Nella serata di ieri un aereo militare si è schiantato in Sudan nei pressi di Khartoum, subito dopo il decollo. In tutto si contano 46 morti e 10 feriti. L’aereo Antonov è precipitato ieri sera vicino alla base aerea di Wadi Seidna, uno dei più importanti centri militari dell’esercito a Omdurman, a nord-ovest della capitale. Secondo quanto riportato dai media, tra le vittime figurerebbe anche il generale Bahr Ahmed, alto ufficiale dell’esercito. Secondo le fonti militari, le cause dello schianto sarebbero di natura tecnica. L’esercito è in guerra con le forze paramilitari di supporto rapido (RSF) dalla primavera del 2023.
L’Unione Europea e il Regno Unito stanno lavorando a una difesa comune
A seguito delle mosse di Donald Trump in politica estera e del disallineamento tra Bruxelles e Washington sulla questione ucraina, l’Unione Europea e il Regno Unito stanno esplorando nuove strategie per rafforzare la propria sicurezza. L’obiettivo è chiaro: costruire una difesa comune, superando gli attriti del passato e integrando le risorse di Londra in una strategia di protezione condivisa. A dare l’impulso a questa possibile svolta sarà il vertice straordinario dell’UE sulla sicurezza, previsto per il 6 marzo. Tuttavia, prima di quell’appuntamento cruciale, alcuni leader europei si riuniranno il 2 marzo a Londra per definire i contorni di un piano congiunto con il premier britannico Keir Starmer. La posta in gioco passa necessariamente per aumento vertiginoso delle spese militari, a questo fine a Bruxelles di sta valutando l’opportunità di creare un meccanismo finanziario comune per il riarmo europeo, che potrebbe tradursi in un fondo o addirittura in una vera e propria “Banca del riarmo”, come suggerito dal ministro polacco Andrzej Domanski.
La notizia, confermata dal primo ministro polacco Donald Tusk, segna un passaggio chiave nella cooperazione tra le due sponde della Manica. L’appuntamento londinese in programma offre conferme su quanto pubblicato ieri dal Financial Times, secondo cui i ministri delle Finanze di alcuni Paesi Ue e del Regno Unito ragioneranno sull’ipotesi di costituire un fondo comune paneuropeo con l’obiettivo di finanziare un incremento delle spese militari. Il quotidiano inglese ha riportato che il primo ministro Keir Starmer avrebbe incaricato la cancelliera dello Scacchiere britannica Rachel Reeves – ministro che ha responsabilità su tutte le materie finanziarie – di mettere a punto una proposta ad hoc da sottoporre ai vertici delle istituzioni europee. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato da Kiev che il 6 marzo verrà presentato un piano completo per incrementare la produzione di armi nel continente. Parallelamente, il governo britannico ha già deciso un incremento progressivo delle spese per la difesa, portandole al 2,5% del PIL entro il 2027, con l’obiettivo di aumentare progressivamente negli anni successivi fino al 2,6% del PIL e toccare il 3% nella prossima legislatura.
A livello politico, la collaborazione tra Londra e Bruxelles si sta delineando su più fronti. Il primo passo è stato un incontro all’Eliseo tra Starmer ed Emmanuel Macron, dove si è discusso della possibilità di inviare un contingente europeo di circa 30mila uomini in Ucraina come forza di peacekeeping, una volta raggiunto un accordo di pace. Una prospettiva che divide le forze del continente: mentre Parigi e Londra sono favorevoli, paesi come Polonia e l’Italia hanno già manifestato le proprie perplessità. Dal canto suo, Starmer si recherà domani a Washington per discutere con Trump, cercando di ottenere garanzie sul futuro dell’alleanza transatlantica. Tuttavia, Bruxelles è consapevole che non può più affidare la propria sicurezza a dinamiche politiche instabili al di là dell’Atlantico. «Non ho dubbi che, soprattutto dopo quanto sta accadendo nel mondo, rafforzare l’unità europea sulle questioni ucraine, in relazione alla Russia, sembra essere un’assoluta necessità del momento», ha dichiarato il premier polacco Tusk dopo un incontro con il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa. «Siamo pienamente consapevoli che i negoziati richiedono la presenza dell’Europa. Anche l’Ucraina se lo aspetta, ma al momento, come sapete, ci sono ancora molti punti interrogativi».
