venerdì 31 Ottobre 2025

La tradizione a tavola, tra narrazione politica e realtà storica

Di cosa parliamo, quando parliamo di tradizione culinaria? Spesso il termine viene associato a un’idea di immobilità nel tempo, di qualcosa che, per sua natura, è sempre stato così. Nulla di più errato: se si inserisce qualsiasi produzione culturale nella storia – dalla lingua al vestiario alle tecniche di preparazione del cibo – si nota immediatamente come ciascuno di questi aspetti sia soggetto a continuo cambiamento. Così, quella che oggi si ritiene essere la cucina tradizionale italiana (al pari di quella spagnola, tedesca, francese e via dicendo), e che viene spesso erroneamente identificata con la dieta mediterranea, è in realtà il prodotto di condizioni socioculturali ben determinate e in molti casi non ha nulla a che vedere con le abitudini alimentari della popolazione italiana di un secolo fa (o meno). Allo stesso modo, l’introduzione di etichette generalizzanti quali quella, per l’appunto, di dieta mediterranea, non fa che apportare ulteriori semplificazioni, privando il concetto delle connotazioni geografiche e storiche che gli sono inerenti. A dimostrazione della mutevolezza delle abitudini, anche alimentari, vi è poi un dato incontrovertibile e significativo: ad oggi, la dieta mediterranea non la segue praticamente più nessuno.

L’invenzione della dieta mediterranea

Nel 2010, l’UNESCO ha eletto la Dieta Mediterranea, intesa come insieme di “competenze, conoscenze, rituali, simboli e tradizioni concernenti la coltivazione, la raccolta, la pesca, l’allevamento, la conservazione, la cucina e soprattutto la condivisione e il consumo di cibo”, patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Tale dieta viene descritta come “costante nel tempo e nello spazio” e composta per lo più da “olio d’oliva, cereali, frutta e verdura fresca o secca, una quantità moderata di pesce, latticini e carne e molti condimenti e spezie, il tutto accompagnato da vino o infusi, nel rispetto delle credenze di ogni comunità”. Un sistema “radicato nel rispetto per il territorio e la biodiversità”, che “garantisce la conservazione e lo sviluppo delle attività tradizionali e artigianali legate alla pesca e all’agricoltura nelle comunità mediterranee, di cui Soria in Spagna, Koroni in Grecia, il Cilento in Italia e Chefchaouen in Marocco sono esempi”. In questo sistema, poi, “le donne rivestono un ruolo particolarmente vitale nella trasmissione delle competenze, nonché della conoscenza di rituali, gesti e celebrazioni tradizionali, e nella salvaguardia delle tecniche”.

Un’immagine folklorizzata la quale, tuttavia, non trova una vera e propria corrispondenza nella realtà. L’etichetta dieta mediterranea non è stata sviluppata con il tempo nelle regioni del bacino mediterraneo nella quale si ritiene sia diffusa, ma è stata coniata negli anni Settanta dagli scienziati americani Ancel e Margaret Keys. Nel condurre, a partire dagli anni ’50, alcune ricerche epidemiologiche sulle malattie cardiovascolari, i coniugi rimasero colpiti dalla longevità delle popolazioni del sud Italia (in particolare delle zone della Campania, della Calabria, della Sardegna e delle Marche), tanto dei ceti più ricchi quanto di quelli meno abbienti. Attraverso i loro studi, gli scienziati giunsero alla conclusione che questa fosse il risultato della combinazione di tre fattori: abitudini alimentari, produzioni locali e costumi sociali. I coniugi Keys identificarono quindi alcuni tratti caratteristici di tali abitudini, produzioni e costumi e le riassunsero sotto l’etichetta dieta mediterranea. In questo modo questo insieme complesso di pratiche e tradizioni avrebbe potuto essere rapidamente divulgato e in molti – soprattutto negli Stati Uniti, dove il problema dell’obesità e delle malattie del sistema cardiovascolare ad esso associate è alquanto diffuso – avrebbero potuto beneficiarne. Lo studio si concentrava in particolare sul consumo di lipidi e sul tipo di grassi utilizzati, nello spirito di ricerca di un regime povero di grassi e acidi grassi saturi il quale, per questi studiosi, rappresenta il modello mediterraneo.

