sabato 27 Luglio 2024

Non solo green pass: gli strumenti del biopotere nell’era delle emergenze

Il controllo sociale non è prerogativa dei tempi che viviamo ma è pur sempre vero che mai come adesso il potere ha avuto una così vasta gamma di strumenti, operanti sempre più in profondità, atti al controllo della società. Allo stesso modo, non è certamente la prima volta che la società cade in uno stato di eccezione che scompagina la “normalità”. L’era digitale offre al potere la capacità sempre più invasiva di poter sorvegliare e gestire il gregge senza necessariamente dover mostrare la brutalità causata dagli attriti della coercizione fisica, con tecniche e tecnologie del controllo sempre più in grado di nascondere la vista e la percezione del potere quanto di rafforzare la presa sul soggetto oggettivizzato dal potere stesso. Secondo logiche razionali tecno-scientifiche e attraverso dispositivi di ingegneria sociale, di assoggettamento e di previsione, il potere manifesta la sua volontà di controllo e gestione sulla vita, sul corpo e sulla mente, della popolazione.

Lo spostamento continuo della frontiera del controllo sociale

Come per ogni emergenza che si è susseguita negli ultimi decenni, che fosse quella terroristica, quella economico-finanziaria, o come adesso per quella sanitaria, le norme adottate in virtù della fase emergenziale sono poi prontamente rimaste applicate anche dopo che questa si è consumata, in un costante divenire di ordinarietà frutto dell’emergenza. E così, anche questa volta, ciò che è stato pensato e giustificato sulla base di un’emergenza diventerà adesso parte del quotidiano. Ce lo ha già detto Mario Draghi, chiamato dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a svolgere il ruolo di Primo Ministro proprio per riuscire a gestire una situazione emergenziale: il “green pass” è arrivato per restare. Si badi bene, non è questione di come lo si voglia chiamare (o lo si chiamerà in futuro), è questione di metodo e di sostanza. Nel mese di marzo, in occasione della conferenza stampa sul Decreto riaperture, Draghi ha affermato: «Uno degli scopi del provvedimento di oggi è proprio quello di non smantellare tutta la struttura esistente, anche perché noi siamo consapevoli del fatto che un’altra pandemia potrebbe rivelarsi importante anche tra qualche tempo, quindi vogliamo costruire una struttura permanente di preparazione a reagire a questi fenomeni; impegno che abbiamo preso in sede nazionale e internazionale». L’attuale Primo Ministro proseguì dicendo: «Gradualmente questa struttura perde i caratteri di emergenza e acquista quello di ordinarietà». Chiaro e limpido come il sole: ciò che era emergenziale, con la sua struttura, tramuta in ordinario. Lo ha recentemente ribadito Andrea Costa, sottosegretario alla Salute, che durante un’intervista ha dichiarato: «I criteri non cambiano: il green pass di fatto c’è sempre, solo che dal primo di maggio non verrà più richiesto per nessun tipo di attività, e noi confidiamo e auspichiamo che non ce ne sia più bisogno. Non è che sparisce, semplicemente non viene più richiesto e non viene più utilizzato». Dunque, il “green pass”, definito da The Spectator “inutile tirannia”, viene sdoganato come strumento ordinario che, alla bisogna, può esser tirato fuori dalla cassetta degli attrezzi del controllo sociale. Che poi in futuro assuma nuovo nome o nuova forma, o che si agganci a nuove disposizioni, non cambia la sostanza, oltre che il metodo: è solamente l’ennesimo strumento, giustificato da uno stato eccezionale, attraverso il quale il potere politico intende disciplinare, normare e gestire quel che identifica come organismo sociale.

