mercoledì 12 Novembre 2025
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Lega e Fratelli d’Italia continuano la crociata contro i centri sociali

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La crociata di Lega e Fratelli d’Italia contro i centri sociali continua. Dopo lo sgombero dello storico Leoncavallo a Milano, le minacce alle esperienze controculturali si sono estese a macchia d’olio in tutta Italia, a partire dalla capitale, dove la Lega è passata all’attacco del Forte Prenestino, uno dei centri sociali più grandi e strutturati d’Europa. A Napoli, Fratelli d’Italia ha chiesto al sindaco dem Gaetano Manfredi lo sgombero di Villa Medusa, ex Opg – Je so’ pazzo e Lido Pola — tutti beni comuni urbani che godono di un regolare accordo con l’ente locale — cui si aggiunge l’Officina 99, al centro di una concessione in comodato d’uso. Il copione si ripete con il centro sociale Rivolta di Venezia, con il senatore meloniano Raffaele Speranzon che ha minacciato la revoca della concessione. La retorica della “legalità” da ristabilire si sta abbattendo, paradossalmente, su luoghi che nella gran parte dei casi non sono occupati ma dotati di permessi comunali e contratti di comodato d’uso, mostrando di fatto come queste battaglie siano guidate dal furore ideologico contro spazi di controcultura e opposizione politica e sociale.

A finire nel mirino delle forze di maggioranza sono anche le esperienze “istituzionalizzate”, come a Napoli, dove molti dei centri occupati hanno raggiunto un accordo col Comune per una concessione degli immobili ai fini sociali. Fratelli d’Italia spinge per chiudere il capitolo di coesistenza aperto sotto l’amministrazione De Magistris, chiedendo nello specifico lo sgombero di Villa Medusa, ex Opg – Je so’ Pazzo, Officina 99 e Lido Pola, divenuti nel tempo dei punti di riferimento per i propri quartieri. A Materdei, per esempio, l’ex Opg organizza da anni un teatro popolare, offre gratuitamente attività sportive, cura un laboratorio di fotografia e diversi sportelli, dalla medicina generale al lavoro, passando per la residenza per i senza fissa dimora. Di esperienze simili, formalizzate e non, è piena l’Italia. Il Viminale ha messo nel mirino oltre cento centri sociali occupati. A Roma viene ad esempio minacciato il Forte Prenestino, occupato e autogestito dal 1986. La struttura è uno dei quindici ex forti militari che dall’Ottocento circondano Roma, l’unico che grazie al lavoro degli attivisti è diventato socialmente vivibile e quindi aperto alla cittadinanza. In Veneto, Regione con una solida storia di centri sociali, Lega e Fratelli d’Italia hanno messo nel mirino Rivolta, Pedro e Bocciodromo, tra gli ultimi spazi autogestiti rimasti. «Lo sgombero del Leoncavallo? Se vinciamo, al centro sociale Rivolta succederà lo stesso», ha dichiarato il senatore Speranzon al Gazzettino, facendo riferimento alle elezioni del nuovo sindaco previste in primavera. A quanto pare l’obiettivo del centrodestra, in caso di vittoria, è di non rinnovare la convenzione col Comune per poi procedere con lo sgombero.

La caduta del Leoncavallo dopo 50 anni di attività e lavoro sul territorio ha generato un effetto domino per la destra securitaria di governo, che ha alzato l’asticella dello scontro verso i centri sociali e le esperienze controculturali, che tra molte contraddizioni rappresentano spesso delle vere e proprie anomalie nel paradigma neoliberista devoto all’estrazione di profitto. L’opposizione di centro-sinistra ha risposto puntando il dito verso il doppiopesismo nei confronti dei neofascisti di CasaPound che non sono stati sgomberati dal loro spazio occupato di via Napoleone III a Roma. Con il paradosso di chiedere di fatto lo sgombero di tutte le esperienze autogestite riducendo la questione sul piano del legalismo. Al margine del dibattito rimangono tuttavia le questioni essenziali: l’assenza nelle città di luoghi di aggregazione e servizi alla cittadinanza slegati dalle logiche commerciali che rendono di fatto i centri sociali spesso gli unici erogatori di servizi essenziali nei quartieri dove sono presenti; la concezione delle città sempre più come vetrine commerciali a uso di turisti e clienti all’interno delle quali non sono previste anomalie; e infine la criminalizzazione sistematica di ogni luogo di dissenso organizzato di cui spesso i centri sociali sono espressione. Oltre a questo, con le elezioni regionali alle porte, non è difficile scorgere nell’ennesima crociata per la sicurezza e la legalità un tentativo di spostare il dibattito pubblico verso argomenti più congeniali alla campagna elettorale.

