martedì 7 Maggio 2024
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Una cittadina di La Spezia è stata identificata per uno striscione contro la NATO

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Secondo quanto denunciato da Rifondazione Comunista, una cittadina della Spezia sarebbe stata identificata per aver esposto uno striscione contro la presenza della NATO nella città. Stando a quanto riportato da una nota rilasciata dal partito, infatti, dopo aver appeso alla propria finestra un lenzuolo recante la scritta «Fuori la NATO da Spezia», la donna avrebbe ricevuto presso la propria abitazione la visita di alcuni Carabinieri, che avrebbero proceduto ad identificarla. «Nella città è forte la contestazione dell’allargamento della base militare e la protesta della cittadina è assolutamente legittima. Si tratta di un atto di intimidazione inaccettabile visto che criticare o essere contro la NATO non è ancora reato» ha sottolineato il partito in una nota. Le associazioni pacifiste, in segno di protesta, hanno invitato tutti i cittadini ad esporre striscioni contro l’Alleanza Atlantica, per denunciare il progetto di ampliamento e adeguamento agli standard NATO delle basi marittime, dal valore stimato di oltre 1 miliardo e mezzo di euro. Nello specifico alla Spezia, il programma, denominato “Basi Blu”, interesserebbe la base militare ancora oggi attiva, inserita all’interno del polo dell’arsenale, vecchio nucleo produttivo della città oggi nella quasi totalità in disuso.

I fatti della Spezia sono trapelati lo scorso weekend, contornati da informazioni ridotte e soprattutto poco chiare. L’Indipendente ha sentito il Co-Segretario regionale ligure di Rifondazione Comunista Jacopo Ricciardi per chiedergli maggiori informazioni a riguardo. A quanto ci comunica Jacopo, gli eventi che hanno coinvolto l’anonima cittadina spezzina sarebbero avvenuti nella sera del 30 aprile, in piena città. Come ci dice Jacopo, la donna si sarebbe limitata ad appendere un lenzuolo sul balcone della propria abitazione nei pressi del centro cittadino, e sarebbe successivamente stata segnalata e identificata dai carabinieri. Attorno alle 21.30, infatti, una coppia di uomini dell’arma avrebbe citofonato alla sua porta, e le avrebbe chiesto i documenti e imposto di togliere lo striscione. Come ci spiega Jacopo, al di là della questione di principio, la protesta dell’anonima cittadina va inquadrata in una prospettiva più specifica, e sarebbe stata portata avanti per «dire no» al progetto Basi Blu che interessa la frazione di Marola, una delle tredici borgate marinare del golfo della Spezia. In risposta alla segnalazione e alla identificazione della concittadina, gli stessi abitanti di Marola hanno appeso striscioni di denuncia, ampliando ancora di più il raggio delle proteste.

Come ci spiega Jacopo, le contestazioni intendono denunciare la «militarizzazione del nostro territorio». «È una vergogna che si continui a spendere soldi per le spese militari mentre si chiudono scuole e ospedali», ci dice Jacopo, ed effettivamente nel caso specifico del progetto spezzino di Basi Blu, questa contraddizione parrebbe farsi carne. Ne abbiamo discusso anche con William Domenichini, dell’Associazione Murativivi, gruppo di cittadini che ormai da un decennio rivendica tutti quegli spazi marolini ormai in disuso dalla marina militare, e confinati nei circa 90 ettari di arsenale. Come ci spiega William, l’arsenale è stato sin dai tempi della sua erezione, verso gli anni ’60 del XIX secolo, il centro nevralgico dell’economia marolina. Esso, tuttavia, ha anche sancito la perdita di ampissimi spazi della borgata, murando di fatto lo stesso accesso al mare per dedicare l’intera area alle attività produttive, industriali, e militari. Attivissimo fino alla metà del Novecento, l’arsenale è gradualmente caduto in disuso, tanto che «dai circa 12.000 dipendenti» di quegli anni si è arrivati alle poche centinaia di oggi. Come ci spiega William, oggi, l’area dell’arsenale non afferente alla base militare è «in quasi totale disuso», mentre la «manutenzione è pressocché nulla». Al suo interno, l’area presenta numerosi capannoni abbandonati, e una «discarica» di materiali da smaltire, che costituiscono inoltre un importante problema dal punto di vista dell’«impatto ambientale».

