martedì 11 Novembre 2025
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Incendio in Francia: un morto e 25 case bruciate

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Nell’area sud-occidentale della Francia, nel dipartimento dell’Aude, in Occitania, è scoppiato un vasto incendio che ha provocato la morte di una donna, e il ferimento di altre nove persone. La vittima è stata registrata a Saint-Laurent-de-la-Cabrerisse, dove risulta anche un disperso. L’area interessata dall’incendio, descritto come il peggiore da inizio, è di circa 110 chilometri quadrati tra le località di Narbona e Carcassonne. Da quanto si apprende, le fiamme avrebbero raggiunto decine di abitazioni, distruggendo almeno 25 case e lasciando circa 2.500 famiglie senza elettricità. Per contenere l’incendio sono stati dispiegati 2.000 vigili del fuoco e sono state chiuse due strade.

Cornflakes e cereali sono realmente cibi sani? Le cose da sapere

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Ma i cereali da colazione sono salutari? La maggior parte degli italiani risponderebbe senza indugio di si. Infatti nel nostro Paese la colazione a base di cereali è considerata da molti anni un pasto sano, nutriente ed equilibrato per l’inizio della giornata. Non sempre però ciò che è popolare e che è ritenuto un’abitudine alimentare positiva corrisponde effettivamente a dei cibi sani e nutrienti, se analizziamo le cose da un punto di vista strettamente nutrizionale, scevro da interessi commerciali che ne hanno decretato appunto il successo di pubblico. 

E se parliamo di cereali per la colazione, questi come è noto sono arrivati in Italia e in Europa direttamente dall’America, dove è nato e cresciuto il culto di questo alimento per iniziare la giornata. Negli USA sono stati inventati, nel 1894 dai fratelli Kellogg, e poi ebbero uno straordinario successo commerciale in America del Nord e Europa, accompagnati da un marketing che li ha sempre dipinti come alimento sano, nutriente e ricco di energia per cominciare la giornata. Ma oggi è proprio dagli USA che paradossalmente è partita la “riforma” contro i cereali per la colazione e in particolare dei cornflakes e dei prodotti a base di crusca, al fine di aiutare i consumatori a identificare gli alimenti particolarmente utili come base di una dieta coerente con le raccomandazioni nutrizionali. Infatti di recente (già dal 2023 a dire il vero, ma in Italia nessuno ne ha parlato) la FDA (Food and Drug Administration, l’ente americano per la sicurezza alimentare e farmaceutica) ha cambiato e aggiornato le proprie regole sulle etichette alimentari dei prodotti, in particolare per quanto riguarda l’aggettivo «healthy», cioè salutare, che viene usato sia sulle confezioni che negli spot pubblicitari delle aziende. Tale aggettivo adesso può essere usato solo quando l’alimento rispetti determinati requisiti, molto specifici, che nel caso dei cereali per la colazione devono essere i seguenti: contenere almeno per i ¾ del prodotto dei cereali integrali, avere al massimo 1 grammo di grassi saturi (per porzione), contenere al massimo 230 milligrammi di sale, e avere al massimo 2,5 grammi di zuccheri aggiunti per porzione (cioè mezzo cucchiaino di zucchero, per capirci). Se questi valori sono superati, non si potrà in alcun modo etichettare il prodotto come healthy, cioè sano, salutare. 