L’esito della loro ricerca fu condensato nel volume La dieta mediterranea. Come mangiare bene e stare bene, pubblicato nel 1975, il quale diede il via all’utilizzo del termine “regime mediterraneo” nel linguaggio popolare e scientifico. Come sottolineato da alcuni antropologi, pur attribuendo una connotazione positiva a tale tipo di dieta, le indicazioni contenute sono vaghe, oltre ad avere la pretesa di creare un modello rigido e immutabile che non tiene minimamente conto dei processi storici. Alcune delle piante indicate all’interno del volume, per esempio, non sono nemmeno di origine prettamente mediterranea, venendo consumate anche dalle popolazioni dell’Europa settentrionale.

Come sottolinea l’antropologa Françoise Aubaile-Sallenave, autrice dello studio Il Mediterraneo, una cucina, tante cucine, l’etichetta dieta mediterranea sembra indicare qualcosa di completamente avulso dal contesto nel quale vivono i soggetti studiati. In particolare, infatti, non si considera che fino al 1950 la stragrande maggioranza della popolazione non urbana, nel sud Italia e non solo, viveva in una condizione di povertà assoluta, senza la possibilità di consumare pietanze come carne o pasta se non nei giorni festivi. L’alimentazione, sottolinea la studiosa, deriva da caratteristiche geografiche, culturali, sociali ed economiche molto diverse, che devono essere adeguatamente specificate. Nel contesto mediterraneo, inoltre, storicamente è sempre esistita una netta distinzione tra l’alimentazione dei ceti agiati e quella del popolo: in Italia, in particolare, era proprio un certo tipo di alimentazione a determinare l’appartenenza o meno a una classe elitaria.

Quello creato dai coniugi Keys, e divenuto presto popolare tra dietologi e nutrizionisti di tutto il mondo, è perciò un modello artificiale che non può avere la pretesa di essere applicato al Mediterraneo nel suo complesso. Questo, infatti, comprende un bacino assai ampio che si estende dalle coste del Nordafrica – dal Marocco fino al Libano – alla Turchia, passando per la zona costiera della penisola balcanica, dall’Italia centrale e meridionale e dalle coste francesi e spagnole. Quello cui fanno riferimento i due studiosi sono abitudini alimentari di zone geograficamente ben delimitate e che escludono, tra l’altro, buona parte della penisola italiana stessa. Più che parlare di dieta mediterranea, quindi, sarebbe forse corretto utilizzare il termine diete mediterranee.

Una prospettiva storica

[Il Dottor Ancel Keys.]
Le cucine nazionali sono costruzioni culturali in continua evoluzione: è un dato che si evince con chiarezza se si guarda al loro evolversi in una prospettiva storica. In particolare, ad aiutare il cibo e la cucina a diventare simboli della cultura e della comunità nazionale, in Occidente, fu proprio il passaggio da una società prevalentemente agraria a una di massa. I nuovi mezzi di informazione veicolati dalla carta stampata aiutarono la diffusione di libri di ricette, giornali e opere letterarie, il tutto accompagnato da una certa filosofia politica – che ancora ritroviamo oggi nei discorsi del governo, che ha istituito ben due ministeri separati su sovranità alimentare e made in Italy.

