giovedì 14 Novembre 2024

Viaggio all’interno della coscienza

A un certo punto, nello svolgersi, anche imprevedibile, della letteratura, delle arti della parola, della cultura dell’immaginazione, ecco presentarsi, in epoche diverse e assai lontane, in testi di varie contrade, il viaggio all’interno della coscienza. Nel Novecento, circa un secolo fa, nei primi anni Venti, numerosi sono i grandi esempi, ma almeno due fondamentali: Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust e Ulisse di James Joyce, ai quali dovremmo aggiungere La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Prima che titoli di opere, questi sono orizzonti della scrittura, sogni e vertigini di un viaggio interiore.

Proust canta sussurrandola l’epopea sentimentale di un’età lontana, e pur tuttavia presente, nella condizione di una sopravvivenza densa, caleidoscopica. Scrive ascoltando la sua memoria, che è molto minuziosa, sensibile alle sfumature come in un quadro impressionista. “E allora lo scrittore si accorge che se il suo desiderio d’essere un pittore non era realizzabile in modo cosciente e intenzionale, codesto desiderio viene peraltro ad essere egualmente realizzato… Pensare in forma universale, scrivere, è per lo scrittore una funzione sana e necessaria, che a compierla rende felici, come, per gli uomini dediti alla vita fisica, la ginnastica, il sudore e il bagno” (Il tempo ritrovato).

Joyce invece lavora soprattutto con la visione e lancia occhiate feroci a un mondo dove gli stereotipi pesano enormemente e condannano alle conferme meno consolanti. Celebre soprattutto la sua opera per aver dato raffigurazione al flusso di coscienza, quella voce fuori campo che entra nel film del racconto senza un montaggio, quasi come in un incubo: “Aveva la mania di far sempre i soliti discorsi di politica e i terremoti e la fine del mondo divertiamoci prima Dio ci scampi e liberi tutti se tutte le donne fossero come lei a sputar fuoco contro i costumi da bagno e le scollature che nessuno avrebbe voluto vedere addosso a lei si capisce dico che era pia perché nessun uomo  si è mai voltato a guardarla spero di non diventare come lei… Ogni anno lassù in cima alla rocca gli dissi era cascato un fulmine e quella storia delle vecchie scimmie di Barberia…lei Mrs Rubio, andava a rubar polli alla fattoria degli Inces e ti tirava sassi se t’avvicinavi”.

Italo Svevo, poi, commisura la vita all’urto tra privato e pubblico, tra ragioni personali e sentimento della storia corrente, uscendone malconcio: “La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria… Forse traverso una catastrofe inaudita… ritorneremo alla salute”. Zeno, l’ultimo uomo del mondo, come ha notato splendidamente Sandro Briosi nel suo Commento a La coscienza di Zeno (èdito da Carocci, per cura di Marco Gaetani, nel 2020), segna la fine della storia come vicenda di singole individualità per aprire a una visione complessiva del genere umano, a una coscienza collettiva e condivisa, di cui ciascuno è testimone e  interprete.

Tutto questo, ovviamente, sarebbe impensabile senza la ricerca che dobbiamo al movimento psicoanalitico, alla speciale consistenza che era stata riconosciuta ai sogni e al loro racconto. Le interferenze di sonno e veglia mostrano, nelle più varie epoche e culture, che coscienza e realtà possono opporsi ma anche diventare complici, complementari, come era per gli antichi Greci, ùpar la veglia, ònar il sogno. Il sogno è la scrittura stessa, è la coscienza di un altro, in cui poi il lettore si perde e si riconosce.

La scoperta, e l’invenzione dell’inconscio, rappresentano una svolta nella conoscenza stratificata, plurale della soggettività umana, mostrano le contraddittorietà del suo operare, la forza che deriva dai sentimenti contrastanti, le trappole delle norme e le gioie del desiderio.

Ma, prima di Freud e Jung, sarà bene tornare alle Memorie del sottosuolo (1864) di Dostoevskij, perché lì la coscienza si carica, nell’atmosfera della prigionia e dell’esilio, di una sua forza di libertà: “E perché voi siete così fermamente, così solennemente sicuri che soltanto quello che è normale e positivo, in una parola, soltanto la prosperità sia vantaggiosa all’uomo? La ragione non s’inganna nei vantaggi? Può darsi che l’uomo ami esattamente altrettanto la sofferenza… La cosa principale non è dove vada la strada, ma che abbia una direzione”.

La letteratura diventa così profetica, non si incarica più di rappresentare semplicemente le vicende di qualcuno, perché questo qualcuno ragiona dentro di sé a nome di tutti, pone interrogativi che riguardano l’universo dei lettori, cioè del mondo. Sollecita a riflettere perché la lettura è questo esercizio insostituibile di viaggio nel possibile, nella mente e nei territori di altri.

Mi permetto un salto logico, entro a capofitto nel cuore di Furore (1939) di John Steinbeck, dove le vicende umane mostrano l’esistenza di una volontà comune, di riscatto, di crescita, di coscienza appunto: “Una famiglia era stata cacciata dal posto dove viveva. Erano in dodici e non avevano una macchina. Si sono costruiti una roulotte con dei rottami di ferro e ci hanno caricato tutto quello che avevano. L’hanno portata sul ciglio della 66 e si sono messi ad aspettare. E dopo un po’ si è fermata una berlina e li ha presi su. Cinque di loro sono saliti sulla berlina, sette sulla roulotte e anche un cane sulla roulotte. Sono arrivati in California in un lampo. L’uomo che li ha trainati gli ha dato anche da mangiare. Ed è tutto vero. Ma come si può avere un coraggio simile, e così tanta fede nel prossimo? Sono poche le cose che possano insegnare una fede simile”. 

Insomma, come è possibile smettere di sperare, di costruire quando abbiamo avuto esempi così coraggiosi, così forti, di immaginario? Leggere, dico spesso, continua ad essere importante. Aiuta anche a sottrarsi, sia pure parzialmente, all’agenda dei fatti imposta da chi vuole condizionarci.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

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