lunedì 2 Dicembre 2024

Il falso mito della resilienza: istruzioni per l’uso

Negli ultimi vent’anni le televisioni, la radio, i giornali non hanno fatto altro che parlare di resilienza. Tra i tanti vocaboli che hanno infestato i quotidiani e le trasmissioni televisive, resilienza occupa un posto d’onore. Tutti la usano: giornalisti, psicologi, economisti, politici. Addirittura compare all’interno del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza appunto. Per capire perché sia nata la moda dilagante di usare questa parola, è necessario rileggersi Steinbeck. 

Furore di John Steinbeck è uno di quei romanzi che dovrebbero far parte della biblioteca ideale di ogni lettore, ma i suoi sfollati, i suoi desiderati, i suoi uomini alla disperata ricerca di un lavoro o perlomeno del miraggio di un lavoro non erano così interessanti negli anni Sessanta, all’epoca del grande boom economico. Non avevano molto in comune neanche con gli anni Ottanta; difficilmente il grido di Steinbeck contro la voracità delle banche e il liberalismo selvaggio avrebbe fatto breccia nelle orecchie degli yuppies.

La storia della famiglia Joad costretta ad abbandonare la propria terra per cercare lavoro altrove parla direttamente all’Europa degli anni Duemila, a quell’Europa fiaccata dalla crisi del 2008 prima e dalla pandemia poi. Non abbiamo assistito a un esodo di massa né abbiamo visto le autostrade invase da convogli di sfollati, ma siamo stati testimoni del grido d’impotenza delle imprese che chiudono, dei prezzi che aumentano, delle tasse che si moltiplicano.

Se I miserabili è il poema di Parigi e dei suoi bassifondi, e Guerra e pace il poema della Russia e dei suoi salotti, Furore è il poema della Grande Depressione e dei suoi diseredati. Furore è il poema di quel mezzo milione di contadini che abbandonarono le loro case e le pianure inaridite del Midwest e s’incamminarono lungo la Route 66 in un esodo di massa verso la California. È il poema della crisi, «di chi scappa dalla polvere e dal rattrappirsi della proprietà, di chi fugge dai turbinosi venti che arrivano ululando dal Texas e dalle inondazioni che non portano ricchezza alla terra ma la depredano di ogni ricchezza residua». 

Quando la famiglia Joad approda finalmente in California, la terra promessa si rivela in realtà una sorta di deserto dei diritti e delle garanzie. La legge della domanda e dell’offerta regola con precisione matematica il mercato agricolo: se qualcuno rifiuta un salario così basso, ci sarà qualcun altro che lo accetterà. Quando calerà ancora, qualcun altro avrà così fame da accettarlo. L’agricoltura è diventata a tutti gli effetti un’industria, e i proprietari emulano l’antica Roma. Importano schiavi, anche se non li chiamano schiavi. Il libero mercato infatti ha trasformato i cittadini, fiaccati dalla fame, in inconsapevoli crumiri di un caporalato economico.

«Metti che tu hai lavoro per un operaio, e che per avere quel posto si presenta solo uno. Ti tocca dargli la paga che vuole. Ma metti che si presentano in cento. Metti che quei cento hanno dei bambini, e che quei bambini sono affamati. Tu offrigli cinque centesimi, e vedi se non s’ammazzano tra loro per avere i tuoi cinque centesimi».

Se Steinbeck fosse vissuto nei nostri anni, non avrebbe esitato a mettere la parola resilienza in bocca ai ricchi magnati dell’industria agroalimentare. La diffusione di questo vocabolo in Italia è coincisa con lo scoppio della crisi economica del 2008 ed è nuovamente tornato in auge durante gli anni della pandemia. L’uso, la diffusione e la ciclica predominanza di determinate parole non sono mai casuali. Le parole non sono soltanto un insieme di lettere, di segni grafici e di suoni, ma racchiudono idee, filosofie e visioni; definiscono orizzonti politici e culturali. Cosa contiene, cosa racchiude allora la parola resilienza? Una rappresentazione neanche poi tanto simbolica dei rapporti che intercorrono tra stato e cittadino, tra azienda e lavoratore. Ma per capire appieno la portata di questa parola, occorre ripercorrerne la storia.

Resilienza è una parola presa in prestito dal mondo della fisica. Ha resilienza un «materiale capace di assorbire continui urti senza rompersi. Restando intatto, inerte». La plastica è resiliente. La gomma è resiliente, non importa quanto la colpisci, resta sempre uguale. Il vinile è resiliente, un materiale che viene usato per le pavimentazioni. Flessibilità, adattabilità, resilienza, tutti aggettivi che vanno di moda nel mondo del lavoro, sono presi in prestito dallo stesso mondo: quello delle pavimentazioni. 

In una società in cui i lavoratori sono chiamati «risorse umane», in cui le vittime delle guerre prendono il nome di «danni collaterali e costi umani», come nei bilanci aziendali, in cui si appellano i migranti con il nome di «carico residuale», gli esseri umani devono vantare qualità e caratteristiche proprie del mondo inorganico, devono essere resilienti. 