Si tratta di una vera e propria rivoluzione, almeno per gli americani, che sono abituati a cereali per la colazione contenenti molto più zucchero di quanto adesso fissato dalla FDA, al punto che tale norma ha di fatto escluso il 95% dei prodotti per la colazione del mercato americano USA dalla categoria di cibi sani. E infatti le aziende americane famose per la produzione di questi alimenti, come Kellogg’s, General Mills e Nestlè, non l’hanno presa affatto bene e si sono appellate ai loro avvocati e studi legali per cercare di contrastare ed eliminare queste nuove regole del governo americano (la FDA è un ente governativo), iniziando subito una vera e propria battaglia per poter continuare a definire «sani» i loro prodotti. Al momento però la battaglia pare che l’abbiano persa, salvo ripensamenti e novità del futuro, e gran parte dei cereali non sono più etichettati come salutari negli USA. Ma hanno comunque ottenuto di posticipare di 2 anni l’entrata in vigore delle nuove regole, al 2025 appunto. A rientrare nella categoria “healthy” rimangono i veri cereali da colazione, cioè i fiocchi di avena o di farro o di altro cereale, che però non hanno nessuna aggiunta di zuccheri, aromi o coloranti tra gli ingredienti, e qualche altro prodotto come i muesli con pochissimi zuccheri aggiunti o con l’uvetta. Tutti i prodotti più popolari e famosi usati dai consumatori americani – e anche europei e italiani – sono stati esclusi dalla categoria di cibi sani, e neppure quelli definiti Special K o ricchi di fibre hanno superato la soglia di sbarramento stabilita dal comitato di esperti governativi americani. Nella immagine che segue potete vedere raffigurati i 7 cereali da colazione più popolari negli USA, esclusi tutti dalla categoria di cereali sani.

Dunque i responsabili della salute pubblica americana hanno stabilito che gran parte dei cereali per la colazione presenti in commercio non sono un alimento sano, né per gli adulti né tantomeno per i bambini, proprio a causa dell’eccessivo contenuto di zuccheri in primis, e di farine bianche (raffinate) anziché cereali integrali, e per l’aggiunta di sale e grassi oltre i limiti. E in Italia com’è la situazione? Davvero possiamo continuare a pensare ingenuamente che i cereali più comuni offerti ai nostri bambini per colazione siano dei cibi sani? 

Italia: è sano ciò che negli USA è considerato nocivo

Sembra un paradosso, ma è la realtà. Di solito succede il contrario, nel nostro Paese abbiamo delle varianti più sane di cibi americani nocivi, ma per quanto riguarda i cereali da colazione in commercio, molte marche hanno caratteristiche e valori nutrizionali che non rispecchiano i requisiti di cereale salutare ora imposte negli USA da qualche anno. Una vera e propria beffa. Di cui però nessuno parla, credo che i primi a parlarne siamo proprio noi de L’Indipendente. La verità è che in Italia vi è una forte influenza sulle decisioni pubbliche e governative legate alla salute della popolazione e all’alimentazione, da parte di aziende e associazioni dolciarie che da sempre controllano il mercato dei cereali  e degli altri prodotti per la colazione, in particolare parliamo di biscotti, merendine, creme spalmabili, latte, e altro. Sappiate solo che ad oggi esiste un documento ufficiale del Ministero della Salute italiano, chiamato Obiettivi condivisi per il miglioramento delle caratteristiche nutrizionali dei prodotti alimentari con particolare attenzione alla popolazione infantile (3-12 anni) dove si dà l’impressione di cercare un miglioramento dei profili nutrizionali di vari alimenti, compresi i cereali da colazione, indicando una progressiva riduzione negli anni dei valori di zuccheri, grassi, sale (e aumento di fibre), ma dove ancora si afferma che cereali con 30 grammi di zucchero aggiunto (su 100g di alimento) sono dei cibi sani, nutrienti ed equilibrati. Trenta grammi di zucchero equivale, per chi non sapesse, a 6 zollette o 6 cucchiaini di zucchero aggiunto ogni 100g di cereale. Un quantitativo davvero spaventoso e ben lontano dalle nuove soglie fissate addirittura in America, la patria dello zucchero, dell’obesità e delle malattie cardiovascolari e diabete.

Il problema di questo documento ministeriale è che è stato redatto e concordato assieme all’industria e alle aziende che producono cereali e altri dolciumi, oltre che latte. Basta vedere a fine documento in basso, dove compaiono i nomi dei soggetti firmatari del documento: associazioni di produttori di dolciumi (AIDEPI), associazioni di produttori di bibite gassate analcoliche (ASSOBIBE), di snack e succhi di frutta (AIIPA), di latte (ASSOLATTE). Insomma, non decidono gli esperti ministeriali di salute, ma il Ministero della Salute in accordo con l’industria. Una commistione alquanto imbarazzante e che personalmente trovo contraddittoria e rischiosa per le politiche di salute pubblica.