Regno Unito: nuove sanzioni alla Russia

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Il Regno Unito ha imposto sanzioni a 11 nuovi individui ed entità affiliate allo Stato russo, accusandoli di deportare forzatamente e indottrinare i bambini ucraini. Di preciso, sono coinvolte 8 persone e 3 entità colpite da sanzioni quali il congelamento dei beni e divieti di viaggio. L’Ucraina accusa la Russia di avere deportato forzatamente circa 20mila bambini, rapendoli dalle famiglie e portandoli in campi per indottrinarli. Le autorità russe rifiutano la narrazione Ucraina e sostengono di evacuare i bambini dalle zone di guerra fornendo loro rifugio, cure, e istruzione, senza portare avanti alcun tentativo di indottrinamento.

Litigi, dossier e diserzioni: in Israele c’è una spaccatura tra esercito e Netanyahu

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La tensione tra il governo israeliano e il capo delle Forze di Difesa Israeliane Eyal Zamir è sempre più alta e sta finendo per erodere il già precario rapporto tra Netanyahu e l’esercito. Zamir, che si era già opposto al piano di invasione di Gaza City, sta infatti premendo perché il governo accetti un cessate il fuoco temporaneo per fare respirare l’esercito e recuperare gli ostaggi, ma le sue richieste non stanno venendo ascoltate. Il governo, anzi, ha deciso di proseguire con la mobilitazione dei 60mila riservisti chiamati a fine agosto, mentre l’insofferenza dei soldati avanza, spingendo sempre più militari a disertare. La perdita di presa sull’esercito sta gradualmente portando la campagna genocidaria israeliana al collasso: l’operazione Carri di Gedeone è «un fallimento», e Israele «ha sbagliato tutto ciò che poteva sbagliare», recita infatti un dossier segreto delle IDF; Hamas, di contro, mostra di avere la capacità di rimanere solida nonostante le perdite, e sta riuscendo a «sopravvivere e vincere».

I segni di rottura tra Netanyahu e l’esercito sono diversi. Lunedì 1° settembre, il quotidiano israeliano Ynet ha rilasciato delle indiscrezioni su un incontro del gabinetto di sicurezza, in cui Zamir avrebbe proposto un piano alternativo per la prosecuzione della campagna a Gaza. Zamir aveva già contestato il piano di occupazione totale di Gaza City, sostenendo che fosse troppo rischioso per gli ostaggi e troppo sfiancante per l’esercito. Ancora oggi, a due settimane dal suo lancio, continua a premere sul governo per abbandonare il piano e muovere piuttosto incursioni mirate sulle zone più calde della Striscia. Zamir, inoltre, avrebbe avanzato un piano di cessate il fuoco di 60 giorni per fare rientrare gli ostaggi. L’accordo in discussione, riportano i media israeliani, prevedrebbe il rilascio di 10 ostaggi vivi e dei corpi di altri 18, mentre intanto verrebbero portati avanti colloqui sulla fine della guerra e la liberazione degli ostaggi rimasti. Netanyahu avrebbe boicottato la proposta di Zamir, non facendola nemmeno arrivare ai voti.