Biopotere e biopolitica

Michel Foucault, filosofo francese, a partire dagli anni Settanta, ha dato vito ad una ricca e fruttuosa riflessione circa i nessi tra la vita biologica e il potere politico, considerando la biopolitica e il biopotere categorie centrali della politica a partire dal XVIII secolo. La vita diviene l’oggetto principale dell’azione politica intenta a proteggerla, prolungarla e migliorarla. In epoca moderna, man mano che la secolarizzazione è proceduta abbattendo ogni limite morale ed etico e che la comunità lasciava il campo alla società dello Stato-Nazione, si è creato nuovo spazio e nuovo tempo. Secondo Foucault, il corpo sul quale il potere si manifesta non è più quello individuale, della singola testa che rischia il “pollice verso” del sovrano, ma una molteplicità di teste chiamata popolazione. E in virtù della sicurezza e della salute della popolazione, il biopotere mette in atto un esercizio del controllo che non si pone limiti. Dunque, il potere sui corpi non si esercita più sugli individui, ma sugli effetti di massa e riguarda i “processi che sono specifici della vita, come la nascita, la morte, la procreazione, la malattia”[1]. Il nuovo soggetto politico che emerge da questo processo è quindi la popolazione la cui vita, quindi il suo controllo e la sua gestione, diventa l’oggetto dell’agire politico, il quale opera con dovizia scientifica attraverso misurazioni e previsioni. Il paradigma dell’azione politica non è più caratterizzato dal “diritto di morte” ma dal “potere sulla vita”[2]. In altre parole, secondo il filosofo francese, in epoca moderna, al potere di far morire si affianca – e poi sostituisce – un insieme di dispositivi volti a far vivere e, quindi, alla produzione e riproduzione di vite e di nuove energie che, anch’esse, ricadranno sotto il biopotere e la biopolitica. L’antica potenza della morte cede ad una “scrupolosa amministrazione dei corpi” e alla “pianificazione contabile della vita”[3].

Sorvegliare, gestire e salvaguardare

L’epoca moderna è dunque caratterizzata da tecniche e tecnologie che studiano e producono il soggetto individuale in quanto parte di una specie, di una popolazione, e da una organizzazione il cui scopo è la salvaguardia della vita di tale popolazione, sotto la guida della razionalità, della logica e del sapere. In tal modo, secondo Foucault, il soggetto emerge da un processo di soggettivazione che, al contempo, è un processo di assoggettamento: il soggetto è formato e riconosciuto come tale proprio mediante le pratiche che lo assoggettano. Le sole pratiche coercitive non sono quindi sufficienti per spiegare le tecniche con cui il soggetto è, allo stesso tempo, costruito e assoggettato. Altrettanto fondamentali, specie nella società contemporanea, sono le tecniche che agiscono sull’Io, il quale, addestrato dalle pratiche del potere, è imbrigliato nella narrazione che tali pratiche maturano, legittimando le stesse. Risultato di una funzione variabile complessa tra potere e sapere, il soggetto emerge dalla disciplina delle pratiche di potere che intendono prevedere, tramite l’abitudine e il sospetto costante di essere osservato, il comportamento del soggetto che risulterà essere auto-sorvegliante.

Foucault, con il suo testo Sorvegliare e punire (1975), vede nella società moderna e contemporanea la realizzazione su scala più ampia del potere panottico concepito da Jeremy Bentham, sul finire del Settecento, in relazione all’istituzione carceraria. Il Panopticon ideato da Bentham è una struttura il cui principio di base è la dissociazione tra vedere ed essere visti. Con tale struttura, il secondino (il potere) può ben vedere – quindi controllare, sorvegliare e gestire – tutti i detenuti (la popolazione) che sono invece impossibilitati nel vedere chi li osserva. Ne consegue che la popolazione, oltre la coercizione, subisce le tecniche di potere che, nella sostanza, impongo un’auto-sorveglianza di coloro che sanno di essere sotto controllo e che altresì non sono in grado di vedere il potere che li osserva. Così, anche quando il secondino (il potere) si assenta dalla postazione di controllo, i detenuti (la popolazione) – non in grado di vedere – si comportano come fossero osservati. Questo stato di cose assicura il funzionamento automatico del potere in maniera tale che la sorveglianza sia costante nei suoi effetti anche se discontinua nella sua azione. Potremmo dire che il “green pass” e mezzi affini con QR Code e sistemi digitali interoperativi siano un primo tentativo di superare la discontinuità dell’azione del potere nella sorveglianza. Nell’ipotesi minore, sono comunque strumento aggiuntivo che disciplinano il soggetto (la popolazione) tramite osservazione diretta da parte del potere e al contempo grazie all’auto-sorveglianza di chi sa di poter essere visto ma che non è altrettanto in grado di vedere chi li osserva. In entrambe le ipotesi, gli strumenti digitali di controllo sociale sono mezzi avanzatissimi che assicurano il funzionamento automatico del potere.