La prova tangibile che anche i cereali in vendita in Italia sono eccessivamente ricchi di ingredienti non salutari è data dalle seguenti foto che ho scattato al supermercato, dove vedrete sia quelli destinati in prevalenza all’uso da parte dei bambini, sia quelli indirizzati maggiormente nelle pubblicità agli adulti. Il quantitativo di zuccheri supera sempre di circa 3 o 4 volte quello che è il massimo consigliato negli USA. Osservate nelle immagini sia i grammi di zucchero su 100g che quelli riferiti alla porzione da 30 grammi, sono sempre altissimi e fuori soglia se li paragoniamo alle ultime indicazioni che provengono dalla FDA americana. Insomma, in Italia consideriamo sano ciò che negli USA è visto oggi come nocivo. A quando anche da noi un bell’aggiornamento?

Il muro di burocrazia che in Italia lascia lavoratori disabili senza ricollocamento né pensione

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In Italia esistono lavoratori che a seguito di una malattia degenerativa o una disabilità rimangono incastrati in un limbo che non gli concede né il lavoro né la pensione. Anche se secondo le norme avrebbero diritto ad essere ricollocati in un ruolo che possono svolgere o a ricevere un sussidio. Vicende che diventano ancora più ingiuste perché segnate da un labirinto di burocrazia che lascia persone in carne ed ossa prive del diritto a sostenersi per ragioni come l’incomunicabilità tra diverse casse previdenziali e cavilli nei regolamenti INPS. È quanto denunciato da Giacomo, 54 anni, ex lavoratore parastatale affetto da una rara forma di distrofia muscolare che lo ha costretto sulla sedia a rotelle. Giacomo ha scritto a L’Indipendente per chiedere di raccontare la sua storia, e volentieri abbiamo scelto di farlo, perché non si tratta di una vicenda privata, ma di una questione di giustizia sociale che riguarda molte altre persone e che merita di ricevere attenzione.

Giacomo Catarci

Giacomo Catarci ha 54 anni ed è affetto da una rara forma di distrofia muscolare. Dopo aver servito lo Stato per quasi 20 anni, oggi si ritrova senza una pensione di inabilità: non perché non ne abbia diritto, ma perché un contraddittorio impianto normativo e burocratico glielo nega. Nonostante i limiti legati alla sua patologia, Giacomo ha lavorato fino al 2017 presso un’ente parastatale con cassa CPDEL. Poi il licenziamento: non per motivi di salute, ma in un taglio collettivo del personale, senza ricollocamento. Mentre era in NASPI (sussidio di disoccupazione), nel 2018 ha fatto domanda per la pensione di inabilità assoluta, prevista per i dipendenti pubblici con almeno 5 anni di contributi. Ma l’INPS – che nel frattempo ha assorbito l’INPDAP (contributi CPDEL) – gli ha opposto un rifiuto secco: «Manca il requisito del licenziamento per infermità». Giacomo ha dunque fatto causa all’INPS, ma si è visto respingere il ricorso dalla Corte dei Conti. E ora è in piena battaglia per i suoi diritti.

La storia di Giacomo è una vicenda che mette in luce le contraddizioni di un sistema pensionistico frammentato e contraddittorio nelle sue logiche normative. E dove, troppo spesso, a pagare il prezzo sono i più fragili. Nello specifico, Giacomo soffre di disferlinopatia (LGMD2B), patologia genetica neurodegenerativa che lo ha reso inabile totale dal 2009. Nonostante la malattia, ha continuato a lavorare fino al 2017 presso l’Associazione Allevatori, ente parastatale con cassa previdenziale CPDEL. Dopo il licenziamento, l’incredibile paradosso: da un lato non è stato protetto come un pubblico dipendente, ma «liquidato come un privato, senza possibilità di ricollocazione», come lui stesso denuncia a L’Indipendente; poi, dopo aver fatto domanda all’INPS per ottenere la pensione di inabilità assoluta – prevista dalla legge 335/95 per i dipendenti pubblici con almeno 5 anni di contributi – se l’è vista cassare «per la mancanza del requisito del licenziamento per infermità».