Tra le scintille con il capo dell’esercito, il governo insiste con il piano di occupazione di Gaza che prevedrebbe lo spostamento in massa dei palestinesi verso sud. Per portarlo avanti, ha mobilitato 60mila riservisti, che stanno venendo schierati proprio in questi giorni. La maggior parte delle persone mobilitate, sostiene il quotidiano israeliano Haaretz, avrebbe già prestato servizio per centinaia di giorni dall’escalation del 7 ottobre, e sarebbe tenuta a garantire la propria presenza per altri tre mesi, con la possibilità di un’estensione di un mese in base all’evoluzione dei combattimenti nella Striscia. Tra le persone chiamate, continua il quotidiano, vige ormai un generale sentimento di sconforto: in molti non si fiderebbero dei piani dichiarati del governo e altrettanti starebbero descrivendo tale rotazione come la più dura degli ultimi due anni. Haaretz riporta che circa 350 soldati avrebbero deciso di schierarsi apertamente contro la campagna a Gaza, disertando la chiamata, e che in generale il numero di volontari nelle IDF starebbe diminuendo, tanto che l’esercito starebbe occultando i numeri esatti per manipolare i dati e minimizzare l’impatto mediatico dell’assenteismo.

Di fronte a tale scenario di crisi, non stupisce il contenuto del rapporto segreto delle IDF, condiviso dall’emittente israeliana Channel 12. «Abbiamo fallito», si legge nel dossier; «Israele ha fatto ogni possibile errore conducendo una campagna contraria alla sua dottrina di guerra». Il riferimento è all’operazione Carri di Gedeone, lanciata lo scorso giugno, con la quale lo Stato ebraico intendeva distruggere completamente Hamas e fare rientrare gli ostaggi: eppure, «Hamas non è stata sconfitta né militarmente né politicamente e gli ostaggi non sono stati restituiti né con un accordo né con un’operazione». Tra i motivi del fallimento, si legge nel piano, la scarsa pianificazione dei combattimenti, l’assenza di discussioni per raggiungere un accordo, la gestione degli aiuti umanitari. Sul campo, le IDF sostengono di avere agito senza un chiaro cronoprogramma, basando le proprie azioni su vantaggi immediati piuttosto che inserendole in una visione a lungo termine; non hanno pianificato attacchi mirati, hanno invaso aree già attaccate in passato, non sono state capaci di gestire le proprie risorse e sono state sopraffatte troppe volte dalle firme di resistenza. Hamas, di contro, «presenta tutte le condizioni per sopravvivere e vincere: risorse, una dimensione sicura, e un metodo di combattimento adeguato».

Dopo la pubblicazione del documento, le IDF hanno commentato che «questi contenuti sono stati distribuiti senza autorizzazione e senza l’approvazione delle parti interessate», difendendo i risultati raggiunti, e confermando indirettamente la paternità dei fogli. Nonostante quanto dicano le IDF, il dossier parla chiaro: lo stesso esercito israeliano è conscio del fatto che la campagna militare a Gaza non sta andando come sperato; su stessa ammissione delle IDF, l’obiettivo di distruggere completamente Hamas appare ancora oggi inverosimile, mentre Israele ha perso completamente credibilità davanti alla comunità internazionale.

Le leggi tech europee vengono sistematicamente attaccate dagli USA

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Oggi, mercoledì 3 settembre, la Commissione Giustizia della Camera statunitense ha annunciato un’audizione dal titolo eloquente: La minaccia dell’Europa alla libertà di parola e all’innovazione americana. Si tratta dell’ultimo passo in un’escalation che vede l’amministrazione Trump schierarsi apertamente contro la normativa europea destinata a incidere sugli interessi delle Big Tech, con un approccio fondato sullo strumento del bullismo istituzionale e sulla sempreverde minaccia di nuovi dazi.

Nel mirino delle autorità statunitensi figurano il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA), insieme ai loro omologhi britannici, l’Online Safety Act (OSA) e il Digital Markets, Competition and Consumers Act (DMCC). La Commissione ritiene che queste norme “prendono di mira le aziende americane e danneggiano l’innovazione”, una posizione che riflette senza dissonanze il tono assunto di recente dall’intera Casa Bianca. Per intuire dove si voglia andare a parare, basta guardare alla lista degli osservatori esteri che sono stati invitati: Nigel Farage, politico di estrema destra che ha buone possibilità di essere il nuovo Primo Ministro del Regno Unito, e Thierry Breton, ex commissario europeo per il Mercato interno.