Negli scorsi giorni, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha adottato la risoluzione, proposta dagli Stati Uniti, che chiede una pace in Ucraina senza riconoscerne l’integrità territoriale. In sede di votazione, Francia e Regno Unito, gli unici Paesi europei a essere membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, si sono astenuti e non hanno esercitato il diritto di veto. Prima della votazione del Consiglio di Sicurezza, lo stesso testo era passato al vaglio dell’Assemblea Generale, che lo aveva approvato con l’aggiunta di un emendamento dell’UE che riaffermava l’impegno per la «sovranità, l’indipendenza, l’unità e l’integrità territoriale dell’Ucraina all’interno dei suoi confini riconosciuti a livello internazionale». Le risoluzioni dell’Assemblea Generale, a differenza di quelle approvate dal Consiglio di Sicurezza, non hanno però valore vincolante.
[di Stefano Baudino]
Milano, sequestro di 46 milioni a DHL per frode
La procura di Milano ha disposto un sequestro preventivo di 46,8 milioni di euro a DHL Express Italy, filiale italiana dell’omonima multinazionale tedesca di trasporto. Il sequestro arriva in seguito a un’indagine su una presunta frode fiscale che il gruppo avrebbe portato avanti tra il 2019 e il 2023. Secondo gli inquirenti, DHL avrebbe stipulato contratti d’appalto per la somministrazione di manodopera con aziende fittizie che avrebbero emesso fatture false per operazioni mai svolte, sfruttando le detrazioni per le piccole aziende. DHL è al centro di diverse indagini con l’accusa di frode fiscale e sfruttamento del lavoro.
Cile al buio: proclamato stato di emergenza e schierato l’esercito
Nella notte tra ieri e oggi, mercoledì 26 febbraio, il Cile è stato colpito da un gigantesco blackout. L’interruzione di corrente ha coinvolto 14 delle 16 regioni del Paese, lasciando al buio circa otto milioni di case e costringendo il governo a dichiarare lo stato di emergenza, istituire un coprifuoco e schierare l’esercito. Questa mattina, l’operatore energetico cileno ha affermato che la maggior parte della domanda elettrica del Paese sarebbe tornata operativa, con «il 90% del consumo» ripristinato grazie a un’attivazione straordinaria delle centrali elettriche. Non è chiaro se tale risoluzione sia solo temporanea. A provocare il blackout sembra essere stata l’interruzione di una linea di trasmissione che l’esecutivo cileno attribuisce alla negligenza di aziende private.
Il blackout in Cile è iniziato attorno alle 15 locali (le 19 italiane). L’interruzione dei servizi elettrici ha interessato il 99% del Paese e ha colpito anche le reti di telefonia mobile e di connessione internet. Dopo lo scoppio del blackout, il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, dispiegato migliaia di agenti di polizia, polizia militare ed esercito, e imposto un coprifuoco a partire dalle 22, che è terminato alle 6 di oggi (le 10 italiane). Il blackout ha causato parecchi disagi nel traffico della capitale, impedito le attività finanziarie, minerarie e commerciali e messo in difficoltà quelle ospedaliere. Nella capitale, inoltre, buona parte della rete di trasporto è stata interrotta, lasciando alcuni cittadini intrappolati nei mezzi pubblici, e anche il traffico aereo ha subito ritardi e rallentamenti. Dopo le prime otto ore di totale caos, la corrente è iniziata a tornare gradualmente in tutto il Paese. Ieri sera, quando il presidente Gabriel Boric è comparso in televisione per parlare alla nazione, il 25% della rete di connessione era stata ristabilita. In questo momento, sembra che quasi tutto il Paese sia tornato alla normalità. Ernesto Huber, direttore esecutivo del Coordinatore nazionale dell’elettricità del Cile, ha affermato che l’organismo ha «attivato diverse centrali elettriche, principalmente centrali idroelettriche» per soddisfare la domanda.
