domenica 28 Aprile 2024

Giustizia o estradizione? La vicenda di Julian Assange a un punto cruciale

La vicenda di Julian Assange, giornalista ed editore australiano cofondatore con John Young dell’organizzazione internazionale WikiLeaks, ha condotto l’Occidente a un confronto insostenibile tra verità e menzogna, che riguarda la strategia degli Stati, la credibilità delle istituzioni, la libertà d’informazione e la vita dei cittadini. In discussione non ci sono solo i temi della sicurezza e del controllo, dei diritti individuali e sociali, ma anche della trasparenza e della manipolazione dei fatti e dell’opinione pubblica, dilatata dai media e pilotata dalle oligarchie al comando. E il capitolo conclusivo di questa vicenda potrebbe essere scritto tra oggi e domani.

Il caso giudiziario

Cominciamo dalla fine, che non è nota. A gennaio 2024 le agenzie di stampa battono: “Caso Assange: ultima possibilità a febbraio nei tribunali GB per stop estradizione del giornalista”. L’Alta Corte del Regno Unito ha confermato che oggi e domani, martedì 20 e mercoledì 21 febbraio, si svolgerà un’udienza pubblica di due giorni: potrebbe essere la chance finale per evitare ad Assange di essere tradotto oltre oceano. Dopo la comunicazione della data del processo, i suoi sostenitori hanno risposto annunciando una manifestazione per la giornata di domani, giorno conclusivo dell’udienza – chiamato Day X – davanti al tribunale, a partire dal mattino. Invitano inoltre tutti coloro che sostengono la libertà di stampa a unirsi alla protesta a Londra e nel mondo (in Europa, Australia e USA). Se estradato, il prigioniero – detenuto nel carcere londinese di massima sicurezza di Belmarsh da oltre 4 anni senza alcun processo – rischia una condanna fino a 175 anni per aver denunciato crimini di guerra commessi dagli Stati Uniti nelle guerre in Afghanistan e Iraq, secondo l’Espionage Act, una legge americana risalente al 1917. Mentre finora non è mai stato dimostrato che le rivelazioni di WikiLeaks abbiano causato alcun tipo di danno alla rete dei soggetti coinvolti.

Un recente aggiornamento sul caso si è tenuto il 18 gennaio, con relatori come Stella Moris, avvocata sudafricana per i diritti umani e moglie di Julian, i parlamentari britannici David Davis, Jeremy Corbyn e Richard Burgon, e il comico inglese Alexei Sayle. “L’appello ai cittadini statunitensi – sostengono dalla campagna Free Julian Assange – è di contattate i propri rappresentanti al Congresso e domandare loro di firmare la nuova risoluzione bipartisan, che chiede di far cadere le accuse contro Julian”. Ecco la motivazione: “Le attività giornalistiche regolari sono protette dal Primo Emendamento e gli Stati Uniti dovrebbero ritirare tutte le accuse e i tentativi di estradare Julian Assange”. Dal canto loro, i parlamentari australiani hanno scritto una lettera al ministro dell’Interno britannico, James Cleverly, esortandolo a “valutare i rischi di estradizione negli Stati Uniti e a rivedere la salute e il benessere di Assange per tenerlo al sicuro”.