«Al momento del licenziamento non sono stato tutelato come dipendente pubblico, in quanto mi è stata negata la ricollocazione; al contrario, quando ho chiesto la pensione di inabilità, sono stato trattato proprio come un dipendente pubblico, all’insegna di regole più rigide. E quindi mi è stata rifiutata», racconta Giacomo. «Se invece fossi stato inquadrato come un dipendente privato, avrei potuto accedere con soli 5 anni di contributi, senza bisogno di un licenziamento ufficialmente legato alla malattia». Giacomo denuncia insomma una doppia ingiustizia: è stato equiparato ai privati per il licenziamento, ai dipendenti pubblici per la pensione. Subendo enormi svantaggi su entrambi i versanti.

A ogni modo, Giacomo non si è arreso. Ha fatto causa all’INPS, ma nel 2021 la Corte dei Conti ha respinto il ricorso, ribadendo che non ha diritto alla pensione di inabilità perché, quando è stato licenziato, il licenziamento era collettivo e non è avvenuto per infermità. Un anno dopo, ha presentato appello, ma lo scorso luglio è arrivata per lui l’ennesima bocciatura. «Ho i requisiti sanitari e contributivi, ma lo Stato mi dice di no per quello che, ai miei occhi, non può che apparire come un assurdo tecnicismo», racconta amareggiato. «La mia condizione di inabilità totale era già stata certificata nel lontano 2009, eppure, dopo 19 anni di lavoro, mi ritrovo senza lavoro e senza la pensione di inabilità. È giusto ricevere questo trattamento?», conclude.

Giacomo ora deve decidere se ricorrere in Cassazione, col rischio di vedersi nuovamente sbattere la porta in faccia. Il compito della Suprema Corte non è infatti quello riesaminare i fatti oggetto del contendere, ma verificare che la giurisdizione contabile abbia applicato correttamente le norme di diritto e rispettato le garanzie processuali. La strada è dunque lunga e tortuosa. Nel frattempo, la sua storia potrebbe diventare un caso simbolo per chiedere al Parlamento di modificare la normativa, allineando le regole per dipendenti pubblici, parastatali e privati.

Ricordando che l’articolo 38 della Costituzione Italiana recita quanto segue: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia e disoccupazione involontaria».

Pakistan arrestati oltre 240 sostenitori dell’ex premier Khan

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Ieri la polizia pakistana ha arrestato più di 240 persone in occasione di una manifestazione che chiedeva il rilascio del leader dell’opposizione ed ex primo ministro del Paese Imran Khan. La protesta si è tenuta a Lahore, in occasione del secondo anniversario della sua incarcerazione; dei funzionari di sicurezza avrebbero comunicato all’agenzia di stampa Reuters che 122 degli arrestati avrebbero cercato di bloccare le strade; gli altri, invece, sarebbero stati attivisti politici arrestati durante raid notturni. Khan è stato primo ministro dal 2018 al 2022, ed è in carcere con diverse accuse, che i suoi sostenitori affermano essere politicamente motivate.

Sri Lanka, condanna storica per una nave cargo responsabile di disastro ambientale

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La Corte Suprema dello Sri Lanka ha imposto un risarcimento da un miliardo di dollari ai proprietari della nave portacontainer X-Press Pearl, affondata al largo di Colombo nel 2021, ritenendoli responsabili del peggior disastro ambientale marino mai registrato nel Paese. Nella sentenza, lunga 361 pagine, cinque giudici hanno indicato come colpevoli non solo gli armatori della nave battente bandiera di Singapore, ma anche due ex funzionari pubblici locali, accusati di gravi negligenze.
L’incendio a bordo della X-Press Pearl era divampato nel maggio 2021 e per quasi due settimane la nave era rim...