L’orientamento politico è chiaro: Washington intende usare la leva dei dazi per piegare le legislazioni straniere ai propri interessi. Non si tratta di un’interpretazione, ma di un messaggio che è stato formulato fin troppo esplicitamente. Il 21 agosto, il presidente della Commissione federale per il commercio (FTC), Andrew Ferguson, ha inviato alle grandi aziende tecnologiche una lunga lettera piena di retorica in cui le invita a ignorare tutte le norme europee che potrebbero impattare sulla libertà di parola statunitense — un concetto volutamente vago che concede ampio margine per contestare in pratica qualsiasi regolamentazione del web.

Pochi giorni più tardi, il 26 agosto, Donald Trump ha alzato ulteriormente i toni sul suo social network Truth Social: «in qualità di Presidente degli Stati Uniti, terrò testa alle nazioni che attaccano le nostre strepitose aziende tech americane», ha scritto richiamando esplicitamente il DSA e il DMA. «Avviso tutte le nazioni con tasse digitali, legislazioni, regole e regolamenti che, qualora queste misure discriminatorie non vengano ritirate, in qualità di Presidente degli Stati Uniti, imporrò ulteriori tasse consistenti sulle esportazioni di queste nazioni verso gli USA e limiterò le esportazioni nei loro confronti della nostra tecnologia protetta e dei chip».

Tierry Breton ha declinato l’invito a partecipare all’audizione odierna della Camera dei Rappresentanti, ufficialmente a causa di impegni pregressi. Una decisione che reitera una tacita posizione già espressa a fine luglio, quando il presidente della Commissione Giustizia Jim Jordan aveva tentato di incontrarlo a Bruxelles, incappando in un garbato rifiuto. Più diretta, invece, è Henna Virkkunen, vicepresidente esecutiva della Commissione europea e commissaria per le Tecnologie digitali: «il DSA e il DMA sono leggi sovrane. Non discriminatorie, applicabili a tutte le piattaforme online in Europa. Proteggono pienamente i nostri diritti fondamentali, compresa la libertà di espressione. Continuerò a farle rispettare, per i nostri figli, i nostri cittadini e le nostre imprese», ha scritto su X.

Nonostante i tentativi europei di ricomporre le tensioni sui dazi, Washington ha continuato a rivendicare la libertà di rimettere in discussione gli accordi commerciali, facendo leva sulla coercizione economica per piegare le istituzioni europee. L’abbandono della cosiddetta “web tax” non è stato sufficiente a sedare il sedicente alleato: l’amministrazione Trump chiede di più, sostenuta da un ristretto ma potentissimo gruppo di aziende che trainano integralmente l’attuale crescita economica statunitense. In vista delle elezioni di metà mandato, queste stesse corporation si preparano peraltro a rafforzare la propria influenza politica, lanciando due nuovi Super PAC, giganteschi comitati di raccolte fondi che sono capaci di convogliare enormi risorse finanziarie per oliare gli ingranaggi della politica. La questione, insomma, sembra essere lontana dal trovare una soluzione pacifica.

Turchia, arrestati 7 funzionari dell’opposizione

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Le autorità turche hanno ordinato l’arresto di sette funzionari di municipalità di Istanbul gestite dal principale partito di opposizione, il Partito Popolare Repubblicano (CHP). Di preciso, i funzionari sono stati arrestati nell’ambito di una inchiesta per corruzione, che ha portato alla detenzione di 15 sindaci di comuni vicini a Istanbul. Gli arresti seguono di un giorno la rimozione di Ozgur Celik, capo provinciale di Istanbul. Essi arrivano in un contesto di progressivo aumento della stretta repressiva nei confronti dei politici e dei membri dell’opposizione, inaugurata lo scorso marzo con l’arresto del principale leader di opposizione Ekrem Imamoglu.