Il programma Basi Blu è stato lanciato dalla legge di bilancio del 2017, e intende riqualificare le basi militari della Spezia, di Taranto e di Augusta così da adeguarle allo standard NATO. A gennaio l’esecutivo Meloni ha dato avvio all’iter per il rifinanziamento del progetto, dal valore complessivo di 1,76 miliardi di euro, di cui 354 milioni dedicati alla base spezzina. Le proteste dei cittadini di Marola denunciano lo stanziamento di tali fondi, e chiedono che vengano invece riqualificati gli spazi dell’arsenale in disuso. Non è la prima volta, tuttavia, che simili iniziative volte a criticare le spese militari del Paese vengono boicottate o messe a tacere. A tal proposito basterebbe pensare alla “mobilitazione dei saperi“, che intenderebbe non solo fornire supporto alla causa palestinese, ma anche protestare contro la militarizzazione nelle scuole e nelle università, e contro cui sono verificatisi numerosi tentativi di repressione, come nel caso di Roma. Limitandosi a guardare gli atteggiamenti di stampo intimidatorio, si potrebbe pensare anche al ragazzo algerino perquisito e sospeso per dei post pro-Palestina, per i quali è stato addirittura licenziato, o ancora al cittadino modenese identificato dalla DIGOS per avere protestato per l’installazione natalizia che raffigurava Babbo Natale sopra a un carro armato in una delle piazze del centro cittadino, il tutto a riprova di quella che sembra a tutti gli effetti una sempre più ritualizzata prepotenza nei confronti di chi oserebbe dissentire.

[di Dario Lucisano]

Biodiversità, la conservazione funziona: uno studio lo conferma

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Un nuovo studio pubblicato di recente sulla prestigiosa rivista Science ha confermato che le strategie di conservazione funzionano nel tutelare la biodiversità. L’analisi ha in particolare considerato 186 casi studio per valutare l’impatto degli interventi di conservazione a livello globale nell’ultimo secolo. Nello specifico, la ricerca ha evidenziato l’efficacia di varie strategie di conservazione, come il controllo delle specie invasive, il ripristino degli habitat e la creazione di aree protette, in diverse località geografiche e in differenti ecosistemi e sistemi politici. Le azioni di conservazione, è emerso, hanno migliorato o rallentato il declino delle specie in oltre due terzi dei casi analizzati. «Il nostro studio dimostra che quando le azioni di conservazione funzionano, funzionano davvero – ha dichiarato Jake Bicknell, coautore del lavoro e scienziato della conservazione presso l’Università del Kent nel Regno Unito – in altre parole, spesso portano a risultati per la biodiversità che non sono solo un po’ migliori rispetto al non fare nulla, ma molte volte superiori». Tra i casi in assoluto più virtuosi, figurano una gestione agricola che ha favorito nuove nidificazioni di un uccello acquatico, il trampoliere, e la creazione di aree protette e terre indigene che ha ridotto la deforestazione in Amazzonia.

Nonostante l’impatto complessivamente positivo della conservazione, lo studio ha anche rilevato che, nel 21% dei casi esaminati, la biodiversità è diminuita con gli sforzi di conservazione rispetto all’assenza di interventi. Al riguardo, i ricercatori hanno però sottolineato che le strategie di conservazione vengono talvolta apprese per tentativi ed errori e necessitano di continui miglioramenti e adattamenti. Non a caso, lo studio ha anche trovato una correlazione secondo cui, con il miglioramento delle strategie e delle tecniche, la conservazione è diventata sempre più efficace nel tempo. «Anche quando gli interventi di conservazione non hanno funzionato per la specie bersaglio, spesso altre specie ne hanno tratto involontariamente vantaggio, oppure abbiamo imparato dal risultato, assicurandoci che il nostro prossimo progetto o azione di conservazione avrebbe avuto successo», ha aggiunto la prima autrice dello studio, Penny Langhammer. In altre parole non si tratta mai di uno spreco di denaro. Eppure, i soldi spesi nelle azioni di conservazione sono ancora di molto inferiori ad altri investimenti tutt’altro che benefici, come quelli impattanti in combustibili fossili. Secondo alcune stime, un programma di conservazione a scala globale costerebbe tra i 178 e i 524 miliardi di dollari, nulla rispetto ai 7.000 miliardi di dollari spesi per i sussidi ai combustibili fossili nel solo 2022.

