sabato 27 Aprile 2024

La falsa opposizione tra sicurezza e rispetto pieno dei diritti umani

I diritti umani sono diritti fondamentali che spetterebbero, senza distinzione alcuna, ad ogni soggetto in ragione della sua condizione umana, e sono essenziali per la dignità, la sopravvivenza e lo sviluppo umano. Ma dopo 75 anni dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, le nostre società sono riuscite davvero ad universalizzare e ad estendere il riconoscimento di questi diritti naturali e inalienabili a tutti gli individui? Basta fare un giro sui social network per osservare che ci sono categorie sociali che vengono discriminate e deumanizzate e, per questo motivo, sono percepite come meno umane e quindi non idonee al beneficio di alcun diritto: i carcerati, i migranti, i neri, alcune etnie come i rom e i sinti, i senzatetto, la comunità LGBTQ+, sono solo alcuni esempi di tutti quei gruppi categorizzati e marginalizzati. Frasi e pensieri come «chiudiamolo in prigione per tutta la vita e buttiamo via la chiave», oppure «respingiamo i barconi», sono largamente diffusi, anche se si pongono in netto contrasto con i principi fondamentali sanciti dalla Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948, come il diritto di migrare e il diritto alla libertà e alla vita.

Contraddizioni sociali e il ritardo nell’applicazione dei diritti umani

Come direbbe Rousseau nel Contratto Sociale, «i diritti proclamati sulla carta tardano ad essere applicati», e questo avviene anche perché le nostre società moderne sono attraversate da profonde contraddizioni e tensioni irrisolte. Innanzitutto, per riuscire ad applicare indistintamente i Diritti Umani a tutte le persone, occorrerebbe riconoscere a tutti gli individui l’appartenenza alla condizione umana senza alcuna discriminazione razziale, abilista, sessista, religiosa, sociale, economica e culturale. Oggi tuttavia, questo processo di riconoscimento dell’altro non avviene perché le società moderne in cui viviamo, fondate sull’individualismo economico astratto, sono profondamente disgregate, atomizzate, frammentate e competitive al punto che, secondo la sociologa Saskia Sassen, dagli anni ‘70 sono in atto pratiche di espulsione e di esclusione di intere fette di popolazione dalla società.

Il problema principale del riconoscimento universale dei Diritti Umani è rappresentato dal fatto che, sia a livello istituzionale, sia a livello sociale, non tutti gli individui sono considerati umani, o comunque completamente tali, creando di fatto una scala gerarchica dove chi è più umano ha più diritti mentre chi è meno umano deve essere meno tutelato. Se non viene quindi riconosciuta a chiunque la condizione umana, ovvero la condizione necessaria per beneficiare dei Diritti fondamentali, come possiamo pretendere che questi possano essere universali? Se non riconosciamo gli altri individui come nostri pari e come essere umani con la nostra stessa dignità non potremo mai considerarci tutti uguali e liberi, e quella dei Diritti Umani rimarrà, come sostiene Slavoj Zizek, una concezione retorica e strumentale necessaria ad estendere l’egemonia occidentale e capitalista nei Paesi del Terzo Mondo. Quello su cui si vuole riflettere, in altre parole, è il fatto che la società capitalistica moderna è intrinsecamente egoista, individualista, competitiva, gerarchica ed escludente e produce per questo disuguaglianze, discriminazioni e pregiudizi estremi che rendono il terreno fertile alla proliferazione dei processi di deumanizzazione che portano a riconoscere l’Altro diverso da sé. Siamo davvero convinti, quindi, di essere tutti uguali e di vivere in una società che promuove l’uguaglianza tra gli uomini e quindi le condizioni per l’applicabilità di questi diritti naturali?