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Pubblica Amministrazione: nel 2025 +2,3% di spesa per stipendi

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Nel 2025 la spesa per gli stipendi della pubblica amministrazione ha raggiunto i 201 miliardi di euro, con un aumento del 2,3% rispetto all’anno precedente, principalmente a causa dei rinnovi contrattuali. La Corte dei Conti, nella sua relazione sul costo del lavoro pubblico, segnala che i salari non hanno ancora recuperato l’inflazione e sottolinea l’importanza di una gestione attenta dello smart working. Inoltre, evidenzia l’invecchiamento della forza lavoro pubblica. Rispetto al 2015, la spesa per i salari pubblici è aumentata del 19,4%, con una quota sul Pil del 9%.

Entro il 2030 la Polonia avrà più carri armati di Germania, Francia, UK e Italia messi insieme

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Con un accordo miliardario firmato il 1° agosto a Gliwice, nel cuore industriale della Slesia, la Polonia ha ufficialmente imboccato la strada per diventare, entro il 2030, la prima potenza corazzata d’Europa. Forte dell’intesa siglata con la Corea del Sud per l’acquisto di 180 carri armati K2 Black Panther e 81 veicoli blindati di supporto progettati dalla Hyundai Rotem, Varsavia si prepara ad affermare la propria centralità strategica nel continente, rafforzando il ruolo di gendarme atlantico dell’Est. E lo fa con numeri che parlano da soli: 1.100 carri armati operativi, più di quelli posseduti da Regno Unito, Francia, Germania e Italia messi insieme (un totale di 950). Solo due Stati membri della NATO – Grecia e Turchia – avranno più carri armati della Polonia una volta che l’accordo con la Corea del Sud sarà concluso: la Turchia ne possiede attualmente 2238, la Grecia 1344.

Il contratto da oltre 6 miliardi di euro rappresenta l’ultima tappa di un processo di maxi-riarmo iniziato nel 2022. Già allora Varsavia aveva stipulato un precedente accordo con Seul da 3,4 miliardi di dollari per l’acquisto di lanciatori d’artiglieria a razzo K239 Chunmoo, aerei da combattimento leggeri FA-50 e obici semoventi K9. Il nuovo accordo – che prevede forniture a ritmo serrato, dal 2026 al 2030 – include 81 veicoli di supporto, formazione logistica, un programma completo di assistenza e riparazione e una clausola di trasferimento tecnologico. Gli ultimi 61 tank saranno assemblati direttamente in Polonia, nello stabilimento Bumar Łabędy di Gliwice, rilanciando così anche l’industria nazionale della difesa. 

«È un grande affare per la sicurezza della nostra patria, per la nostra industria bellica. L’accordo avvia il processo di ripristino della produzione di carri armati nel nostro Paese», ha scritto su X il vicepremier e ministro della Difesa Władysław Kosiniak-Kamysz, sottolineando l’importanza simbolica della data di firma dell’intesa, l’81° anniversario della Rivolta di Varsavia

La scelta della Polonia di puntare su fornitori non europei – Corea del Sud e Stati Uniti in testa – non è soltanto tecnica, ma geopolitica. Mentre Bruxelles cerca di rafforzare l’autonomia strategica dell’UE attraverso iniziative come ReArm Europe, Varsavia guarda altrove. In pochi anni, ha acquistato non solo tank K2, ma anche carri armati M1 Abrams, elicotteri Apache, lanciarazzi HIMARS e sistemi antimissilistici Patriot dagli Stati Uniti, ponendosi come un “alleato modello della NATO”, secondo il segretario alla Difesa statunitense Pete Hegseth

Questa politica di approvvigionamento bellico esterno riflette una linea chiara: l’ancoraggio della sicurezza polacca non è l’Unione Europea, ma l’Alleanza Atlantica. È a Washington, non a Bruxelles, che Varsavia guarda quando si tratta di definire i propri paradigmi difensivi. Un paradosso se si pensa che la Polonia, con una spesa militare pari al 4,7% del PIL (35 miliardi di euro) – la quota più alta tra i Paesi della NATO – è oggi il maggior investitore in Difesa in Europa in rapporto alla ricchezza nazionale