Charles Glass intervista il prigioniero in carcere

[La prigione di massima sicurezza di Belmarsh]
Il cronista angloamericano di The Nation Charles Glass il 13 dicembre ’23 si reca a Belmarsh, prigione di Sua Maestà, per incontrare Assange. L’intervista è un documento importante, eccone alcuni stralci: «Sono le 14.30 di mercoledì quando Julian Assange entra nell’area visitatori. Nel gruppo di 23 detenuti, Julian si distingue per la sua altezza – 188 centimetri – e per i lunghi capelli bianchi e la barba curata. Stringe gli occhi, cercando un volto familiare nella folla di mogli, sorelle, figli e padri degli altri detenuti. Lo sto aspettando, secondo quanto mi era stato detto, alla zona D-3 della sala, che sembra un campo da basket. È una delle circa 40 zone, tutte consistenti in un tavolino circondato da tre sedie imbottite, due blu e una rossa, avvitate al pavimento». «Ci scorgiamo, ci avviciniamo e ci abbracciamo. È la prima volta da sei anni che me lo rivedo davanti. Mi scappa detto: “Sei pallido”. Con quel suo sorriso malizioso che ho visto in tanti incontri nel passato, Julian mi dice scherzando: “Già. Lo chiamano pallore da galeotto”. Non ha praticamente più conosciuto l’aria aperta da quando si è rifugiato nell’angusta ambasciata ecuadoriana di Londra, nel giugno 2012 – salvo per quel minuto mentre la polizia lo trascinava in un furgone penitenziario. Prima del 2019, le portefinestre dell’ambasciata almeno lasciavano intravedere il cielo. Invece nel carcere di Belmarsh, nel sud-est di Londra, sua dimora dall’11 aprile 2019, Julian non vede mai il sole. I secondini lo tengono confinato in una cella per 23 ore su 24. La sua unica “ora di ricreazione” si svolge tra quattro mura, sotto sorveglianza. Si capisce dunque il perché di quel pallore, da moribondo. Julian e io ci sediamo, faccia a faccia, io sulla sedia rossa, lui su una di quelle blu. Sopra di noi, globi di vetro nascondono le telecamere che registrano le interazioni tra i detenuti e i loro ospiti». «Non sapendo come iniziare la conversazione, gli chiedo se vuole qualcosa dal bar. Chiede due cioccolate calde, un panino al formaggio e sottaceti e una barretta Snickers. Lo invito a venire con me e a fare le sue scelte. “Non è permesso”, dice. Vado da solo a mettermi in fila allo stand gestito dai volontari dei Samaritani di Bexley e Dartford. Quando arriva il mio turno, faccio l’ordinazione. I panini sono finiti, dice l’omino. Ma il resto del cibo è spazzatura: patatine, barrette di cioccolato, muffin dolci. Torno da Julian, che ha cambiato posto. La sedia rossa è per i detenuti, quella blu per i visitatori e una guardia gli aveva ordinato di prendere il posto giusto».

Le condizioni di prigionia: cibo scadente e una radiolina per connettersi al mondo

[Le dimensioni della cella di Assange riportate in strada durante una manifestazione di free assange italia]
«Chiedo perché fosse disponibile solo cibo poco salutare. Sorride e mi dice che dovrei vedere cosa mangiano lì dentro con un budget di € 2.30 per detenuto al giorno. Al giorno? Già: una farinata (porridge) per colazione, zuppa leggera per pranzo e poco altro per cena. (…) Poi mi scuso per non aver potuto dargli dei libri, spiegando che mi avevano detto che aveva superato il limite. Sorride di nuovo. Nei primi mesi gli hanno permesso una dozzina di libri. In seguito, fino a 15. Lui ha insistito per averne di più. “Quanti ne hai adesso?”. “232”, dice maliziosamente. È il mio turno di sorridere». «Gli chiedo se ha ancora la radiolina che aveva faticato a ottenere il primo anno. Ce l’ha, ma non funziona più a causa di una spina difettosa. Il regolamento consente a ogni detenuto di avere una radiolina acquistata nei negozi del carcere. Ma poi le autorità hanno sostenuto che non c’era più disponibilità di apparecchi radio per lui. Quando l’ho saputo, gli ho mandato una radiolina. Mi è stata restituita. Poi gli ho inviato un libro su come costruire una radio. Anche quello mi è stato restituito. Ho contattato uno dei più noti ex ostaggi britannici di Hezbollah per chiedere un consiglio. Infatti, l’ascolto del BBC World Service sulla radiolina, che i suoi rapitori gli avevano dato, gli aveva permesso di non impazzire. E allora, dietro mia sollecitazione, Julian ha scritto al governatore della prigione, dicendo che sarebbe stata una cattiva pubblicità se fosse uscita la notizia che Belmarsh negava ad Assange un privilegio che Hezbollah concedeva ai suoi ostaggi. La prigione ha dato a Julian la sua radio».