Quello avvenuto tra ieri e oggi non è il primo blackout che ha interessato il Cile nell’ultimo periodo. Il Paese aveva già vissuto problemi di interruzione di corrente sei mesi fa. Quest’ultimo era stato causato da un’intensa tempesta di pioggia e vento, e ha colpito diverse aree della capitale, durando in alcune zone fino a un mese. Secondo quanto comunica il Servizio di coordinamento elettrico nazionale, il blackout di ieri è stato causato da un malfunzionamento della linea dorsale ad alta tensione che trasporta energia dal deserto di Atacama, nel nord del Cile, a Santiago, nell’area centrale del Paese. Il governo attribuisce la responsabilità dell’incidente alla cattiva gestione delle aziende private, mentre la polizia ha avviato delle indagini per fare chiarezza sull’accaduto.
[di Dario Lucisano]
Gli scienziati di Gaza che mantengono in vita la ricerca nonostante la distruzione
Nonostante le bombe, la crisi sanitaria ed alimentare e il fatto che la maggior parte dei centri di ricerca siano stati distrutti dalle bombe israeliane, alcuni scienziati palestinesi stanno riuscendo comunque a portare avanti il loro lavoro a Gaza, anche se il conflitto ha spezzato la loro costanza costringendoli spesso ad alternare la ricerca accademica con quella di beni di prima necessità e luoghi sicuri: è la fotografia che emerge dalle decine di racconti fatti a Nature da un gruppo di scienziati della zona, i quali hanno dettagliato i risultati del loro lavoro alla prestigiosissima rivista scientifica. Con il cessate il fuoco entrato in vigore il 19 gennaio, spiegano, risulta essenziale completare una valutazione dettagliata delle esigenze primarie, documentando l’accaduto «per pubblicare risultati con altri ricercatori in tutto il mondo» e per guidare coloro che sono impegnati nella ricostruzione. «La ricerca è fondamentale in questa fase», commenta Samer Abuzerr, ricercatrice che studia le malattie trasmesse dall’acqua presso l’University College of Science and Technology di Gaza e autrice di uno studio scientifico pubblicato a novembre.
Dal 7 ottobre 2023, circa 2,2 milioni di persone (circa il 90% della popolazione) a Gaza sono rimaste senza casa e i sistemi che garantiscono l’approvvigionamento alimentare, idrico e igienico sono stati distrutti o gravemente in pericolo, così come l’economia generale nel territorio. Una devastazione che non ha risparmiato le università: secondo i dati dell’agenzia scientifica e culturale delle Nazioni Unite UNESCO, quindici dei 21 centri accademici, college universitari e community college di Gaza sono stati gravemente danneggiati e ciò, spiegano gli intervistati, ha rappresentato un grande ostacolo per la ricerca scientifica.
Tuttavia, esistono scienziati come Samer Abuzerr, Khamis Elessi e Aya ElMashharawi che, nonostante le difficoltà, stanno riuscendo a contribuire al progresso scientifico generale e nella zona. «Gli sforzi della comunità accademica palestinese nel proseguire il proprio lavoro in circostanze così difficili sono una testimonianza del loro incrollabile impegno nei confronti dell’istruzione e della conoscenza», ha affermato ElMashharawi, ricercatrice di apprendimento online presso l’University College of Applied Sciences di Gaza che ha studiato l’impatto dello sfollamento su quasi 200 membri dello staff della sua università: «Creare rifugi temporanei e accelerare la ricostruzione delle case è una priorità assoluta. La guerra ha spostato la mia attenzione dall’innovazione accademica alla sopravvivenza di base, come andare a prendere l’acqua da fonti lontane e cucinare sul fuoco all’aperto, e stiamo pagando prezzi da lusso per il cibo di base», ha affermato. Nonostante ciò, rimane determinata a continuare la ricerca: «Resto impegnata nel mio percorso accademico. Spesso devo camminare per lunghe distanze per trovare posti dove poter caricare il mio portatile e il cellulare, affidandomi a negozi dotati di sistemi solari. Questo mi consente di lavorare solo per poche ore al giorno».