[Esempio di costruzione panottica, CC BY-SA 4.0 – Wikimedia]

Stato di eccezione come norma

Secondo Giorgio Agamben, filosofo italiano, il quale dagli anni Novanta ha proseguito ed espanso la riflessione portata da Foucault, la biopolitica non è prerogativa della Modernità ma ci riconduce alle origini del pensiero Occidentale, socratico-aristotelico, all’animale politico che è l’Uomo e all’idea di politica come attività che possa garantire una buona vita, dell’individuo e della collettività di cui fa parte. Il nesso tra vita e politica, secondo Agamben, deve essere quindi fatto risalire al pensiero antico, al momento in cui si è iniziato a parlare della vita secondo distinzioni, esclusioni e riarticolazioni, secondo lo schema ontologico della relazione e della non-contraddizione, per cui qualche cosa può essere solo non essendo altro. Secondo il filosofo italiano, già nella polis antica si trovava un’esistenza umana qualificata, ossia la vita politica astratta dall’elemento meramente biologico, secondo un meccanismo che definiva le forme della prima solo e innanzitutto mediante l’esclusione del secondo. Dunque, alla Modernità non corrisponde la nascita di un concetto quanto piuttosto la sua applicazione ad un ambito, quello della vita, prima relegato all’ambiente domestico, privato. Con l’era moderna si ha dunque la nascita di un meccanismo di regolazione che opera attraverso uno stato di eccezione la cui area di confine si è ampliata al punto da coincidere con la regola. Secondo Agamben l’eccezione tende ad essere sempre più invasiva, sconfinando nella “normalità” e finendo poi per coincidere con essa. Per questo, Agamben descrive la politica contemporanea come espressione della coincidenza tra eccezione e norma.

L’era digitale e l’avvento della psicopolitica

Il filosofo sudcoreano Byung-chul Han, docente all’Universität der Künste di Berlino, prosegue sulla scia tracciata da Foucault e da Agamben, sostenendo che il mondo digitale – con i suoi mezzi – sia un’evoluzione della biopolitica e del biopotere che lui chiama psicopolitica e psicopotere. Secondo Han, se con la struttura panottica benthamiana possono esserci degli “angoli cechi”, con il panottico digitale essi spariscono. Come detto in precedenza, il principio panottico era quello di rendere il funzionamento del potere automatico, con una sorveglianza costante nei suoi effetti seppur discontinua nella sua azione – tanto che il secondino poteva assentarsi contando sull’auto-sorveglianza dei carcerati. Mentre il panottico benthamiano è legato all’ottica prospettica, spiega Han, in cui i prigionieri possono dedicarsi, quantomeno, ai loro desideri e pensieri segreti, la sorveglianza digitale è maggiormente efficacie perché è a-prospettica. L’ottica analogica è sottoposta ad una restrizione prospettica mentre l’ottica digitale rende possibile la sorveglianza da qualsiasi angolo visuale, tanto del corpo che della mente. “Al contrario dell’ottica analogica, prospettica, quella digitale è in grado di scrutare sin dentro la psiche”[4].

In questo appiattimento di corpo e mente i Big Data svolgono un ruolo di prim’ordine, ed è ciò che Han chiama dataismo. Ogni clic, ogni parametro di ricerca che immettiamo viene osservato e registrato. La rete digitale diviene specchio della nostra vita. “Le nostre abitudini digitali offrono una copia esatta della nostra persona, del nostro animo, forse persino più precisa o completa dell’immagine che anche noi ci facciamo di noi stessi [..] Anche le cose diventano mittenti attive di informazioni: sulla nostra vita, sul nostro agire, sulle nostre abitudini. Il fatto che dall’internet della persona, il web 2.0, si sia arrivati all’internet delle cose, il web 3.0, completa la società del controllo digitale. Il web 3.0 rende possibile protocollare l’intera vita. Siamo sorvegliati, ora, anche dalle cose che utilizziamo quotidianamente”[5]. Han ha chiamato questo “totalitarismo digitale” che, attraverso l’utilizzo di algoritmi intelligenti, permette di formulare previsioni sul comportamento al fine di indirizzarlo, plasmarlo ed escluderlo attraverso le pratiche più efficienti ed efficaci di ciò che egli chiama psicopolitica.