Secondo quanto evidenziato dall’antropologo Sidney Mintz (l’autore di Sweetness and power, testo tra i capisaldi delle scienze sociali), una cucina – intesa come insieme formalizzato e condiviso di ingredienti, preparazioni e piatti – per potersi dire tale richiede «radici sociali comuni», ovvero di essere «il cibo di una comunità»; in tal senso, è necessaria «una popolazione che la consumi con una frequenza sufficiente a far sì che la gente si consideri esperta in materia». Ne consegue, sottolinea Mintz, che un’autentica cucina può essere regionale, ma mai nazionale. A ciò va aggiunta una doverosa distinzione tra alta cucina e cucina nazionale: la prima, infatti, è propria dei ceti elitari e precede di molto la formazione degli Stati-nazione, configurandosi più come globale che non nazionale – vista l’abbondante importazione di cuochi, ingredienti e tecniche da Paesi lontani, processo che non ha fatto altro che esacerbarsi e velocizzarsi con la globalizzazione. Per Mintz ha senso parlare di cucina nazionale solamente nella sua esportazione, ovvero nei ristoranti esteri che in una lista di piatti hanno la pretesa di sintetizzare la cucina di un intero Paese. Così, per alcuni studiosi, la cucina italiana ha origine in primo luogo nella bocca degli stranieri.

Non si può ignorare, inoltre, il fatto che molti dei piatti che attualmente sono parte della cucina tradizionale di quasi tutte le regioni italiane sono composti da ingredienti originariamente non italiani. La pasta secca è un alimento con ogni probabilità di origine nordafricana, importato nel XV secolo; il pomodoro, ingrediente fondamentale di una gran quantità di ricette italiane, è stato importato in Italia non prima del ‘500; il piatto tipico della tradizione veneta, il baccalà con la polenta, ha come ingredienti base la farina di un cereale di provenienza americana e un pesce pescato ed essiccato nel Mare del Nord, non di certo nell’Adriatico. Fino ai primi anni del ‘900, inoltre, il pomodoro non veniva utilizzato nella dieta italiana perché per lungo tempo considerato un cibo velenoso; la pizza margherita, inventata nel 1889 a Napoli, non si diffuse nel nord Italia se non a partire dal secondo dopoguerra, quando gli Alleati risalirono l’Italia portando con loro pomodoro, aglio e olio d’oliva, altro alimento pressoché inesistente fino ad allora nella dieta settentrionale – la quale utilizzava invece burro e strutto. E proprio a sottolineare l’importanza della prospettiva storica vi è il fatto che il regime di alimentazione definito dalla dieta mediterranea veniva consumato nell’ambito di una società agricola, il cui fabbisogno calorico giornaliero era all’incirca il doppio (4-5.000 kCal) di quello medio attuale (circa 2.400 kCal).

La cucina nazionale tra tradizione e produzione intensiva

L’immagine restituita dall’UNESCO dipinge un ritratto idilliaco, quasi una cartolina di paesaggi naturali dove uomo e ambiente coesistono pacificamente e nel quale le persone si nutrono dei frutti della terra nel pieno rispetto della biodiversità e della natura. Un ritratto che, seppur gradevole a pensarsi, ha poco a che fare con la realtà: le tecniche tradizionali sono state da tempo soppiantate dalle quelle di produzione intensiva, le quali impoveriscono il terreno e la qualità dei prodotti, da Chefchaouen a Koroni al Cilento. La progressiva eliminazione della biodiversità, figlia del sistema di produzione intensivo industriale, riduce drasticamente la varietà di prodotti locali in favore della commercializzazione di alimenti standardizzati, spesso nemmeno prodotti in Italia. Ciò che resta di veramente italiano, nelle abitudini di consumo diffuse, è molto poco. Con ciò non si vuole dire che non ci siano delle specialità tipicamente italiane che possono essere rivendicate dal nostro territorio e che fanno parte di un certo contesto culturale nel nostro Paese. Ma pensare che queste siano così da sempre e che vadano protette in quanto immutabili è ingenuo.

Sarebbe infatti errato pensare che la tradizione sia esente da un’evoluzione nel tempo che la rende mutabile, soggetta alle influenze e riadattabile a contesti culturali e sociali sempre nuovi. La nostra società, d’altronde, è sempre in movimento e continuerà ad esserlo, a prescindere dalla resistenza che le si vuole opporre. Ed è proprio la presenza di elementi sempre nuovi ad arricchirla, ogni giorno.

[di Valeria Casolaro]

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