Nel complesso, le ragioni economiche per investire nella conservazione della natura, al di là di queste recenti conferme, sono comunque piuttosto decisive. Basti pensare, ad esempio, che più della metà del PIL mondiale, quasi 44.000 miliardi di dollari, dipende in misura moderata o elevata dalla natura. Questo perché per ogni dollaro che investiamo nella conservazione, ne riceviamo 100 in servizi ecosistemici, ovvero, tutto quell’insieme di benefici che l’umanità trae dalla natura. In sostanza, sebbene i vantaggi non siano immediatamente visibili, si tratta di un ottimo investimento, fondamentale per la salute degli ecosistemi, delle società umane e del pianeta. Ad oggi, tuttavia, secondo l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), 44.000 specie sono classificate come a rischio di estinzione. Di queste, il 41% sono anfibi, il 26%  mammiferi e il 12% uccelli. Gli autori sperano pertanto che la loro ricerca serva ad informare gli obiettivi globali di biodiversità, nonché a dare una tirata di orecchie ai governi, ai privati e alle aziende affinché investano maggiormente nella conservazione. In tutto questo, non bisogna però dimenticare di affrontare a monte le cause della perdita di biodiversità, come il consumo e la produzione insostenibili.

[di Simone Valeri]

USA, UK e Australia sanzionano il capo di un gruppo hacker russo

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Il sito del Governo britannico ha reso noto in un comunicato stampa che Regno Unito, Stati Uniti e Australia hanno lanciato un pacchetto di sanzioni nei confronti di Dmitry Khoroshev, uno dei leader del gruppo hacker russo LockBit. Stando a quanto comunica l’esecutivo britannico, Khoroshev sarà oggetto di congelamento dei beni e di divieti di viaggi. Il gruppo LockBit è uno dei più prolifici gruppi hacker al mondo, e nel corso degli anni ha colpito oltre 200 entità britanniche, estorcendo a livello globale oltre un miliardo di dollari da migliaia di bersagli.

Putin ha ordinato esercitazioni con armi tattiche nucleari

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La Russia ha comunicato che effettuerà esercitazioni militari per l’utilizzo di armi atomiche tattiche, ovvero non strategiche, vicino ai confini dell’Ucraina. L’annuncio è arrivato in risposta alle continue dichiarazioni di queste ultime settimane da parte di alcuni leader europei circa la possibilità di inviare truppe occidentali nel teatro di guerra ucraino. Secondo il ministero della Difesa russo, le esercitazioni cercano di mantenere la prontezza del personale e delle attrezzature, senza però specificare quando queste si svolgeranno. Le esercitazioni coinvolgeranno unità missilistiche del distretto militare meridionale della Russia, che ha sede nella città di Rostov sul Don.

Il ministero della Difesa russo ha annunciato lunedì che le sue forze si stanno preparando a condurre esercitazioni militari per il dispiegamento e l’utilizzo di armi nucleari tattiche in risposta alle “minacce e provocazioni” occidentali. «Su incarico del Comandante in capo supremo delle Forze armate della Federazione Russa, al fine di aumentare la prontezza delle forze nucleari non strategiche a svolgere missioni di combattimento, lo Stato maggiore ha avviato i preparativi per lo svolgimento di esercitazioni nel prossimo futuro con formazioni missilistiche del Distretto Militare Meridionale con il coinvolgimento dell’aviazione, nonché delle forze della Marina. Durante l’esercitazione verranno svolte una serie di attività per esercitarsi nella preparazione e nell’uso di armi nucleari non strategiche. L’esercitazione è finalizzata a mantenere la prontezza del personale e delle attrezzature delle unità per l’uso bellico di armi nucleari non strategiche per rispondere e per garantire incondizionatamente l’integrità territoriale e la sovranità dello Stato russo in risposta a dichiarazioni provocatorie e minacce di singoli funzionari occidentali contro la Federazione Russa», è quanto si legge nel comunicato rilasciato dalle autorità russe.

Anche il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha collegato le esercitazioni nucleari alle affermazioni occidentali sulla concreta possibilità di inviare propri soldati in Ucraina. Secondo il ministero della Difesa, le esercitazioni cercano di mantenere la prontezza del personale e delle attrezzature, senza però specificare quando queste si svolgeranno. Le esercitazioni coinvolgeranno unità missilistiche del distretto militare meridionale della Russia, che ha sede nella città di Rostov sul Don. Va ricordato che le forze nucleari russe sono in stato di massima allerta fin dai primi giorni dell’inizio delle operazioni russe in Ucraina, quindi dal febbraio 2022, su ordine del presidente Vladimir Putin. In quell’occasione, Putin, durante un discorso televisivo, aveva detto che le forze di deterrenza nucleare del Paese erano state poste in una modalità speciale di servizio di combattimento. La Russia, come ogni potenza nucleare, svolge regolarmente esercizi militari delle sue forze di deterrenza nucleare, ma la dichiarazione ha segnato il primo annuncio pubblico di tali manovre che coinvolgono armi nucleari tattiche.

