giovedì 25 Aprile 2024

Oltre l’8 marzo: 7 storie di donne che cambiano il mondo

Le donne da sempre sono motore di cambiamento. E non solo perché, secondo un detto celebre, “dietro un grande uomo si cela una grande donna”, ma perché vi partecipano come elemento primario. Da Rita Levi Montalcini ad Alda Merini, da Marie Curie a Letizia Battaglia, passando per Simone de Beauvoir, Frida Khalo, Hannah Arendt, Rosa Parks, Malala Yousafzai e innumerevoli altre, le donne sono fulcro di rivoluzioni determinanti per la storia dell’umanità. Nella giornata dell’8 marzo noi de L’Indipendente abbiamo deciso di onorare le donne a modo nostro, ovvero raccontandovi le storie (alcune note, altre meno) di alcune grandi personalità o movimenti femminili da tutto il mondo che oggi stanno attuando un cambiamento radicale. Buona lettura.

Le donne della rivoluzione iraniana

Nel settembre del 2022, a seguito della morte di Mahsa Amini (picchiata a morte dalla polizia morale iraniana per aver indossato male l’hijab), l’Iran è stato travolto da una rivoluzione di portata storica. La rabbia delle donne iraniane, scese in piazza per rivendicare i propri diritti, ha travalicato i confini nazionali ed è giunta in ogni angolo del globo, dove si sono moltiplicate le manifestazioni della società civile in loro sostegno. A rendere eroico il loro gesto vi è il fatto che scendere in piazza significa la quasi certezza dell’arresto e della tortura, se non della morte. Sono innumerevoli le testimonianze dei trattamenti inumani e degli indicibili stupri (mezzo «essenziale» per impedire loro «di entrare in paradiso», spiegava la guida suprema Ruhollah Khomeyni nel 1986) cui le donne sono soggette nelle prigioni. Alcune di queste storie, come quella di Armita Abbasi (21enne accusata di essere una delle leader della rivoluzione, liberata dopo cento giorni di prigionia nel corso dei quali i ripetuti stupri avevano reso necessario il ricovero in ospedale), sono giunte fino a noi. Eppure, la protesta delle donne iraniane non si ferma. “Le proteste iraniane potrebbero essere la prima volta nella storia in cui le donne sono state sia la scintilla che il motore di un tentativo di controrivoluzione” ha scritto il New Yorker. Ciò che è certo è che dalla loro rabbia è nato un movimento che mette in discussione l’intero regime.

Una donna iraniana si taglia i capelli nel corso di una protesta

Stella Morris: una lotta per i diritti di tutti

Su L’Indipendente abbiamo particolare premura, sin dal primo giorno, a tenere alta l’attenzione sulla vicenda di Julian Assange, perché riteniamo che la sua persecuzione, oltre a costituire un’evidente abuso, riguardi tutti noi nel profondo. Che si tratti di giornalisti o meno, la vicenda di Assange mette a serio rischio la libertà di informazione e di comunicazione nella nostra società, mentre entrambe dovrebbero costituirne i valori fondanti. Tuttavia, la vicenda del giornalista australiano probabilmente non avrebbe la stessa eco mediatica se non fosse per le azioni messe in campo dalla moglie di Assange, Stella Morris. È lei che, in prima linea, si batte per la liberazione del marito e per i diritti di tutti noi. Senza la lotta e la mobilitazione di Stella Morris probabilmente la vicenda giudiziaria di Assange sarebbe confinata all’interno dei tribunali dove si discute del suo destino. Morris e Assange si conoscono nel 2011, quando lei entra a far parte del team legale che si occupa della difesa del giornalista, ed iniziano la loro relazione nel 2015. Insieme hanno anche due figli, nati nel 2017 e nel 2019. Nel marzo 2022 i due si sono sposati a Belmarsh, dove Assange è recluso ora in attesa di essere estradato negli Stati Uniti, dove rischia fino a 175 anni di reclusione in una prigione di massima sicurezza.

