giovedì 13 Novembre 2025
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Regno Unito: si dimette la vicepremier per scandalo su una casa

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La vice prima ministra britannica Angela Rayner si è dimessa a causa di irregolarità nel pagamento delle imposte sull’acquisto di un’abitazione. Rayner ha ammesso di aver pagato l’imposta sull’acquisto dell’immobile registrandolo come residenza, mentre avrebbe dovuto indicarla come seconda casa; la vicepremier sostiene di aver ricevuto indicazioni fiscali sbagliate. Questo le ha permesso di risparmiare circa 40mila sterline. Quando era stato reso noto, il movimento di Rayner aveva generato un’ondata di critiche nei confronti dell’esecutivo, già al centro di diverse polemiche. Ora, riportano i media britannici, Starmer avrebbe in mente di fare un rimpasto di governo più ampio, che non si limiti alla sola sostituzione di Rayner.

Amnesty denuncia le “vergognose” sanzioni USA contro le ONG palestinesi

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«La decisione dell’amministrazione Trump di imporre sanzioni nei confronti delle tre organizzazioni non governative palestinesi al-Haq, Centro al-Mezan per i diritti umani e Centro palestinese per i diritti umani rappresenta un vergognoso attacco ai diritti umani e alla ricerca globale della giustizia», è quanto denuncia Amnesty International in un comunicato diffuso oggi, 5 settembre. Le tre organizzazioni svolgono un lavoro fondamentale e coraggioso, continuando a documentare le violazioni dei diritti umani nonostante la guerra, il genocidio e il sistema di apartheid di Israele. Secondo Amnesty si tratta della «ennesima conferma di quanto Washington sia determinata a smantellare le fondamenta della giustizia internazionale e a proteggere Israele».

OpenAI vuole fare concorrenza a LinkedIn lanciandosi nella ricerca lavorativa

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Tra i social network è possibile incappare in vari video nei quali si vedono anziani lavorare in ristoranti, cantieri o piccoli supermercati: gli avventori riprendono, mossi dalla tenerezza nel vedere individui, spesso ultraottuagenari, ancora ligi al loro dovere nella società. Per quanto sia necessario considerare il fatto che il Giappone sia il Paese con il tasso d’anzianità più alto al mondo, sembra chiara la falla dietro a un sistema che prevede il lavoro anche per chi dovrebbe ampiamente godere della serenità dell’ultima parte della sua vita. Le ragioni dietro a un fenomeno sistemico (secondo l’OCSE il 50% dei giapponesi tra i 65 e i 69 anni svolge ancora un impiego) risiedono in vari aspetti. Il primo elemento è la precarietà: la pensione di base di un lavoratore con quarant’anni di contributi ammonta a 65.000 yen (circa 400 euro) al mese, e la situazione peggiora drasticamente per chi ha avuto una carriera lavorativa saltuaria. La seconda ragione si iscrive nel modello di una società totalmente improntata sul dovere del lavoro: perderlo significa perdere ogni legame sociale, ogni ragione d’esistere. L’ikigai, il termine giapponese con il quale si descrive la «ragione d’esistere», in Occidente è divenuto l’ossessione delle guide di auto-aiuto e dei coach spirituali, a tal punto da plasmare la visione del Paese stesso [foto di Armando Negro]

Cercare lavoro è ormai diventato un lavoro a tempo pieno: le aziende ricevono un numero crescente di curriculum, rispondono sempre meno e spingono i candidati a inviarne ancora di più. Un circolo vizioso e disumanizzante, aggravato dal fatto che sia imprese che aspiranti dipendenti affidano sempre più spesso la gestione delle candidature alle intelligenze artificiali. La soluzione? Secondo OpenAI, ancora una volta, l’intelligenza artificiale. Il colosso dell’IA ha annunciato il lancio di una piattaforma pensata per incrociare domanda e offerta di lavoro, nonché un servizio di certificazioni pensato per attestare il livello di competenza nell’uso dei modelli linguistici di grandi dimensioni.