La mossa segna un ulteriore passo nell’escalation che in queste ultime settimane si sta materializzando. Le tensioni sono aumentate da quando il Presidente francese, Emmanuel Macron, ha dichiarato che il suo Paese avrebbe preso in considerazione l’invio di truppe di terra in Ucraina se Kiev avesse richiesto rinforzi, sebbene l’Ucraina non appartenga né all’Unione Europea né alla NATO, esulando quindi da ogni obbligo dei trattati firmati dai Paesi occidentali. Queste esercitazioni nucleari russe seguono anche le dichiarazioni del ministro degli Esteri britannico, David Cameron, il quale ha affermato che l’Ucraina è legittimata ad usare armi britanniche contro obiettivi all’interno della Russia. Sempre lunedì, rispetto a quanto detto da Cameron, il ministero degli Esteri russo ha convocato l’ambasciatore britannico a Mosca, Nick Caseyin, per esprime la propria preoccupazione e in una nota ha affermato: «Qualsiasi struttura e attrezzatura militare britannica sul territorio dell’Ucraina e oltre potrebbe essere una risposta agli attacchi ucraini con l’uso di armi britanniche sul territorio della Russia». I funzionari russi hanno condannato entrambe le dichiarazioni e sottolineato come Mosca abbia da tempo avvertito che il conflitto con la NATO sarebbe diventato inevitabile se i membri europei dell’alleanza militare avessero inviato i loro soldati a combattere in Ucraina. Non dimentichiamo inoltre che, nel frattempo, la NATO sta conducendo da diverse settimane una delle più grandi esercitazioni militari dai tempi della guerra fredda, con circa 90.000 soldati e migliaia di mezzi militari tra veicoli, cingolati, aerei e navi, proprio in funzione di un possibile scontro armato diretto con la Federazione Russa.

In conclusione, riportiamo anche le dichiarazioni del ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, che ieri ha detto che le sanzioni economiche contro la Russia sono fallite, invitando l’Occidente a impegnarsi di più per negoziare una soluzione diplomatica con il Presidente russo, Vladimir Putin, per porre fine alla guerra in Ucraina. Crosetto ha ammesso che l’Occidente ha erroneamente creduto che le sue sanzioni potessero fermare la Russia e che quindi occorre un tavolo diplomatico che porti prima ad una tregua e poi alla pace. Insomma, in questo caso specifico l’Italia sembra fare un bagno di realtà, a differenza di quanto invece gli altri leader e politici europei stanno sostenendo. Crosetto ha però sottolineato come l’invio di armi all’Ucraina sia stato fondamentale e finalizzato a ottenere «il tempo e le condizioni per raggiungere una tregua e la pace». Su questo aspetto, forse, il ministro Crosetto si è dimenticato di come il tavolo negoziale per una pace tra Russia e Ucraina fosse stato messo in piedi a poche settimane dall’inizio della guerra, con l’intermediazione della Turchia, partner NATO, salvo poi saltare proprio per le posizioni occidentali e la successiva decisione del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, di decretare per legge l’impossibilità di ogni trattativa di pace con la Russia.

[di Michele Manfrin]

Onu e media: “Chiusi valico di Erez e Rafah. Aiuti interrotti”

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Un portavoce dell’ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari ha reso noto che Israele ha negato alle Nazioni Unite l’accesso al valico di Rafah nella Striscia di Gaza: «Al momento non abbiamo alcuna presenza fisica al valico di Rafah perchè il Cogat, l’ente israeliano di governo dei territori palestinesi ci ha rifiutato l’accesso a quest’area», che è il principale punto di passaggio per gli aiuti umanitari. Le forze di difesa israeliane, citate da Sky News e Rainews, hanno confermato inoltre che anche il valico di Erez è stato chiuso. La Ong ActionAid ha denunciato che attualmente nessun aiuto è in grado di arrivare a Gaza.

L’Asl di Bolzano dovrà risarcire per 170mila euro una farmacista non vaccinata

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L’Asl di Bolzano dovrà pagare un risarcimento di circa 170mila euro a una dirigente dell’ospedale di Bressanone che nel settembre del 2021 fu sospesa dal servizio per non essersi fatta inoculare contro il Covid. Lo ha deciso il Giudice del Lavoro del Tribunale di Bolzano, che ha parzialmente accolto il ricorso presentato dalla donna. Nello specifico, la dirigente era stata sospesa dal 4 settembre 2021 al 31 dicembre dello stesso anno, con successiva proroga della sospensione per tutto il 2022 (poi decaduta il 2 novembre, quando venne ufficialmente meno l’obbligo di vaccinazione per i medici e i sanitari). Secondo il giudice, la sospensione disposta dall’ASL nei confronti della dirigente non poteva valere dopo il 31 dicembre 2021, poiché da quel momento in avanti la competenza per la sospensione dei professionisti sanitari era in capo agli Ordini professionali. E, sebbene l’Ordine dei farmacisti della Provincia di Bolzano cui la donna era iscritta avesse riconosciuto che quest’ultima disponeva di un valido certificato di esenzione dalla vaccinazione anti-Covid, l’Asl non provvide a reintegrarla.