Il caso delle proteste canadesi e il controllo sociale

La sfera digitale ha dimostrato di funzionare particolarmente bene ai fini della tracciabilità e per scopi coercitivi, come ha esemplificato in maniera inequivocabile il caso delle proteste canadesi contro l’obbligo vaccinale, avvenute lo scorso gennaio e protrattesi per più di un mese: le tenaci rimostranze dei manifestanti hanno portato allo scoperto il volto più dispotico e tecnocratico delle cosiddette “democrazie liberali”, ma anche il lato più “oscuro” del mondo digitale. Le proteste si sono susseguite a oltranza e hanno visto gli autotrasportatori – organizzatori delle contestazioni – bloccare con i mezzi pesanti la città di Ottawa e i valichi di frontiera con gli Stati Uniti, paralizzando così completamente le attività della capitale canadese e creando gravi scompensi economici e danni d’immagine al governo guidato da Justin Trudeau. Quest’ultimo, dopo aver tentato senza successo di disperdere i manifestanti attraverso le cariche della polizia, si è visto costretto a invocare la Legge sulle emergenze che gli ha consentito di ordinare alle banche di congelare i conti correnti dei “dissidenti” semplicemente premendo un bottone: come ha riportato la CNN, la Royal Canadian Mounted Police (RCMP) ha congelato un totale di 206 prodotti finanziari, inclusi conti bancari e aziendali e ha divulgato le informazioni di 56 entità associate a veicoli, persone fisiche e società che hanno preso parte alle proteste. Inoltre, sono stati congelati anche 120 portafogli digitali per criptovalute, mostrando con quanta semplicità sia possibile tracciare ogni transazione sulla blockchain, conservandola per sempre nel suo archivio.

Questa circostanza ha fatto emergere in modo chiaro il divario esistente tra il mondo reale fisico e quello digitale: quest’ultimo ha permesso una forma “assoluta” di centralizzazione delle informazioni e dei dati, spianando la strada alla “società del controllo”. Mentre, infatti, nel mondo fisico è molto più difficile tracciare, ad esempio, le transazioni finanziarie di un cittadino, sapere come spende il suo denaro e quanti e quali conti correnti possiede, attraverso la digitalizzazione finanziaria è possibile accedere a queste informazioni in tempo reale, individuando istantaneamente i conti correnti e bloccandoli con un semplice clic. Nel primo caso, dunque, sono presenti quelli che possono essere chiamati “attriti” del mondo reale, ossia un insieme di passaggi o di operazioni che rendono molto più lungo e difficile un processo, nel secondo tali passaggi non esistono ed è possibile monitorare qualunque transazione degli utenti. Così, il governo canadese invece di ricorrere a soluzioni altamente dispendiose procurandosi, ad esempio, l’attrezzatura specializzata per rimuovere gli autocarri e impiegando personale qualificato a tale scopo, ha aggirato gli “attriti” del mondo reale semplicemente premendo alcuni pulsanti ed estromettendo dal sistema finanziario canadese le persone associate alla protesta. In questo modo, il presidente canadese si è spinto in un territorio inesplorato che usa il sistema finanziario come arma per punire tutti i presunti dissidenti, reprimendo la libertà di manifestare dei cittadini e definendo una forma completamente nuova di potere che si è potuta affermare per mezzo delle nuove tecnologie. Attraverso un’infrastruttura digitale capillare, infatti, che prevede identità personali digitali e la riduzione dell’uso del contante, questa nuova forma di repressione sociale rischia di diventare sempre più diffusa.

