giovedì 12 Dicembre 2024

No alle scorie di Fukushima in mare: le isole del Pacifico contro il Giappone

Nonostante la decisione del Giappone di riversare nell’oceano Pacifico – tra la prossima primavera e l’estate – l’acqua contaminata utilizzata per raffreddare tre dei sei reattori della centrale nucleare di Fukushima, danneggiati dallo tsunami del 2011, sia ormai stata presa da almeno due anni, le proteste hanno continuato a tenere viva la discussione.

Dagli ambientalisti agli abitanti dei Paesi vicini, come Cina e Corea del Sud, fino alle isole: quasi tutti – fatta eccezione per alcuni Stati, tra cui gli USA, che invece appoggiano la decisione – temono che l’operazione si riveli troppo pericolosa e danneggi per questo la salute e l’economia, legata alla pesca. Il Pacific Island Forum, un’organizzazione internazionale di 18 nazioni insulari, ha chiesto al Giappone di prendersi ancora del tempo – e vagliare ipotesi alternative – prima di immettere nel Pacifico una quantità di acqua di tale portata.

Negli anni la Tokyo Electric Power Co. (Tepco), l’azienda che gestisce l’impianto, ha accumulato all’interno del suo stabilimento più di un milione di tonnellate di acqua. Quest’ultima, radioattiva perché utilizzata per raffreddare i reattori fusi, è stata distribuita in più di mille grandi cisterne – l’equivalente di circa 500 piscine olimpioniche – che ormai però non bastano più. Non c’è più spazio e la situazione peggiorerà ancora, visto che, a distanza di moltissimo tempo dall’incidente nucleare, i reattori danneggiati hanno ancora bisogno di acqua – 150-200 metri cubi al giorno –  per essere raffreddati.

Per il Governo giapponese disperderla in mare – dopo averla ‘ripulita’ – è la scelta migliore. «Riteniamo che riversare in mare il contenuto delle cisterne sia un’opzione realista, dal momento che l’operazione sarà effettuata in tutta sicurezza», ha commentato il Primo Ministro Yoshihide Suga. Ma è davvero così? La questione è controversa.

Prima premessa: l’Autorità giapponese per la regolazione del nucleare e l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA) delle Nazioni Unite hanno dato la loro autorizzazione allo sversamento in mare, dopo lunghe valutazioni, durate anni, reputando l’operazione sicura. In effetti l’acqua contaminata subisce uno specifico trattamento: viene filtrata da un sistema chiamato ALPS (Advanced Liquid Processing System) che rimuove la maggior parte degli elementi radioattivi. Tuttavia tale sistema non è in grado di eliminarli tutti. ‘Sopravvive’ ad esempio il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno già naturalmente presente nell’acqua del mare e nell’atmosfera, ma che è considerato poco pericoloso per la salute, a meno che non se ne ingeriscano grosse quantità. Motivo per cui esiste comunque un quantitativo limite di trizio che può essere contenuto nell’acqua da bere.

In ogni caso, il governo giapponese ha promesso di filtrare l’acqua più volte, se necessario, affinché vengano rispettati tutti gli standard internazionali. In questo modo, «quando il liquido sarà diluito con acqua di mare, i livelli di trizio saranno inferiori e in regola, come quelli di tutti gli altri elementi», ha affermato Hikaru Kuroda, un funzionario della Tepco. Una rassicurazione che è bastata ad alcuni, ma non a tutti. Gli abitanti delle isole pacifiche temono per la pesca, loro fonte primaria di sostentamento. Una preoccupazione condivisa dai pescatori di Fukushima: se anche l’acqua trattata dovesse essere effettivamente ‘pulita’, i consumatori potrebbero comunque, per paura, rifiutare di comprare il loro pescato. «Anche se è sicuro, potrebbe comunque danneggiare le vendite di frutti di mare di Fukushima e abbassare i prezzi, come è successo 12 anni fa», ha ammesso Junichi Matsumoto, capo ufficiale di Tepco per la gestione dell’acqua trattata.

Al momento, però, sul tavolo non ci sono altre opzioni. I funzionari giapponesi hanno escluso sia lo stoccaggio sotterraneo a lungo termine che l’evaporazione. E anche i chimici di tutto il mondo non hanno ancora una visione comune.

[di Gloria Ferrari]

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