Altri scienziati come Samer Abuzerr sono addirittura riusciti a raccogliere evidenze scientifiche che sono state premiate con la pubblicazione su importanti riviste scientifiche. Infatti, visto che oltre il 97% dell’acqua di Gaza proviene da una falda acquifera, la quale potrebbe contaminarsi facilmente vista la porosità degli strati che la compongono, risulta essenziale quindi prelevare campioni, analizzarli e, soprattutto, valutare gli impatti sulla popolazione locale, cosa che Abuzerr ha fatto: l’1 novembre 2024 i risultati delle sue interviste sono stati pubblicati sul Journal of Water, Sanitation & Hygiene for Developement, in uno studio che valuta l’insicurezza igienica e la comparsa di focolai di malattie infettive tra le popolazioni sfollate a Gaza. «La cosa più urgente ora è convertire il cessate il fuoco in uno permanente. È la prima volta in 471 giorni che possiamo dormire senza sentire esplosioni supersoniche, gigantesche e forti terremoti giorno e notte. Ci sentiamo come se stessimo ancora sognando. Spero che questo duri per sempre. C’è una determinazione collettiva a rimanere sulla terra e servire le generazioni future», concludono i ricercatori.
[di Roberto Demaio]
USA, la Camera approva la risoluzione di bilancio di Trump
La Camera degli Stati Uniti ha approvato una risoluzione che prevede 4.500 miliardi di dollari di tagli fiscali e 2.000 di riduzione della spesa federale in un periodo di 10 anni, senza una specificazione di quali saranno i settori coinvolti. Il provvedimento stanzia anche 300 miliardi per la sicurezza del confine e fondi per la difesa. Decisivo è stato l’intervento di Trump nel convincere i deputati scettici: i Repubblicani hanno alla Camera una maggioranza risicata e hanno avuto bisogno praticamente di tutti i loro membri per approvare le misure. Il voto è passato con 217 sì e 215 no, con un singolo repubblicano e tutti i democratici ad aver votato contro.
Santanché, la Camera ha respinto la mozione di sfiducia
Con 206 voti contrari, 134 favorevoli e un solo astenuto, l’Aula della Camera dei Deputati ha respinto la mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni nei confronti della ministra del Turismo Daniela Santanchè, rinviata a giudizio per falso in bilancio per il caso Visibilia e accusata di truffa ai danni dell’INPS sui fondi Covid. Sui banchi del governo non erano presenti né la premier Giorgia Meloni né i suoi vice Antonio Tajani e Matteo Salvini. Nel suo intervento, la ministra Santanchè ha aperto all’ipotesi delle dimissioni nel caso di un suo rinvio a giudizio nel processo in cui è sotto inchiesta per truffa all’INPS.