Stella Assange durante una manifestazione a sostegno di Julian Assange a Londra

Le donne curde del YPJ

Femministe, socialiste, se non addirittura anarchiche o comuniste, guidate da un gruppo connesso al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) che è classificato come organizzazione terroristica dalla NATO, il Regno Unito e gli Stati Uniti”: queste sono le donne dell’YPJ, la frangia femminile dell’Unità di protezione popolare (YPG) curda. Sono le forze armate del Rojava, la regione siriana del Kurdistan. Discostandosi dal ruolo tradizionalmente assegnato alla donna, soprattutto in un contesto che lo stesso co-fondatore del PKK, Abdullah Öcalan, descriveva come “chiuso, tradizionalista e tribale”, le donne armate dell’YPJ hanno rivestito un’importanza cruciale nella liberazione di Kobane, città curda al confine con la Turchia, o della comunità Yazidi in Iraq, ma la loro lotta non è volta unicamente alla tutela del territorio. Le donne del YPJ e, in generale, le donne curde del Rojava, combattono per l’indipendenza da un sistema tradizionalmente “patriarcale e feudale”. Lo stesso Öcalan, infatti, sosteneva che l’oppressione delle donne è alla base di tutte le altre forme di oppressione, e che la società si sarebbe potuta liberare solamente tramite la liberazione femminile. Proprio dal motto curdo Jin, Ziyan, Azadi le donne iraniane hanno mutuato il proprio slogan, “Donna, vita, libertà”.

Fawzia Koofi, Habiba Sarafi e le donne della resistenza afghana

«Poiché la maggior parte delle guerre è condotta da uomini, sono gli uomini a credere di essere gli unici a poter parlare di pace»: queste sono le parole di Fawzia Koofi, prima donna vicepresidente del Parlamento afghano e una delle quattro negoziatrici sedutesi faccia a faccia con i talebani, nel 2020, per discutere del futuro del Paese. Da sempre Fawzia, come Habiba Sarafi (entrambe oggi in esilio), combatte per l’emancipazione delle donne afghane e per l’idea che il contributo politico delle donne sia fondamentale nella società, oltre che per la pace nel Paese. E da quando i talebani hanno ripreso il controllo di Kabul, mettendo in atto una repressione che punta alla cancellazione del genere femminile, riportando le lancette indietro di 20 anni, queste attiviste hanno lavorato strenuamente in collaborazione con la comunità internazionale per aiutare le donne nel Paese. «Molte persone hanno lasciato l’Afghanistan, ma la voce all’interno del Paese, tenuta viva da donne coraggiose in tutte le province, è più forte che mai» ha dichiarato Habiba. E nonostante l’oppressione e la violenza cui sono sottoposte, le donne afghane in tutto il Paese hanno dimostrato di non volersi arrendere, continuando a denunciare gli abusi del regime. In Afghanistan, di fatto, “resistenza significa donne”.

Meena Kotwal, “la voce dei senza voce”

Nei contesti segnati da estrema povertà, ingiustizia e violenza sono elementi strutturali del vivere quotidiano. Così è nella comunità indiana dei Dalit, composta da quelli che in passato erano definiti gli intoccabili, individui collocati negli strati più bassi della società, all’esterno del tradizionale sistema delle quattro caste. Dal 2019 a raccontare le loro storie, in lingua hindi e inglese, è il sito The Mooknayak, letteralmente “il leader dei senza voce”, fondato dalla giornalista (lei stessa Dalit) Meena Kotwal. In una società fondata sulle caste per una donna Dalit compiere un’impresa del genere è un traguardo straordinario. I Dalit rappresentano infatti all’incirca il 20% della popolazione indiana e sono tradizionalmente legati a compiti indesiderabili, quali la pulizia dei bagni, la scuoiatura degli animali e lo smaltimento dei cadaveri. Secondo le Nazioni Unite, 100 milioni di essi vive ancora in condizioni di estrema povertà. Nemmeno il partito nazionalista indù del premier Modi, che molto ha puntato sull’appoggio Dalit, ha fatto molto per migliorarne la condizione. «Voglio che la comunità emarginata possa dire: “Abbiamo i nostri media, raccontiamo ogni tipo di storia e solleviamo questioni mai sollevate prima”» ha dichiarato Kotwal.

