martedì 15 Ottobre 2024

Tina Merlin: la giornalista coraggiosa che documentò la minaccia del Vajont

Alle 22.39 del 9 ottobre 1963, una frana di 270 milioni di metri cubi di volume si stacca dal Monte Toc e in una ventina di secondi raggiunge l’invaso della diga del Vajont. L’impatto solleva un’onda di 50 milioni di metri cubi di detriti, roccia, acqua e alberi, che in pochi minuti spazza via la valle sottostante, insieme alla vita di 1917 persone. I corpi di 400 di esse non verranno mai ritrovati. La tragedia del Vajont è ricordata come la più grande carneficina italiana in tempo di pace. Eppure, poteva essere evitata. In tanti avevano provato a dirlo. Tra loro c’era Tina Merlin, giornalista, nata il 19 agosto del 1926, esattamente 98 anni fa. Staffetta partigiana in gioventù, dalle colonne del quotidiano L’Unità Tina aveva raccontato le storie delle famiglie sottoposte a espropri e sfratti per far posto a un’opera che lo Stato considerava vitale, un vanto per l’Italia nel mondo. Nelle sue parole vi era l’altra faccia di questa realtà, che spesso i giornali, ieri come oggi, si rifiutano di raccontare: quella di chi viene schiacciato e costretto a rinunciare a tutto nel nome di un “bene” più grande e del profitto altrui. Per questo, la giornalista venne minacciata e dovette subire addirittura un processo. La sua storia testimonia come, in Italia, la tendenza ad intimidire i giornalisti, soprattutto quelli che indagano su realtà scomode, sia una realtà consolidata e di lungo corso.

«Ogni volta che vengo in questo paese dopo la tragedia che lo ha sconvolto mi sale dentro una rabbia impetuosa, una ribellione, che è quasi più grande della pietà per i morti». Così si esprimeva Tina Merlin all’indomani della tragedia che sconvolse per sempre la storia d’Italia. Un evento che lei aveva predetto, non certo perchè possedeva doti di Cassandra, ma semplicemente per aver dato voce a chi quella valle la viveva e la conosceva. Nata a Trichiana, in provincia di Belluno, da una famiglia povera, all’età di 18 anni Merlin diventa staffetta partigiana, seguendo le orme di uno dei fratelli maggiori, arruolato nella resistenza. Dal 1951 collabora con il quotidiano L’Unità come corrispondente. I suoi articoli di denuncia in merito alle conseguenze della costruzione della diga sui cittadini della valle e sul territorio sono una spina nel fianco per la SADE, l’azienda incaricata dei lavori, e per lo Stato. Una sfida doppiamente oltraggiosa, se si considera che Merlin è donna e pure comunista. Il 5 maggio 1959 pubblica un articolo titolo La SADE spadroneggia, ma i montanari si difendono, nel quale riporta i timori della popolazione di Erto in merito al pericolo che si celava dietro la costruzione della diga. Il pezzo le vale una denuncia per «notizie false e tendenziose volte a turbare l’ordine pubblico». «Io provai una volta ad aiutare questa gente, ma quelli che comandavano avevano paura anche dei miei articoli» commenta lei stessa. «Mi denunciarono all’autorità giudiziaria perchè turbavo l’ordine pubblico. Turbavo evidentemente l’ordine della SADE. Venni processata, ma i giudici mi assolsero con formula piena, anzi sentenziarono che quello che avevo scritto era la verità e che il pericolo pubblico esisteva». La decisione dei giudici si basa in gran parte sul fatto che, il 4 novembre 1960, una frana di 800 mila metri cubi di terra si riversa nell’invaso del Vajont, confermando di fatto i timori dei cittadini di Erto riportati dalla giornalista.

Dopo la tragedia, Merlin scrive il libro Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, ma a causa delle scomode verità contenute al suo interno riesce a trovare un editore solamente vent’anni dopo i fatti, nel 1983. Nel 1991, a soli 65 anni, la giornalista muore a Belluno, dopo aver lottato per un anno contro un tumore. Nemmeno un anno dopo nasce l’associazione culturale Tina Merlin, mentre il capoluogo veneto dà il suo nome ad una scuola, in modo da commemorare l’importanza del suo lavoro, della sua ribellione. Per quanto siano trascorsi ormai oltre 60 anni, infatti, le dinamiche di quanto accaduto al confine tra Veneto e Friuli hanno contorni ancora estremamente attuali. Allora, si diceva, SADE portava «benessere e lavoro». Le stesse parole che sentiamo oggi ripetere per l’Alta Velocità in Val di Susa, per il ponte sullo Stretto e ogni altra grande opera di interesse dello Stato. Tutti contesti nei quali la volontà popolare è ignorata, nel nome di un “bene” più grande – e dei megaprofitti di pochi.

[di Valeria Casolaro]

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