Queste iniziative, per ora limitate agli Stati Uniti, vengono presentate come un’“espansione delle opportunità economiche attraverso l’IA”: una risposta al fatto che proprio la diffusione capillare di queste tecnologie sta contribuendo a sgretolare un mercato del lavoro già dissestato. Per OpenAI, gigante del settore dell’intelligenza artificiale, la chiave risiede tutta nell’imparare a utilizzare meglio gli strumenti che commercializza, nell’“adattarsi” e trovare nuovi metodi operativi. “Non possiamo eliminare questa perturbazione [lavorativa], ma possiamo aiutare più persone a diventare fluenti nell’uso dell’IA e connetterle alle aziende che hanno bisogno delle loro competenze”, sostiene l’azienda.

Fulcro del progetto è una nuova piattaforma di abbinamento del lavoro, la quale è stata progettata per dialogare con grandi e piccole imprese, ma anche con enti governativi. Già prima del lancio, OpenAI riferisce di avere avviato collaborazioni con i gruppi di consulenza Accenture e Boston Consulting Group, con il motore di ricerca Indeed, con diverse associazioni d’impresa e persino con l’ufficio del governatore del Delaware. Ancor più rilevante, OpenAI ha già imbastito una collaborazione con Walmart, il più grande datore di lavoro privato degli USA, per strutturare percorsi di aggiornamento nel settore dell’IA.

Parallelamente, l’azienda punta a potenziare la propria “Accademia”, una piattaforma formativa con corsi e workshop che presto inizieranno a rilasciare certificazioni utili ad attestare le proprie competenze. Non ci sarà bisogno di seguire lezioni o registrare presenze, si potrà risolvere l’intero iter formativo direttamente su ChatGPT, senza mai uscire dall’app. L’obiettivo è quello di assegnare un attestato di alfabetismo digitale ad almeno 10 milioni di statunitensi nell’arco dei prossimi cinque anni.

L’annuncio pubblicato da OpenAI è però scevro di dettagli tecnici. Non è chiaro se i servizi saranno gratuiti o a pagamento, quale peso avranno gli attestati nel collegare candidati e aziende, né se questi documenti potranno essere rilasciati anche da enti terzi. Ancor più, non sono fornite informazioni su quali misure verrranno eventualmente assunte per mitigare le ben note criticità dei sistemi di IA, i quali vanno dalla discriminazione nei confronti delle fasce vulnerabili alla costante presenza di “allucinazioni”. A ben vedere, OpenAI non specifica neppure se la piattaforma di ricerca lavorativa sarà sorretta dall’intelligenza artificiale o da algoritmi più tradizionali e prevedibili.

A questo si somma il fatto che gli effetti benefici dell’integrazione delle IA in contesto lavorativo sono ancora tutti da verificare. La ricerca evidenzia risultati estremamente contrastanti: alcune fonti parlano esplicitamente di un calo della produttività che può dipendere dall’inaffidabilità degli strumenti stessi o da una loro implementazione goffa e disordinata; altre indagini evidenziano invece miglioramenti delle performance sul breve periodo e proiezioni ottimistiche sul come le IA potranno rivoluzionare in positivo il mercato del lavoro. 

Secondo Bill Gates, nell’arco di dieci anni scompariranno ruoli come quelli di insegnanti e medici. Gli umani, semplicemente, non saranno più necessari “per la maggior parte delle cose”, una rivoluzione industriale che, qualora prendesse forma, potrebbe causare sconvolgimenti sociali radicali. E non è detto che tutti i lavoratori considerati a quel punto superflui possano reinventarsi per adattarsi al nuovo modello. La stessa OpenAI riconosce che i “programmi di sviluppo e riqualificazione delle competenze hanno ottenuto risultati misti e non sempre hanno portato a impieghi migliori o stipendi più alti”, quindi l’azienda tech ha deciso che si concentrerà soprattutto sullo sviluppare programmi di addestramento che siano in linea ai bisogni delle imprese, così da raffinare i “talenti che queste devono vedere nei lavoratori”.