Ricordando che, ai tempi dei fatti oggetto della sentenza, l’art. 4 co. 2 D.L. 44/2021 disponeva che “in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale, la vaccinazione di cui al comma 1 non è obbligatoria e può essere omessa o differita”, il Giudice del Lavoro del Tribunale di Bolzano ha evidenziato che l’Ordine professionale avviò la procedura volta ad accertare l’adempimento o meno rispetto all’obbligo vaccinale, non emettendo alcuna sospensione “a fronte del certificato di esenzione del medico di medicina generale prodotto dalla ricorrente”. Per questo motivo, l’Asl “avrebbe dovuto riammettere la ricorrente in servizio”, ma non lo fece. Il giudice ha dunque accertato e dichiarato “l’illegittimità sopravvenuta”, a decorrere dal 1.1.2022 del provvedimento di sospensione non retribuita dal servizio della ricorrente”, condannando l’Azienda Sanitaria dell’Alto Adige – Südtiroler Sanitätsbetrieb a corrisponderle “tutte le retribuzioni lorde”, per un ammontare di oltre 12mila euro mensili, “per tutto il periodo della sospensione (dal 1.1.2022 al 1.11.2022)”, per un totale di oltre 123mila euro, “oltre interessi legali e rivalutazione dal dovuto al saldo”. Il giudice ha inoltre riconosciuto il diritto della lavoratrice all’anzianità di servizio, agli accantonamenti, alle ferie, ai permessi e ai contributi previsti dal contratto di lavoro per i dieci mesi di sospensione ingiustificata, condannato l’Asl a corrispondere alla dirigente “l’importo di 33.633 euro per detrazioni fiscali non conseguibili, oltre interessi legali e rivalutazione dal dovuto al saldo”. L’Asl è poi stata condannata “alla rifusione di due terzi delle spese di lite” sostenute dalla ricorrente.

Tra le sentenze sfociate da cause relative all’obbligo vaccinale, quella del Giudice del Lavoro del Tribunale di Bolzano appare assai significativa, dal momento che il risarcimento stabilito è il più alto mai registrato. Ma potrebbe non essere finita qui. Infatti, come sottolineato dall’avvocato Mauro Sandri, legale della donna, «una Asl che deve sborsare tutto questo denaro per avere sospeso illegittimamente una dipendente è a rischio di intervento della magistratura contabile». Tale verdetto potrebbe infatti costituire il preludio di un’inchiesta della Corte dei conti per danno erariale.

[di Stefano Baudino]

Ciad: ritorno alle urne a 3 anni dall’assassinio di Idriss Deby

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Il Ciad è tornato alle urne tre anni dopo che il leader militare Mahamat Idris Deby ha preso il potere. Sono le prime elezioni presidenziali nella regione africana del Sahel dopo un’ondata di colpi di Stato che ha riguardato diversi Paesi. Deby, che ha preso il potere dopo l’assassinio del padre, Idriss Deby, nell’aprile 2021, è considerato il probabile vincitore. Ha promesso di rafforzare sicurezza e stato di diritto, oltre ad aumentare la produzione di elettricità. Circa 8,5 milioni di persone si sono registrate per votare. I risultati provvisori sono attesi entro il 21 maggio e i risultati definitivi entro il 5 giugno. Se nessun candidato ottiene più del 50% dei voti, il ballottaggio si terrà il 22 giugno.

