapacità di percepirne l’importanza. Non si può certo dire che l’emergenza climatica che sta preoccupando i Governi di tutto il mondo si sia abbattuta su di noi in maniera imprevista e ineluttabile; quelle stesse istituzioni che ora corrono ai ripari hanno lamentato per svariati decenni la necessità di imporre politiche ecologiche più sostenibili, ma per decenni si sono anche assicurate di non fare nulla di significativo, stretti in uno stallo alla messicana condizionato da fobie di natura finanziaria. Il problema non è certamente l’assenza di consapevolezza, quanto l’assenza della volontà di attuare dei cambiamenti.

Il riflesso di questa tendenza passiva viene percepito ancora oggi, con il risultato che quando si discute dei grandi investimenti sulle IA si finisce con il far riferimento al mondo militare, alla finanza e agli interessi commerciali delle Big Tech. Tutto il resto sembra posto a margine di interessi che valicano l’urgenza formalmente denunciata. Nell’implausibile caso si riesca a sovvertire le aspettative e si ribaltassero le priorità in campo, rimane comunque il fatto che la tecnologia non rappresenti una soluzione magicamente capace di risolvere ogni male. Lo abbiamo visto con Immuni, app di tracciamento pandemico nata con i migliori auspici che si è immediatamente scontrata con un coordinamento zoppicante e con una scarsezza di risorse umane. Un panorama omologo lo si potrebbe immaginare in relazione al mercato del lavoro, all’amministrazione pubblica o anche alla sanità: che si usi pure un software per ottimizzare la dimensione gestionale delle realtà manageriali, ma non sarà un programma a risolvere le insidie della gig economy, dell’incomunicabilità tra regioni o della gestione poco attenta del Nomenclatore Tariffario.

Guidare il futuro e l’approccio alla rete

Perché la digitalizzazione possa servire a migliorare le nostre condizioni di vita e rispettare l’ambiente è necessario che si stabilisca una strategia equilibrata, ovvero che non si indulga in capricci barocchi e distruttivi per il puro fine dell’autoappagamento. Si sta dunque facendo strada il concetto di “parsimonia digitale”, ovvero di una dimensione auspicabile in cui il consumo sia globalmente sottoposto a un’analisi critica e consapevole dei mezzi che abbiamo a disposizione. Ora come ora, inutile negarlo, siamo molto lontani da un simile traguardo. Un esempio: un SMS genera 0,014g di CO2e mentre un messaggio puramente testuale inviato tramite WhatsApp inquina più di 200 volte tanto, eppure per comodità, immediatezza e dinamica sociale finiamo ugualmente con il favorire le app di messaggistica ad alternative meno deleterie. Di sprechi simili è costellato l’intero settore tech, settore che, avendo perlopiù mire imprenditoriali, fa il possibile per convincere le persone che il consumo bulimico di un prodotto sia propedeutico al loro stesso benessere.

Se vogliamo che il PNRR faccia effettivamente la differenza, bisogna esigere che i miglioramenti ventilati dal Governo italiano non si affidino esclusivamente a un pensiero magico che assume fattezze digitali, ma che i cambiamenti siano proposti in chiave più strutturata e radicale. Non basta finanziare e liberalizzare la ricerca tech, si deve formalmente prendere atto del fatto che gli equilibri di potere del mondo globalizzato sono ormai variati, così come sono variati anche i mezzi a disposizione della popolazione e le disparità tra ceti e nazioni. Una digitalizzazione priva di guida finirà solamente con l’enfatizzare le ingiustizie correnti, favorendo i Paesi ricchi a discapito di quelli che, pur non godendosi i vantaggi delle intelligenze artificiali, dovranno comunque subire le conseguenze ambientali legate alle crescenti emissioni. Qualcosa in tal merito si sta facendo attraverso il Digital Markets Act e il Digital Service Act, cornici normative con cui l’UE vorrebbe regolamentare il “far west” della Rete e che irritano terribilmente gli Stati Uniti, i quali ospitano buona parte delle Big Tech che verrebbero colpite. A questo punto non resta che capire se l’Europa sia pronta a imporsi o se finirà ad assecondare le impostazioni di matrice americana.

[di Walter Ferri]