A Parigi patto a 26 per difendere Kiev: no di Meloni all’invio di truppe

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Emmanuel Macron ha ospitato a Parigi il nuovo vertice della “Coalizione dei Volenterosi”, presieduto insieme al premier britannico Keir Starmer a distanza, con trentacinque leader presenti di persona o collegati da remoto. Zelensky è tornato così nella capitale francese a meno di tre settimane dall’incontro multilaterale alla Casa Bianca. Sul tavolo, la definizione di garanzie di sicurezza postbelliche per l’Ucraina: 26 Paesi si sono impegnati a inviare truppe come forze di “rassicurazione” fin dal giorno successivo alla firma di un accordo di pace. A fronte di questa decisione collettiva di inviare contingenti pronti a presidiare il territorio ucraino, l’Italia – come anche la Polonia – ha ribadito la propria indisponibilità, mentre Berlino ha affermato che deciderà “a tempo debito”. Giorgia Meloni ha così confermato che l’Italia non invierà soldati, pur restando aperta a ruoli di monitoraggio, addestramento, cooperazione logistica, sostegno esterno oltre i confini ucraini. La premier ha nuovamente illustrato la proposta italiana di estendere all’Ucraina l’articolo 5 NATO, che prevede un intervento alleato se Kiev venisse di nuovo attaccata dopo la fine della guerra. Dopo la riunione dei Volenterosi, Meloni ha partecipato a un successivo collegamento telefonico con Trump, nel quale sono stati condivisi gli esiti della riunione.

Ursula von der Leyen ha parlato di un vertice “storico”, sottolineando come la sicurezza dell’Ucraina equivalga alla sicurezza dell’Europa. Macron ha riaffermato che “lasciare Kiev sola sarebbe un suicidio politico e morale”. Aprendo la 51esima edizione del Forum di Cernobbio, Zelensky ha ribadito che la Russia non vuole fermare la guerra e che è necessario costruire un “sistema di sicurezza” a livello terrestre, aereo e marittimo la difesa ucraina. Il vertice ha però messo in luce non soltanto le tensioni tra Stati membri, ma anche i contrasti transatlantici, evidenziando le linee di frattura: non tutti i governi hanno la stessa disponibilità a sacrificarsi e il concetto stesso di “volenterosi” rivela più un mosaico di interessi divergenti che un fronte compatto. Il messaggio è chiaro: la guerra è entrata in una fase che non riguarda solo i confini orientali, ma ridefinisce gli equilibri di potere del continente. Donald Trump, intervenuto da remoto, ha invitato i partner europei a smettere di acquistare petrolio russo, accusandoli di alimentare indirettamente il conflitto con le proprie importazioni energetiche. Ha promesso sostegno, ma senza impegni concreti: nessun annuncio di nuovi fondi, nessuna garanzia di ulteriori forniture militari, nessun passo avanti sul cessate il fuoco. Questo approccio pragmatico ha un duplice effetto: da un lato segnala che Washington resta un attore chiave, dall’altro evidenzia come la Casa Bianca non sia disposta a caricarsi sulle spalle l’intero peso della guerra. Gli europei sono chiamati a farsi garanti in prima persona della sicurezza di Kiev, ma senza strumenti né risorse adeguate. A complicare il quadro vi è la natura stessa del patto. Non si tratta di un accordo vincolante come quello previsto dall’articolo 5 della NATO, ma di una rete di impegni bilaterali e multilaterali, modulabili a seconda della volontà politica di ciascun Paese. La forza d’urto è dunque più retorica che sostanziale: una promessa che serve a rassicurare Kiev e, soprattutto, a lanciare un segnale a Mosca.

