venerdì 3 Maggio 2024

Le cave di porfido del Trentino controllate dalla ‘Ndrangheta: otto condanne

La Corte d’Assise di Trento ha condannato, per un totale di 76 anni complessivi di carcere, otto imputati al processo scaturito dall’indagine “Perfido” sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nel settore del porfido in Trentino-Alto Adige. Cinque imputati sono stati condannati per associazione mafiosa e tre per concorso esterno; tre dei condannati per mafia e un condannato per concorso esterno sono stati anche riconosciuti colpevoli di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Un’altra inchiesta che testimonia la ramificazione profonda coltivata dalla mafia calabrese ormai in tutta Italia, profondo nord incluso.

I condannati per il reato di associazione di tipo mafioso sono l’ex consigliere e assessore esterno alle cave del Comune di Lona-Lases Giuseppe Battaglia (12 anni), di Cardeto, che ha rivestito un ruolo di primo piano nel sodalizio, il fratello Pietro Battaglia (9 anni e 8 mesi), anch’egli in passato consigliere comunale, Domenico Ambrogio (8 anni), Mario Giuseppe Nania (11 anni e 8 mesi) – inquadrato come il “braccio armato” della ‘ndrangheta tra le cave di porfido di Lona Lases, dove era solito eseguire atti intimidatori -, Demetrio Constantino (10 anni) e Antonino Quattrone (8 anni e 8 mesi). Essi costituivano la ramificazione locale delle cosche di ‘ndrangheta calabresi di Cardeto, Bagaladi, Melito Porto Salvo e Reggio Calabria.

Per il reato di concorso esterno, sono stati condannati Giovanna Casagranda, accusata di aver fornito a suo marito Giuseppe Battaglia sostegno come “collettore” dal punto di vista economico, e il commercialista Federico Cipolloni, ritenuto il personaggio che costituiva il tramite tra l’organizzazione e l’universo politico e istituzionale romano, controllando aziende poi sequestrate mediante prestanome. Per sfruttamento del lavoro sono stati condannati Nania, i fratelli Battaglia e Casagranda.

La corte ha inoltre condannato in solido gli imputati a risarcire le parti civili: alla Provincia di Trento sono stati riconosciuti 100.000 euro, al Comune di Lona Lases 200.000 euro e a Libera, Filca Cisl, Fillea Cgil del Trentino 30.000 euro ciascuno. Le spese di costituzione sono state riconosciute alla Presidenza del Consiglio dei ministri, al Ministero della difesa, al Ministero dell’interno e ad Arci del Trentino.

La prima cava di porfido in Trentino-Alto Adige fu aperta ad Albiano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; poi, nei successivi decenni, con un’accelerazione dagli anni Sessanta in avanti, ne comparvero in molti altri centri, come Lona-Lases, San Mauro di Baselga di Pinè, Fornace, Cembra, Camparta, Capriana, Ceola e Lisignago. La ‘ndrangheta, incuneatasi nel tessuto economico e sociale della regione, si è infiltrata prima nel settore aziendale e poi in quello delle cave, arrivando ad accaparrarsi concessioni estremamente costose grazie alla liquidità giunta dalla Calabria, legandosi criminalmente a consiglieri ed assessori comunali compiacenti e collusi. La mafia ha operato sfruttando i lavoratori del porfido – prima in gran parte di cittadinanza italiana,  progressivamente sostituiti negli anni da personale straniero -, pagati a cottimo per svolgere un’attività logorante e scevra di tutele e spesso vittime di minacce e violenze fisiche.

«La riduzione in schiavitù, che era il capo di imputazione per il quale il processo si svolgeva in Corte d’Assise, è stata derubricata a caporalato – ha dichiarato Walter Ferrari, portavoce del Coordinamento Lavoratori Porfido -. Non è affatto positivo che per la questione delle cave di porfido, dove vi è formalmente una presenza sindacale delle organizzazioni di categoria di CGIL e CISL, si sia arrivati a una condanna per il reato di caporalato. Però ciò è avvenuto anche grazie al fatto che le difese hanno potuto presentare nelle loro arringhe difensive dei giorni scorsi gli accordi di conciliazione che proprio i sindacati concedenti hanno sottoscritto anche con aziende facenti capo agli imputati, sostenendo sostanzialmente che i lavoratori – che per noi erano stati ridotti in schiavitù – erano invece liberi di rivolgersi alle organizzazioni sindacali». Ferrari va dunque all’attacco, sottolineando che anche l’operato dei sindacati sarebbe stato caratterizzato da importanti ombre: «Nelle intercettazioni prodotte dai Carabinieri del Ros erano proprio gli imputati titolari di queste aziende a sollecitare l’intervento sindacale per sottoscrivere accordi laddove fosse necessario tamponare problemi nei confronti delle amministrazioni e sbarazzarsi di qualche operaio che non si piegasse al volere dell’azienda». Il portavoce del Coordinamento Lavoratori Porfido è certo: «Questi accordi stanno a significare un “condizionamento” esercitato da questi signori anche sulle organizzazioni sindacali».

Lo scorso marzo, sempre nell’ambito del processo “Porfido”, la Corte d’Assise d’Appello di Trento aveva confermato la condanna per Saverio Arfuso, cinquantenne calabrese di Cardeto, per i reati di associazione di stampo mafioso e riduzione in schiavitù.  L’uomo, che avrebbe avuto un ruolo apicale nel business della ‘ndragheta nelle aree dei comuni di Albiano e Lona-Lases, era stato condannato in primo grado a 10 anni e 10 mesi di carcere (prima condanna per mafia nella storia del Trentino-Alto Adige), mentre in Appello la pena è stata ridotta a 8 anni e 10 mesi per un errore nel calcolo delle aggravanti. La sentenza aveva peraltro riconosciuto 30.000 euro a tre lavoratori cinesi ridotti in schiavitù.

[di Stefano Baudino]

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1 commento

  1. E’ tempo di realizzare che le associazioni di stampo mafioso non possono più essere collegate al solo sud dell’ Italia e alla sola Italia. E questo, già da anni.
    Chi afferma che “la mafia è solo al sud”, non ha ancora capito bene come sta funzionando là fuori.

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