Il dilemma del riconoscimento universale e le sue implicazioni

Dagli anni ‘70 abbiamo assistito allo smantellamento del modello keynesiano e dei sistemi inclusivi e solidaristici di welfare state e all’ascesa della dottrina neoliberista la quale, al contrario, si basa su una concezione profondamente individualista ed egoistica dell’uomo. Margaret Thatcher, primo Capo di Stato insieme a Ronald Reagan ad attuare le teorie neoliberiste, rilasciò la celebre frase secondo cui «non esiste la società, esistono gli individui», i quali devono perseguire egoisticamente i propri interessi privati. L’essenza economica del liberismo fu enunciata nel modo più esplicito dall’economista austriaco Eugen von Böhm-Bawerk secondo il quale «un mercato è un sistema giuridico». In pratica, questo vuol dire che l’economia ed i suoi principi strutturano il diritto ed il sistema giuridico e vanno a regolare i rapporti sociali tra gli individui secondo logiche privatistiche, razionali, competitive ed utilitaristiche, andando ad atomizzare e disgregare il popolo. Anche Marx, in Per la critica dell’economia politica (1859), teorizza che la struttura economica influenza e determina la sovrastruttura politica, culturale e giuridica. Ma una sovrastruttura fondata sui principi economici della concorrenza, dello sfruttamento, dell’arrivismo, dà vita a una società profondamente gerarchica, divisa e violenta che crea le condizioni per l’accentuarsi dei processi di delegittimazione dell’altro nella subdola gara dell’arrivismo sociale ed economico.

Kelman è stato tra i primi studiosi a evidenziare il legame tra violenza e deumanizzazione. Secondo lo studioso, chi è membro di un gruppo che occupa una posizione di potere in rapporto a un altro gruppo deprivato di ogni potere, in determinate circostanze storiche giunge a superare ogni sentimento empatico verso i suoi interlocutori deboli, attraverso la negazione degli elementi prettamente umani e delle caratteristiche dell’individuo. In seguito a tale negazione, l’individuo o il gruppo sociale colpito cessa di essere tutelato e diventa vittima di aggressioni, violenze e atrocità. Per Chiara Volpato, docente presso il Dipartimento di psicologia dell’Università Milano-Bicocca, la deumanizzazione è «la negazione dell’umanità, un processo che introduce un’asimmetria tra chi gode delle qualità prototipiche dell’umano e chi ne è considerato carente». È una forma radicale di svalutazione dell’altro che porta all’esclusione di determinati individui o di intere categorie sociali dal gruppo degli esseri umani.

Allport ha definito la deumanizzazione come la tipologia più estrema di pregiudizio, che colpisce individui e gruppi posti fuori dall’orizzonte morale, vale a dire da quell’orizzonte che racchiude i gruppi considerati civili e meritevoli di diritti, attenzione e compassione. Alla base del pregiudizio, ossia quell’atteggiamento che coinvolge giudizi, emozioni e azioni svalutative verso un individuo, ci sarebbe sempre un processo di categorizzazione sociale: il pregiudizio è tale proprio perché viene subìto da un individuo in quanto appartenente ad una specifica categoria.

Secondo la Teoria dell’Identità Sociale di Tajfel e Turner, il favoreggiamento del proprio gruppo (il cosiddetto ingroup) e la discriminazione nei confronti degli altri gruppi (outgroup) si basano sulla motivazione individuale di mantenere alta l’autostima, l’identità personale e lo status socio-economico. Poiché l’immagine di sé è legata ai gruppi a cui ci identifichiamo, cerchiamo di promuovere un’immagine positiva del nostro gruppo a discapito degli altri gruppi attraverso confronti sociali. Gli studi condotti da Tajfel, Billig, Bundy e Flament nel 1979, hanno dimostrato che la categorizzazione in gruppi diversi (ingroup vs outgroup) è una condizione necessaria e sufficiente per lo sviluppo di conflitti ingroup e per la discriminazione e la deumanizzazione dei membri dell’outgroup.

Neoliberismo, gerarchie sociali ed egoismo: impatti sui diritti umani

La deumanizzazione, quindi, si riferisce a forme estreme di discriminazione in cui viene negata totalmente o parzialmente l’umanità degli altri, percependoli come meno umani, non umani o sub-umani. Questa forma di discriminazione è considerata particolarmente grave in quanto mette in discussione una delle caratteristiche fondamentali della persona, cioè la sua umanità. La deumanizzazione è stata identificata come un fattore che può precedere atrocità e violenza collettiva. Infatti, quando si deumanizzano i membri di un gruppo, li si considera meno umani rispetto al proprio gruppo, il che può legittimare la loro esclusione dalla comunità umana, promuovendo il disimpegno morale e favorendo l’aggressività nei loro confronti. Da alcune ricerche nell’ambito dell’infraumanizzazione, è emerso che le emozioni secondarie, ovvero quelle emozioni considerate esclusivamente umane, vengono attribuite maggiormente ai membri del proprio gruppo (ingroup) piuttosto che ai membri di un altro gruppo (outgroup). Questa mancanza di attribuzione di emozioni secondarie ai membri dell’outgroup suggerisce che essi vengano percepiti in modo sottile come meno umani rispetto ai membri dello stesso gruppo.