Sicilia: mentre salpa la Global Flotilla, un aereo israeliano transita da Sigonella

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Nella giornata di ieri, martedì 2 settembre, intorno alle 18.40 del pomeriggio, un aereo dell’esercito israeliano è atterrato nella base NATO di Sigonella, in provincia di Catania. Identificato con la sigla IAF (Israeli Air Force) 292, il volo era parito dalla base israeliana di Nevatim, nel deserto del Negev, alle 15.10 del pomeriggio. È poi ripartito alle 22.15, per arrivare a Nevatim alle 3.09 ora locale. Il modello sarebbe un KC-130H Karnaf, impiegato dall’esercito israeliano per trasporto pesante. Il transito del mezzo è avvenuto proprio mentre a Catania si prepara a partire la flotta della Global Sumud Flotilla, la missione dal basso che intende rompere l’assedio di Gaza consegnando tonnellate di aiuti umanitari alla popolazione civile.

L’atterraggio dei mezzi militari viene autorizzato dal comandante del 41° stormo dell’aeronautica militare italiana di stanza a Sigonella, che è anche responsabile del controllo radar spazio aereo della Sicilia orientale. Secondo quanto riferito dal giornalista Antonio Mazzeo, esperto in tematiche riguardanti la militarizzazione e impegnato da tempo nella denuncia del traffico di armi, si tratta di un evento del tutto eccezionale, dal momento che «da anni» i voli dell’esercito israeliano non atterrano nelle basi militari italiane. «Posso escludere arrivi e presenze di aerei israeliani negli ultimi anni. Ci sono stati numerosi transiti di aerei americani diretti in Israele, ma non di aerei israeliani», spiega Mazzeo a L’Indipendente. Come riporta il sito stesso della IAF, il mezzo è utilizzato per il trasporto di carichi di grandi dimensioni, come veicoli corazzati, camion, veicoli più leggeri, munizioni e truppe.

«Nevatim è una delle principali basi aeree israeliane, utilizzata anche dai reparti che vanno a bombardare a Gaza», prosegue Mazzeo, «è l’aeroporto di arrivo di molti aerei cargo che inviano materiale militare a Israele». Per via della tipologia del mezzo, Mazzeo esclude che si trovi a Catania per monitoriare in qualche modo le attività della Global Sumud Flotilla. «Escludo che si trovi a Catania per questo motivo, perchè non si tratta di un aereo di intelligence, se fosse stato un mezzo del genere non avrebbe nemmeno avuto bisogno di atterrare. Si può ipotizzare che sia atterrato per fare rifornimento di materiale bellico statunitense». La rotta Sigonella-Nevatim è infatti utilizzata dagli Stati Uniti per effettuare il rifornimento di armi e mezzi verso Israele. In passato, riferisce Mazzeo, «ci sono stati aerei simili che da Sigonella sono andati a Nevatim a trasportare munizioni e armi, ma statunitensi. Il fatto che a farlo sia un mezzo israeliano rappresenta una questione anomala».

Mentre nella base militare siciliana i mezzi israeliani transitano indisturbati, a Catania si prepara a partire una parte delle navi della Global Sumud Flotilla, la flotta internazionale composta da membri della società civile che mira a far arrivare a Gaza centinaia di tonnellate di aiuti umanitari, raccolti nelle scorse settimane. Proprio oggi, alle 18.30, è prevista una manifestazione di solidarietà con l’equipaggio in partenza analoga a quella svoltasi sabato 30 agosto a Genova, che ha visto la partecipazione di decine di migliaia di persone. Israele ha già fatto sapere che tratterà gli attivisti come «terroristi», ma questo non ha fermato le imbarcazioni.

