martedì 8 Ottobre 2024

Iran, la repressione utilizza proiettili italiani

Le cartucce per fucili prodotte dalla ditta italo-francese Cheddite, il cui logo è un drago alato che afferra con gli artigli il mondo e che ha le sue sedi operative a Livorno e Bourg-lès-Valence, sono state utilizzate per reprimere il dissenso e sedare le proteste in Iran. È quanto ha rivelato un’indagine di The Observers, il team investigativo di France 24 che ha chiesto agli iraniani di inviargli foto e testimonianze di munizioni scariche recuperate durante le proteste esplose dopo la morte della 22enne Mahsa Amini. “Il team ha analizzato più di 100 foto e video che mostrano – oltre a lacrimogeni e fucili – proiettili utilizzati dalle forze di sicurezza iraniane”, si legge nella relazione dell’Observers, e 13 fra quelli rinvenuti, recuperati in 8 diverse città iraniane, hanno il logo Cheddite.

Alcune delle cartucce ritrovate\Fonte The Observer
Alcune delle cartucce ritrovate\Fonte The Observers

Ad esempio un uomo che aveva manifestato a Yazd, una città piuttosto centrale e capoluogo dell’omonima provincia iraniana, ha inviato al team delle foto di una cartuccia che le forze di sicurezza locali gli hanno sparato addosso il ​​28 settembre. “La cartuccia ha ‘Cheddite 12’ inciso sulla base e ‘Shahin 2017/24’ sul custodia in plastica verde”, scrive l’Observers. Non è facile reperire cartucce scariche sul terreno dopo una sparatoria. Il testimone ha infatti riferito a FRANCE 24 – e come lui altre persone – che «cercano sempre di raccogliere tutte le munizioni vuote. Questa non l’hanno vista e sono riuscito a trovarla quando se ne erano andati».

Cartucce ritrovate a Yazd \Fonte The Observer
Cartucce ritrovate a Yazd \Fonte The Observers

Lo stesso è accaduto a un manifestante che a Teheran, la capitale, dopo una raffica di proiettili sparati dalla polizia sulla folla il 3 ottobre, ha raccolto una cartuccia con il logo Cheddite ‘12*12*12*12*’ e una custodia di plastica gialla con la scritta ‘Iran 2020/01’. Segnali inconfondibili, dal momento che, gli esperti assicurano, l’azienda in questione è l’unica a utilizzare tale simbologia. «Il modello a 12 stelle corrisponde al timbro sulla testa mostrato sul sito Web Cheddite e su altri siti Web che mostrano i prodotti Cheddite», ha confermato Neil Corney della Omega Research Foundation. Altre cartucce simili sono state recuperate nelle città di Shiraz, Karaj, Rasht, Sanandaj e Kamyaran, anch’essi luoghi di protesta. D’altronde, dopo l’exploit degli anni ’80, l’azienda ha raggiunto un tale successo – destinando la sede di Livorno alla finalizzazione del prodotto e alla produzione di cartucce, e quella di Bourg-lès-Valence alla creazione di bossoli e inneschi – da garantirgli la nomea di leader europeo nel settore, con 1 miliardo circa di bossoli prodotti all’anno. Non sorprende che i suoi prodotti siano ovunque.

 

Tuttavia il regolamento UE , approvato il 12 aprile 2011, non lo permetterebbe. Il testo infatti vieta “l’esportazione, diretta o indiretta di attrezzature che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna”, in questo caso in Iran, comprese “armi da fuoco, munizioni e relativi accessori” e cartucce per fucili. Le, sanzioni, tuttora in vigore, stabiliscono che, indipendentemente dal fatto che l’Iran abbia acquistato i prodotti direttamente dall’azienda o da terzi, Cheddite è legalmente responsabile dell’utilizzo dei suoi prodotti. «Cheddite deve controllare i suoi acquirenti e assicurarsi che non rivendano i prodotti a organizzazioni terroristiche o a paesi vietati dalle norme dell’UE», ha dichiarato Mehrdad Emadi, consigliere economico dell’Unione Europea.

Secondo un’analisi fatta dal quotidiano il Manifesto qualche mese fa, le stesse cartucce Cheddite sono state ritrovate dai manifestanti anche in Myanmar (a cui l’UE non può allo stesso modo vendere armi) a partire da marzo 2021, dopo il colpo di Stato militare. Le munizioni sarebbero giunte nel Paese per vie traverse, probabilmente attraverso Turchia e Thailandia, come dimostrato da alcuni documenti in mano al Governo Draghi, secondo cui “le forze di sicurezza iraniane usano fucili di fabbricazione turca e gli esperti di sanzioni affermano che la Turchia è nota come punto di riferimento per evitare gli embarghi sulle armi”. Le foto, al momento, parlano chiaro e raccontano di un’unica verità, almeno fino a quando la ditta italo-francese non si degnerà di dare una risposta alle decine di domande di chiarimento rivoltegli da diverse testate.

Intanto in Iran la repressione continua ad essere soffocata nel sangue. L’ultima vittima, almeno fra quelle note, è Mahak Hashemi, una ragazza di 16 anni colpevole per la polizia di non aver rispettato il codice di abbigliamento femminile, non indossando il velo. Proprio come Mahsa Amini. La vittima era scesa in piazza a Shariz, città a sud dell’Iran, per protestare insieme ad altre migliaia di persone, invocando diritti e libertà per un popolo sfiancato dal regime. La sua colpa, agli occhi delle autorità, è stata quella di indossare un cappellino da baseball al posto del velo, lasciando che i capelli sciolti le ricadessero sulla schiena. Un gesto che i militari hanno punito con le percosse, finite per esserle mortali.

Secondo Human Rights Activists, oltre alle 18mila persone arrestate, con la morte di Mahak sarebbero più di 400 i manifestanti rimasti uccisi durante le proteste, il cui colpo fatale potrebbe essere stato inferto da proiettili prodotti in casa nostra.

[di Gloria Ferrari]

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