Ma come fa a tenersi completamente aggiornato, lui che è così appassionato delle notizie del mondo? «Il carcere gli permette di leggere le rassegne stampa; inoltre, gli amici gli scrivono. Con l’invasione dell’Ucraina e di Gaza, dico, ci dovrebbero essere tante occasioni, per i whistleblower (gli informatori) del mondo, di inviare documenti a WikiLeaks – no? Julian esprime il suo rammarico per il fatto che WikiLeaks non è più in grado di denunciare i crimini di guerra e la corruzione come in passato. La sua incarcerazione, la persecuzione del governo statunitense e le restrizioni poste ai finanziamenti di WikiLeaks non hanno fatto altro che allontanare i potenziali informatori. Esprime la paura che gli altri media non riescano a colmare il vuoto». «Il regime è punitivo, anche se i circa 700 abitanti di Belmarsh sono lì soltanto in custodia cautelare, cioè in attesa di giudizio o di appello. Ma si tratta di detenuti di categoria A, quelli che “rappresentano la minaccia più grave per il pubblico, la polizia o la sicurezza nazionale”: persone accusate di terrorismo, omicidio o violenza sessuale. Natale è un giorno come un altro lì dentro: niente tacchino, niente canti, niente regali. La prigione è chiusa ai visitatori: Stella e i loro due figli piccoli, Gabriel e Max, non possono vedere Julian la vigilia. L’ora di visita sta per finire. Ci alziamo e ci abbracciamo. Lo guardo, incapace di dirgli addio. Ci abbracciamo di nuovo, senza parole».

Un’altra visita: quella di Yanis Varoufakis

[Yanis Varoufakis]
Tre ipotesi per il futuro «L’altro giorno ho fatto visita a Julian nella prigione di Belmarsh per la seconda volta – racconta Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze greco (è l’ottobre del 2023) – una Guantánamo in Gran Bretagna, dove trascorre 23 ore al giorno, da 3 anni e mezzo, in isolamento. Questo è un tentativo non di spezzarlo, ma di ucciderlo. È l’omicidio lento di un uomo che non è stato condannato, che non è stato accusato di nulla, tranne che di giornalismo». Che ipotesi sono possibili per una soluzione futura di questa situazione? Lo spiega Patrick Boylan dell’agenzia internazionale Pressenza. Già professore di inglese per la Comunicazione Interculturale all’Università Roma Tre, laureato in California e alla Sorbona, ora codirettore del Journal of Intercultural Mediation and Communication (Cultus), Boylan analizza questo incredibile caso giudiziario tracciando tre percorsi: estradizione, nessuna libertà, perdono. «Come può essere incarcerato Assange per quasi due secoli – commenta – per aver fatto ciò che un giornalista e/o un editore responsabile dovrebbe fare, ossia rivelare crimini di guerra e altri illeciti di cui viene a conoscenza tramite testimoni spontanei? Tanto più che la stessa Corte Suprema statunitense, nel 1971, ha deliberato che è lecito rivelare segreti di Stato se è nell’interesse pubblico farlo».

Tutto ciò è possibile perché, nel 2019, l’amministrazione Trump «ha voluto creare un precedente, in barba alla sentenza della Corte Suprema, proprio per poter incarcerare qualsiasi giornalista che, in qualsiasi Paese del mondo, riveli segreti “scottanti” per l’amministrazione statunitense – precisa Boylan -. Le maggiori associazioni nazionali e internazionali di giornalisti hanno stilato documenti che chiedono la libertà di Julian per proteggere la libertà di stampa e di espressione».

Quale destino per il prigioniero?

La prima ipotesi è l’estradizione. «La richiesta di poter ricorrere contro la sentenza dell’Alta Corte dello scorso 6 giugno potrebbe essere rigettata. In tal caso, avendo esaurito tutte le possibilità di ricorso nel Regno Unito, il giornalista potrebbe essere spedito il giorno dopo negli Stati Uniti, dove l’attende un processo dall’esito già scritto». Assange può sempre ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) di Strasburgo, «facendo in tal modo scattare l’articolo 39, che proibisce l’estradizione mentre il caso viene esaminato». Ma «per poter togliere di mezzo la CEDU e affermare l’indipendenza britannica, i governi di Cameron e Johnson hanno da tempo preparato una legge che crea una Carta britannica dei diritti umani, sottraendo il Regno Unito alla giurisdizione di Strasburgo. Quella legge non è ancora arrivata ai voti, tuttavia l’attuale primo ministro Sunak l’ha nel cassetto, come arma segreta per annullare l’art. 39».