È stato scoperto un tempio di una misteriosa civiltà precedente agli Inca

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Ha dimensioni pari a un isolato cittadino ed è rimasto per secoli nascosto agli occhi di tutti, nonostante fosse attraversato quotidianamente da un sentiero locale: è il tempio Palaspata, un complesso cerimoniale attribuito alla misteriosa civiltà di Tiwanaku e scoperto sugli altopiani boliviani vicino al comune di Caracollo. Lo rivela un nuovo studio guidato dal ricercatore José Capriles della State University, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Antiquity. Attraverso tecniche avanzate e grazie all’utilizzo di droni, gli autori hanno scoperto che il tempio si trova circa 210 chilometri a sud della storica capitale Tiwanaku – in un’area finora ritenuta esterna al nucleo centrale di sviluppo della civiltà – e che la sua struttura, con piattaforme terrazzate e un cortile ribassato, richiama lo stile architettonico già noto nell’area del lago Titicaca. «Non ce lo aspettavamo in questo luogo specifico, il fatto che esista lì è straordinario», commenta Capriles, aggiungendo che Palaspata potrebbe aver avuto un ruolo strategico nell’espansione politica, economica e religiosa dei Tiwanaku.

Ricostruzione del tempio appena scoperto. Crediti: José Capriles / Penn State

Nata sulle rive meridionali del lago Titicaca, la civiltà di Tiwanaku rappresenta una delle prime grandi formazioni statali delle Ande, sviluppatasi tra il 500 e il 1000 d.C., ben prima dell’impero Inca. Gli archeologi definiscono “formazione statale primaria” una società complessa che nasce senza modelli esterni, e Tiwanaku si sviluppò proprio così: da semplici villaggi agricoli a un centro politico e religioso che esercitava influenza su vaste aree. L’agricoltura in quota, difficile in quelle regioni, fu affiancata da un sistema di scambi gestiti grazie alle carovane di lama, che trasportavano beni come il mais coltivato nelle valli di Cochabamba e altri prodotti provenienti da zone lontane. Monumenti come piramidi terrazzate, templi e monoliti testimoniavano la centralità della religione, che si intrecciava con il potere politico ed economico. Il tempio di Palaspata quindi, allineato con l’equinozio solare, rientra in questa tradizione architettonica in cui gli edifici sacri non erano solo luoghi di culto, ma anche strumenti di controllo territoriale e sociale. Per effettuare la scoperta, spiegano gli autori, sono stati impiegati droni e la fotogrammetria – una tecnica che ricostruisce modelli tridimensionali a partire da fotografie – per mappare e ricostruire digitalmente il sito, nascosto in un paesaggio agricolo apparentemente ordinario.

Alcuni frammenti di tazze di keru. Credit: Crediti: José Capriles / Penn State

In particolare, il complesso misura circa 125 per 145 metri e include 15 recinti modulari disposti attorno a un grande cortile. Durante le ricerche sono emersi anche numerosi frammenti di “tazze di keru”, utilizzate per bere la chicha, una bevanda alcolica a base di mais. Questo dato, spiegano gli esperti, suggerisce che il tempio fosse sede di feste e raduni, in cui la dimensione rituale si intrecciava con quella economica e politica: «La posizione di questo sito è strategica tra due importanti zone geografiche degli altopiani andini», aggiunge Capriles, sottolineando come Palaspata potesse controllare i flussi commerciali e culturali tra gli altipiani, l’arido Altiplano e le fertili valli di Cochabamba. Il sindaco di Caracollo, Justo Ventura Guarayo, ha parlato di un patrimonio finora trascurato: «Questa scoperta è vitale per la nostra comunità e crediamo che la sua documentazione sarà preziosa per promuovere il turismo e valorizzare la ricca storia della nostra regione». Secondo Capriles, infatti, il tempio dimostra come religione, politica ed economia fossero inseparabili nella civiltà Tiwanaku, in un sistema in cui ogni transazione veniva mediata attraverso il sacro. «C’è ancora così tanto da scoprire che non sappiamo, e che potrebbe essere nascosto in bella vista. Basta aprire gli occhi per vedere cosa c’è là fuori», conclude l’archeologo.