[Il caso del Freedom Convoy tenuto dai canadesi]
Questo fa capire come la tecnologia rappresenti uno strumento fondamentale per la pretesa di controllo sulla popolazione che caratterizza le società tecnocratiche, in cui il dominio sull’individuo è totalizzante e coinvolge persino, oltre quella biologica, la sfera psichica, sfociando in quello che Michel Foucault aveva definito biopotere e che Byung-chul Han ha chiamato psicopolitica. Questo atteggiamento è tipico delle civiltà in cui vige il “culto” della tecnoscienza: infatti, è proprio lo stesso concetto di tecnica – inteso nella sua accezione moderna – che ingloba in sé le nozioni di controllo e di dominio. Ciò spiega il motivo per cui l’“era delle tecnocrazie” sembra avere trovato nel digitale uno dei suoi principali strumenti di governo.

L’essenza della tecnica moderna

Sebbene la volontà di dominio e di controllo sui popoli non sia emersa di recente, ma abbia spesso caratterizzato i diversi sistemi di potere, essa ha trovato una maggiore prospettiva di dispiegamento soprattutto negli ultimi decenni, grazie all’enorme e rapido sviluppo del campo tecnologico. Per capire come ciò sia stato possibile è necessario riflettere sull’essenza della tecnica moderna: mentre nell’antichità il termine greco “techne” si riferiva sia al lavoro artigianale che a quello artistico in senso stretto e la tecnica era volta al soddisfacimento dei bisogni primari materiali dell’individuo, in ambito moderno, essa designa un sapere applicato all’ambito della natura e finalizzato al suo dominio e alla sua manipolazione. La conoscenza viene dunque considerata solo più nella sua applicazione pratica, escludendo totalmente la sua dimensione teoretica e speculativa preminente, invece, nell’antichità. In questo modo la scienza diventa un tutt’uno con la tecnica, finendo per sovvertire completamente la concezione classica che considerava il sapere contemplativo il sapere più alto in assoluto, in quanto fine a sé stesso e dunque libero. Al contrario, i “moderni” considerano la scienza pratica e poietica l’unica valida, in quanto reputano quella teoretica sterile e improduttiva.

La tecnica intesa come sapere “produttivo” applicato alla natura, lungi dall’avere dei limiti, tende costantemente al loro superamento per assoggettare la natura e porla al servizio dell’uomo: uno dei pionieri di questa nuova concezione della conoscenza è considerato il giurista, politico e filosofo inglese Francesco Bacone (1561-1626), noto per aver elaborato un “nuovo metodo” di sapere, basato sull’empirismo, che mira al dominio assoluto dell’uomo sulla physis – la natura – attraverso la conoscenza di quest’ultima: questo è il motivo per cui in Bacone scienza e potenza costituiscono un’unità inscindibile. L’ideale baconiano consiste proprio in questo costante accrescimento del sapere umano volto a penetrare i segreti della realtà fisica per manipolarla e assoggettarla alla sua volontà, rendendo così l’uomo “signore dell’universo”. Non a caso, una delle prime opere importanti di Bacone si intitolava “Il parto mascolino del tempo o la grande instaurazione dell’impero dell’uomo sull’universo”.

Questa volontà di dominare la natura si sarebbe ben presto estesa anche all’uomo che, illudendosi di essere padrone della tecnica, ne è diventato in realtà egli stesso un oggetto: la miriade di discipline particolari in cui si è frammentato il sapere moderno punta, infatti, alla manipolazione dell’essere umano attraverso la sua modificazione fisica e genetica, oltreché al controllo del suo comportamento. In questa direzione si muovono le neuroscienze, la biochimica, la biologia e la psicologia. Quest’ultima in particolare ha avuto un ruolo di primo piano nel tentativo di indirizzare e formare letteralmente i comportamenti: nel corso del Novecento, infatti, negli ambienti accademici americani si è affermato un approccio alla psicologia noto come “comportamentismo”, che considerava il comportamento umano esclusivamente come una risposta meccanica ad uno stimolo esterno e, in quanto tale, poteva essere controllato e plasmato.