Come seconda ipotesi, la richiesta di Julian di poter ricorrere contro la sentenza dell’Alta Corte dello scorso 6 giugno potrebbe essere accolta, sospendendo automaticamente l’ordinanza di estradizione. «Una vittoria solo parziale – prosegue Boylan –, il prigioniero rimarrebbe rinchiuso in completo isolamento in una minuscola cella, 3 metri per 2, per la durata del suo nuovo ricorso: anche per anni. E, secondo il relatore speciale dell’ONU sulla tortura Nils Melzer, l’incarcerazione prolungata in quelle condizioni equivale a una forma di tortura psicologica».

A quale titolo Assange rimarrebbe rinchiuso?

«In Italia esiste l’istituto di “custodia cautelare in attesa di giudizio”, ma sempre con un limite temporale». Sono noti, infatti, i casi di mafiosi rilasciati dalla custodia cautelare dopo relativamente poco tempo in carcere per decorrenza dei termini. Nel caso specifico, ricorda il docente, «il giudice che ha ordinato la sua carcerazione preventiva non ha fissato nessun termine: pertanto la giustizia britannica potrebbe far durare all’infinito il ricorso di Julian, incarcerandolo a vita senza processo, in attesa di giudizio».

Esiste anche una terza ipotesi: il perdono presidenziale di Joe Biden, che potrebbe avvenire con il contestuale ritiro della richiesta USA di estradizione e il conseguente annullamento del relativo ordine da parte dell’Alta Corte di Londra. «Biden è stato vice-presidente di Obama, che aveva sempre rifiutato di incriminare Assange, a causa delle conseguenze nefaste sul giornalismo investigativo e sulla tenuta democratica del Paese. Finora Biden ha lasciato fare ai suoi falchi (in particolare quelli legati alla CIA) che vogliono la testa di Assange [come Mike Pompeo, ex segretario generale di Stato, che avrebbe ordito un complotto per rapirlo e ucciderlo, nda] non tanto per le sue rivelazioni sui crimini di guerra, quanto per aver svelato i metodi illeciti usati per spiare indiscriminatamente tutti quanti. Assange ha mostrato la CIA per ciò che è: un organo di spionaggio non solo dei criminali, ma soprattutto dei semplici cittadini, come avviene nei regimi autoritari. Questo la CIA non gliel’ha mai perdonato». Perciò, Biden non ha potuto permettere la liberazione di Assange, specie in considerazione delle prossime elezioni. «Farlo vorrebbe dire inimicarsi non solo la CIA, ma anche i falchi del proprio partito, gli americani conservatori in generale e i trumpiani, che userebbero quel perdono come prova delle “debolezze anti americane” di Biden». Non a caso, dunque, un raggruppamento di deputati, democratici e repubblicani, «ha introdotto il 13 dicembre una risoluzione [la H. Res. 934, nda] che chiede al governo federale di ritirare tutte le accuse contro Julian, nonché la richiesta di estradarlo. Sembra una tipica mossa di Biden: spianare la strada a un gesto controverso, ottenendo preventivamente un consenso bipartisan tra i leader democratici e repubblicani».