Gaza: Hamas accetta la tregua, Israele in cambio scatena l’attacco su Rafah

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Il movimento di resistenza palestinese Hamas ha dichiarato ieri di avere accettato un accordo in tre fasi per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, nell’ambito dei negoziati mediati dall’Egitto e dal Qatar al fine di trovare un’intesa con Israele e fermare il massacro di civili che ormai da sette mesi insanguina l’enclave palestinese. Tuttavia, non solo Israele non ha accettato l’accordo, ma per pronta risposta ha dato il via all’attacco su Rafah, la parte più a sud della Striscia dove sono rifugiati 1,4 milioni di civili palestinesi sfollati dalle altre zone dell’enclave per sfuggire ai bombardamenti delle forze israeliane. Hamas ha fatto sapere che il suo capo politico, Ismail Haniyeh, aveva informato i mediatori di Qatar ed Egitto di avere accettato la loro proposta di cessate il fuoco, provocando reazioni di giubilo da parte dei civili palestinesi. Proposta respinta, invece, da Israele: l’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu ha, infatti, affermato che la proposta di tregua non è adeguata alle richieste di Tel Aviv e il gabinetto di guerra ha quindi approvato l’avvio dell’operazione a Rafah, nonostante la contrarietà degli Stati Uniti. Tale rifiuto ha scatenato la rabbia degli stessi israeliani: ieri sera, infatti, centinaia di manifestanti hanno bloccato l’autostrada Ayalon allo svincolo Hashalom nel centro di Tel Aviv in segno di protesta contro la gestione della questione degli ostaggi da parte del governo e per fare pressione sul governo affinché concluda un accordo, come ha riferito il media israeliano Haaretz.

La proposta di tregua accettata da Hamas avrebbe compreso tre fasi: la prima prevedeva un periodo di cessate il fuoco di 42 giorni per effettuare lo scambio di 33 ostaggi israeliani con prigionieri palestinesi e durante i quali Israele avrebbe dovuto ritirare parzialmente le truppe da Gaza e consentire la libera circolazione dei palestinesi dal sud al nord di Gaza. Nella seconda fase, un altro periodo di 42 giorni sarebbe servito a ripristinare una “calma sostenibile” e ad effettuare il ritiro completo della maggior parte delle truppe israeliane da Gaza, oltre che a rilasciare i riservisti israeliani e alcuni soldati in cambio di altri prigionieri palestinesi. La fase tre, infine, prevedeva il completamento degli scambi tra ostaggi e prigionieri palestinesi, l’avvio della ricostruzione di Gaza – secondo un piano supervisionato da Qatar, Egitto e Nazioni Unite – e la fine del blocco totale della Striscia di Gaza. Nonostante il piano in tre fasi fosse stato concordato con i mediatori internazionali, un funzionario dello Stato ebraico ha dichiarato che non è chiaro quale piano Hamas abbia accettato, poiché alcuni termini differirebbero sostanzialmente da quelli mostrati dai mediatori a Israele e concordati dal governo israeliano la scorsa settimana. L’ufficio di Netanyahu ha fatto sapere che Israele invierà comunque una delegazione per incontrare i negoziatori al fine di raggiungere un accordo. Prima però ha deciso di attaccare Rafah costringendo circa 100.000 persone ad abbandonare l’area, rischiando di provocare l’ennesima mattanza dall’inizio della campagna militare israeliana nella Striscia. Dopo avere emesso l’ordine di evacuazione, Israele ha effettuato attacchi nella parte orientale di Rafah e l’IDF ha affermato di aver preso il controllo del valico di Rafah – al confine con l’Egitto – dal lato di Gaza. Secondo il Guardian, un attacco a una casa ha provocato l’uccisione di cinque palestinesi. In totale, lunedì 22 persone sarebbero state uccise negli attacchi, tra cui diversi bambini e alcuni neonati.

Diverse sono state le reazioni internazionali di sdegno per l’aggressione israeliana: l’Arabia Saudita ha parlato di “genocidio” e il ministero degli Esteri saudita ha messo in guardia dai «pericoli delle forze di occupazione israeliane che prendono di mira la città di Rafah come parte della loro sistematica e sanguinosa campagna per assaltare tutte le aree della Striscia di Gaza e sfollare i suoi residenti verso l’ignoto». Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, aveva già esortato Netanyahu a non lanciare un’offensiva a Gaza e un funzionario americano ha detto che gli Stati Uniti sono «preoccupati» per gli ultimi attacchi israeliani su Rafah, ma «non credono che rappresentino un’operazione militare di grande portata». Da parte sua, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha ribadito l’«appello urgente al governo israeliano e alla leadership di Hamas affinché raggiungano un accordo e mettano fine alle sofferenze», affermando sulla piattaforma X di essere «profondamente preoccupato dalle indicazioni secondo cui un’operazione militare su larga scala a Rafah potrebbe essere imminente».