Il riarmo polacco non si limita alla modernizzazione dell’apparato militare: sta trasformando in profondità anche la società. In un contesto di crescente tensione geopolitica, il governo ha avviato una profonda riforma educativa con l’introduzione di programmi scolastici di preparazione alla difesa, che includono corsi di addestramento militare, orientamento alla sicurezza nazionale e alfabetizzazione strategica. Già dalle scuole superiori si diffonde un approccio “pre-bellico” all’educazione, pensato per preparare i giovani a un potenziale conflitto su larga scala.

Parallelamente, in un clima da assedio permanente, la mobilitazione civile assume connotati sempre più marcati: la retorica antirussa pervade il dibattito pubblico e il giornalismo mainstream, mentre il volontariato territoriale e le esercitazioni delle forze di difesa locali vengono incentivate e normalizzate. Il Paese alimenta un’identità collettiva fondata sulla minaccia costante dell’aggressione esterna, in particolare da parte di Mosca, costruendo un’immagine di “fortezza” dell’Occidente ai confini dell’Orso russo. «Dobbiamo sempre investire e ricordare che Putin o un altro dittatore potrebbero arrivare e minacciare la nostra sicurezza. Non finirà mai», aveva dichiarato a febbraio, nella conferenza stampa a fianco del capo del Pentagono Hegseth, Wladyslaw Kosiniak-Kamysz, esortando l’Europa a svegliarsi. 

A determinare questa accelerazione del riarmo non è solo la guerra in Ucraina e la crisi al confine con la Bielorussia, ma anche la memoria storica di un Paese vulnerabile alla pressione delle potenze esterne. La geografia polacca – un vasto bassopiano privo di barriere naturali – ha favorito, nel XX secolo, sia l’avanzata della Wehrmacht nel 1939 sia quella dell’Armata Rossa nel 1944-1945. Da qui l’adozione di una dottrina difensiva basata sul controllo aggressivo del fronte terrestre tramite la superiorità corazzata. La lezione del passato è oggi rilanciata in chiave moderna: deterrenza non più solo come difesa, ma come proiezione d’influenza e, dunque, di potenza. La Polonia punta a presidiare ogni accesso al proprio territorio, diventando uno snodo cruciale dell’interoperabilità NATO e un soggetto centrale nel dispositivo di contenimento del rischio russo. Il riarmo non è più strumento, ma fine: parte di una strategia strutturale volta a consolidare l’agenda russofoba del governo, guidato dal centrista Donald Tusk. 

La Polonia, oggi, non è solo un attore emergente sulla scacchiera europea. È il volto nuovo di un continente che, tra memoria storica, timori contemporanei e ambizioni di potenza, si prepara a ridefinire il proprio destino entro la fine del decennio.

Brasile: colosso petrolifero annuncia la scoperta di un nuovo giacimento

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Il colosso britannico degli idrocarburi BP ha annunciato di avere trovato il più grande giacimento petrolifero scoperto dalla compagnia negli ultimi 25 anni. Il giacimento è stato scoperto durante un’attività esplorativa in un bacino su cui detiene una licenza esclusiva. Il giacimento si trova al largo del Brasile, a circa 400 chilometri da Rio de Janeiro. Esso si trova a una profondità di 2,37 chilometri e si estende su un’area di 300 chilometri quadrati. «I risultati delle analisi effettuate sul sito di perforazione indicano livelli elevati di anidride carbonica», si legge in un comunicato della compagnia. BP inizierà ora le analisi di laboratorio per comprendere quanti idrocarburi potranno essere estratti.