La replica non si è fatta attendere. Mosca ha definito il progetto di inviare truppe occidentali in Ucraina una “minaccia esistenziale”, avvertendo che qualsiasi presenza militare straniera sul territorio ucraino sarà considerata un “obiettivo legittimo”, spiegando che la Russia non accetterà mai un’Ucraina militarizzata e protetta da contingenti occidentali. Nella logica di Mosca, tale prospettiva equivarrebbe a un’invasione mascherata, legittimando nuove operazioni “difensive”. Parlando a Vladivostok all’Eastern Economic Forum, Putin ha chiarito che, se si potesse raggiungere un accordo di pace sull’Ucraina, non ci sarebbe bisogno di truppe straniere, “perché se si raggiungessero accordi, nessuno dubiti che la Russia li rispetterebbe pienamente”. Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, in un’intervista al quotidiano russo Izvestia, ha accusato l’Europa di “continuare nei tentativi” di fare dell’Ucraina “il centro di tutto ciò che è anti-russo”. Così, l’intenzione dell’Occidente di blindare la pace si traduce nella possibilità di un conflitto permanente, dove la linea del fronte non sarà più solo ucraina, ma europea.  A complicare ulteriormente il quadro è arrivato anche un gesto mediatico di Donald Trump: sul suo social Truth ha pubblicato due immagini enigmatiche, una con Putin e l’altra con velivoli militari americani, scattate ad Anchorage lo scorso Ferragosto. Dopo aver espresso delusione per l’escalation russa e aver lanciato un nuovo avvertimento, affermando che Washington è pronta a reagire se le decisioni del Cremlino sulla guerra in Ucraina non dovessero essere in linea con le aspettative americane, il tycoon ha così lasciato intendere, senza commenti, un monito a Mosca: pace sì, ma attraverso la forza.

Vulnerabili e costosi: Paesi europei in fuga dagli F-35 americani, l’Italia ne ha comprati 25

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Il programma degli F-35, l’aereo da combattimento di quinta generazione prodotto dalla statunitense Lockheed Martin, continua a dividere gli alleati europei. Negli ultimi mesi, diversi Paesi hanno ridimensionato o abbandonato i loro piani di acquisto, segnalando i costi crescenti e l’eccessiva dipendenza da Washington. L’Italia, invece, ha scelto di muoversi nella direzione opposta, confermando nuove commesse e rafforzando il proprio impegno con l’acquisto di 25 F-35, per una spesa complessiva di 7 miliardi entro il 2035. Nato per sostituire i vecchi caccia F-16 e promettere superiorità tecnologica, l’F-35 si è trasformato in un simbolo di costi fuori controllo, dipendenza strategica dagli Stati Uniti e vulnerabilità operativa. Il disimpegno di alcuni Stati evidenzia vari nodi legati agli F-35: progettati come caccia leggeri e multiuso, si sono trasformati in velivoli pesanti e onerosi, con un prezzo medio superiore ai 100 milioni di dollari ciascuno e costi di gestione che il Pentagono stima in oltre 1.450 miliardi di dollari nel lungo periodo.