Nel romanzo di Steinbeck la protesta dei contadini è soffocata nel sangue; oggi invece la repressione del dissenso non è visibile. È manifesta ma pervasiva e nascosta; indossa i guanti di velluto, passa attraverso la manipolazione linguistica. La resilienza non è soltanto una parola ma è una filosofia iscritta all’interno di una narrazione che ha mitizzato lo sfruttamento esaltando il precariato e l’apprendistato infinito. Fanno parte di questa narrazione storie come quella della bidella pendolare che trascorre otto ore al giorno in treno o del rider felice di percorrere cinquanta chilometri in bicicletta per consegnare un panino. La filosofia della resilienza disciplina il malcontento, stempera la rivolta, seda la ribellione, oscura, marginalizza e stronca qualsiasi critica al sistema, mentre esalta, promuove e incoraggia una placida, arrendevole acquiescenza, incoraggiando ad oltranza l’adattamento dell’individuo. 

Il contrario della resilienza la troviamo nel finale di Furore. La violenza con cui i cartelli dei coltivatori piegano e stroncano ogni resistenza, alla fine fa maturare in Tom, il maggiore dei Joad, il seme della rivolta, della ribellione, della lotta. La rassegnazione cede il posto al furore. «Io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto… sarò negli urli di quelli che si ribellano», con queste parole Tom Joad prende congedo da noi lettori. Furore in questo senso non è soltanto un titolo simbolico, allusivo, una parola dalla forte carica eversiva, esprime anch’essa come parola una filosofia, una critica potente, un orgoglio che si desta, una voglia di rivendicazioni. La rabbia diventa quindi la conditio sine qua non del cambiamento, un bel passo in avanti rispetto alla mollezza, alla docilità, all’inerzia racchiusa all’interno della filosofia della resilienza.

[di Guendalina Middei, in arte ”Professor X”]

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15 Commenti

  1. Articolo molto lungo, ma manca la consapevolezza che semplicemente resilienza in Inglese resta uguale diventando resilience, mentre ad esempio sopportazione diventa un’irriconoscibile endurance, alla fine vinceranno le parole più comuni alla varie lingue e parleremo tutti un esperanto delle parole antiche😹

  2. Resilienza, parola d’ordine della restaurazione assieme a ‘merito’. Due concetti distopici.
    L’unico neo è che da un po’ ho smesso di vedere i diseredati della terra come i legittimati alla rivolta, al furore.
    I veri diseredati sono gli animali, vittime sacrificali anche dei diseredati umani. Diseredati che smettono di fare pietà, perché quando diventi carnefice di chi è più indifeso di te sei solo una misera pedina nell’ingranaggio mortale del potere e del dominio.
    E se non riesci a vedere che hai lo stesso ruolo del kapò meriti solo la fine che farai. Nessuna pietà per i violenti, i sadici e gli stupidi

    • D’accordissimo sig. Piero, senza nulla togliere ai diseredati umani, agli sfruttati, le più grandi vittime sono gli animali, in particolare mi riferisco a quelli negli allevamenti intensivi, quelli sono i veri ultimi. Quando mi dicono che ognuno può scegliere liberamente se alimentarsi di animali senza influire sugli altri dico si, avete ragione; solo gli animali non possono fare questa scelta.

  3. Professore X non delude mai chi la segue ed anche questo articolo avvince nonostante l’argomento e quella parola presa in prestito dalla fisica che al mio orecchio suona istintivamente così male : resilienza. No non è resistenza ma accettazione senza condizioni di ciò che ti viene imposto da una società malata basata sullo sfruttamento di materie ma soprattutto di esseri umani condizionati e resi schiavi in nome del profitto. Che brutta parola . Sarebbe bello cominciare da lei per dire basta .

  4. Bell’articolo e grande romanzo di Steinbeck. Lo scrittore anticipa, fin dall’inizio del romanzo, scenari che erano già presenti nello sviluppo capitalistico Usa come la “spersonalizzazione” del padronato. Il protagonista si duole, giustamente, che non ci sia qualcuno (fisicamente riconoscibile) verso cui protestare, fare le proprie rimostranze, ecc……ma una proprietà invisibile, ma in realtà ben presente. Quanto alla resilienza, bel termine, indiscutibile capacità, ma la sua retorica mi sembra un modo per dirci: dovete resistere, nel senso del dovere riuscire ad accettare lo status quo. Anche no

  5. Resilienza è la capacità delle piante o di un ambiente di riprendersi dopo un incendio o una catastrofe, un’infestazione, eccc mi dissero a Botanica 1. Mi sembra venga usato come “resistenza” da molti, e a caso da molti di più. Forza e coraggio comunque.

    • D’accordissimo sig. Piero, senza nulla togliere ai diseredati umani, agli sfruttati, le più grandi vittime sono gli animali, in particolare mi riferisco a quelli negli allevamenti intensivi, quelli sono i veri ultimi. Quando mi dicono che ognuno può scegliere liberamente se alimentarsi di animali senza influire sugli altri dico si, avete ragione; solo gli animali non possono fare questa scelta.

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