La “democrazia” israeliana: deputato dice che a Gaza è genocidio, cacciato dal Parlamento

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In quella che il mondo Occidentale insiste a definire “unica democrazia del Medio Oriente” le già esigue voci di critica che si sollevano contro l’operato genocida del proprio Stato vengono allontanate con la violenza. È successo a Ofer Cassif, deputato di Hadash, partito che si definisce non-sionista. Nel suo discorso davanti al Parlamento, Cassif ha detto che Israele sta commettendo un genocidio nella Striscia di Gaza, citando un movimento di ammissione che lentamente e faticosamente sta prendendo piede anche tra una minoranza di intellettuali ebraici. Una parola proibita all’interno del palazzo del potere israeliano, dove Cassif è stato prima contestato e interrotto da alcuni parlamentari di altri schieramenti e poi portato via senza che gli sia stato concesso di terminare il discorso.

Ofer Kassif è stato cacciato dall’aula della Knesset, il parlamento monocamerale israeliano, ieri sera, lunedì 4 agosto. Il deputato stava leggendo un discorso per commemorare il “massacro di Shefaram” di vent’anni fa, in cui un soldato israeliano sparò all’interno di un autobus uccidendo 4 arabi israeliani. Nel suo intervento, Kassif ha citato un’intervista a David Grossman rilasciata a La Repubblica, in cui lo scrittore israeliano ammette che quello che Israele sta commettendo a Gaza è un genocidio; non appena il deputato ha pronunciato la parola “genocidio” sono iniziate a sollevarsi voci di dissenso contro di lui, che lo hanno intimato a non utilizzare quel termine all’interno del Parlamento. Kassif ha continuato a parlare per circa un minuto, mentre le urla contro di lui si sono moltiplicate, e l’aula si è scaldata; è stato così chiamato un uomo della sicurezza, che ha spostato il microfono con cui Kassif stava parlando, per poi prendere il deputato di peso e portarlo fuori dall’aula.

Non è la prima volta che Ofer Kassif, che da oltre un anno accusa il proprio Paese di genocidio, viene allontanato dalla Knesset per avere preso una posizione contro il genocidio in corso a Gaza. L’ultima volta era stata lo scorso luglio, quando era stato sospeso dalle attività parlamentari per avere contestato il genocidio a Gaza e la campagna militare di Israele in Iran durante la Guerra dei dodici giorni. Poco prima, anche il leader di Hadash, Ayman Odeh, era stato oggetto di un procedimento per avere contestato le politiche israeliane, tanto che contro di lui era stata avanzata una richiesta di impeachment, poi non approvata. La scure della censura israeliana si è abbattuta anche sui media, come accaduto all’emittente qatariota Al Jazeera e al giornale israeliano di sinistra Hareetz.

In generale, quella che l’Occidente definisce “unica democrazia del Medio Oriente” ha ben poco di democratico. Tra i casi più eclatanti che contraddicono questa narrativa ci son quelli di leggi che negano i diritti dei palestinesi, a cui Israele ha imposto addirittura il controllo delle relazioni amorose; c’è poi la legge sulla cittadinanza e sull’entrata in Israele, anche detta «messa al bando della riunificazione delle famiglie», secondo cui nessun individuo di nazionalità straniera proveniente dalla Striscia di Gaza o dalla Cisgiordania può entrare in Israele o ottenere la cittadinanza se non per comprovati motivi lavorativi o di salute. La più contraddittoria, tuttavia, è forse la cosiddetta Legge della Nazione, che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, minando al contempo il concetto di Stato democratico: questo perché se lo Stato è ebraico, non può essere democratico, perché non può esistere al suo interno uguaglianza. Mentre se è democratico, non può essere ebraico, in quanto una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell’origine etnica né tantomeno della religione professata.

I “Panama Playlists” ci mostrano i gusti musicali dei poteri USA

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Spotify si trova a dover affrontare un nuovo “scandalo”. Approfittando della scarsa inclinazione alla privacy offerta dal servizio di streaming musicale, ha preso forma “Panama Playlists”, un portale che, scimmiottando il nome dei Panama Papers, fa trapelare le presunte liste musicali ascoltate dai ricchi e dai potenti. Politici, dirigenti e giornalisti statunitensi hanno visto snudati i loro gusti musicali grazie a un monitoraggio continuo delle informazioni pubbliche e dagli sforzi di raccolta da un anonimo che si muove dietro al progetto sin dall’“estate del 2024”.