Il comportamentismo

Il padre del comportamentismo è considerato lo psicologo statunitense John Watson, secondo il quale il fine del comportamentismo “è la previsione e il controllo del comportamento. Le forme d’introspezione non sono parte dei suoi metodi. […] Il comportamentista non riconosce alcuna divisione tra l’uomo e il bruto”[6]. In altre parole, il comportamentismo esclude completamente il sé o la sfera interiore dell’individuo per osservarne i meri comportamenti apparenti, considerati come risposta meccanica all’ambiente esterno.

[Lo psicologo statunitense John Watson]
In questo periodo, negli ambienti accademici cominciò ad affermarsi l’idea per cui le leggi del mondo fisico potessero essere applicate al comportamento umano, dischiudendone i segreti e pretendendo di conferirgli una prevedibilità e una certezza di tipo scientifico. A tal fine, lo psicologo statunitense di origine tedesca Max Meyer ebbe un ruolo determinante, avendo stabilito le basi epistemologiche e metodologiche del comportamentismo moderno, collocando la psicologia accanto a discipline quali la fisica, la chimica e la biologia. Questo ruolo gli fu riconosciuto anche da un altro “luminare” della psicologia americana novecentesca, Burrhus Skinner – considerato uno dei più influenti psicologi del XX secolo – che sviluppò il cosiddetto “comportamentismo radicale”, secondo cui ogni azione animale, ma anche umana, è determinata e non libera. In questo si era ispirato sicuramente alle teorie di Meyer, secondo il quale “la libertà d’azione nel mondo animale è identica a un caso fortuito nel mondo della fisica”[7]. In questa “visione scientifica” dell’essere umano, quest’ultimo è ridotto a “cosa” o a mero “organismo tra gli organismi” e non vi è spazio, dunque, per le nozioni di “libertà” e “volontà”, in quanto esse non sono misurabili né tantomeno controllabili. Non a caso, un’opera di Skinner molto criticata si intitolava proprio “Oltre la libertà e la dignità” (1971).

L’obiettivo, dunque, è quello di estendere i canoni scientifici dai laboratori alla realtà quotidiana e alla natura umana, dando luogo ad una forma inedita di “totalitarismo” differente da tutti quelli precedenti: questo, infatti, non si basa (necessariamente) sulla coercizione e la violenza, ma – al contrario – sul potere mellifluo e impercepibile di controllo delle menti e dei comportamenti. Il potere tecnocratico plasma i “sudditi” attraverso l’ingegneria comportamentale e l’ingegneria del consenso, tanto che in molti casi sono loro stessi ad invocare con euforia una rete invisibile di controllo digitale, spinti dagli apparenti vantaggi della comodità, della sicurezza e dell’efficienza, oltreché dalle tendenze sociali che alimentano un conformismo omologante e ottundente.