Il Brasile entra nell’OPEC+, ma alle sue condizioni: no ai tagli alla produzione di petrolio
Il Brasile ha accettato l’invito dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC) di unirsi al gruppo OPEC+ che riunisce, oltre ai tredici membri effettivi, altri dieci produttori di petrolio, tra cui la Russia che è il terzo produttore di petrolio al mondo. La decisione è stata presa nel corso della riunione del Consiglio nazionale per la politica energetica (Cnpe) ed è stata annunciata dal ministro dell’Energia brasiliano Alexandre Silveira. Il Brasile è entrato nel gruppo alle proprie condizioni, tenendo conto innanzitutto dei suoi interessi nazionali: la Nazione sudamericana, infatti, non sarà vincolata agli obblighi sui tagli alla produzione, ma potrà partecipare solo con un ruolo consultivo, soprattutto per quanto concerne l’andamento dei prezzi del petrolio. Questa scelta riflette, dunque, la volontà del Brasile di perseguire il proprio sviluppo interno e di far parte delle nazioni che contano, acquisendo influenza a livello internazionale, come attore chiave delle politiche energetiche. Tuttavia, si tratta di una decisione che si scontra con la visione “progressista” e ambientalista che il presidente Lula ha dichiarato di voler sostenere negli ultimi anni, tanto che l’annuncio dell’ingresso nell’OPEC+ ha immediatamente suscitato la reazione degli ambientalisti, secondo i quali il Brasile, aderendo all’organizzazione dei maggiori produttori di petrolio, invia «un segnale sbagliato al resto del mondo». Nonostante ciò, l’ingresso nell’OPEC+ rappresenta una svolta geopolitica ed economica per il Paese sudamericano.
«Il Brasile è stato invitato a far parte del gruppo di cooperazione e oggi abbiamo autorizzato l’avvio del processo di adesione», ha dichiarato Silveira alla stampa. «Si tratta solo di un forum per discutere le strategie dei Paesi produttori di petrolio. Non dovremmo vergognarci di essere produttori di petrolio», ha aggiunto con un chiaro riferimento alle critiche degli ambientalisti. L’associazione Greenpeace, infatti, ha duramente contestato l’iniziativa del governo brasiliano: «Il Brasile sta andando controcorrente cercando di unirsi a un gruppo che funziona come un cartello del petrolio, impegnandosi a sostenere prezzi redditizi controllando l’offerta», ha affermato Camila Jardim, responsabile brasiliana dell’associazione. La stessa, inoltre, ha detto che in questo modo il Brasile invia «un segnale sbagliato al resto del mondo», soprattutto nell’anno in cui il Paese ospiterà la Conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici del 2025 (Cop 30), a Belém, in Amazzonia. L’esortazione è stata, dunque, quella di cercare «nuove strategie» e di non rivolgere la propria attenzione ai «vecchi schemi» di esplorazione petrolifera.
Tuttavia, proprio l’ingresso di Brasilia nell’OPEC+ mostra come il petrolio resti centrale nelle politiche energetiche globali e nelle dinamiche di potere, nonostante gli sforzi verso la transizione ecologica, cardine delle politiche dei Paesi occidentali e dell’UE, non privo di ripercussioni che soffocano la crescita dei Paesi del cosiddetto Sud globale. L’obiettivo di Brasilia è, dunque, quello di imporsi tra i grandi produttori di petrolio accelerando lo sviluppo economico interno e rivendicandolo come un diritto dinanzi ai Paesi “ricchi”. Già ora il Brasile si colloca tra i primi sette produttori mondiali di petrolio, con l’obiettivo di raggiungere i 5,4 milioni di barili al giorno entro il 2030, arrivando così a collocarsi al quarto posto della classifica globale. Un obiettivo che contrasta con i piani della transizione energetica che pure il Brasile continua a perseguire: insieme all’adesione alla Carta di cooperazione tra i paesi produttori di petrolio (CoC), infatti, il Paese sudamericano ha di recente approvato una risoluzione che riconosce come nell’interesse della politica energetica nazionale la partecipazione del Brasile a tre forum internazionali: l’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) e l’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (IRENA), oltre alla CoC. «Con una forte presenza di fonti rinnovabili nelle matrici elettrica ed energetica, oltre alla leadership nella produzione di biocarburanti, il Brasile rafforza la sua posizione a livello mondiale unendosi a queste organizzazioni. […] La partecipazione a questi forum è inoltre in linea con il Piano Energetico Nazionale 2050, che prevede lo sviluppo sostenibile delle energie rinnovabili parallelamente all’esplorazione delle risorse fossili», si legge in un comunicato del ministero dell’Energia.