Il Portogallo ha rinunciato a prendere parte al programma, dichiarando apertamente che i caccia lo avrebbero reso troppo dipendente da Washington. La manutenzione, gli aggiornamenti software e la fornitura dei pezzi di ricambio restano, infatti, sotto il controllo esclusivo degli Stati Uniti e una rottura della catena di approvvigionamento significherebbe paralizzare l’intera flotta. Un’analisi che ha trovato eco anche in altri Paesi, preoccupati di affidare a una potenza esterna non solo la logistica, ma persino la possibilità di attivare o disattivare le funzioni del velivolo. Anche la Svizzera, dopo il referendum che nel 2020 ha approvato l’acquisto di 36 F-35, si trova ora a fronteggiare un imprevisto aumento dei costi fino a 1,3 miliardi di dollari in più. Il governo difende l’impegno preso, ma parallelamente investe nello sviluppo di un’industria bellica europea, consapevole che legarsi a un solo fornitore extraeuropeo rappresenta un rischio strategico. Il caso svizzero evidenzia la tensione tra la volontà politica di garantire la sicurezza e la crescente insofferenza dell’opinione pubblica verso contratti miliardari stipulati con un partner così ingombrante. La Spagna ha scelto una via ancora più netta, cancellando un programma da circa 6,25 miliardi di euro. Il motivo ufficiale riguarda la necessità di contenere le spese, ma il dibattito interno ha evidenziato anche la volontà di non subordinare le proprie capacità militari a un sistema interamente americano. A Madrid prevale oggi la linea dell’autonomia strategica europea, che punta a rafforzare progetti comuni (Eurofighter e il Programma FCAS, il caccia di sesta generazione europeo) e ridurre la dipendenza da Washington. La Danimarca si trova in una posizione ambigua. Ha già ricevuto 17 dei 27 aerei ordinati, ma all’interno delle forze armate e nei servizi di intelligence serpeggia il timore che la completa dipendenza tecnica dagli Stati Uniti possa rivelarsi un boomerang. Uscendo dai confini europei, anche il Canada, inizialmente tra i partner più entusiasti, ha cominciato a rivalutare la propria posizione. L’acquisto di 88 aerei, di cui 16 già consegnati, ha visto i costi crescere dai 19 miliardi di dollari previsti a oltre 28 miliardi, con un’aggiunta di 5,5 miliardi destinati a infrastrutture e armamenti. Le tensioni politiche con gli Stati Uniti durante l’era Trump hanno accentuato la percezione di vulnerabilità: pur non essendosi formalmente ritirato, Ottawa discute apertamente se sia ancora sostenibile legarsi a un programma che rischia di divorare il bilancio della difesa per decenni.

In questo scenario di ritirate e ripensamenti, l’Italia rappresenta un’eccezione. Roma ha già acquistato 25 F-35, pagandoli circa 280 milioni di euro ciascuno considerando software, sensori e pacchetti di supporto, vale a dire più del triplo del prezzo ufficiale. Eppure, il governo ha deciso di proseguire. Secondo il Documento programmatico pluriennale della Difesa 2024-2026, l’Italia spenderà altri 7 miliardi di euro entro il 2035 per acquisire 15 F-35A a decollo convenzionale (portando così il totale a 75) e 10 F-35B a decollo e atterraggio verticale (portando a 40 il numero di velivoli di questo tipo a disposizione). La spesa comprende motori, equipaggiamenti, aggiornamenti, supporto logistico e interventi infrastrutturali come l’adeguamento della nave Trieste affinché possa operare con i nuovi velivoli e della base di Grottaglie. Così la flotta nazionale passerà da 90 a 115 velivoli, avvicinandosi all’obiettivo storico dei 131 esemplari fissato già nel 2009. Considerate le spese già effettuate negli anni, la spesa totale per le casse dello Stato raggiunge i 25 miliardi di euro. Da un lato, il governo rivendica la necessità di mantenere un rapporto privilegiato con Washington e di garantire la modernizzazione delle forze armate, dall’altro, emergono critiche per i costi fuori scala, aggravati da un contesto economico segnato da tagli e ristrettezze in altri settori. Non mancano neppure i dubbi operativi: gli stessi vertici militari statunitensi ne hanno ammesso i limiti: il generale Charles Brown Jr., Capo di Stato maggiore dell’aeronautica, ha definito gli F-35 aerei «costosi e inaffidabili», zavorrati da una tecnologia complessa soggetta a «frequenti bug». L’Europa appare, quindi, divisa tra chi cerca di ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti e chi, come l’Italia, consolida la sua fedeltà al programma, accettando l’acquisto dei caccia multiruolo di quinta generazione come prezzo inevitabile per rimanere ancorata all’ombrello atlantico.