Nemonte Nenquimo e la resistenza indigena

Sono tantissime, nel mondo, le attiviste indigene che lottano per tutelare il proprio territorio e la propria cultura dalle avide mani degli interessi globali: da Shina Novalinga a Txai Suruì, dalla “guerriera dell’acqua” Autumn Peltier a Hindou Oumarou Ibrahim, e numerosissime altre. Tra queste vi è Nemonte Nenquimo, leader della comunità indigena Waorani di Pastaza, nell’Amazzonia ecuadoriana, e membro fondatore dell’Alleanza Ceibo, l’organizzazione indigena per la tutela dei territori. Complessivamente, la popolazione Waorani non arriva a tremila soggetti, sommando le comunità sparse nell’Amazzonia ecuadoriana. Eppure nel 2019, sotto la guida di Nemonte, ha raggiunto un risultato straordinario: ha vinto una causa contro il governo ecuadoriano, accusato di aver venduto parte delle loro terre alle multinazionali petrolifere senza il loro consenso. Nemonte ha infatti denunciato il governo ecuadoriano sostenendo che questo non avesse ottenuto il consenso della popolazione Waorani prima della vendita delle terre. La causa fu un successo: 200mila ettari di foresta pluviale furono salvati dallo sfruttamento. Il governo fu inoltre obbligato, a partire da quel momento, a disporre del consenso informato delle popolazioni indigene prima di vendere qualsiasi altro pezzo di terra in futuro. Si tratta di una vittoria immensa per una piccola comunità indigena, che ha portato Nemonte Nenquimo ad essere nominata dal Time come una delle persone più influenti del 2020.

Rana Dajani e l’amore per la lettura

Insegnare ai bambini a leggere non è sufficiente. Bisogna trasmettere loro amore per la lettura, se si vuole che continuino a farlo. Questa è l’idea di Rana Dajani, biologa e docente di origine giordana, ricercatrice presso istituzioni accademiche prestigiose quali Harvard e Yale. Applicando il metodo scientifico alle sue osservazioni, ha dedotto che l’amore per i libri viene trasmesso dalla lettura di storie ad alta voce del genitore al bambino. Così, nel 2006, è nato il progetto We Love Reading, oggi attivo in 56 Paesi in tutto il mondo, con 7000 lettori volontari, il quale ha portato fino ad ora alla lettura oltre mezzo milione di bambini. Il progetto è attivo in particolare nei campi profughi, a partire dalla Giordania, dove vi sono oltre 658mila rifugiati siriani registrati. L’impatto positivo è stato osservato non solo nei bambini, ma anche negli adulti volontari. «La maggior parte dei rifugiati non sa cosa accadrà in futuro e questo ha impatto sulla loro salute mentale. We Love Reading dà loro uno scopo, qualcosa di tangibile e un senso di controllo. Il senso di controllo è importante per costruire la resilienza e migliorare la mentalità positiva» ha dichiarato Dajani.

[di Valeria Casolaro]

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1 commento

  1. grazie V. Casolaro,
    questa è solo la punta di un immenso iceberg di violenza contro le donne e contro chi ha conquistato una propria consapevolezza e libertà e la difende. Credo che forse, tra le persone sviluppate e consapevoli, essere donna, uomo o qualsiasi altro genere sia (o dovrebbe essere) solo un dettaglio e una specifica biologica, ma di fatto la donna, per mille ragioni, è sempre il primo bersaglio di tutte le violenze, umiliazioni e insulti.
    Questi esempi ci sono di grande aiuto.

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