Gli Stati Uniti stanno cercando di condannare Assange? Il giornalismo visto come spionaggio

Assange è stato arrestato con un mandato di estradizione negli Stati Uniti nell’aprile 2019. L’imminente udienza di febbraio, davanti a un collegio di due giudici, discuterà una precedente decisione dell’Alta Corte che negava ad Assange il permesso di fare appello. Resta in piedi la possibilità del ricorso alla CEDU (la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo). A detta di John Rees, leader della campagna Free Assange, «gli Stati Uniti stanno cercando di condannare Assange. Se ce la faranno, saranno riusciti a ridefinire il giornalismo come spionaggio. Ogni giornalista sarà intimidito. Tutti i giornali e le emittenti, nel guardare il materiale critico nei confronti del governo, sentiranno una forte pressione a non pubblicarlo per paura di essere perseguiti e incarcerati. Questo è il più importante caso di libertà di stampa del XXI secolo – ha concluso Rees – e dobbiamo assicurarci di non perdere nessuna libertà conquistata con fatica». La moglie di Assange, Stella, che l’ha sposato in carcere e si è battuta senza sosta per la sua libertà, ha ammesso che «gli ultimi 4 anni e mezzo sono stati molto duri per Julian e la sua famiglia, compresi i nostri due figli piccoli». La sua salute mentale e il suo stato fisico si sono deteriorati in modo significativo, ha denunciato, con una miriade di prove emerse fin dall’udienza iniziale del 2019, come la violazione del privilegio legale e le notizie secondo cui alti funzionari statunitensi sarebbero stati coinvolti nella formulazione di complotti omicidi contro il marito. «Non si può negare che un processo equo, per non parlare della sicurezza di Julian sul suolo statunitense, sia impossibile qualora fosse estradato».

Le iniziative italiane

A Roma, nel frattempo, è arrivato il via libera in commissione capitolina alla proposta di delibera di concessione della cittadinanza ad Assange. L’aveva presentata l’ex sindaca di Roma e consigliera capitolina del M5S Virginia Raggi insieme ai gruppi consiliari M5S e Lista Civica Raggi. Il testo dovrà passare dal voto del Consiglio comunale e si spera in un approdo conclusivo dell’iter. A questo giornalista di straordinario coraggio è stata anche consegnata la tessera dell’Ordine dei Giornalisti insieme al riconoscimento della Federazione della Stampa Italiana (FNSI). Tra le diverse città che hanno già conferito la cittadinanza al cofondatore di WikiLeaks spicca Napoli, dove la cerimonia si è svolta nel novembre scorso con il sindaco Gaetano Manfredi che ha consegnato il riconoscimento a Stella Moris. Il riconoscimento concesso da Roma ha comunque un suo grande valore simbolico: l’associazione Articolo 21 ribadisce l’impegno per una causa tanto importante e non farà mancare l’appoggio costante a Free Assange Italia. La scelta di Alessandro Di Battista, politico e attivista, è stata invece il palco: il suo spettacolo di teatro civile dopo Milano è andato in scena a Bologna il 10 gennaio al Teatro Duse col titolo Assange – Colpirne uno per educarne cento, monologo scritto da lui stesso in collaborazione con il giornalista de Il Fatto Quotidiano Luca Sommi per la regia di Samuele Orini. Parte del compenso per la pièce sarà devoluto «a un fondo creato per pagare le spese legali di Assange».

La parresia, una virtù scomparsa

Di cosa è accusato Assange, se non di aver detto la verità? È la domanda che pone ognuno dei suoi sostenitori. Michel Foucault, in una serie di conferenze tenute all’Università californiana di Berkeley (era il 1983), ha trattato il tema della parresia, parola usata per la prima volta da Euripide nel V secolo a.C. per indicare una “nuova virtù”: dire la verità. Il vocabolo attraversa la letteratura greca sino alle opere della patristica del V secolo d.C. e – per l’ultima volta – si ritroverebbe in Giovanni Crisostomo. Da allora, afferma Foucault, questa virtù non compare più e si perde il coraggio di dire la verità. È così, la parresia non ha più alcuna dimora? Oggi è la menzogna, eletta a strategia dei governi, a cambiare le carte in tavola. Le prove sono sotto gli occhi di tutti.

[di Rossella Guadagnini]

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3 Commenti

  1. Il nazismo adottato quale pratica mondiale. Basta guardarsi intorno: impedire la comunicazione libera della verità e zittire gli oppositori.
    Con ogni mezzo.
    Fino ad arrivare all’assurdo: si discute di una eventuale estradizione per un essere umano segregato in isolamento senza accuse e senza processo.

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