Nelle nostre società capitalistiche ed individualiste viene quindi a presentarsi un cortocircuito di fondo che genera un circolo vizioso di violenza. Le espressioni collettivistiche culturali, sociali e politiche della modernità si fondano quindi su una concezione dell’uomo individualista, utilitaristica, astratta e borghese, quindi slegata dalla sua dimensione concreta e dai legami con la natura e con gli altri uomini. Secondo Denis de Rougemont, l’uomo moderno ha perso di vista la misura dell’umano: «è l’uomo spaesato che fugge di fronte alla trascendenza, di fronte a sé stesso, alla sua umanità, al suo destino particolare e alla propria responsabilità, e che adora quei falsi dèi che sono la Storia, lo Stato, la nazione, il denaro, la classe o il destino della razza». Queste forme di collettivismo che nascono come reazione aggregativa all’individualismo, che siano di matrice ideologica, razziale, sociale o nazionale, possono creare delle differenziazioni e delle categorizzazioni che, come abbiamo visto, soprattutto in un contesto governato dai principii economici della competizione, alimentano quelle forme di discriminazione e di deumanizzazione verso i gruppi sociali più deboli o considerati per qualche motivo nemici.

Chi subisce questa forma di attacco si sente degradato e umiliato; chi la attua prova disgusto e disprezzo verso i soggetti in questione. «I gruppi sociali di volta in volta esclusi dalla pienezza dell’umano, come donne e popoli barbari, sono sottoposti a trattamenti che dipendono dalla percezione della loro pericolosità», spiega la professoressa Volpato. «Quando sono paragonati ad animali domestici diventano oggetto di atteggiamenti paternalistici e di azioni di sfruttamento; quando sono paragonati ad animali selvaggi sono considerati nocivi e quindi disprezzati, repressi, sterminati». Nel mondo occidentale, un frequente ricorso all’animalizzazione si è verificato durante il colonialismo, «allo scopo di rafforzare la superiorità europea, per criminalizzare i nemici e stigmatizzare i gruppi considerati inferiori». Questi processi di deumanizzazione non avvengono solamente a livello etnico-razziale per giustificare forme di colonialismo e la superiorità di un determinato popolo, ma sono presenti a ogni livello della società e in ogni rapporto tra gruppi sociali, proprio in ragione della natura gerarchica, subalterna e competitiva del sistema capitalista e delle società moderne.

L’epoca moderna è un’epoca di profonde frammentazioni e divisioni che favoriscono le categorizzazioni sociali e i conflitti tra di esse per rafforzare la propria identità e la propria legittimazione a scapito, però, della delegittimazione e della deumanizzazione dell’altro. Come afferma Denis de Rougemont, dovremmo per prima cosa uscire dalla tensione moderna tra individualismo e collettivismo per giungere ad una dimensione comunitaria che metta al centro l’uomo concreto ed i suoi legami con la natura e con gli altri. All’individuo astratto, anonimo, assente a sé stesso e separato dal mondo, definito solamente attraverso i suoi diritti, Rougemont antepone dunque l’uomo concreto, reale, esistente: la persona, che rappresenta ai suoi occhi l’umano per eccellenza. Solamente in questo modo, forse, non avremmo più il bisogno di dividerci in categorie sociali e di delegittimarci all’interno della gerarchizzazione sociale imposta dal sistema capitalista moderno e saremo tutti, semplicemente, uomini concreti con dei diritti concreti.

[di Gioele Falsini]

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2 Commenti

  1. Chiunque può sentirsi discriminato se viene vessato ingiustamente da chi si reputa superiore è un comportamento umano che nasce dalla convinzione che il denaro il potere la posizioni sociali diano diritti e privilegio preclusi a chi non li possiede. Di cosa parla chi ritiene di essere superiore o migliore di? Se analizziamo singolarmente ogni caso ci rendiamo subito conto che chi si inalbera per le discriminazioni finisce inevitabilmente per discriminare a sua volta chi la pensa diversamente, difende qualcosa che alla fine pratica e in questo momento i giornali mi pare siano saturi di racconti sulle discriminazioni dietro cui si nasconde una tale ipocrisia ideologica non verificata dai fatti in modo realistico per fare l’esempio più pratico le manifestazioni di Pisa si grida alle manganellate verso gli studenti condanna da ogni parte come ingiuste, ma il motivo che le ha scatenate viene eluso i poliziotti spitonati e sputati non sono discriminati?

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