lunedì 2 Dicembre 2024

L’Italia e altri sette Paesi vogliono cambiare la strategia europea in Siria

Il ministro degli Esteri Tajani, insieme agli omologhi di Austria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Grecia, Slovacchia e Slovenia, ha invitato l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri, Josep Borrell, a rivedere le strategie dell’Unione per la Siria, nell’ottica di realizzare in merito una politica più «realista». Secondo quanto espresso dai ministri in una nota, infatti, «il pensiero strategico della UE è in ritardo», con gli «obiettivi politici» fermi al 2017 e mai aggiornati. A fronte dei miliardi di euro erogati in aiuti umanitari, «il popolo siriano è ancora in miseria», mentre il potere di Assad non viene minimamente scalfito, grazie anche al «sostegno di Russia e Iran». Per questo motivo, i ministri ritengono che «sia giunto il momento di ripensare il nostro approccio alla Siria», per garantire al Paese una differente prospettiva futura e fermare il flusso di migranti che parte dal Paese, ad oggi «all’origine della più grande crisi di profughi nel mondo».

Sono infatti 13,8 milioni, secondo i dati del ministero degli Esteri, gli sfollati interni e i rifugiati di un conflitto che ha avuto inizio 13 anni fa e del quale non si intravede la fine. Le iniziative europee per contrastare Assad, basate essenzialmente sulle sanzioni, non hanno fino ad oggi sortito alcun risultato. Nel 2011, all’indomani dello scoppio della guerra civile, l’Unione ha sospeso i rapporti bilaterali con il regime di Assad, adottando anche sanzioni nei confronti di quest’ultimo. Tra le principali misure economiche, che sono state prorogate fino al 1° giugno 2025, vi sono l’embargo di armi, il divieto di importazione di greggio, il divieto a investire nella costruzione di centrali elettriche, restrizioni all’esportazione di alcuni tipi di tecnologie, il divieto di commercio di oro e beni culturali di provenienza siriana e il divieto, per gli istituti finanziari, di aprire nuove filiali in UE. Queste iniziative hanno subito degli aggiustamenti, nel corso degli anni, per poter garantire gli aiuti umanitari alla popolazione – sono stati erogati più di 33 miliardi fino ad oggi, cifra che ha reso l’Unione Europea il maggior donatore internazionale.

Eppure, nessuna di esse ha avuto l’effetto di contrastare in maniera definitiva il potere di Assad, che, come scrive la nota del ministero degli Esteri, «resta saldamente in sella», anche grazie al sostegno elargito al regime di Assad da parte di Paesi quali l’Iran, la Russia e la Cina. A conferma di ciò vi è il fatto che, nel maggio dello scorso anno, la Lega Araba ha riammesso il Paese tra i propri membri. «I ministri degli esteri di Giordania, Arabia Saudita, Iraq ed Egitto hanno sottolineato la priorità di porre fine alla crisi e a tutte le morti e le distruzioni che ha causato, e di porre fine alle sofferenze del popolo siriano e alle ripercussioni negative regionali e internazionali della crisi, attraverso una soluzione politica che preservi l’unità, la coesione e la sovranità della Siria, che soddisfi le aspirazioni del suo popolo e contribuisca alla promozione di condizioni favorevoli al ritorno volontario e sicuro dei rifugiati, alla partenza di tutte le forze straniere illegali dalla Siria, alla realizzazione degli interessi nazionali e al ripristino della sicurezza, della stabilità e del ruolo della Siria» riporta il documento finale di un incontro svoltosi ad Amman, in Giordania, tra i ministri degli Esteri dei Paesi membri della Lega.

La guerra civile in Siria prende le mosse dalla “primavera araba”, espressione giornalistica affermatasi per indicare quel vasto movimento di proteste che, a partire dal 2011, ha coinvolto, oltre alla Siria, anche Tunisia, Egitto, Libia e Yemen. Questi tumulti, nati dal basso, hanno fornito il pretesto perfetto alle potenze occidentali per intervenire, con l’obiettivo di “esportare la democrazia” (in particolare agli Stati Uniti, come illustrato in un approfondimento dedicato specificamente a questo conflitto, dal titolo Siria e Yemen, due guerre per procura tutt’altro che finite, contenuto nel Monthly Report n. 35 de L’Indipendente). Il conflitto si è trasformato di fatto in una guerra per procura e, ad oggi, rappresenta il secondo peggiore al mondo per le ricadute sulla popolazione civile. Secondo i dati dell’UNHCR, infatti, oltre il 70% della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria, mentre il 90% vive al di sotto della soglia di povertà.

[di Valeria Casolaro]

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