ChatGPT non funziona: migliaia di segnalazioni

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Nell’ultima ora diversi utenti del noto chatbot ChatGPT hanno riscontrato problemi con la piattaforma. Le segnalazioni sono arrivate da persone di tutto il mondo e i disservizi hanno interessato anche l’Italia. Ancora ignote le cause del malfunzionamento, ma potrebbe trattarsi di un momentaneo blackout. In caso di malfunzionamenti, OpenAI, l’azienda che gestisce il chatbot, suggerisce di aggiornare la pagina web, svuotare la cache o cambiare browser.

Papa Leone riallinea la Chiesa invitando il presidente israeliano Herzog

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Papa Leone incontrerà domani in Vaticano il presidente israeliano Isaac Herzog. Pronto dunque il riallineamento della Chiesa Cattolica verso lo Stato ebraico, dopo gli ultimi anni del Pontificato di Bergoglio segnati da una forte critica verso i crimini israeliani in Palestina. Dal 7 ottobre 2023 fino alla sua morte, infatti, Papa Francesco non aveva mai incontrato i leader di Tel Aviv, ospitando invece il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen. L’incontro tra Leone e Herzog verterà su diverse questioni, come la liberazione degli ostaggi israeliani, la lotta all’antisemitismo e la protezione delle comunità cristiane in Medio Oriente, le stesse che Israele attacca nella Striscia di Gaza da due anni a questa parte. L’annuncio dell’incontro arriva a poche ore dal proclama del ministro israeliano Ben Gvir, secondo cui «gli europei proveranno il terrorismo in prima persona».

L’incontro tra Herzog e il Papa si terrà domani, giovedì 4 settembre, alle ore 10, presso il Palazzo Apostolico. Lanciata la notizia dell’incontro, l’ufficio del presidente Herzog ha rilasciato una nota in cui afferma che l’incontro sarebbe stato organizzato su richiesta del Papa; il portavoce del Vaticano, Matteo Bruni, tuttavia, rispondendo alle domande dei giornalisti, ha specificato che «è prassi della Santa Sede acconsentire a richieste di udienza rivolte al Pontefice da parte di capi di Stato e di governo, non è prassi rivolgere loro inviti». Secondo i quotidiani israeliani, Herzog pianificava di visitare il Vaticano mesi fa, quando Papa Francesco era gravemente malato; l’incontro di domani, specificano, sarebbe stato organizzato dopo l’insediamento di Leone XIV.

Sin dal suo insediamento, Papa Leone ha ricollocato la Chiesa su una traiettoria più moderata nella sua denuncia dei massacri a Gaza. Il pontefice ha raramente mosso critiche dirette nei confronti della condotta israeliana, e si è spesso limitato a lanciare generici appelli per la pace. Comportamento opposto a quello del suo predecessore, Francesco, che dal 7 ottobre 2023 si è sempre tenuto in contatto con la parrocchia di Gaza e non ha mai ricevuto leader israeliani in Vaticano, criticandoli apertamente. In generale, negli ultimi due anni, i rapporti tra Israele e la chiesa cattolica sono peggiorati notevolmente. In tal senso, ricevere Herzog mentre il Paese di cui è presidente è accusato per genocidio risulta fortemente simbolico. Il presidente, come il primo ministro Netanyahu, su cui pende un mandato di arresto internazionale con l’accusa di aver commesso crimini di guerra, è uno dei più fervidi sostenitori di posizioni razziste nei confronti dei palestinesi, come dimostrato all’indomani del 7 ottobre, quando definì «l’intera nazione responsabile» degli atti di quello che Israele definisce «terrorismo», sostenendo che a Gaza «non ci sono civili innocenti».

USA attaccano nave venezuelana accusata di trasportare droga: 11 morti

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Una nave militare degli Stati Uniti ha sparato contro una nave partita dal Venezuela, accusandola di trasportare droga. Nell’attacco, specifica il presidente Trump, sono state uccise 11 persone. L’esercito statunitense, ha detto Trump, ha identificato l’equipaggio della nave colpita come membri della gang venezuelana Tren de Aragua, che gli Stati Uniti hanno definito un gruppo terroristico a febbraio e sostengono essere controllata dal presidente venezuelano Maduro. Non sono state rilasciate ulteriori informazioni sull’attacco o sul carico trasportato.