 

Il governatore della Regione Liguria Giovanni Toti è stato arrestato per corruzione

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La Liguria stamane è stata svegliata da un enorme terremoto giudiziario. Il governatore della Regione, Giovanni Toti, è stato arrestato dalla Guardia di Finanza per corruzione ed è ora ristretto ai domiciliari. L’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Genova su richiesta della Procura della Repubblica, ha colpito tra gli altri anche l’ex presidente dell’Autorità portuale e attuale ad di Iren, Paolo Emilio Signorini, e l’imprenditore portuale Aldo Spinelli, noto per aver ricoperto la carica di presidente delle società calcistiche di Genoa e Livorno. Secondo i pm, il gruppo sarebbe stato coinvolto in un meccanismo di favori sotto forma di tangenti che avrebbero sostenuto il governo politico della Regione. Un secondo filone di indagine vede poi stagliarsi sulle elezioni del 2020 lo spettro della mafia: dietro il grande risultato del partito del governatore ligure “Toti, Cambiamo!” ci sarebbe infatti la mano dei mandamenti locali di Cosa Nostra.

Nello specifico, Toti è accusato dalla Procura di Genova di corruzione ambientale, corruzione per atti contrari a doveri d’ufficio e promesse elettorali. Al Presidente della Regione Liguria i magistrati contestano di avere accettato da Aldo Spinelli e suo figlio Roberto Spinelli – colpito dalla misura interdittiva del divieto di esercitare l’attività imprenditoriale – promesse di vari finanziamenti, ricevendo in totale 74.100 euro in cambio di una serie di provvedimenti loro favorevoli. Tra le operazioni al vaglio della magistratura figurano concessioni di aree portuali e pagamenti occulti di spazi pubblicitari. I casi più significativi sono quello della proroga trentennale della concessione affidata a Spinelli per le aree del terminal Rinfuse nel dicembre 2021 – cinque giorni dopo la quale quattro società di Spinelli avrebbero erogato bonifici in favore del Comitato Giovanni Toti Liguria per 40 mila euro –, nonché un intervento nella questione della riqualificazione delle ex Colonie Bergamasche di Celle Ligure, complesso destinato a divenire una struttura turistica super lusso in una delle aree più belle della Regione. Agli Spinelli e a Signorini sono stati sequestrati circa 570mila euro, denari “ritenuti profitto dei reati di corruzione”. Nell’inchiesta è finito anche Francesco Moncada, consigliere di amministrazione di Esselunga, raggiunto dalla misura interdittiva del divieto temporaneo di esercitare l’attività imprenditoriale e professionale.

Il lavoro della Procura di Genova si concentra però anche sul presunto ruolo che la mafia siciliana avrebbe giocato alle elezioni regionali liguri di quattro anni fa. Ad agire per rimpinguare di voti il partito del governatore Toti, secondo i pm, sarebbero stati influenti personaggi contigui ai clan mafiosi originari di Riesi (Caltanissetta), che avrebbero garantito un boom di preferenze ai candidati totiani. A finire ai domiciliari è stato anche il capo di gabinetto del governatore, Matteo Cozzani, accusato del reato di corruzione elettorale aggravato dalla circostanza di cui all’art. 416-bis.1 c.p., in quanto “commesso al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa Cosa Nostra, segnatamente il clan Cammarata del Mandamento di Riesi con proiezione nella città di Genova”, e di corruzione per l’esercizio della funzione.

[di Stefano Baudino]

Ex Ilva: il governo toglie altri 150 milioni ai fondi per la bonifica di Taranto

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Ora è ufficiale: con l’approvazione del Decreto Agricoltura, ieri il Consiglio dei Ministri ha dato l’ok a ulteriori norme per garantire la continuità operativa dell’Ex Ilva di Taranto, con un nuovo apporto di liquidità di ben 150 milioni di euro proveniente dalla gestione straordinaria dell’azienda. A tal fine, l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha infatti deciso di pescare denari dal “patrimonio destinato”, ovvero da quella fetta di risorse finalizzate alla bonifica ambientale. Così, mentre il Piano ambientale di Ilva – a causa di una lunga serie di proroghe stabilite nell’ultimo decennio -, è in gravissimo ritardo, si assottiglia la quantità di quattrini presenti nella cassa da cui si pesca per metterlo in pratica. La medesima mossa era stata attuata, nel 2022, dal governo Draghi, che aveva dirottato 150 milioni dalle bonifiche ai progetti di “decarbonizzazione del ciclo produttivo dell’acciaio”. Allora la maggioranza si spaccò e FdI, all’opposizione, si astenne. In questo caso, invece, in un assordante silenzio mediatico, tutto è andato liscio.