Il capitalismo della sorveglianza

Oltre ad inaugurare un’inedita forma di controllo sociale, la sfera digitale ha dato vita ad un nuovo tipo di capitalismo che sfrutta i dati e l’esperienza umana a fini commerciali: questo nuovo modello di capitalismo è stato definito da Shoshana Zuboff – scrittrice e docente alla Harvard Business School – “capitalismo della sorveglianza”. Secondo la Zuboff, il capitalismo della sorveglianza “è una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione”. Esso è una forma di mercato inimmaginabile fuori dal contesto digitale, seppure non coincida totalmente con il “digitale”. Questo nuovo tipo di capitalismo si serve delle tecnologie dell’informazione per analizzare, indirizzare e formare i comportamenti degli utenti a fini commerciali. La materia prima di cui si serve a tal fine è l’esperienza umana che viene trasformata in dati grezzi: alcuni di questi dati sono usati per migliorare prodotti o servizi, mentre la parte restante “diviene un surplus comportamentale privato sottoposto a un processo di lavorazione avanzato noto come “intelligenza artificiale” per essere trasformato in prodotti predittivi in grado di vaticinare cosa faremo immediatamente, tra poco e tra molto tempo”[8]. Questi “prodotti predittivi” vengono poi scambiati su un nuovo tipo di mercato chiamato “mercato dei comportamenti futuri”: conoscere in anticipo i comportamenti delle persone è fondamentale per quelle imprese che vogliono vendere loro un prodotto o un servizio. Ma il capitalismo della sorveglianza non si accontenta solo di conoscere e prevedere i comportamenti, ma è in grado di formarli, attraverso i cosiddetti “mezzi di modifica del comportamento”: questi ultimi, oltre ad indirizzare le scelte attraverso il marketing e la conoscenza dell’inconscio delle masse, si servono della più innovativa tecnologia dell’automazione e di “un’architettura computazionale sempre più presente, fatta di dispositivi, oggetti e spazi smart interconnessi”. Come il capitalismo industriale doveva accrescere continuamente il possesso dei mezzi di produzione, così il nuovo tipo di capitalismo dei giganti del web deve accrescere continuamente i mezzi per la modifica dei comportamenti. Ecco perché il nucleo teorico a cui attinge quello che la Zuboff chiama “potere strumentalizzante” è proprio quello del comportamentismo. Pioniere del capitalismo della sorveglianza è il gigante del web Google che ha finanziato per primo la ricerca e sviluppo in questo settore. Progressivamente, a Google si sono affiancati altri colossi della tecnologia dell’informazione quali Meta (Facebook), Microsoft, Amazon e Apple che, nell’insieme, costituiscono il gruppo noto come Big Tech o Big Five a cui si possono aggiungere anche Twitter e Netflix. Dietro queste potenti multinazionali non vi è solo un obiettivo di profitto, ma un’ideologia ben precisa che permea totalmente il “partito” della Silicon Valley: il progressismo tecno-scientifico.

La tecnoscienza, del resto, pervade interamente la cultura moderna e contemporanea costituendone il pilastro ed è improntata ai criteri della misurabilità, della sperimentazione, della prevedibilità e, in definitiva del controllo. Come dimostra perfettamente l’esempio del comportamentismo radicale, anche l’essere umano deve rientrare in questi canoni in cui non c’è spazio per “libertà” e “volontà”, ossia per il libero arbitrio. Da qui nasce quella volontà di dominio sulla vita che trova nella tracciabilità digitale, negli algoritmi, nell’intelligenza artificiale e nel green pass i suoi principali “alleati”. In particolare, il “certificato verde”, subordinando dei diritti costituzionalmente garantiti ad un trattamento sanitario e al possesso della relativa certificazione, sancisce la totale politicizzazione della vita biologica, secondo il paradigma biopolitico di Foucault. Quest’ultimo, a sua volta, segna la riduzione dell’essere umano a mero “organismo”, privandolo delle sue componenti qualitative e spirituali. Dunque, dietro l’apparente progresso del mondo tecnologico e il concetto di biopotere si cela una realtà distopica che ingloba in sé una concezione antropologica meccanicista e scientista.

Solo ripensando completamente l’umano e riconoscendogli caratteri qualitativi e spirituali e non meramente quantitativi e meccanici, sarà possibile ridimensionare il “totalitarismo digitale” e, dunque, quel controllo pervasivo sulla vita che, col pretesto della sua salvaguardia, segna in realtà l’inizio del suo annichilimento.

[di Giorgia Audiello e Michele Manfrin]

Elenco citazioni:

[1] M. Foucault, Bisogna difendere la società (1976), Feltrinelli, Milano, 1997

[2] M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano, 1978

[3] Ivi

[4] B.C Han, Psicopolitica (2000), Nottetempo, Milano, 2016

[5] Ivi

[6] John B. Watson, “Psychology as the Behaviorist Views it”, Psychological Review 20 (1913).

[7] Max Friedrich Meyer, “Psychology of the Other-One”, Missouri Book Company

[8] Shoshana Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza”, Luiss University Press, 2019.

L'Indipendente non riceve alcun contributo pubblico né ospita alcuna pubblicità, quindi si sostiene esclusivamente grazie agli abbonati e alle donazioni dei lettori. Non abbiamo né vogliamo avere alcun legame con grandi aziende, multinazionali e partiti politici. E sarà sempre così perché questa è l’unica possibilità, secondo noi, per fare giornalismo libero e imparziale. Un’informazione – finalmente – senza padroni.