Netanyahu blocca la visita di Macron: “Cambi idea su Palestina”

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Netanyahu nega la visita di Macron in Israele, chiedendo il ritiro dell’iniziativa francese sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Giovedì il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar in una telefonata con l’omologo Jean-Noel Barrot ha ribadito che “non c’è spazio” per una visita presidenziale “finché Parigi persiste nella sua iniziativa e nei suoi sforzi che danneggiano gli interessi di Israele”. La decisione acuisce la frattura tra i due Paesi e segna un nuovo fronte di scontro tra Israele e l’Occidente. Israele condanna anche le parole della vicepresidente UE Teresa Ribera, che ha parlato di “genocidio” a Gaza. L’Idf afferma di controllare il 40% di Gaza City, mentre continua l’offensiva: 62 morti nelle ultime 24 ore secondo fonti locali.

In Scozia il primo progetto mondiale per rafforzare i legami tra padri detenuti e figli

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programma padri e figli in carcere in scozia

Per la prima volta, un carcere diventa il luogo dove si ricostruiscono relazioni familiari. Non attraverso visite sorvegliate dietro un vetro, ma con giochi, esercizi fisici e pasti condivisi tra padri detenuti e i loro figli. Succede in Scozia, all’HMP Barlinnie, la prigione più grande del Paese, dove alla fine del 2024 è stato avviato un programma pilota che potrebbe cambiare il modo in cui si guarda alla detenzione. Il progetto si chiama Healthy Dads, Healthy Kids – “Papà sani, bambini sani” – ed è nato in Australia. Un programma che mira a portare il carcere alle finalità rieducative che d...

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Nigeria, scontri tra esercito e Boko Haram: 28 morti

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L’esercito nigeriano ha ingaggiato due scontri contro milizie affiliate a Boko Haram, uno dei principali gruppi islamisti della regione, uccidendo almeno 28 miliziani. Il primo è avvenuto nella foresta di Sambisa, nello stato nord-orientale del Borno, sede di diversi avamposti del gruppo; qui l’aviazione ha preso di mira un nascondiglio dei miliziani, uccidendo almeno 15 combattenti. Il secondo, sempre nel Borno, è avvenuto tra le truppe terrestri e una squadra di assalitori che aveva organizzato una imboscata sulla strada che collega Gubio e Damasak. Gli insorti hanno fatto esplodere due ordigni esplosivi e hanno iniziato a sparare, ma l’esercito ha risposto al fuoco, uccidendo 13 persone e facendo fuggire gli altri.

In Italia il 90% delle scuole non è in regola con le certificazioni di sicurezza

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Nove scuole su dieci in Italia non sono in regola con le certificazioni obbligatorie di sicurezza. Le cifre, raccolte nel dossier di Tuttoscuola, rivelano che su circa quarantamila edifici scolastici statali soltanto il dieci per cento è in regola con tutte e cinque le certificazioni previste per legge: il certificato di agibilità, quello di prevenzione incendi, l’omologazione della centrale termica, il piano di evacuazione e il documento di valutazione dei rischi. In totale, sono trentaseimila i plessi scolastici dove mancano di una o più certificazioni. Ben 3.588 edifici (il 9% del totale) risultano completamente privi di ogni tipo di attestazione, nonostante ogni giorno vi entrino circa settecentomila tra studenti, insegnanti e personale amministrativo. Mentre da decenni si parla di sicurezza, si moltiplicano le normative, si scrivono leggi e decreti, nella quotidianità le scuole restano luoghi insicuri.