Il “patrimonio destinato” è, nello specifico, il fondo speciale costituito anni fa con il miliardo di euro che i Riva, in seguito all’azione dell’allora governo e della Procura di Milano, hanno riportato in Italia dall’estero, di cui i commissari di Ilva hanno fatto uso per finanziare la bonifica delle aree che nel 2018 furono escluse dalla cessione ad ArcelorMittal. Il “patrimonio destinato” è attualmente costituito dai 540 milioni che i commissari devono veicolare ad Acciaierie d’Italia per mettere mano a interventi di decontaminazione e bonifiche del sottosuolo nella cornice del Piano ambientale, 467 milioni di pertinenza dei commissari per la bonifica e la messa in sicurezza di aree esterne (che sono in parte inserite all’interno del Piano ambientale) e 150 milioni dati dall’esecutivo guidato da Mario Draghi per la “decarbonizzazione dell’Ilva”. Come spiegato da uno dei commissari di AdI, i 150 milioni che arriveranno ad Acciaierie d’Italia serviranno all’azienda per «sopravvivere», in attesa che venga sbloccato il prestito ponte da 320 milioni per il quale si è in attesa del semaforo verde da parte dell’Unione Europea. Per l’ex Ilva, la novità principale riguarda l’avvio, nell’arco dei primi sei mesi dell’anno prossimo, della costruzione di due forni elettrici destinati a sostituire altrettanti altiforni entro il 2027, che dovrebbero garantire una produzione di almeno 4 milioni di tonnellate. I sindacati hanno espresso preoccupazione per il basso livello di produzione nello stabilimento di Taranto, in cui ad oggi è attivo soltanto l’altoforno 4 e dove i lavoratori che si trovano in cassa integrazione sono ben 1.700.

Politicamente, i primi a scagliarsi contro l’operazione del governo Meloni sono i stati i rappresentanti di Europa Verde, che hanno descritto tale decisione come “una mossa disperata per trovare le risorse necessarie al funzionamento degli impianti Ilva di Taranto, una azienda ormai fuori mercato, allo stremo e non bancabile a causa del sequestro di alcuni impianti”. Europa Verde, che ricorda il precedente del governo Draghi, evidenzia che “la Meloni intende seguire la strada del presidente del Consiglio tecnico voluto dall’Europa che lei stessa ha tanto contestato”, augurandosi che “il provvedimento possa essere bocciato dalle stesse forze della maggioranza e da quelle del centrosinistra” e che quei fondi “vengano resi disponibili subito al nuovo commissario alle bonifiche nominato dal governo”. Sulle barricate anche il Codacons, che in un comunicato scrive: “Cambiano i governi, ma sul fronte della tutela della salute dei cittadini di Taranto l’indifferenza e l’immobilismo rimangono purtroppo sempre gli stessi”. Nella nota si ricorda che, come ammesso dai legali di Acciaierie d’Italia, “4 delle misure ambientali previste”, tra cui rientra “la rimozione dell’amianto, ossia una delle cause principali dell’insorgenza di tumori tra lavoratori e cittadini”, non hanno ancora visto la luce “nonostante il termine di legge scaduto ad agosto 2023”.

Il primo intervento della magistratura sulla questione Ilva ha avuto luogo nel 2012, quando la procura di Taranto ordinò il sequestro degli altiforni, valutati come altamente inquinanti. Dall’anno successivo, in seguito al decreto di commissariamento approvato dal governo, la capacità produttiva degli impianti dell’acciaieria (che non hanno realmente mai smesso di funzionare) si è ridotta; al contempo, si è cercato di mettere mano a programmi per il risanamento degli ambienti. Nel 2018 è intervenuto l’acquisto dello stabilimento del colosso dell’acciaio franco-indiano Ancelor Mittal, che avrebbe dovuto risanare l’azienda ma che ha fallito nell’impresa. Nel marzo 2023 il Parlamento ha approvato un decreto con cui ha consentito lo stanziamento da parte dell’Agenzia nazionale per lo sviluppo – di proprietà del Ministero dell’Economia – di 680 milioni ad Acciaierie d’Italia come anticipazione dell’aumento di capitale previsto per il 2024, permettendo dunque di garantire la continuità della produzione dello stabilimento e pagare i fornitori dell’energia, ovvero le aziende pubbliche Eni e Snam. Nel febbraio 2024, il Tribunale fallimentare di Milano ha dichiarato lo stato di insolvenza per Acciaierie d’Italia spa. Nemmeno due settimane dopo, è stato approvato dal Parlamento il decreto salva-Ilva, con cui sono divenute definitive le misure urgenti per consentire l’avvio della procedura di amministrazione straordinaria per Acciaierie d’Italia e lo stanziamento del prestito-ponte di 320 milioni, su cui sarà appunto chiamata a esprimersi l’Unione Europea.

[di Stefano Baudino]

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