Ti è piaciuto questo articolo? Pensi sia importante che notizie e informazioni come queste vengano pubblicate e lette da sempre più persone? Sostieni il nostro lavoro con una donazione. Grazie.

Articoli correlati

11 Commenti

  1. Complimenti agli autori. Davvero! Desidero comunque lanciare una proposta “strutturale” a tutti coloro che studiano e approfondiscono, come in questo caso eccellente.
    Cui prodest?
    Ovvero, al termine della lettura, si rimane con quel senso di impotenza, che considero proprio dannoso, un contributo aggiuntivo a quel senso di paura…
    Il mio suggerimento: chiudere con una prospettiva di senso esistenziale.
    Nella mia recente esperienza, ad esempio, ascolto con estremo interesse Federico Faggin e/o leggo il suo libro (Silicio) … o leggo anche i suggerimenti di un Mauro Scardovelli. Grazie.

  2. Complimenti a Giorgia Audiello e Michele Manfrin, ottimo articolo, ottima analisi e sintesi del problema fondamentale della società occidentale moderna, in corsa scapicollata verso il transumanesimo e poi l’estinzione.

  3. Penso sia possibile, utilizzando il libero arbitrio, cambiare l’obiettivo tecnocratico degli strumenti che l’articolo analizza in modo efficace nel loro attuale uso. AI, blockchain, decentralizzazione e delocalizzazione, redistribuzione del potere sono gli opposti risultati a cui si può giungere con gli stessi strumenti utilizzati attualmente per annichilire il libero arbitrio.

  4. Grazie x l’articolo così esplicativo. Inconsciamente percepivo tutto il senso di quanto scritto, senza averne studiato i vari Autori citati.
    Sono profondamente preoccupata per quelli che ci aspetta. Mi chiedo se sarà possibile un’inversione di rotta, o dovremo subire questi cambiamenti disastrosi.

  5. Queste riflessioni investono, secondo me, anche le forme di violenza che si stanno manifestando. Esse sono sempre più di ordine predatorio.Individuato il soggetto, il predatore o il branco agiscono non perché quello sia il nemico con cui contendere territorio o oggetto di desiderio.
    Non c è più nessuna lotta finalizzata ma semplicemente si attuano forme di aggressione. Il nemico viene individuato con debole movente, è semplicemente il frutto di una decisione qualsiasi. Non più legge dell’istinto ma puro odio casuale. Le masse non esistono più ma nemmeno gli individui. Le persone stanno diventando sempre più incapaci di riflettere, di gestire freni inibitori. La responsabilità svanisce sul terreno dell’ automatismo o della indifferenza. Vanno ripensate assolutamente nuove forme di aggregazione per uscire dalla spirale del controllo a cui qualcuno pensa di sottrarsi con la violenza.

  6. Complimenti agli autori per la chiarezza e la mole enorme di spunti di riflessione.
    Resta un punto di difficile attuazione: come si contrasta questa impostazione di società, da singoli che mutano il proprio comportamento o da “popolazione organizzata” che rifiuta in massa l’assoggettamento a tali politiche? Il singolo verrebbe schiacciato dagli altri singoli persuasi della bontà della digitalizzazione della società, le organizzazioni assorbite e smantellate comprandosi i leader (mi ricorda un partito di recente comparso e di prossima sparizione).

Iscriviti a The Week
la nostra newsletter settimanale gratuita

Guarda una versione di "The Week" prima di iscriverti e valuta se può interessarti ricevere settimanalmente la nostra newsletter

Ultimi

Articoli nella stessa categoria

Grazie per aver già letto

10 dei nostri articoli questo mese.

Chiudendo questo pop up potrai continuare la lettura.
Sappi però che abbiamo bisogno di te,
per continuare a fare un giornalismo libero e imparziale.

Clicca qui e  scopri i nostri piani di abbonamento e supporta
Un’informazione – finalmente – senza padroni.

ABBONATI / SOSTIENI