L’analisi di Tuttoscuola, testata specializzata nel settore scolastico, realizzata sulla base dei dati ufficiali per l’anno scolastico 2023-24 pubblicati il 14 luglio scorso dall’Anagrafe nazionale dell’edilizia scolastica, la banca dati del Ministero dell’Istruzione e del Merito, è la prima ad aver scandagliato edificio per edificio, ricostruendo un quadro puntuale che smonta ogni illusione: non siamo di fronte a casi isolati, ma a un problema strutturale che attraversa l’intera penisola. Naturalmente, non tutte le Regioni si trovano nella stessa situazione: la distribuzione territoriale mostra squilibri profondi. Al Nord le percentuali di scuole a norma si attestano attorno al cinquanta per cento, con Piemonte, Veneto e Friuli-Venezia Giulia che raggiungono valori poco sopra la metà del totale. La Valle d’Aosta rappresenta un’anomalia virtuosa: lì quasi l’88 per cento dei plessi è dotato di tutte le certificazioni, un dato che stride con quello di altre Regioni e che dimostra come la messa in sicurezza non sia un miraggio impossibile, ma una scelta politica e amministrativa. Scendendo lungo la penisola la situazione peggiora rapidamente. La maglia nera va al Lazio, con appena il 12,7 per cento delle scuole risulta in regola, la percentuale più bassa a livello nazionale. Nelle isole, e in particolare in Sardegna, i numeri precipitano ulteriormente: soltanto il 14,2 per cento degli edifici ha tutte le carte in ordine. Nel resto del Sud e del Centro-Sud si oscilla attorno al trenta per cento, nonostante i plessi scolastici siano spesso situati in luoghi di vulnerabilità sismica e idrogeologica. In Liguria il dato si ferma al 31,1 per cento, mentre regioni come Abruzzo e Campania faticano a superare la soglia del trenta. Lombardia e Marche restano intorno al cinquanta.

Fonti del Ministero dell’Istruzione e del Merito hanno provato a ridimensionare alla stampa l’impatto del dossier, sottolineando che i dati si riferiscono all’anno scolastico 2023-2024 e non tengono conto dei lavori già avviati grazie ai fondi del PNRR e ai finanziamenti ministeriali. Secondo fonti ufficiali, sono in corso interventi su oltre diecimila edifici, che corrispondono al ventidue per cento del patrimonio edilizio scolastico, e si tratterebbe del più grande piano di messa in sicurezza mai avviato in Italia. Il problema, tuttavia, è che i risultati saranno visibili soltanto tra alcuni anni e, nel frattempo, gli studenti continueranno a frequentare scuole che mancano delle certificazioni basilari. Il ministero precisa, inoltre, che la responsabilità degli interventi antisismici e delle manutenzioni spetta in prima battuta agli enti locali. Un rimpallo che dura da decenni e che finora non ha risolto nulla: le amministrazioni comunali e provinciali, spesso prive di risorse, hanno rinviato gli interventi o si sono limitate a tamponare le emergenze. Così si accumula un’eredità di incuria lunga sessant’anni, mentre le nuove generazioni crescono dentro mura che rischiano di crollare o impianti che non rispettano gli standard di sicurezza. Quando si parla di sicurezza scolastica, il discorso pubblico si limita a pochi slogan, mentre il tema scompare rapidamente dall’agenda politica e mediatica, salvo riemergere in seguito a crolli, cedimenti strutturali o tragedie sfiorate, quando l’indignazione dura lo spazio di un giorno. Poi cala di nuovo l’oblio.

È morto Giorgio Armani

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Oggi, giovedì 4 settembre, è morto Giorgio Armani. La notizia è stata comunicata dal gruppo Armani; da sabato a domenica sarà aperta la camera ardente e i funerali si svolgeranno lunedì privatamente. A Milano, città dove ha avviato la sua attività, è stato proclamato il lutto cittadino. Soprannominato “Re Giorgio” per il suo impatto nel mondo della moda, Armani, 91 anni, è stato uno degli stilisti più noti al mondo. Ha iniziato la sua attività presso la casa di moda Nino Cerruti, dove nel 1965 contribuì alla progettazione della linea maschile, avviando la sua carriera nel design di moda. Dieci anni dopo fondò la Giorgio Armani Spa, azienda che segnò la moda maschile.