martedì 8 Ottobre 2024

Assange vince all’Alta Corte di Londra: potrà fare appello contro l’estradizione negli USA

Julian Assange ha ottenuto un’importante vittoria nella sua battaglia giudiziaria contro l’estradizione negli Stati Uniti d’America. I giudici dell’Alta Corte di Londra, chiamati a esprimersi sul diritto di Assange di presentare un nuovo appello nel Regno Unito – dove il giornalista australiano si trova detenuto dal 2019 – gli hanno infatti dato ragione, scongiurando così la sua immediata estradizione negli USA. A marzo, la Corte aveva stabilito che Assange avrebbe potuto presentare un nuovo ricorso contro l’estradizione in Gran Bretagna soltanto se l’amministrazione Biden non fosse stata in grado di fornire adeguate garanzie in merito a una serie di diritti di cui Assange deve poter godere di fronte ai tribunali USA, tra cui quello di appellarsi al Primo Emendamento alla Costituzione statunitense, concernente la libertà di espressione. Le rassicurazioni americane, arrivate a marzo, non sono state ritenute sufficienti. Essendoci, secondo i giudici, fondati i timori di un processo non giusto oltreoceano, questo round è stato dunque vinto da Assange e dai suoi legali. Sul giornalista australiano pesa un’incriminazione per spionaggio da parte degli USA in seguito alla pubblicazione di migliaia di documenti riservati e diplomatici del governo americano, per cui rischia fino a 175 anni di carcere.

Dopo essersi riunita in udienza lo scorso 20 e 21 febbraio, l’Alta Corte di Londra aveva spazzato via sei delle nove obiezioni alla richiesta statunitense di estradare Assange formulate dai suoi avvocati. Contestualmente, aveva però chiesto agli USA di fornire adeguate rassicurazioni sulle tre rimanenti, ovvero: la mancanza di garanzie che Assange, per difendersi, avrebbe avuto il diritto di invocare il primo emendamento alla Costituzione statunitense in quanto cittadino australiano (le estradizioni sono proibite se l’imputato rischia di non godere degli stessi diritti dei cittadini del Paese richiedente); la mancanza di garanzie che Assange non avrebbe subito discriminazioni durante l’eventuale futuro processo proprio perché non può invocare la cittadinanza USA come protezione; la mancanza di garanzie contro un’eventuale condanna alla pena di morte da parte del tribunale statunitense che avrebbe processato Assange. Le rassicurazioni inviate dagli USA hanno accolto gli ultimi due punti, garantendo che Assange “non subirà alcun pregiudizio a causa della sua nazionalità per quanto riguarda le difese che potrà cercare di sollevare al processo e alla sentenza” e che “una condanna a morte non sarà né richiesta né imposta ad Assange. Sono al contrario rimaste estremamente vaghe sul primo, affermando che Assange “avrà la possibilità di provare a fare affidamento su un processo che sia sotto la protezione del primo emendamento”, ma che tale decisione “potrà essere presa solo dalla Corte americana”. Nel corso dell’udienza di oggi, il team di legali che difendono Assange non ha contestato le garanzie sulla pena di morte, accettando che si trattasse di una “promessa inequivocabile da parte dell’esecutivo”, ma ha concentrato le sue obiezioni sulla questione inerente le garanzie sul Primo Emendamento. Gli avvocati di Assange hanno sostenuto che gli Stati Uniti hanno fornito garanzie «palesemente inadeguate» sul fatto che il fondatore di WikiLeaks sarebbe stato tutelato dalla libertà di stampa in caso di estradizione negli USA per affrontare le accuse di spionaggio.

I giudici Victoria Sharp e Jeremy Johnson hanno dichiarato che Assange ha le basi per impugnare l’ordine di estradizione del governo britannico attorno alle ore 12.30 (le 13.30 italiane). Alla lettura del verdetto, i migliaia di sostenitori del giornalista australiano accorsi oggi nei pressi del palazzo in cui ha avuto luogo l’udienza hanno fatto partire cori rumorosi e applausi scroscianti. Gran parte degli attivisti pro-Assange erano già presenti in loco da questa mattina, scandendo per ore slogan come “Assange libero” e tenendo in mano cartelli con la scritta  “Non estradate Assange” o “Il giornalismo non è un crimine”. Fra i presenti, oltre all’avvocato Stella Morris, moglie di Assange, e a John Shipton padre del fondatore di WikiLeaks, c’erano anche l’ex leader laburista britannico Jeremy Corbyn, parlamentari australiani e di altri Paesi e militanti di organizzazioni umanitarie come Amnesty International. In vista delle prossime tappe, grazie al verdetto di oggi la lotta di Julian Assange acquisisce nuova linfa, nonostante l’enorme silenzio mediatico dei media occidentali continui a pesare in maniera dirimente sulla disinformazione e la mancata consapevolezza collettiva attorno a questa vicenda.

[di Stefano Baudino]

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