Secondo il creatore, ogni playlist resa pubblica, ogni foto profilo e persino il “live listening feed”, ossia l’ultimo brano ascoltato e il conteggio delle riproduzioni, è stato vagliato e associato alle identità reali grazie a indizi quali nomi utente, titoli di playlist e connessioni con altri profili, quali le playlist condivise con partner o colleghi. Sebbene vengano sfruttati esclusivamente i dati condivisi online da Spotify, alcune informazioni, come il numero esatto di volte in cui un brano è stato riprodotto, suggeriscono da parte dell’autore una sorveglianza costante nell’arco di giorni, probabilmente ottenuta tramite le API di Spotify o l’osservazione diretta dei feed. Non è chiaro se il risultato delle Panama Playlists sia frutto di un soggetto che ha agito singolarmente o di un intero team, visto che le informazioni in merito sono state modificate con il progressivo aggiornamento del portale.

Tra i protagonisti messi in luce, spicca JD Vance, Vicepresidente degli Stati Uniti, la cui playlist “Making Dinner” alterna le hit delle boyband One Direction e Backstreet Boys a pezzi indie anni 2000. Non molto diverso è il gusto di Pam Bondi, ex Procuratrice Generale, che ha rivelato un debole per i tormentoni degli anni Duemila – da Nelly ai Black Eyed Peas. Karoline Leavitt, portavoce della Casa Bianca, ha invece condiviso una playlist intitolata “Baby Shower”, la quale spazia dalle grandi voci soul di Beyoncé e Aretha Franklin fino ai più recenti successi virali come A Bar Song (Tipsy) di Shaboozey. 

Nel mondo della tecnologia, Sam Altman, CEO di OpenAI, è comparso con la sua raccolta “My Shazam Tracks”, un mix tra i ritmi elettronici di David Guetta, le note pop di OneRepublic. Figurano dunque nomi quali il conduttore Seth Meyers, il CEO di Meta AI, Alexandr Wang, il fondatore di Oculus, Palmer Luckey, e giornalisti di spicco quali Taylor Lorenz e Kara Swisher. Alcune delle figure coinvolte hanno effettivamente confermato l’autenticità delle informazioni tapelate: Luckey ha confessato senza remore che la compilation attribuitagli è la sua, mentre Mike Isaac del New York Times ha tirato un sospiro di sollievo nel far notare che, contrariamente ad altri, non ha playlist “troppo imbarazzanti”. Kara Swisher ha smentito la playlist a lei attribuita, ma ha anche spiegato che, probabilmente, la discrepanza deriva dal fatto che la lista dei brani sia stata ricavata da un dispositivo condiviso con la moglie.

Il caso mette a nudo una falla strutturale, ma sistematicamente ricercata, di Spotify: tutte le playlist e i profili rimangono pubblici salvo disattivazione manuale, un’opzione poco visibile nelle impostazioni e che va applicata manualmente a ogni singolo elenco. Il servizio indulge infatti in dinamiche dai toni social, prediligendo l’esposizione di informazioni che troppo spesso consideriamo intime o private e rendendo laboriosa ogni azione che potrebbe ostacolare questa direzione. L’integrazione con Facebook e Google – che trasferisce anagrafiche da un servizio all’altro – contribuisce inoltre a rendere ancora più facile l’associazione di dati personali a informazioni di ascolto.

Nonostante non siano emersi retroscena rivoluzionari, i leak di Panama Playlists offrono uno spaccato inedito sulla vita privata delle élite globali e ricordano con una certa leggerezza che, nell’era della condivisione digitale, ogni clic e ogni ascolto possono diventare accessibili a terzi, nonché che l’anonimato scricchiola sotto il peso di un’analisi incrociata dei Big Data. Un richiamo alla realtà che, questa volta, ci viene indirettamente offerto da Spotify, azienda che probabilmente è ben felice di aver finalmente distolto l’attenzione dal fatto che il suo CEO, Daniel Ek, sia solito investire nel settore delle armi.