La mossa del Brasile appare, dunque, una sorta di compromesso teso a conciliare l’esigenza di sviluppo economico e di rilievo internazionale con il rispetto degli impegni di decarbonizzazione e testimonia implicitamente come le energie rinnovabili non siano riuscite a imporsi sui combustibili fossili nonostante la spinta in tal senso dei Paesi avanzati. Al netto della questione ambientale, l’ingresso del Brasile nel cartello petrolifero può modificare gli equilibri globali dell’energia, rendendo più difficile per i produttori di petrolio non OPEC e per l’Occidente controllare le dinamiche energetiche internazionali, nonostante le notevoli divergenze all’interno del gruppo, composto da Paesi con interessi molto diversi tra loro.
[di Giorgia Audiello]
Tutela degli animali, l’80% degli atti legislativi italiani non rispetta la costituzione
A tre anni dall’inserimento della tutela degli animali nella Costituzione italiana, il bilancio legislativo attuale è tutt’altro che in linea con i nuovi principi fondamentali. Legambiente ha analizzato l’attività legislativa tra il 2022 e il 2024, evidenziando che solo 91 atti su 617 approvati hanno riguardato gli animali. Di questi, quasi l’80% non ha rispettato il principio costituzionale. Per gli animali d’affezione, un terzo delle leggi approvate (33,33%) ha portato miglioramenti. Per gli animali da reddito, solo il 18,82% delle leggi approvate è stato positivo, mentre il 71,79% non ha preso in considerazione la nuova normativa costituzionale e il 15,38% ha peggiorato la tutela. Ancora peggio per gli animali selvatici, con solo il 16,67% degli atti legislativi che ha migliorato la loro protezione, mentre il 69,44% è rimasto neutrale e il 13,89% ha avuto effetti negativi.
L’analisi di Legambiente analizza la produzione legislativa relativa agli animali, dopo tre anni dall’inserimento della tutela della biodiversità tra i principi fondamentali della Costituzione nell’articolo 9. Il problema che evidenzia Legambiente, è che, oltre alla scarsa produzione legislativa sulla questione («appena il 14,75%», scrive l’associazione), la quasi totalità dei già pochi atti approvati non rispetta il nuovo principio costituzionale introdotto nel 2022. In particolare, sostiene l’associazione ambientalista, il 67,12% degli atti legislativi non avrebbe tenuto conto di questa novità costituzionale e il 12,33% sarebbe «andato addirittura contro» i suoi principi, peggiorando la tutela per gli animali». La percentuale di provvedimenti approvati che vanno nella direzione indicata dall’art. 9 della Costituzione è del 20,55%. Il fatto, continua Legambiente, è che quasi tutte le proposte e i disegni di legge figurano in stallo, specialmente quelli migliorativi.
«Con questa analisi, Legambiente vuole lanciare un chiaro invito a Governo e Parlamento per il rispetto del principio costituzionale in fatto di tutela degli animali, superando i ritardi accumulati in questi tre anni per la sua concreta attuazione e sbloccando l’iter delle diverse proposte di legge migliorative in stallo alla Camera e al Senato», si legge nel comunicato. In particolare, Legambiente chiede che vengano approvate tre misure legislative fondamentali: in primo luogo l’associazione chiede che venga inserito il delitto di bracconaggio nel Codice penale, con pene da tre a sei anni di reclusione, «estendendo la sanzioni anche ai traffici di specie protette, come previsto dalla direttiva europea sulla tutela penale dell’ambiente»; successivamente, chiede che i prodotti di origine animale che provengono da allevamenti più rispettosi del benessere degli animali possano dotarsi dell’etichetta «Cage Free»; infine, chiede che le cure veterinarie vengano rese accessibili a tutti, «attraverso un Piano nazionale, approvato in Conferenza Stato-Regioni, per l’assunzione di veterinari pubblici».
[di Dario Lucisano]