martedì 16 Aprile 2024

Recensioni indipendenti: Fashion Victims (documentario)

Un documentario del 2019 della durata di 42 minuti, auto-prodotto dagli stessi autori in collaborazione con diversi professionisti, tra cui l’organizzazione non governativa Social Awareness And Voluntary Education (Save) che ha supportato la squadra nella realizzazione del progetto. A pensarci bene, liberandoci di ogni falso mito, di ogni accattivante e sfarzosa sfilata o dei seguitissimi e attualissimi “influencer”, la moda non è altro che un effimero appagamento del  bisogno di “essere” attraverso “l’apparire” ed è certo sempre stato così ma mai come oggi, con una globalizzazione sempre più incontrollata, nasconde lati oscuri per lo più sconosciuti. Alessandro Brasile e Chiara Ka’ Hue Cattaneo, registi e autori del documentario “Fashion victims”, svelano i risvolti inquietanti di un sistema produttivo che sfrutta manodopera  a bassissimo costo,  ricavandone altissimi profitti, reclutando giovani donne, quasi delle bambine, nei paesi più poveri. Nelle fabbriche del Tamil Nadu, zona tra le più povere dell’India, esistono fabbriche di proprietà occidentale dove lavorano come sarte ragazze provenienti da zone rurali dove non esistono possibilità di lavoro alternative né per loro né per le loro famiglie, anche a causa del preoccupante declino dell’agricoltura. Reclutate dai “broker” delle aziende che offrono un’opportunità di guadagno e il sogno di una vita migliore, facilmente si trasferiscono dai loro villaggi in quelle che poi diventeranno di fatto le loro prigioni, dove lavoreranno in condizioni quasi di schiavitù, perennemente sotto ricatto e da dove non potranno uscire, né potranno licenziarsi, potranno solo fuggire.

Con un sistema di assunzione detto “Sumangali scheme” le donne dovranno lavorare gratis per tre o cinque anni, passati i quali riceveranno uno stipendio cumulativo che si aggira tra i cinquecento e gli ottocento euro e che viene loro pagato solo al termine del periodo stabilito, anche se non sempre questo accade come racconta Brasile «In uno dei miei viaggi ho incontrato una ragazza che mi ha detto che dopo quattro anni la fabbrica non le ha pagato nulla, dicendole che il suo lavoro era illegale, ma che se voleva la avrebbero assunta». Il tacito consenso a queste vessatorie condizioni è ben accetto anche dalle famiglie, in quanto le giovani prossime al matrimonio devono essere fornite di una dote e di tutto quanto è necessario per la loro nuova vita nella casa del futuro marito, secondo secolari usanze ancora in vigore in India. In questo contesto i reclutatori agiscono con grande facilità cercando con ogni mezzo di non far trapelare  nulla di quanto realmente accade nelle fabbriche. Lo stesso regista, Brasile, racconta di aver più volte corso grandi rischi per la sua incolumità. Il primo giorno di riprese ha subito un’aggressione e, una volta che è riuscito a introdursi in una delle fabbriche, non solo non ha ottenuto il permesso di realizzare immagini ma è stato schedato in un sistema non ufficiale. «Sono stato fotografato e il fixer (una sorta di informatore esperto del luogo), ha testualmente detto: questa non ci voleva, adesso la tua faccia è su tutti i telefonini dei responsabili delle fabbriche nei dintorni. Da lì in poi sarebbe stato sicuramente meglio non farsi vedere in giro».

Non si vuole certo far sapere, né tantomeno far vedere,  quello che quotidianamente  accade sul lavoro dove non esiste nessun tipo i tutela per le lavoratrici e gli incidenti sono all’ordine del giorno, ma talvolta anche i suicidi, la violenza sessuale, e finanche omicidi. Le stesse ragazze, nel raccontare il proprio passato e futuro, tracciano il quadro della crudeltà quotidiana di un sistema produttivo nel quale le “ fashion victim” sono loro , violate nel corpo e nei sogni, per produrre ciò che noi, spesso inconsapevolmente indossiamo tutti i giorni. Come i due autori hanno dichiarato: «L’intento del documentario non è solo quello di denunciare lo sfruttamento dei lavoratori, ma di stimolare una riflessione più approfondita: Non sono gli indiani che sfruttano le operaie, è il sistema del fast fashion che così non funziona, né per chi ci lavora né tantomeno per l’ambiente e per i consumatori».

[di Federico Mels Colloredo]

L'Indipendente non riceve alcun contributo pubblico né ospita alcuna pubblicità, quindi si sostiene esclusivamente grazie agli abbonati e alle donazioni dei lettori. Non abbiamo né vogliamo avere alcun legame con grandi aziende, multinazionali e partiti politici. E sarà sempre così perché questa è l’unica possibilità, secondo noi, per fare giornalismo libero e imparziale. Un’informazione – finalmente – senza padroni.

Articoli correlati

1 commento

  1. Dove si può vedere?

    Grazie al lavoro dei due documentaristi. È odiosa l’ipocrisia occidentale che dimentica che la propria “libertà” al consumare è stata comprata sul sangue degli oppressi e dei sfruttati.

    Grazie per averne parlato ancora una volta!

Iscriviti a The Week
la nostra newsletter settimanale gratuita

Guarda una versione di "The Week" prima di iscriverti e valuta se può interessarti ricevere settimanalmente la nostra newsletter

Ultimi

Articoli nella stessa categoria

Grazie per aver già letto

10 dei nostri articoli questo mese.

Chiudendo questo pop up potrai continuare la lettura.
Sappi però che abbiamo bisogno di te,
per continuare a fare un giornalismo libero e imparziale.

Clicca qui e  scopri i nostri piani di abbonamento e supporta
Un’informazione – finalmente – senza padroni.

ABBONATI / SOSTIENI